matteo maria boiardo pastorale Edizione di riferimento: Matteo Maria
Boiardo, Opere volgari, a cura di P.V. Mengaldo, Bari, Laterza 1962. |
PASTORALE DEL MAG(NIFI)CO CONTE DI SCANDIANO
MATHEO MARIA BOIARDO
1
Ne la Egloga prima parlano insieme TITIRO e
MOPSO.
TI.
La luce che raporta il novo giorno
or esce lampegiando in quel colore
che fa l’aria vermiglia e de oro intorno;
fuor
de la mandra or esce ogni pastore
e cum la bianca grege e cum lo armento
pasce per l’erbe il roscido liquore.
Ed io
meschin piangendo mi lamento
ne la ripa selvagia al crudo sasso
e spargo indarno e’ mei sospiri al vento.
Chiedendo
al Celo aiuto ormai son lasso,
però destino, insin che dura il spirto,
tenir giù lacrimando il viso basso:
verde
genepre ombroso folto ed irto,
ispidi pruni, a voi facio palese
il mio dolor, e a te, frondente mirto.
Quel
mio fiorito dolce almo paese,
novo Menalo a noi, novo Liceo,
ove Pan a cantar spesso discese,
sotto
lo ungion de lo Animal nemeo,
tra il scuro iato e l’una e l’altra zanna,
quasi è già preda e pasto di quel reo.
MO.
Titiro è quello, o la vista me inganna,
che là soletto in il fiume diserto
cum tal pietade a lacrimar se affanna?
Conoscolo
a la voce, ed esso è certo:
suo dolce querellar or voglio odire
tra queste fronde ascoso e ricoperto.
TI.
Qual tigre ircane o qual aspide dire
potrian cum gli ochi asciuti riguardare
la orribil fiera sopra a noi fremire?
Le
pecorelle spaventate e rare
cadendo van di tabe e di penuria,
e il suo pastor in campo non appare.
Le
stelle coniurate a farce iniuria
posto hano Alcide languido nel prato,
che solo era riparo a tanta furia.
Eridano
il dolente, abandonato
da le Naiade, Satiri e Napee,
corre di sangue e lacrime meschiato.
Né
sopra Xanto né a le selve idee,
là dove il bel pastor in alto fasto
se pose a iudicar tra le tre dee,
fo
dato a ferro e a foco un cotal guasto,
né sparso a terra tanto sangue umano,
parte a le fiere e parte a’ pesci in pasto.
Lasso,
che al lamentar son fatto insano
e non ramento mia sorte tapina,
nel publico dolor piangendo invano.
Ove
è il mio ostello a lato a la marina?
ove il rico giardin dai frutti d’oro?
Tutto è fiaccato ed arso cun ruina.
Ove
è il novo boschetto e il verde aloro
quale io stesso piantai cum rame tenere,
de amor cantando onde or di doglia ploro?
Da
quel vermiglio fior che amò già Venere
era nomato, e il nome asumigliava:
or in terra è divelto e posto in cenere.
MO.
Tanto la noglia di costui mi grava,
sì vivo a li ochi soi se stilla il pianto
che dentro al petto sino al cor mi lava;
né
Filomena si darebe il vanto,
né Alcione plorando il suo Ceice,
equar questo lamento in dolce canto,
né
quello ardito amante che se dice
aver mutato la morte inmutabile
e tolta a Dite sua cara Euridice.
TI.
Come spuma di mare e fiume labile
periti siamo e como aura che spira:
or pòi mirar se ’l mondo è cosa stabile.
Non
vede il sol che tuto il mondo agira
cosa tanto gentil quanto la terra
a cui ciascun pianeta è volto in ira:
diluvio
de onde, peste, fame e guerra
premeno insieme, e questo il Cel non cura
né a tanta crudeltà la porta serra;
soi
sacri tempii e sua santa cultura
son consumati, e le divine effigie
abandonate, e sparsa ogni figura.
Quai
miseri Tebani o gente frigie
patirno a soi delitti cotal pena,
o qual magior è giù tra l’ombre stigie?
L’aria
sopra di nui non se asserena,
il foco e l’aque ce fan danno a prova,
la terra è di cordoglio e pianti piena.
MO.
Meglio è che a consolar costui me mova:
a quel che vedo il suo dolor non manca,
anci magior nel pianto se rinova.
Leva,
Titiro, su l’anima stanca,
leva le membra: or non sai che Fortuna
talor nera ha la facia e talor bianca?
Stato
fermo non è sotto la luna,
né fo né mai serà: però la
sorte
candida tornerà, che or tanto è bruna.
Alcia
la mente e fa lo animo forte,
ché, come tra’ più sagi si ragiona,
tristizia è da fugir sina a la morte.
Leva
di terra tua lassa persona,
leva la umida facia ed alcia il ciglio:
perduto è sol chi se stesso abandona.
Come
fronde caduca e còlto ziglio
è quel che da speranza se alontana,
né il suo saper gli giova o altrui consiglio.
TI.
Chi te ha condutto in questa parte istrana,
Mopso, a vederme in sì dolente caso,
qual m’ha da gli ochi tratto una fontana?
Rapito
mi è l’armento, il grege invaso
da peste muore, il mio paese ameno
inculto solo e squalido è rimaso.
E
chiedi che al dolore io ponga freno?
Mancherà l’onda al mare e luce al sole
prima che ’l pianto mio mai venga a meno.
MO.
Ben iusta è la cagion che al cor ti dole;
ma il lamentar che giova? e che riparo
se trova a quel che il Cel destina e vole?
Atendi
al mio conforto, e fìati caro
venirne meco al fonte di Narciso,
e passaren parlando il tempo amaro.
Ma
vedi tu, o ch’io ben non aviso?
Il sacro arbor de Apollo intorno è scritto
e tuto a letre il tronco pare inciso.
TI.
Io il vedo, e se non è forse interditto
lo antivedere il fàtto, legi un poco,
se trovasti conforto al core afflitto.
MO.
Non scio se per nascondere o per gioco,
in giro è scritto e par del capo privo;
ma pur certo comincia in questo loco:
—
Qualunque passerà nel santo rivo
vedrà il salir de’ Stati e il precipizio:
io, Febo, che non mento, a voi lo scrivo.
Più
faustamente e cum miglior auspizio
nascerà il tempo, e tornerà la fine
mite e diversa a sì crudel inizio.
Il
sangue il foco e’ pianti e le roine
che move il fier Leon, meso han pietade
per tuto il celo a l’anime divine.
Là
dove il nome è di nova citade
vedo levare una incredibil luce,
qual è il mio carro in Cancro a megia estade.
Sieco
natura ogni gloria produce:
rara ionctura, ardir co la prudenzia
accolti ha insembre questo inclito duce.
Ben
n’ha la Italia vera experienzia,
che già ripiena di spietati Turchi
per lui purgata fu di tal semenzia.
Dalmati
e Sclavi e’ soi signor più lurchi
vedo or fugir avanti a la sua facia,
e lasserano in Po gondolle e burchi;
e da
lo ispano Ibero a lo Ebro in Tracia
sonerà il nome di quella virtute
che a gli Indi, a’ Sciti e a’ Nomadi minacia.
Lui
sol di tuta Esperia fia salute,
e saran l’opre sue maravigliose,
non da veder più mai né mai vedute.
Per
lui l’arme dolente fieno ascose
e sotto il suo pacifico vexillo
la terra fiorirà viole e rose;
l’aria
serena, il mar sarà tranquillo,
e fia la fama sua fra l’altre quale
puro adamante al turbido berillo.
Ercule
alor, disolto de ogni male,
per tuto il mondo prenderà diffesa
contro il Leon che aperte ha sì grande ale;
e
benché fia tremenda la contesa,
ché il magior monstro mai non fo veduto,
pur fia punito alfin de ogni sua offesa;
più
non serà, come era prima, arguto,
ma de’ monti caciato e de le selve,
al litto tornerà donde è venuto.
In
terra non saran più monstri o belve;
tutte le vedo oppresse andare al fondo,
ché ’l novo Alcide le strugge e divelve.
Tornerà
poi quel tempo sì iocondo
che ben di questo potrà fare amenda,
tanto fia lieto e grazioso il mondo. —
TI.
Par che nova alegreza il cor me accenda
e cum gran zoglia quel che leggi ascolto,
abenché chiaro il tuto non intenda.
Ma
vedi il sol che a lo ocidente è volto:
partir convienme ormai, ché il cel se anera,
il tempo è poco e il mio camino è molto.
MO.
Come tu dici, è già gionta la sera,
e se a te non dispiace la mia stanza,
posar potremo in su questa rivera,
cantando
insieme il giorno che ne avanza.
2
Egloga secunda, ne la qual parla lo auttor e
canta GALATEA.
Posto
me era a posare in su la riva
de il re di fiumi, tacito e pensoso,
mirando il sol che a Ponente ussiva;
tra
folte rame de arbori nascoso
gli augelleti ascoltava e quel diletto
che fan cantando al giorno luminoso.
Mentre
lo armento e la mia gregge aspetto,
la bellissinia ninfa Galatea
ussite fuor de l’onde a megio al petto.
Quando
sorse da il mar Venere idea,
mostrando ignuda l’alta sua belleza,
nulla serebbe a quel ch’io là vedea:
sparsa
a le spalle avea l’umida treza
qual sì ioconda a nodi lustregiava
che téne il fiume il corso per vageza.
Ogni
ocellin che lì prima cantava
quetò la voce per vederla, e il vento
senza soffiare e stupido amirava.
E
standome io a cotal vista intento,
lei dolcemente mosse sospirando
queste parole a guisa de lamento:
—
Quando serà quel giorno gionto e quando
serà nel mondo quel’ora felice
che io vida il viso che me strugge amando?
Lassai
Peloro e il bel monte de Erice
per veder lui, che ogni anima gentile
le sue vestigie a seguitar elice.
Ditime,
Ninfe, voi, se forsi umile
torni il Leon che sì crudo vi cacia,
se la Fortuna cangi miglior stile,
non
aspettati che sua regal facia
ponga spavento a la terribil fiera
qual vi ha già chiuse quasi entro le bracia?
non
aspettati che questa rivera
che or sanguinosa e turbida se trova
torni tranquilla e lucida come era?
Ben
scio dir io che non fia cosa nova
a lui quel monstro che orgoglioso è tanto,
ché in altro loco ha fatto magior prova.
Ne la
marina dove iace Otranto
un drago sì crudel era disseso
che tuta Ausonia avea già posta in pianto.
Era
il gran còlto di tal fiama acceso,
le gente intorno sì smarite e sparte
che un altro mondo non l’avria diffeso,
se
quel figliol di Pallade e di Marte,
di cui ragiono ed ardo in tanto amore,
gionto non fosse cum possanza ed arte.
Non
è sola questa opra al suo valore;
tra tante alte vittorie una ne è tale
che non se amenta in terra la magiore:
il
Leon vero e questo altro da l’ale,
la Vipera sublime e il sacro Ocello
sconfisse insieme a Poggio Imperiale.
Né
più lodar se puote il gran flagello
di terra etrusca che la pace ove esso
condusse a ber il lupo cum l’agnello.
Io
parlo, e pur rivolgo il viso spesso
al bel paese che un tempo era pieno
de ogni leticia, or misero ed oppresso.
Ove
èno e’ cori? e il canto sì sereno
che adequava Parnaso e la sua fonte?
Come è venuta tanta zoglia meno?
Ove
son le sorelle di Fetonte
che solìano ombregiar di tal verdura
questo bel fiume da la foce al monte?
Qual
malegno pianeta o stella oscura
fatto ha tal stracio in sì fiorito loco,
che pur a rimirarlo è una paura?
Àprete,
celo, e voi guardati un poco,
pietosi Dei, a le isole del Pado,
che per tuto è roina e sangue e foco.
Di
corpi occisi è fatto un novo vado,
e fame e peste sceman tutavia
ogni etade ogni sexo ed ogni grado.
È
questa quella terra che solia
esser spechio de Italia, anci del mondo,
a li omini cortesa ed al Cel pia?
Sì
regal corte e stato sì iocondo,
tanti trionfi e tanti cavalieri,
come ha sparsi Fortuna e posti al fondo?
Le
large strate or son stretti sentieri,
arse le ville, e tra la gente morta
stanno or le serpi o barbari più fieri.
Non
sei del tuo periglio, Italia, accorta?
Vedi che a divorarte el Leon ponge
in ogni parte e bate a questa porta:
la
soglia de la intrata ha già tra l’onge
e ciascun passo fia soluto e piano
se quel che io dico a tempo non vi gionge.
Ogni
rimedio, ogni altro aiuto è vano,
però che Alcide, qual era restauro
al danno inmenso ed al furore insano,
non
da getico dardo o stral di Mauro,
ma da febre ferito a terra giace,
e sieco di vertute ogni tesauro.
Oh,
se risurga quel spirto vivace,
credeti che il Leon che sì se afretta
non farà tal fremir come ora face.
Ma tu
perché non vieni, anima eletta,
eletta in terra a possider vittoria,
perché non vieni a chi tanto t’aspetta?
Ove
credi aquistar mai più di gloria,
traendo Italia languida e confusa
fuor de la servitù di tanta boria?
Non
sciai che Mongibello ed Aretusa
fuòr da gli atavi toi già liberati
cum quel valor che ancor tra voi se adusa?
Ed or
le stelle a te fautrici e i fati
e la intonsa Fortuna te aparechia
più fulvido scalion, se ben ve guati.
Cotanta
armata gente in te si spechia
e così da te sol ciaschedun pende
che ogni altrui fama sembra oscura e vechia.
La
palma non ha quel che non contende,
ma sol chi segue a magnanima empresa
cum nome trionfale al celo ascende.
Io
pur te aspetto e dubito sospesa
che al gran desir lo effetto non riesca,
qual m’ha ne lo aspettar la mente accesa.
Che
degio far ormai, che ardo come esca?
Starò nascosa al fiume che mi cella,
temprando il mio fervore a l’onda fresca. —
Non
avea dette quella ninfa bella
apena apena l’ultime parole,
che ’l viso ascose e l’una e l’altra stella.
Le
stelle, dico, che sembravan sole
de sotto a’ cilii, e’ lumi tanto vaghi
che ancor quel dipartir dolce me dole
né
mai serà piacer che me ne apaghi.
3
Ne la terza parla lo auttor; cantano
alternatamente nello amabeo rispondendosi ARISTEO e DAFNIDE.
Abandonata
il pastore Aristeo
avia Tesaglia e la dolce verdura
e ’l chiaro Anfriso e il fiume di Peneo;
ma
dentro al petto più fervida cura
lo accende ed arde che la dipartita
da’ colli ameni e sua antica pastura:
perché
sovente a lacrimar lo invita
Cloride bella, a lui fissa nel core
da’ suoi primi anni e da la età fiorita.
Sieco
piangendo adunque quello ardore,
véne in Cileno, e là sotto ad un pino
Dafnide a l’ombra se dolea de amore.
Sospetto
di geloso [a] quel tapino
Citeride avia tolta, onde dolente
si stava sospirando a capo chino.
E poi
che ciaschedun primeramente
detto ebe lo esser suo cum la cagione
che gli atristava l’anima e la mente,
deliberarno
la lor passione
cantando l’uno e l’altro far palese
cum versi alterni e nuota di canzone.
Dafnide
primo in su il fiume dissese,
mutando il fiato e il ditto sì veloce
che le parole al suono erano intese;
e
ritocando or questa or quella voce,
cum tal parlare in dolce melodia
aperse quello ardor che ’l cor gli coce.
DAF.
Stella de amor che al giorno fai la via,
torna la notte e copre il tuo bel lume,
che ’l sol di me non prenda gelosia.
Io
farò colmo in questo tempo el fiume
di quello umor che a gli ochi se destilla,
poiché il Cel vol che in pianto io me consume.
ARIST.
Per me non splenda ragio né sintilla
di celeste fulgor, ché non ho mai
né mai son per aver ora tranquilla.
Dipoi
che ’l mio diletto abandonai
non ebi né aver vuò vita serena,
ma sempre in pianti consumarmi e in guai.
DAF.
Quella stagion che al bon tempo rimena
rami fronzuti e i fiori intra le fronde,
dona altrui zoglia, e me ripone in pena;
e
quando io miro e’ pesci intra queste onde,
sì son de ogni altra sorte invidioso
che el lor vago solazo mi confonde.
ARIST.
Quanto è più il verno turbido e guazoso
e pioggia il cel riversa e fredo vento,
nì luce apare e il sol ci sta nascoso,
ne la
cruda stagione io me contento,
parendomi al languir non esser solo,
ché compagnia raqueta ogni lamento.
DAF.
Se io vedo occelli andar insieme a volo,
se l’armento de’ cervi in selva accolto,
di cotal vista più me acresce il dolo:
ché
ogni animal va libero e dissolto
e se accompagna a quel che lo diletta,
ma a me star sieco o pur vederla è tolto.
ARIST.
La tortorella che si sta soletta,
cantando, anci piangendo il suo consorte,
per meggio al cor di doglia mi saetta,
e mi
ramenta mia misera sorte,
ché son rimaso solo e sconsolato,
come io sono e sarò sino a la morte.
DAF.
Verde cipresso, nobile e beato
per la cara memoria di colei
che ha il suo bel nome in tua scorza segnato,
ben
tra le piante gloriar te dei,
avendo un tal tesor che è teco unito,
ma doler mi debo io che la perdei.
ARIST.
Il dolce nome tuo non fia partito
mai de il mio petto: Amor cum la sua mano
cum un stral d’or ve l’ha dentro scolpito.
Ma
rimembrando quanto io son lontano
al tuo bel viso, per la angoscia moro;
se a te non torno ogni altro aiuto è vano.
DAF.
Quando a mente mi torna il lacio d’oro
che m’ha legato, e lui veder non posso,
nel spirto avampo e in facia mi scoloro.
Più
me accende il disir che è più rimosso;
come è che a me nascoso sia quel foco
qual le medolle me arde in ciascun osso?
ARIST.
Lo arder da presso un tempo mi fo gioco;
or la fiama lassata sì me strugge
che mia vita consuma a poco a poco.
Fugito
ho lei, ma lei da me non fugge;
— chi mai lo crederà quando si dica? —
quanto più mi è lontana più me
adugge.
DAF.
Splendeva il sole a la mia valle aprica,
le vite carche e l’uva era matura,
compiuto il grano ed arida la spica:
cade
tempesta e grandine sì dura
che, essendo già vicino a tanto acquisto,
ogni speranza de le man mi fura.
ARIST.
Lasso dolente sventurato e tristo,
che ebi nel prato un arborscello inserto:
più vago tronco il mondo non ha visto.
De le
sue fronde standomi coperto
e già godendo il suo frutto soave,
lo abandonai, ed è per me diserto.
DAF.
Mai non averà in terra e mai non ave
fiera tanto gentile e mansueta
che in monte pasca o nel fiume se lave,
quanto
la cerva mia candida e lieta,
che ogni mia noglia il suo guardo aquetava:
or tolta mi è nì val ch’io la ripeta.
ARIST.
Danno insperato e perdita mi grava:
ebi in tal modo una columba aveza
che aprendo il beco in boca mi basava;
e poi
la abandonai per mia sciocheza,
e se non torno a lei credo morire,
ché ogni altra zoglia l’anima dispreza.
AUT.
Cantando e’ doi pastori in tal disire
de amor sì caldi e voce tanto vive,
le Ninfe e ’ Fauni venero ad udire;
venero
e’ fiumi e seco le sue rive,
e veder si potea ne lo ascoltare
piegar il capo pampini ed olive.
Sinché
fu forza il canto abandonare,
poiché la notte, alciando le sue velle,
coprìti de ombra avia la terra e il mare,
e fo
dipinto il cel tuto di stelle.
4
Ne la quarta Egloga parlano insieme MELIBEO e
DAMETA, cantando l’uno dipoi l’altro cum verso intercalare.
MEL.
Dimi Dameta, poiché il Celo e Jove
ce hano conduti alla fresca rivera
che sì soave il corso queto move,
vogliàn
che sanza canti il tempo pèra,
sinché il sol alto e il gran fervor de il
giorno
se intepedisca e piègisse alla sera?
DA. O
Melibeo, se ben riguardi intorno
pianger vedrai le Ninfe al dolce colle
che fo de verdi pini un tempo adorno.
Glauzia
tra queste langue e il viso ha molle
de liquido cristallo, e se destina
provar se un pianto eterno il dolor tolle.
Odi
il gran mormorar de la marina,
il vento che sospira e li animali
andarsi lamentando a testa china.
E tu
chiedi ch’io canti in tanti mali!
e ben comprender poi, così come io,
che e’ versi a la stagion son disequalli.
MEL.
Sempre nel tuo comando è il voler mio,
ma certo a me paria che in minor pena,
cantando, se trapassi il tempo rio.
E se
Fortuna a lamentar ce mena,
né Fillida più spira o il biondo Aminta
le usate voce a la amorosa avena,
non
fia la mente da langor sì vinta
che io non mostri cantando fuor la doglia
qual ho nel cor di lacrime dipinta.
DA.
Pur mo’ composi e scrissi in verde foglia
la amara presa del figlio de Egeo,
qual de Acheronte è posto in su la soglia.
Cerbero
là no il tien come già feo,
ma un monstro più crudele e dispietato
che uscì lo altro èr de il regno di
Proteo.
Come
leone orribile è formato,
l’ali ha penute e la coda di pesce
e faza e busto a sangue colorato.
Da le
salse palude il superbo esce,
cum la ciampa alta il mondo e il cel minacia:
guai a la terra se quel monstro cresce.
Or de
ciò canterò quando ti piacia,
se canto se può dir questo lamento,
che sol nel rimembrar dentro me agiacia.
MEL.
Tanto son fatto allo ascoltare intento
che umido mergo più non chiede il sole
né lo affanato cerbo il fresco vento.
DA.
Se avesse voce in vice de parole,
gli alti ioggi de’ monti e i fiumi bassi
e colli e ’ fonti e l’erbe e le viole
cum
nui nel sospirar foran già lassi,
e forza avrebe lo intimo dolore
spezar per la pietade e’ crudi sassi.
Luce
del celo e tu, stella magiore,
che a lo imbrunir de il giorno e al matutino
splendi rorando lucido licore,
come
è sofferto che quel peregrino
spirto gentile e di virtù corona
stia relegato e posto in tal confino?
Cum
lui Prodecia e Senno ce abandona,
sieco ranchiusa e presa è Cortesia,
né di tornar sanza esso a noi ragiona.
Il
saggio Ardire e onesta Ligiadria
di qua son dipartiti, e il dolce Amore
per gire a impregionarsi è posto in via.
Luce
de il celo e tu, stella magiore,
che giù mirando cum benigno aspetto
produci in ramo e in prato ogni bel fiore,
non
piangi ed hai perduto il tuo diletto,
il tuo Teséo e l’umana delizia?
e non ti batti cum le palme il petto?
Nel
più vago fiorir, quando primizia
de’ soi trionfi a Marte dovia rendere,
Fortuna l’ha batuto cum nequicia.
E non
se armava adesso per contendere
a Dite né Proserpina a lui tòre,
ma per Alcide e sua ragion diffendere.
Luce
del celo e tu, stella magiore,
qual di letizia e de effetto iocondo
scaldi cum zoglia a li animanti il core,
come
è contraro a la tua essenza il mondo,
pien di lamenti e sconsolato e scuro,
dipoi che il suo splendore è posto al fondo!
Non
han li armenti e tauri il cor sì duro
che voglian consolarsi al caso estremo
né pascer l’erbe o ber al fiume puro;
ed io
tra lor iacendo in terra gemmo,
se forsi il pianto aqueti il mio furore
e il foco dei sospir che al petto premmo.
Luce
del celo e tu, stella magiore,
rendéti a sì dolenti e iusti pregi
la nostra gloria in terra e il nostro onore.
MEL.
Tanto soave e’ dolci versi spiegi
che creder non potrai che te disdica
né quel che sì ben chiedi il Cel ti
negi.
Ma
come a la timbrea siegue la ortica,
il palido ligustro al bianco ziglio,
come la avena a più felice spica,
per
farti la risposta il libro piglio
quale ho composto cum scorza di fagio
e scritto a celse di color vermiglio.
DA.
Ben del tuo iubilar altra prova hagio,
né Acantide nel canto più lusinga
né Filomena al bel mese di magio.
MEL.
Credo che amor a tal loda te impinga;
ma lascia il ragionar, ché il canto aviso
e già la mano ho posta a la siringa.
Anoncio
a voi pastori eterno riso,
ché visto ho ussire il Sol da il mar eoo
e di iacinti e rose adorno ha il viso.
Quel
che fiacò le corna ad Acheloo
sieco è nel carro ed a Dite ha ritolto
colui che è un sol voler cum Piritoo.
Or
vieni Amor e mostra il tuo bel volto,
fà che se alegri ogni animal in terra,
poiché il nostro dolore in zoglia è
volto.
Apri
ambe l’ale e le fiame diserra,
il tuo foco odorato ogni odio estingua,
e sola qua fra noi sia la tua guerra.
Noi
cantarem cum canne e cum la lingua
le tue vittorie e l’alta tua possanza,
se canto esser potrà che le distingua.
Questa
parte del mondo il Celo avanza
ove Teseo già libero e disolto
de ogni virtude ha sieco la sembianza.
Or
vieni Amore e mostra il tuo bel volto,
né te ritenga Amaraco in Idalia
né il bosco de Citera a mirti folto.
Vedi
il figlio de Egeo che ha la ragalia
di Pasitea e di tute le Grazie,
e per lui solo è un paradiso Italia.
La
figlia da Cefiso che ha tre fazie
cum l’altre soe compagne al dolce sono
danzar intorno a lui non fòr mai sacie.
Questa
arguta armonia de che io ragiono
tanto soave nel mio core ascolto
che per dolceza me stesso abandono.
Or
vieni Amor e mostra il tuo bel volto,
e troverai de intorno al nostro coro
il colegio dei Dei tuto aricolto.
Venuto
è a festegiar ciascun di loro:
Cillenide ha la lira, Iàco salta
e canta Febo a la citera d’oro;
ma
sopra tuti Palade se essalta
di tanto alonno, e sparge per Atiene
croco narciso e fior d’Adone e calta.
Qual
magior festa o gioco te retene?
Non è, che io creda, altrove o poco o molto,
e se al mondo più ne è cum tieco viene.
Or
vieni Amor e mostra il tuo bel volto,
poiché a diretto Jove te ringuarda
e ciascun fausto sido è a te rivolto.
DA.
Se la felice gionta più non tarda,
qual fai cantando cum sì bono augurio
che par che di speranza il cor già m’arda,
quel
che io ho votato a Tetide e a Mercurio,
nove iuvence, getarò nel mare,
getarò in foco il tauro lor decurio.
Se
dritamente m’ebe a dimostrare
Mopso lo arcado il corso de le stelle,
quel che ho cantato non potrà mancare.
Scio
getar sorte cum fronde novelle,
scio l’arte che mai falsa non si trova,
mirando il volo e il canto de le ocelle.
E tu
ne pigliarai verace prova,
ché Teseo tornerà come fenice
che ardendo se abellisce e se rinova.
Passiamo
adunque in su quella pendice
qual sopra al fiume adombra il praticello:
di certo il mio penser presagio dice
che a
nui ritornerà più che mai bello.
5
Ne la quinta parlano insieme MENALCA e GORGO;
canta per sé MENALCA in frotola.
ME.
Quanto pensier de amor il cor me ingombra!
E le pecore mie tute han riposo,
ogni mia capra rumiga ne l’ombra;
ogni
pastore è ne lo antro frondoso
e nel fervor de il dì prende risoro:
ed io sol ardo sempre e mai non poso.
Se
questo sole e l’altro che io me adoro
fossero insembre, io non iudicaria
qual se risplenda in più luce di loro.
GOR.
Pur sei, Menalca, ne l’antiqua via,
questo tuo sospirar eterno dura:
dopoi tanti sospiri alfin che fia?
ME.
Nulla speranza, o Gorgo, me assicura
che il pianto mio se alente per la morte,
ma piagner credo ne la sepoltura.
E
poiché il Cel me destina a tal sorte,
che posso io più? Se non che in questi canti
pur me raqueto e par che me conforte.
GOR.
Questo è vulgato ed uso de gli amanti,
cantando le sue pene a condolersi,
e par che l’armonia temperi e’ pianti.
E’ mi
ramenta già che de’ to’ versi
alquanti ne sapea, ed or mi dole
che, eccetti questi dua, tuti l’ho persi:
—
Amor che me scaldava al suo bel sole
nel dolce tempo di mia età fiorita... —
Più non ne scio, ché scorse ho le
parole.
Ma
nanti che de qui facia partita
alcun ne canterai, se non ti è grave:
vedi che il fiumo al gorgoliar te invita,
e ’l
fresco vento e l’aura più soave.
Il canto intona: or mostra qual ardore
e cum qual chiovo l’anima te inchiave.
ME.
Se io te potesse ben mostrar di fore
l’ascosa vampa che entro al petto io sento,
faria questa aqua sfavilar de amore.
Ma si
a te piace odire il mio tormento
fa che ad altrui per te non se ridica:
cum questa legge a dirlo io son contento.
—
Tanto me intrica questa mia nemica
che la sua dolce ortica me diletta;
me come a latta a lacrime notrica.
In
giovenetta età poco si metta
di spene, ma chi aspetta e pò durare
sinché possa indurire, il tempo assetta.
Or
cossì andare a me bisogna e fare
ciò che a fortuna pare, e pur il fine
sarà una fune a tante pene amare.
Chi
me divine se le matutine
rose tra tante spine accoglier possa?
ché il bronco passa e temo che me uncine.
Mai
non l’ha mossa la crudel percossa
che m’arse dentro a l’ossa de il so’ foco;
né dataro né fico ho per riscossa.
Mercede
invoco e non ritrovo loco;
languendo a poco a poco me disfacio,
ma sì noglioso officio ho già per gioco.
Per
mio solacio miro il fredo giacio
qual nì loco nì spacio mi nasconde,
ché sempre scande ov’io mi trovo avacio.
Le treze
bionde e il viso mi confonde,
tanto che io non trovo onde aver riparo,
né dove me ripore accato sponde.
Cum
pianto amaro a le mie spese imparo
quanto altrui costi caro ove se aduna
l’occhio che dona il guardo tanto avaro.
Come
la luna fa la mia fortuna:
palida rossa o bruna che la volti,
ritien sempre quel volto e stassi in una.
Meschino,
or duolti a questi lochi incolti;
ma non ha chi me ascolti e non ho voce,
poi che una vice gli ochi mi fur tolti.
Or
vieni atroce e ponimi a la croce;
ogni martìr feroce io vuò patire,
né a te imputare il foco che mi coce. —
GOR.
Ben ho diletto e molto de il tuo dire,
ma quel che dice poco o nulla intendo,
sì sai parlando tua voglia coprire;
e se
l’ora de il sol dritto comprendo,
passata è già la nona e il tempo fugge
mentre che ascolto e il tuo cantar atendo:
la
mia iuvenca su nel bosco mugge,
e non scio la cagione, e temo assai
che altrui furtivo l’ubera li mugge.
ME.
Vàtene, Gorgo, perché è tempo ormai
de la ricolta, e più non stare a bada;
ed io cantando allevierò mie’ guai,
benché
più il pianto che il cantar mi agrada.
6
Ne la sesta Egloga alegoricamente parlano un
CACIATORE affanato ed un PASTORE, nascondendo e’ nomi loro sì come
è la matera nascosa.
VEN.
Diti, pastori (e se vi duri il giorno
tepido sempre e la notte serena),
se alcuna fonte qua sorge intorno.
Per
Dio, mostrati qual strata vi mena,
perché mirando non vedo vestigio
di fiume o d’aqua che sorga di vena.
Ed io
son lasso detro a un capro grigio,
che ’l più bel mai non vide Iasio in Creta
né al bosco de Ida il giovaneto frigio.
PAST.
Là tra que’ colli, ove è l’erba più lieta,
dal bianco marmo una aqua se diriva;
ma ber a lo affanato se diveta,
perché
de ogni vigor l’anima priva
e tragge e’ nervi caldi a tal rigore
che non se vede alcun che beva e viva.
Nel
pin che sopra sta nascoso è Amore,
e per le rame subito saetta
qualunque scorge a la sua riva pore.
Però
la pioggia o la rugiada aspetta,
vinci soffrendo de la sete il tedio,
se più nel mondo viver te diletta.
VEN.
Donque al mio scampo non serà remedio?
Deh, per Dio, dati a questo spirto aiuto,
ché ardor e sete gli han posto lo assedio.
PAST.
Tanto ti vedo nel viso perduto,
e sì conquiso e vinto da lo affanno
che per condurti a ber il passo muto.
Ma a
la fonte de Amor bisogna inganno,
e inganar per amor non è malizia;
or per piacerti a me stesso fò danno.
VEN.
Sì forte voglia nel pensier me aticia
che ogni cosa vuò far, anche morire,
pur che io me intinga e’ labri de una spricia.
O me
tapino, io già vedo aparire
là sopra al colle il mio formoso capro;
sinché io sia vivo me il convien seguire.
Lassai
per lui nel bosco un cerbo e un apro;
tanto ne’ salti a rimirar me inzoglia
che fino al cor la vista de gli ochi apro.
PAST.
Ahimè, che dici? o che furor te invoglia?
Quello è il capro di Pan il nostro Idio;
pur ne lo odirti io tremo come foglia.
Leva
de la tua mente tal disio,
però che ireticar sì bella caccia
cosa non è di tuo poter nì mio.
VEN.
Ben vedo che al seguirlo è cosa paccia,
ma che degio più far? Ché se io no il
seguo
e’ par che il core in petto me si sfaccia
e
come cera al foco mi dileguo.
Che degio far? Io son morto se io il lasso,
e morto son se il mio desir proseguo.
PAST.
Il nome tuo non scio, ma ferma il passo,
chiunque tu sia, e se ben fosti Apollo,
di tal empresa romaresti al basso.
Or
non te avedi che già il capo e il collo
ha drento al parco? E chi entra quel seraglio
ne la sua vita non darà mai crollo.
Mira,
che de oro a le spalle ha il camaglio,
verde una gamba e l’altra a rose e a zigli,
e gli ochi puri a guisa di miraglio.
Meglio
è che a destra mano il camin pigli:
vedi là il prato che ha cotanti fiori
azzuri e giali e candidi e vermigli;
se
tra l’erbete ponto te dimori
sinché il sol passi a l’ora che se infresca,
co il tempo passeran cotanti ardori.
VEN.
Vedi ch’io moro, e par che non te incresca
de il mio morir: deh, mename a la fonte,
ché lo un desir o l’altro mi riesca.
PAST.
Sol de lo affanno mi suda la fonte
per la promessa ch’io feci improviso,
che ora nel cor mi dona mille ponte.
Quella
fontana è sol mio paradiso,
sol mio diletto e sola zoglia mia,
ove io mi spechio rimirando il viso;
e se
altri la tocasse, e’ mi paria
che in lei non fosse quella puritade
ne l’onda chiara come era di pria.
Come
esser debon le parole rade!
perché qualunque al proferire è ingordo
spesso per danno o per vergogna cade.
Ora
ne andiamo, ma ben ti ricordo
che transformato bever ti convene,
né trovaresti in altra forma acordo.
VEN.
Novello amico, io riconosco bene
che discortese assai sono, e non poco,
bevendo a l’aqua che in vita te tiene;
ma
perché esser potria che in altro loco
a te rendesse per la fonte un fiume,
prego me aiuti a spenger questo foco.
Mostra
come andar possa e cum qual lume:
se transformar mi debbo in pioggia d’oro,
come già Giove, o copromi de piume.
PAST.
Qua non vi giova l’alie nì tesoro,
ma per astuto ingegno e per inganni
farai, come t’ho detto, il bel lavoro.
Quinci
te spolia e vestite me’ panni,
questa pèle di lince e questo manto
che conosciuto è già per mio molti anni.
Mòvete
ormai, ché io te ritengo tanto:
più dolce aqua del mondo e la più chiara
aver bevuta te potrai dar vanto.
Né
creder che mi sia cotanto amara
come or ti dissi questa mia proferta,
ché più bel dono è di cosa più
cara.
VEN.
Ciò che tu dici nel mio cor se acerta,
ma tal servigio a bisogno cotale
per tempo esser scordato mai non merta;
e
perché il guiderdon seguirà male,
ché altro di te non ho che l’aparenza,
dimi il tuo nome, se di me ti cale.
PAST.
Star più non posso ne la tua presenza,
ché ogi al guardar mi toca la vicenda,
onde il mio nome e la mia conoscenza
per
più bel aggio voglio che se intenda.
7
Ne la settima contendono in sdruzola DAMONE e
GORGO; parla CORINA. Cantano per amabeo ne la medesima rima.
GOR.
Che canti a quel alòr de il nostro trivio?
Come cicada sotto al sole estifero,
rauca hai la voce ed arido il salivio,
e la
cicuta soni come piffero:
se fai di cotal canto tanta copia
secar vedrai questo arbore odorifero.
DAM.
Gorgo, sempre intervien che dov’è inopia
magior de quella cosa, più se aprecia,
come ambro in India e giazo in Etiopia:
però
Corina, ad ascoltar avecia
il canto tuo che sembra quel de la ulula,
questo mio, benché rocio, lo acarecia;
e da’
mei versi questo lauro pulula
rami novelli, e sotto a lui non cantano
più le cornice e lupo più non vi ulula.
GOR.
Color, Damone, che sue cose vantano,
de altrui che gli dia loda hano penuria,
ove è mestier che lor stessi le incantano.
Però
non dar al dir fora la furia,
poiché nel far mi dai cotanto oltraggio:
ma a l’uno e l’altro vengiarò la iniuria.
Andiamo
insieme a quel bosco di faggio,
là dove l’onda più gelida flue
e rami folti al sol rompono il raggio.
Là
provarem mie voci cum le tue,
e mostrarò tra lor tal differencia
qual di grandecia è tra la rana e il bue.
DAM.
Adonque vòi mostrar la tua scienzia
a’ faggi sordi e a l’onde che non odeno?
Ma chi darà tra noi questa sentenzia?
Vogliam
far come alaude che se godeno
sole del suo cantar salendo a l’aria,
on far come le tarme che se rodeno?
Ma
vedo io bene, o che il veder mi svaria,
là giù nel prato sotto al verde sovero
Corina starsi a l’ombra solitaria?
Come
tornato sei palido e povero
de la usata baldanza! Or vati a scondere,
che non hai a vergogna altro ricovero.
GOR.
Ben te avedrai se a te saprò rispondere;
ma que’ begli ochi e le amorose fiacole
ne la vista di lei mi fa confondere.
DAM.
Pur sei gionto a la rete tra le macule!
Se ponto vali in versi, ora comenzia:
qua bisogna che canti e non che gracule.
Vedi
come apre il naso e il viso agrincia,
move lo ingegno e forma la memoria;
sorta è Corina e vol veder qual vincia.
COR.
Cantati, bei pastor, sì eterna gloria
i vostri versi siegua e il desiderio
de la sua amata otenga chi ha vittoria.
E
benché a me mal venga tal emperio,
starò ad odervi, e al mio poco iudicio
fia lo esser visto manco vituperio.
Tu,
Gorgo, donerai al canto inizio.
Né a l’onor né a lo amor mai si vol
cedere:
ogni contesa in altra cosa è vizio.
GOR.
Tu che èi precinto di corimbi ed edere,
dona a’ mei versi, o Baco, tua leticia:
più non dimando e più non sare’
chiedere.
DAM.
Nemico di riposo e di pigrizia,
spira, o Mercurio, da il monte Menalio,
sì che il mio canto ad ascoltar alicia.
GOR.
Le nove ninfe de il monte Castalio
ténero un tempo il viso che io vaggegio;
or è mutato e stassi in Acidalio.
DAM.
Quel amoroso volto che ognor chiegio
stassi co il sole, e a sua similitudine
quanto più il miro cum più pena il
vegio.
GOR.
Come potrei contar la moltitudine
de’ mei martir? ché Amor sì me contamina
come se bate un ferro in su lo ancudine.
DAM.
Me bate ancor come io fosse una lamina
de oro o de argento o di metal flussibile,
e nel suo foco me affina ed examina.
GOR.
È fatta l’alma mia tanto insensibile
che creder voglia quel che non può essere,
e a ciò che io vedo son fatto incredibile.
DAM.
Già comenciai cum l’onda il foco a tessere,
ché possibil mi par ciò che io desidero:
chi potrà mai questo disio compescere?
GOR.
Oh, quante volte tacito considero
ciò che gli antiqui in bella donna dissero!
Ma questa che vegiàn noi, mai non videro.
DAM.
Quanti or son vivi e quanti mai ne vissero,
cantando non porian sue lode agiongere
cum quelle ale de amor che al cor se affissero.
GOR.
Non vi val arte o succo de erbe ad ongere
ove ferisse Amor, e tanto è il tedio
che lo afro scorpio non ha pigior pongere.
DAM.
Amor a gli ochi mei posto ha lo assedio
e me combate a fiame tanto calide
che ora mi rendo e più non vi ho rimedio.
GOR.
Già il bel Narciso e il gioveneto Ebalide
fatto han de amore infausto il mondo florido,
e il biondo croco e le viole palide.
DAM.
Tra Dii e Dee non è più crudo ed orrido
di quel fanciulo, e il non posso discrivere,
che avampa al giazo e agiaza al sol più
torrido.
GOR.
Io me credete aver mie pene livere
lassando il lauro e il pino; ora un genevere
mi ponge sì che più non posso vivere.
DAM.
A questa fonte me chinai a bevere,
ma l’onda dolce tanta sete genera
che non la atuteria Po, lo Arno e il Tevere.
GOR.
Ne’ mei primi anni e ne la età più tenera
fo posto nel mio core il pongente arbero
che in sé non arde e me per tuto acenera.
DAM.
Un tempo mite queste onde me aparbero,
or sì crudel che a pietà porian movere
un Geta, un Mauro o se altro è ancor più
barbaro.
CORINA
Se io non me ingano al prato de la rovere
oggi li Fauni e Driade se agirano,
là dove a frize d’oro Amor sol piovere;
tute
le Ninfe a quella festa aspirano,
che là vano a danzare, e se non danzano,
sono da altrui mirate on altri mirano.
Quelle
che ascose stan poco gli avanzano,
ed io vi voglio andare e fin vuò ponere
a’ versi vostri, che di par bilanzano.
Vostra
bontade prego che me essonere
da il iudicar chi tanto se aparegia
che lo uno a l’altro non saria preponere:
e
pur, aciò che alcun merto si vegia,
ambi a le fronti vi cingo di bachera.
Ma già nel ballo il mio pensier vagegia:
più
non starei, ché odir mi par la nachera.
8
Ne la ottava, condolendosi di una fanciulla
morta, parlano e piangono insieme MELIBEO e MENALCA.
MEL.
Ritornati, pastori, a la pastura:
passato è il caldo e più non ferve il
sole,
e l’ombra ha duplicata sua misura.
Ma
non è quel Menalca, che se dole
e vien piangendo a noi cum passo rado
e rompe ne’ singiozi le parole?
Maraviglia
è vederlo in simil grado,
ché il più lieto pastor non se vedia
da dove Adice bagna a Val di Pado.
Non
dimando, o Menalca, come stia,
ché lo esser tuo è nel viso aparente,
ma la cagion di tua sembianza ria.
MEN.
Ben doveti voi star fuor de ogni gente,
o Melibeo, se ancor quivi si tace
quel ch’è palese e tuto il mondo sente.
Apena
di parlare io sono audace
quivi di guerra, e temo non me ascolte
questo bel loco, ove abita la pace.
Le
vostre pecorelle, qua ricolte
intorno a le fontane e fiumi usati,
vano pascendo libere e disolte;
e voi
sicuri qua de amor cantati,
e le fanciule intorno vi fan festa
cogliendo e’ fiori e l’erbe a questi prati.
Quanto
è diversa nostra sorte a questa!
Li nostri armenti e le pecore in preda,
e noi scaciati o morti a la foresta;
né
sotto al cel stimo io che mai si veda
cosa tanto crudel, onde a nararla
vengo sospeso e temo non si creda.
E poi
così me afflige il ricercarla
che estender non mi vò, ma dirvi in una
che ’l danno è assai magior che non si parla.
MEL.
Qua le tue capre cum le nostre aduna;
quando ti piaccia nosco poserai,
sinché altro volto volti la Fortuna:
quivi
son li antri freschi, e come sciai
spira aura più salubre, e se riverde
l’erba pasciuta e non manca giamai;
quivi
è il boschetto che fronda non perde
per la fredda stagione, e dentro è Amore,
che ancor mi ponge a la foglieta verde.
MEN.
Dunque è Genevre ancora nel tuo core?
Ben vero è che lo amor de’ teneri anni
nì tempo mai nì caso può
distòre.
Ma io
che debbo fare in tanti affanni?
Tolto morte m’ha Nisa, il mio diletto,
il mio risoro a’ smisurati danni.
Più
mai conforto aver nì zoglia aspetto:
perduto ho la mia vita ed ancor vivo,
ché ’l Cel spirar mi fa per più
dispetto.
MEL.
Ahimè, che dici? adonque è il mondo privo
de la beltade ch’a l’altre era quale
ilice a lauro e salice a lo olivo?
Ben
ha stirpate Amor le penne a l’ale,
ben posar pote lo arco e la faretra,
ché senza lei sua possa poco vale.
Ben
avrebe ciascuno il cor di petra
qual non piangesse tal dano, e la terra
dovria tuta coprirsi a veste tetra.
Or
è finita la tua dolce guerra,
caro Menalca, e la tua dolce pace;
tuo dolce affetto un sasso ignudo serra.
Deh,
non getar que’ cridi! un poco tace.
Se così fai, il tuo viver fia corto:
voler conviene a noi ciò che al Cel piace.
MEN.
Or così fosse io, Melibeo, già morto,
che ben avanti a lei ne dovea gire;
ma vissi per sofrir tal dolo a torto.
Oh
beato colui che può finire
sua vita prima che entri ne lo amaro,
ché nel viver megliore è bon morire.
Quando
pòte il mio fine essermi caro,
oggi ha tre mesi, e come mal si mora
vivendo in doglia a mio gran costo imparo.
Ove
è l’alma amorosa? ove dimora
quel gentil spirto? ove quel vivo guardo,
e il ragionar soave che me accora?
Mio
dolce foco è morto ed io pur ardo,
io ardo lacrimando, e ben me aviene,
perché a seguirla omai troppo mi tardo.
Perito
è cum quel viso ogni mio bene;
io detro a quel pensando me disfacio,
né pongo alcun rimedio a tante pene.
Ma il
mio fero destin non sarà sacio,
e le stelle crudel, ché a suo mal grato
morendo mi trarò di tal impacio.
Dicetimi,
pastori, in qualche lato
di questi monti loco alcuno o riva
di alpestro fiume o sasso derupato,
che
là di sospirar se farà priva
questa anima infelice traboccando,
dipoi che il mondo ormai non vol ch’io viva.
Vedrò
morta colei almanco, quando
non piace al Cel che in vita io la rivegia:
mia membra sparse a voi le ricomando.
MEL.
Poiché la mente tua tuta vanegia
ne la luce che hai persa, almen comporta
che per sua parte alquanto te richiegia.
Odi
lei che ti dice: — Se io son morta
in terra, nel cel vivo, e in tanta zoglia
solo il tuo lamentar mi disconforta.
Se
hai disio di vedermi, l’aspra voglia
cacia da te, ché morte voluntaria
a la porta del cel serra la soglia.
Su
non veresti ove abito ne l’aria,
se te occidesti, ma ne lo Acheronte,
ch’è sede da la mia diversa e varia. —
Così
parla tua Diva: alcia la fronte
e voglia viver per amor di lei
che el ti domanda e prega a palme gionte.
MEN.
Cossì pace mi renda il mondo e i Dei,
e il Cel che contro a torto me congiura,
come tu di mia vita cagion sei,
e
quella peregrina creatura
che Natura mostrò per farci ingordi
al suo bel viso, e sì presto lo fura,
cum
que’ soi santi e angelici ricordi
che per tua voce a le orechie mi sona,
e vol che teco a viver me concordi.
Suo
fo il mio core e sua la mia persona,
e sarà sempre, e a suo comandamento
vive Menalca e la morte abandona.
Posarmi
qua cum teco io son contento,
né aver potrebi loco più iocondo
sinché fortuna muti miglior vento,
e il
Cel se plachi e ponga in pace il mondo.
9
In questa nona lamentasi cantando CORIDONE per
la sua cara Nisa a Mopso maritata.
Fiorita
riva e voi, verdi arborscelli,
che adombrati onda sì tranquilla e chiara,
a voi convien che mia pena rivelli:
perché
colei che più che ’l cor ho cara
qua cum voi steti, e credo che ogni fronda
de’ vostri rami odir de amore impara.
Vòlgete,
fiume, e torna al fonte l’onda,
dipoi che piace al Celo e a la Fortuna
che il fango e l’oro insieme se confonda.
Di
Mopso è Nisa: or fia la neve bruna!
Nisa è di Mopso: e chi crederà mai?
Amor il guffo e la colomba aduna.
Tu,
dolce anima mia, pur te ne vai,
né te rincresce de uno abandonato
che più te ama che l’alma, e ben lo sciai.
Scio
che lo sciai e scio che l’hai provato,
se questo novo ardor forse non tragge
for de tua mente il bon tempo passato.
Ma
già non credo, o creder voglio, che agge
sì poco di fermeza, ché al cor mio
sta pur scolpita ancor tua bella imagge.
Se
fatta sei de altrui, che ne posso io?
Io pur son tuo come foi sempre, e questo
non mi può tuor Fortuna o caso rio.
Oh,
quanto è più noglioso e più molesto
se un altro te percuote e poi fa motto!
Perché stral improviso è troppo presto.
Marito
inamorato, ora ha’ tu rotto
il panno virginale! or sta di sopra
tal che già stete e stava ancor di sotto!
Non
più di lui, non più, che ormai se scopra
quel volto onde Natura se vergogna
de aver produtta al mondo cotal opra:
ochi
di gatta e voce de om che sogna,
rari e’ capegli e bianchi come stoppa,
il busto oguale e gambe de cicogna.
Vedeti
che lo un labro a l’altro poppa,
se doneando, ché di fresco è raso,
nel novo manto tuto se ragroppa.
Deh,
disleale Amor, ove è rimaso
l’onor de la tua corte? E la tua stella
ben se può dir che sia gionta a l’occaso.
Qual
anima crudele e più ribella
de ogni pietate lacrime non getta,
vegendo a sì vil man cosa sì bella?
Che
sia quel ponto e l’ora maledetta
qual tolse sua speranza a tanta fede,
che avendola perduta ancor l’aspetta.
Sia
maledeto chi prosume e crede
coprir doi sì diversi de una tegola:
vero è che Amor è cieco e non li vede,
che
vol compore il balsamo a la pegola.
Oh, come è pazo chi crede e prosume
pore a li amanti né ordine né regola!
Ben
prima sarà il foco in questo fiume
e gli occei tuti vestiran di scaglia
e tuti e’ pesci fian coperti a piume,
che
mai ragione umana o forza vaglia
spiccar que’ cor che insieme agionse Amore;
né a foco o a ferro un bon voler si taglia.
Ma
pur da altrui fia colto il mio bel fiore:
colto, che dico? scalpizato e guasto;
e viver posso ancora in tal dolore?
Qual
pelago indiano o mar più vasto
potrà imbianchir la tenebrosa machia
che già me atrista pur sentirla al tasto?
Qual
levo corvo o qual destra cornachia
sì tristo augurio ad altro amante porta,
lo un crocitando e l’altra quando grachia,
come
a me Lica sbigotita e smorta,
qual vien piangendo e vegendomi aresta,
che sol mirando a l’atto mi sconforta?
Ed io
presago già de la tempesta
che predice il delfin da il curvo dorso,
chinai senza sapper altro la testa.
Ma
lasso, che vagando io son trascorso
e del passato parlo di presente,
tanto insano è il dolor che il cor m’ha morso.
Sì
disviato ha l’animo la mente
che rime o verso o musica non cura,
ma sol piangendo sé mostrar dolente.
Nel
mio cantar è persa ogni misura,
né ho più quel dolce suon che aver
solia,
ché il tanto sengiocir la voce indura.
Ah,
Coridone, ove hai tanta folia?
Ne l’aria de li augei seguire l’orme,
de’ pesci in mar seguir credi la via?
Chi
avrà ricolto a casa le tue torme?
chi chiuderà la mandra? Or vedi, istolto,
qual stai piangendo quando ogni altro dorme,
quando
il lume de il cel al tuto è tolto
né il fior se scerne da la erbetta verde,
ché notte a veste negra ha il mondo involto:
mal
fa chi per altrui sé stesso perde.
10
Ne l’ultima parla lo auttore e canta ORFEO el
panagirico de lo incomparabile Signor Duca de Calabria.
Sorge,
Aretusa, e fonde ogni tua vena
ché l’alta fonte che è tra Cirra e Nisa
non bastarebe a tanta empresa apena.
Questa
matera che mia mente avisa,
fuor de gli usati paschi è da cantare
cum meglior voce e versi de altra guisa.
Venite,
belle Ninfe, ad ascoltare:
or non vi narrerò le pome de oro
che fér nel corso Ippomene avanzare;
né
porò l’Orse tra le stelle in coro,
nì vi dirò di Crete il labirinto,
nì quel di Tebe o qual fo più lavoro;
o
come fosse da Poluce vinto
Bebrida al cesto, o le Arpie spenachiate,
e ciò che ogni poeta ha già dipinto.
Dir
non voglio io queste opere vulgate,
ma la virtute splendida de un duce
qual non ha pari in questa o in altra etate,
se
quello inmenso affetto che me aduce
a narrar opra sì sublime e grave
non me confonde gli ochi in tanta luce.
Quei
che passarno cum la prima nave
eber cum sieco il bel figlio di Febo,
qual fo nel canto più che altri soave:
colui,
dico io, che da il dolente Erebo
tornò sonando, e da le Bacce occiso
fo, sendo ancora giovene ed efebo.
Questo
cum dolce voce e cum bel viso
piegava e’ scogli e facea stare il vento,
movea le piante a pianto e i saxi a riso,
passando
per la spiaggia lento lento,
là dove le Sirene a dolci versi
faceano in zoglia altrui morir contento;
e ’
naviganti tuti eran già persi
né si potean sé stessi contenire,
ma il volto e i remi al canto avian conversi.
Alor
comenciò lui suo canto a ordire
cum tal dolcezza che ogni mente oblitera
e la Sirena taque per odire.
Rimena
il plectro de oro in su la citera
e cum le corde acorda la sua voce,
e il mare e il monte intorno la reitera.
E
cerco a lui vi avea delfini e fòce,
né cèto né altro monstro al fondo
resta,
ma ciascun trage al canto più veloce.
Tuti
del mare avean sorta la testa
e ciaschedun più presso ascoltar vole
la cantilena, ch’a quel suon fo questa:
— Eo
vedo ussir da lo occidente un Sole,
se Apollo a me, suo figlio, il ver predice,
che ascende ove questo altro scender sòle,
e
fermarasse in su questa pendice
che ora vedeti avanti sì diserta,
ma fia più ch’altra nobile e felice.
Poi
che sarà la Vergine scoperta
e ritrovata a quella sepoltura
da gente nova e da abitare incerta,
longo
quel litto sorgeran le mura
di quella alma cità, qual di vageza
e de alta fama non avrà misura:
né
ciò dico per possa o per vechieza,
per soperbi edifici o per bel sito,
o per sua gente a le virtute aveza,
ma
perché il novo Sol de Spagna ussito,
poi che avrà lustregiato tuto il mondo,
fermarà la sua luce in questo lito.
Da le
superne stelle al mar profondo
la terra sonerà del primo Alfonso,
e seconderà il nome nel secondo.
Né
fia di Delfo oraculo o responso
la gloria di costui, ma tanto chiara
quanto di raggi ha Febo il capo intonso.
Natura
generosa che rippara
in regal sangue alcun lignaggio antico,
in altra stirpe più non se rischiara;
nì
Atalarico già nì Rodorico,
che a quest’inclita iesta son di sopra,
oguagliar se potrano a quel che io dico.
Vedeti
che a sì grande e nobil opra,
quale è produtta per cotanti onori,
par che ogni stella il bel viso discopra;
vedeti
il mondo ornato a rose e a fiori,
e il mar tornato di sapor di mèle,
spirar il vento de cinamo odori;
tigri
e serpenti e ogni animal crudele
rari sarano, e se qualcun ne fia,
sarà senza veneno e senza fele.
Come
fia nato, a lui per compagnia,
sarà donato Amor cum gli ochi aperti
e Gentilezza e Ardire e Cortesia;
né
sarano a sue guanze e’ pel scoperti
che de lui s’oderà non dico segno,
ma prove d’uom compiuto e fatti experti.
A la
difesa del paterno regno,
quasi fanciullo, ov’è Troia minore
di cotal parte si mostrarà degno.
Non
crescerà suo triunfal onore
com’altri a poco a poco, ma ad un ponto
darà per tuto subito fulgore.
La
bellica prodezza ch’io ve conto
fia tuta sieco, e non sarà divelta
sinché fia al cielo in anima ragionto.
E
come il Mauro ha l’asteciola inselta
e quel di Baleare ha la sua fronda,
il Scita l’arco e Amazone la pelta,
così
parrà che ogn’arte a lui risponda,
non sol che s’usi ma pensar si possa,
per opra di bataglia in terra e in onda.
Talor
giocando a scudo ed asta grossa
farà di sé tal mostra che ciascuno
se stupirà di sua destrezza e possa.
Coteste
lodi che cantando aduno
non son la summa di virtute tanta,
ma qual in bella donna è l’ochio bruno;
e
qual è fior vermiglio in verde pianta,
in monil d’oro il lucido carbone,
tal tra tutti altri sol costui si vanta.
Testimonio
è Flaminia e il Rubicone:
là tra’ nemici passarà di volo,
prendendo il pasto a guisa di falcone.
Testimonio
fia l’Arno e l’alto dolo
ch’a Puoggio Imperial Toscana sente:
là tanti segni abbaterà lui solo.
Non
fia riparo all’animosa mente
inexpugnabil colle, e ogni altro loco
sempre di contrastarlo al fin si pente.
Ma
d’ognor quel ch’è fatto a lui par poco,
e più richiede sua virtude accesa,
spirando ad alto sempre come foco.
Mirate
Italia, che si sta difesa
sotto al suo scudo e senza altra vigilia,
senza altra guarda a sì stupenda impresa.
Dal
mare Eusino a’ jogi di Panfilia,
e ciò ch’è tra l’Eufrate e tra il
Danubbio
ne ven armato al Regno di Sicilia;
e se
non rompe a sì gran tela il subbio
e sì gran tramma quel duca sicuro,
perduta è Italia e non ne faccio dubbio.
Ma
che dico io? quei barbari non curo,
ché già di salto a l’alte terre in cima
e già d’Otrànto il veggio sopra al muro.
Sagite
foco e folgore non stima,
né quella gente oribil e legera
tra la qual Marte sua sede ebbe in prima.
O
gentil alma nobil ed altera
ch’a tua prodezza non trovi confino,
a maggior fatti drizza la bandiera.
Già
il Mencio, lo Oglio, Pado, Ada e Tesino
a te fan riverenza, e il bel paese
qual chiude l’Alpe, il mare e l’Apenino.
Là
farai l’opre grande e sì distese
che bisogno non è ch’io le ricorde,
quando in sé stesse fien chiare e palese. —
Cantava
Orfeo cum voce e con le corde,
ma la sua nave non potea star quieta,
cum tal dolcezza quel canto la morde;
e
tanto è di quel suon zogliosa e lieta
che verso il ciel adriciava la prora,
onde più longo il canto li divieta:
benché
gran gesti restavan ancora,
ma non potendo, al lito periglioso
voltò la poppa e non fece dimora.
Ed io
nel bosco ormai più star non oso,
poiché oscurito è per tutto d’intorno,
gionta è la notte e il tempo de riposo.
Ma se
mia voce, com’io spero, adorno,
di questo duca l’abito regale
cum altri versi a dimostrar ritorno,
pur
ch’al disio la possa spieghi l’ale.