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MASUCCIO SALERNITANO

IL NOVELLINO

Edizione di riferimento:

Masuccio Salernitano, Il Novellino, a cura di G. Petrocchi, Firenze, Sansoni 1957.

 

 

NOVELLINO DEL NOBELE MATERNO POETA MASUCCIO GUARDATO DA SALERNO, INTITULATO A LA ILLUSTRISSIMA IPOLITA D’ARAGONA E DE’ VISCONTI, DUCHESSA DE CALABRIA; E IN PRIMO IL PROLOGO FELICEMENTE COMENCIA.

 

          Como che io manifestamente comprenda e per indubitato tenga, inclita ed eccelsa madonna, che al suono de la mia bassa e rauca lira non si convenga de libro comporre, né meno de proprio nome intitularlo, e che più de temerità dignamente sarò redarguito, che d’alcuna eloquenzia né multo né poco commendato; nondemeno avendo da la mia tenera età faticato per esercicio il mio grosso e rudissimo ingegno, e de la pigra e rozza mano scritte alcune novelle per autentiche istorie approbate, ne gli moderni e antiqui tempi travenute, e quelle a diverse dignissime persone per me mandate, sì como chiaro ne’ loro tituli si demostra, per la cui accagione ho voluto quelle che erano già disperse congregare, e de quelle insieme unite fabricare il presente libretto, e quello per la sua poca qualità nominare il Novellino, ed a te, sulo presidio e lume de la nostra italica regione, intitulare e mandare; a tale che tu, con la facondia del tuo ornatissimo idioma ed eccellencia del tuo peregrino ingegno, pulendo le multe rugine che in esso sono, e togliendo e resecando le sue superfluità, ne la tua sublime e gloriosa biblioteca lo possi licet indigne aggregare. E quantunque multe ragione da quello me avessero quasi retratto, e dissuasomi lo non intrar a tal lavore, pur novamente occurrendomi un vulgare esempio, quale non sono già multi anni passati che dadovero intervenne a la nostra salernitana cità, a ciò sequire m’ha confortato e spronato; e quello, primo che più ultra vada, de ricontare intendo.

          Dico adunque che nel tempo de la felice e illustra recordazione de la regina Margarita fu in questa nominata cità un ricchissimo mercatante genovese, de gran trafico e notivole per tutta Italia, il cui nome fu messere Guardo Salusgio, de assai onorevole fameglia ne la sua cità. Costui dunque passeggiando un dì davanti il suo banco posto in una strata chiamata la Drapparia, ove erano de multi altri banchi e bottege de argentieri e sartori, e in quello passeggiare gli venne veduto dinanzi ai pedi d’un povero sarto un ducato vineciano; il quale como che lutulente e pisto multo fusse, nondemeno il gran mercatante, como multo familiare de quella stampa, incontinente il cognobbe, e, senza indugio inclinatosi, ridendo disse:

          — Per mia fé, ecco un ducato!

          Lo misero sarto, che repezzava un giuppone per avere del pane, como ciò vide, vinto da venenosa invidia e, per la estrema povertà, da rabia con dolore, si revoltò verso il cielo con le pugne serrate e turbato multo, maledicendo la iusticia con la potenzia insieme di Dio, aggiungendo:

          — Ben si dice, oro ad oro curre, e la mala sorte da gli miseri non si move già mai. Io dolente, che tutto ogge me ho faticato e non ho guadagnato cinque tornesi, non trovo si non sassi che mi rompono le scarpe, e costui, che è signore d’un tesoro, ha trovato un ducato d’oro dinanzi li pedi mei, che ne ha quel bisogno che hanno gli morti de l’incenso.

          Il prudente e savio mercatante, che avea fra questo mezzo da l’argenteri che gli stava de rimpetto con fuoco ed altri argomenti fatto retornare il ducato a la pristina bellezza con piacevole viso si revoltò al povero sarto, e sì gli disse:

          — Buono uomo, tu hai torto rimaricarti de Dio, per accagione che Lui ha iustamente operato farmi trovar questo ducato, imperò che si ti fusse recapitato in tue mani, lo averisti alienato da te, e se pur lo avessi tenuto, lo averisti in qualche vili stracci posto, e sulo e a non proprio luoco lasciato stare; de che a me avverrà tutto il contrario, perché ’l ponerò con suoi pari, e in una grande e bella compagnia.

          E ciò ditto, se rivolse al suo banco, e buttollo a la sumità di multe migliara de fiorini che in quello erano.

          Dunque avendo, como de supra ho già ditto, de le disperse novelle composto il multo pisto e lutulente libretto, per tutte le già ditte ragione ho voluto a te, dignissima argentera e perottima cognoscitrice de questa stampa, mandarlo, acciò che cum gli tuoi facilissimi argomenti lo possi rembellire, e quello, devenuto bello, tra gli tuoi ornati ed elegantissimi libri abbia qualche minimo luoco. Quale a la loro decorazione ne adiungerà una altra maiore, perché, como vole il filosofo, le cose opposite insieme coniunte, con maiore luce se distingue la loro disaguaglianza. E ultre a ciò te supplico che, quando ti sarà concesso alcuno ocio, lo leggere de ditte mie novelle non te sia molesto, però che in esse troverai de multe facecie e giocose piacevolezze, che continuo nuovo piacere porgerti saranno accagione. E si per aventura tra gli ascoltanti fusse alcuno santesso seguace de’ ficti religiosi, de la scelerata vita e nefandi vicii de’ quali io intendo ne le prime dieci novelle alcuna cosellina trattarne, che mordendo me volesse lacerare, e dire ch’io como maledico e cum la venenosa lingua ho ditto male de’ servi de Iddio, ti piaccia per quello dal cominciato camino non desistere; però che supra tale lite sulo prego la Verità, ch’al bisogno l’arme prenda in mia difesa, e rendami testimonio che ciò non procede per dir male d’altrui, né per veruno odio privato o particulare ch’io con tal gente me abbia.

          Anzi, per non tacere il vero, ho voluto ad alcuno gran principe e ad altri mei singulari amici dare noticia de certi moderni e d’altri non multo antiqui travenuti casi, per li quali se potrà comprendere cum quanti diversi modi e viciose arti nel preterito gli sciocchi o vero non multo prodenti seculari siano da’ falsi religiosi stati ingannati, a tale che gli presenti faccia accorti, e gli futuri siano provisti che da sì vile e corrutta generazione non si facciano per lo inanzi sotto la fede de ficta bontà aviluppare. E ultra ciò cognoscendo io gli religiosi assai buone persone, me pare de necessità esser costretto in alcuna cosa imitare i costumi loro, e massime che la maior parte de essi, como hanno la cappa adosso, pare che loro sia permesso e secreto e publico dire male de’ seculari, aggiungendo che tutti siamo dannati, e altre bestiagine da esserne lapidati. E se fuorsi opporre volessero che, predicando, remordeno gli difetti de’ gattivi, io a questo facilmente respondo che, scrivendo, non parlo contra la vertù de’ buoni; e cossì senza inganno o vantaggio trapassaremo, e da pari morsi saremo tutti trafitti.

          Dunque andando dietro a loro orme, e con verità scrivere le sceleragine e guasta vita d’alcun de loro, niuno sel deve a noia recare. Nondemeno a coloro che hanno l’orecchie impiastrate de santa pasta, che non possono de’ religiosi udir male, ottimo e sulo remedio me pare che a ditta infirmità sia, che, senza leggere o ascoltare ditte mie novelle, andasseno con Dio, e sequendo la prattica de’ frati, ogne dì la cognosceranno più fruttuosa a l’anima e al corpo; i quali, essendo abundanti d’ogne carità, de continuo la comunicaranno con le loro brigate. E tu, valerosa e formosissima madonna, con la costumata umanità leggendovi, tra le multe spine troverai alcun fioretto, quale te sarà accagione talvolta farte ricordare del tuo minimo servo e ossequiosissimo Masuccio, quale de continuo a te si ricomanda, e gli Dii priega per lo augmento de tuo felice e secundo stato. Vale.

 

MASUCCIO

 

          Finito il breve e inetto esordio a la nominata tua serenità dirizzato, sequirò appresso le mie già promisse novelle o vero istorie; ne le quali prime dieci, como ho già ditto, se conteranno alcune detestande operazione de certi religiosi, tra le quale ve ne sono non sulo da generare ammirazione ma intrinseco dolore a li ascoltanti, e alcune non senza piacevole risa e festa saranno da trapassare. E fra le altre la prima a lo invitto e potentissimo re nostro signore è intitulata; quale finita, d’altre materie, e piacevoli e morali, e alcune pietose e lacrimevoli, intendo ricontare, sì como nel sequente ordene continuando si contiene.

 

NOVELLA I

 

ARGOMENTO

 

          Maestro Diego è portato morto da messere Roderico al suo convento; un altro frate, credendolo vivo, li dà con un sasso, e crede averlo morto; lui fuggesi con una cavalla, e per uno strano caso se incontra col morto a cavallo in uno stallone con la lancia a la resta; sequelo per tutta la cità; e il vivo è priso; confessa lui esser stato omicida; volsi iusticiare; il cavaliero manifesta il vero, e al frate è perdonata la non meritata morte.

 

A LO ECCELSO RE DON FERRANDO D’ARAGONA.

 

ESORDIO

 

          Tanti sono stati e tanti sono, eccelso e gloriosissimo re, gli periti poeti, gli eloquenti oratori e gli altri dignissimi scrittori, quali hanno scrivendo fabricato e de fabricare non desisteno, e in elegante prosa e in verso digno, e latino e materno, in laude, gloria e perpetua fama de tua serenissima maiestà, che mi persuado che ’l mio rusticano stile ti parrà appresso de quelli non altramente che la negra macchia in mezzo del candido armellino. Nondemeno, dignandose la tua altitudine con la solita umanità dirmi che multo gli averebbe piaciuto che per me fusse dato memorevole scrittura a la digna istoria soccessa nel regno di Castiglia tra ’l cavaliero e ’l fra minore, ho voluto più presto, ottemperando a tanto volere, errando scrivere, che in alcun modo a’ tuoi ossequii, tacendo, non satisfare. Per la cui accagione, e non per veruna temerità, ho pure proposto volere nel travagliato laberinto intrare, e fare presuntuose le mie non digne littere de esser già lette da tanto re. Quale con quella umilità che in me si rechiede, supplico gli piaccia cum piacere prenderle; e quelle, quando ti sarà da l’altre occupazione concesso, insieme cum tuoi magnifici creati e strenui alunni de leggerle non te sia noioso. Però che ultre che la istoria è già in sé notivole, vi troverai dentro alcune piacevolezze e digni gesti de’ religiosi; quali non dubito ti saranno accagione de continuo far la tua divozione verso de loro accrescere ed augumentare, sì como se spetta a sì alta maiestà. A li piedi e bona merzè de quale il tuo fidelissimo Masuccio se ricomanda, e supplica che per te non sia posto al numero de gli obliti. Vale.

 

narrazione

 

          Dico adunque, piissimo re, che nel tempo de la felice e illustrata recordazione del signor re don Ferrando d’Aragona, tuo dignissimo avolo, quale il governo del regno de Castiglia con tranquilla protezione reggea, fu in Salamanca, cità antiqua e nobilissima del ditto regno, un fra minore conventuale, nominato maestro Diego da Revalo; il quale essendo non meno sofficiente ne la dottrina tomista che ne la loro scotica, meritoe d’essere al numero de gli altri eletto e ordenato con non piccolo salario a leggere ne le digne scole del famosissimo studio de la ditta cità; ed in quello con mirabile fama facea la sua scienza nota per tutto il regno, e anche talvolta facea alcune più utile e necessarie che divote predichette. Ed essendo giovene e assai bello, tutto legiadro e sottoposto all’amorose fiamme, accadde che un dì predicando gli venne veduta una giovenetta de maravigliosa bellezza, il cui nome fu donna Caterina, muglie d’un de’ principali cavalieri de la cità, per nome ditto messere Roderico d’Angiaia; quale dal maestro veduta, e a la prima vista multo piaciutali, il signore Amore cum le imagine de quella insiemi gli donò l’amorosa percossa al suo già contaminato core. E dal pergolo disceso, se ne andò in cella, e buttate da un canto tutte le teologiche ragione e sofistici argomenti, tutto se diede al pensare de la piaciuta giovene. E como che lui cognoscesse l’altezza de la donna, e de cui era muglie, e che matta impresa prenderebbe, e multe volte a se medesmo persuaso de non intrare in quella trama, pur con seco talvolta dicea: “Amore, ove vuole sue forze adoperare, non cerca mai parità de sangue; ché si ciò si rechiedesse, li gran principi non cercarebbeno ad ogne ora corsiggiare a’ nostri liti. Dunque quel medesmo privilegio deve aver Amore a nui concesso ad amare altamente, che a loro inclinarsi a vili luochi. Queste ferite che Amore porge, niuno le receve con antiveduto pensiero, si non a la improvista; però se disarmato me ha esso signor trovato, agli cui colpi non vale fare alcuna difesa, io, non possendo risistere, meritamente son vinto; e como a suo suggetto, avvengane quel che vuole, intrarò a la fiera battaglia. E se morte se ne deve recevere, ultre ch’io uscirò de pene, almeno dal canto di là andarà lo spirito mio con baldanzoso fronte, che in sì alto luoco avea i suoi artigli collocati”.

          E cossì ditto senza retornare agli primi negativi argomenti, prisa la carta, e con multi profundi suspiri e calde lacrime una acconcia ed elegante littera scrisse a l’amata donna, laudando prima le sue più divine che mortale bellezze; appresso como egli era in tal modo da quelle priso, che o la gracia sua o morte ne aspettava; ed ultimamente, como che lui per la sua altezza cognoscesse non meritare essergli dato luoco de udienza, pur pietosamente la pregava si dignasse concedergli tempo e modo de gli aver possuto secreto parlare, o almeno lo accettasse per suo servitore, como esso avea eletta lei per unica donna de la vita sua. E con multe altre ornate parole fatta fine, e quella serrata e più volte basciata, la diede ad un suo cherichetto, e gli disse a cui portare la dovea.

          Il quale, essendo bene amaestrato intorno a sì fatti servicii, se occultò la littera ad un secreto luoco, qual sogliono portare sotto la sinistra, e andò via ove gli era stato imposto. E gionto in casa, trovò la gentile giovene con multe de sue femene dintorno, e acconciamente salutatala, gli disse:

          — Il mio maestro vi si ricomanda, e priega che gli donate un poco de delicata farina per ostie, sì como in questa letterina più per longo si contiene.

          La donna che discretissima era, vista la littera, gli parve esser certa de ciò che in effetto volea dire; e prisala, e de quella letto il tenore, ancora che onestissima fusse, non gli dispiacque che colui l’amasse, estimandose supra ogn’altra bella. Leggendo, tutta godeva per lo sentire le sue bellezze sì altamente lodare, sì como colei che avea col peccato originale insiemi contratta la innata passione, che hanno già tutto lo resto del sesso femineo; quale universalmente tengono che tutta la loro fama, onore e gloria non consista in altro, si non ad essere amate, vaghiggiate e de bellezza esaltate, e vorrebbono più presto esser tenute belle e viciose, che vertuosissime e brutte reputate. Nientedemeno costei, avendo tutti gli frati fieramente e con ragione in odio, se diliberò de non sulo al maestro in niuno atto compiacere, ma anco de resposta non essergli cortese. E con questo anco concluse per quella volta non dirne nulla al suo marito. E in su tal conclusione firmatasi, e volta al fraticello, e senza punto turbata mostrarsi, gli disse:

          — Dirai al tuo maestro che ’l signore de la mia farina la vuole tutta per lui, e per ciò pensi de procacciarne altrove, e che a la littera non bisogna fare altra resposta; ma se pur la disidera, me ne doni avviso, ché, como torna in casa il mio messere, gli la farò far tal quale a la sua preposta se rechiede.

          Il maestro, recevuta la rigida resposta, per quella non gli scemò niente l’ardore, anzi il suo amore col disio insiemi in maior fiamme ne accrebbe; e per non retrarsi punto de la cominciata impresa, essendo la casa de la donna al convento multo da presso, ricominciò con tanta importunità a vaghiggiarla, che lei non possea a finestra farsi, né a chiesa né ad altro luoco fuor de casa andare, che ’l stimoloso maestro non gli fusse continuo dintorno. De che avvenne che de ciò si erano accorti non sulo quelli de la loro contrata, ma anco a gran parte de la cità era a noticia pervenuto. Per la cui accagione lei medesma si persuase tal cosa non essere da più tacerla al suo marito, dubitando che se d’altri lo avesse sentito, ultre il pericolo, ne l’averebbe auta meno che onesta donna. E a tal pensiero accordatase, una notte, stando col marito, tutto ’l fatto puntalmente gli racontò. Il cavaliero, che onorato e animoso era multo, fu de tanta fiera ira acceso, che poco si tenne che in quella ora non andasse a porre a ferro e fuoco il convento e tutti i frati. Ma pur alquanto temperatosi, dopo che con multe parole ebbe la onestà de la muglie commendata, li impuose che al maestro promettesse, e che la sequente notte il facesse venire a casa per quello modo che a lei meglior paresse, acciò che ad una ora si potesse a lo onore suo satisfare, e non farsi contaminare la sua cara amata donna; e del resto lassasse il pensiero a lui. Como che a la donna duro gli fusse, pensando a che dovea il fatto reuscire, pur, per ottemperare al volere del suo marito, disse de farlo; e tornando de continuo il fraticello con nuove arti a zappare su le dure pietre, disse:

          — Raccomandami al tuo maestro, e digli che ’l multo amore che mi porta, insiemi con le calde lacrime, quale me scrive che de continuo per me sparge, hanno già trovato luoco al mio core, per modo ch’io sono devenuta assai più sua che non son mia. E como ha voluto la nostra lieta sorte che pur ogge messere Roderico è andato in villa e ivi starà questa notte ad albergo; e però, sonate le tre ore, secretamente a me se ne vegna, che gli darò a suo modo udienza; e tuttavia il prega che con veruno amico o compagno, per intimo che lui abbia, de ciò non si fidi.

          Il monachino, lieto a maraviglia, si partì, e fatta la graziosa imbasciata al suo maestro, fu il più contento omo che fusse giamai, milli anni parendoli che ’l curto dato termene se approssimasse. Quale venuto, e lui multo bene perfumatosi, che non desse del fratino, e pensando che ’l palio avea per buona lena caminando a guadagnare, de ottime e delicate confezione furono in quella volta le sue biade. E prisi suo’ soliti arnesi, a la porta de la donna se condusse; e quella trovato aperta, intrò dentro, e da una fanticella al buio como cieco fu condutto in sala, ove credendosi trovar la donna che lietamente il recevesse, per iscambio de quella trovò lo cavaliere con un fido fameglio; e a salva mano prisolo, e senza fare alcun rumore lo strangolorno.

          Morto maestro Diego, il cavaliero dopo il fatto alquanto pentito per aver le sue possente braccia con la morte de un fra minore contaminate, e vedendo che ’l pentire al remediare non giovava, pensò per suo onore, e anco per dubio de l’ira del re, cossì morto cavarlo de casa. E nel pensiero gli occurse de portarlo dentro del suo convento, e postolo in spalla del suo fameglio, a l’orto de’ frati se condussero; e da quindi facilmente nel luoco intrati, il portarno in quelle parte ove gli frati andano a loro destro; e per aventura non trovandosi altro che una seggia acconcia, per l’altre che erano ruinate (però che, como de continuo vedemo, la maior parte de’ luochi de’ conventuali pareno più presto spelunche de latri che abitaculi de servi de Dio), in quell’una il posero sentato, non altramente che como facesse il suo destro, e quivi lo lasciarno. E retornatisi a casa, stando in tal modo messere il maestro, che dadovero parea che scaturisse il superfluo del corpo, avvenne che ad un altro frate giovene e gagliardo in su la mezza notte gli venne soverchia voluntà de andare a ditto luoco, per fare sua oportunità naturale. E acceso un picciolo lume, se ne andò ratto al proprio luoco, ov’era maestro Diego morto sentato; qual da lui recognosciuto, e credendolo vivo, senza fargli mutto se tirò indietro, per accagione che tra loro era, per alcune invidie e odiosità fratesche, mortale e fiera inimistà. E cossì da un canto aspettando fin che lo maestro, secundo il suo credere, fornisse quello che anche lui intendea già de fare, e avendo in su tal diliberazione pur assai aspettato, e non vedendo il maestro moverse, e lui da la necessità del fatto tirato, con seco più volte disse: “In fé de Dio, costui non per altro rispetto sta fermo e non mi vuole dar luoco, si non per demostrarmi insino a questo atto la sua inimistà e prava intenzione che ha meco; ma ciò gli verrà fallito, perché io soffrirò quanto potroe, e s’io vedo starlo a la sua ostinazione fermo, quantunque in altra parte andar potesse, nel farò togliere ancora che non voglia”.

          Il maestro, che in duro scoglio avea già firmate l’ancore, né poco né multo si movea; e il frate non possendo più durare, con rabia disse:

          — Dunque, non piaccia a Dio che tu mi debbi fare cotale onta, e io non me ne possa valere.

          E tolto un gran sasso, e fattoglisi presso, gli donò una tal percossa nel petto, che lo fe’ cascare indietro, senza però movere alcun membro de sua persona.

          Il frate, vedendo prima la fiera botta, e dopo colui anche non levarsi, dubitò col sasso averlo già morto; e avendo alquanto atteso, e credendo e non credendo, a la fine pur gli se accostò, e col lume tutto guatatolo, e cognosciuto de certo esser morto, como già era, ebbe per fermo averlo ucciso lui nel modo ditto. E dolente a morte, dubitando che per loro inimicicie de botto sarebbe sospettato in lui, e per quello andarne la vita, se diliberò più volte andare e lui medesmo appiccarsi per la gola. Ma meglio supra de ciò pensando, prepuose portarlo fuora del convento e buttarlo in la strata, per toglier da sé ogne futuro suspetto che altri per l’accagione già ditta avere potesse. E volendo de ciò esequire l’effetto, gli venne in la mente il publico e inonesto vaghiggiare che ’l maestro de continuo facea a donna Caterina e fra sé disse: “Ove lo potrò portare più facilmente e con meno suspettarsi de me, che dinanzi a l’uschio de messer Roderico, sì perché è vicino, e ancora che del certo sarà creduto che, costui andando a la muglie, lui l’abbia fatto uccidere?”.

          E cossì ditto, senza mutar altramente consiglio, con gran fatica postoselo in spalla, lo portò dinanzi a ditto uschio, unde poche ore davanti pur per morto n’era stato tratto; e quivi lasciato senza esser stato d’alcuno sentito, se ne retornò in convento.

          E ancora che ’l fatto reparo gli paresse bastevole a la sua salute, nondemeno pensò per alcun dì con colorata accagione assentarsi da qui; e fatto il pensiero, se ne andò in quella otta in cella del guardiano, e sì gli disse:

          — Patre, l’altro eri, per mancamento de bestia da soma, io lassai la maior parte de la nostra fatta cerca a Medina in casa de un nostro divoto; però vorrei con vostra benedizione andare per essa, e menare la cavalla del convento, e col volere de Dio tornare domane o l’altro.

          Lo guardiano non sulo gli donò licenzia, ma il commendò multo del suo provedimento. Il frate, avuta la resposta, rassettate sue coselline e posta in ordene la cavalla, aspettava l’aurora per partirsi. Messer Roderico, che la notte avia poco o niente dormito, dubitando pur del fatto, essendo omai vicino al dì, prise per partito de mandare il suo fameglio dintorno al convento, e ascoltare se i frati aveano il maestro morto trovato, e quello che de ciò ne dicessero. Il fameglio, uscendo fora per fornire quello che gli era stato impuosto, trovò maestro Diego assettato dinanzi a l’uschio, che parea che tenesse una disputa; al quale donòli non piccolo spavento, sì como i corpi morti sogliono donare. E retornatosi indietro, chiamò ratto il suo signore, e con fatica possendoli parlare, gli mostrò il morto corpo del maestro essere stato ivi reportato. Il cavaliero se maravigliò forte de tale accidente, e de maiore dubitanza gli donò accagione. Nondemeno, raconfortato da la iusta impresa quale se credea avere, con buono animo prepuose voler aspettare a che dovea il fatto reuscire, e revolto al morto, disse:

          — Dunque tu dibbi esser lo stimolo de la casa mia, da la quale né vivo né morto te ho possuto cavare. Ma per dispetto de colui che te ha qui condutto, tu non averai modo di retornare, si non supra una bestia, como fusti già tu al mondo.

          E ciò ditto, impuose al fameglio che da la stalla de un suo vicino gli menasse uno stallone, quale il patrone tenea per lo bisogno de le cavalle e somere de la cità, e ivi stava a mo’ de l’asina de Ierusalem. Il fameglio andò prestissimo, e menògli lo stallone con sella e briglia e ogn’altra cosa oportuna bene acconcia. E como il cavaliero avea già diliberato, vi puosero il ditto corpo morto a cavallo, e impontellato e ligatolo multo bene, li acconciarono una lancia a la resta con la briglia in mano, in modo como lo volessero mandare a la battaglia; e cossì postolo in ordene, lo menarno dinanzi la porta de la chiesa de’ frati, e ivi ligatolo, se ’nde retornarno a casa.

          Il frate, parendogli ora de dovere intrare al suo preposto camino, aperta primo la porta del luoco, e poi in su la cavalla montato, si cavò fuora, e trovandosi il maestro dinanzi nel modo già ditto, che dadovero parea con la lancia gli menacciasse donargli morte, subito fu de tanta paura territo, che portò periculo de cascare morto, supra de ciò occurrendoli un fiero e dubioso pensiero, cioè che ’l spirito de colui gli fusse nel corpo rientrato, e fosseli dato per pena de sequirlo per ogne luoco, secundo la opinione d’alcuni sciocchi. E mentre che cossì abbagliato e pauroso stava, né sapendo qual camino prendere si dovesse, al stallone venne odore de la cavalla, e cavata fuori la sua mazza ferrata, nitrendo, a la cavalla accostar si volea; quali atti donavano al frate maior timore. Nondemeno in sé tornando, e volendo menare la cavalla al suo camino, quale, girando la poppa verso il stallone, cominciò a trarre de calci, il frate, che non era il miglior cavalcatore del mundo, fu presso che cascato; e, per non aspettare la secunda botta, strense le gambe forte, premendo i speroni ai fianchi e appicciatosi con ambedui le mani a l’imbasto, lassata la briglia, commise la bestia ad arbitrio de fortuna; quale, sentendose gli speroni fermi premere a’ fianchi, fu costretta a correr tempo senza timone, e andare per quella via che prima dinanzi gli venne.

          Il stallone, veduta da sé partir la preda, con rabia rotto il debole ligame, cominciò fieramente a sequirla. Il poveretto frate, sentendosi il suo nimico dietro, e voltato il capo, il vide supra la lancia chiuso che parea un fiero giustratore, e con la secunda paura cacciò la prima, e tuttavia fuggendo cominciò a gridare: “Aiuto! Aiuto!”.

          Alle gride del qual e al rumore de gli sfrenati destrieri, essendo omai dì chiaro, ognuno si facea per le fenestre e per le porte, e ciascuno parea con maraviglia che scoppiassero de gran risa, vedendo sì nuova e strana caccia de’ dui frati minori a cavallo, che l’uno non parea men de l’altro morto. La cavalla senza guida or là or qua per le strate discorrendo andava, ove più commodo gli veniva; dietro la quale lo stallone per rabiosamente sequitarla non restava; e se più volte fu il frate vicino ad esser cum la lancia ferito non è da domandarne.

          La calca grande andava de continuo costoro sequendo con gridi, cifolare e urlare; e in ogne luoco gridandosi: “Para! Piglia!”, e cui loro sassi traendo, e quali con bastoni lo stallone percoteano, e ciascuno da la impresa seperarli se ingegnava, non tanto per carità de’ fuggenti, quanto per disio de cognoscere cui fusser coloro, quali per lo ratto correre raffigurar non si possiano. E cossì travagliando, per fortuna a l’una porta de la cità se condussero; in la quale stretti, furono il morto e ’l vivo insiemi prisi; e con grandissima ammirazione de ciascuno ricognosciuti, furono tutti dui cossì a cavallo menati in convento, e da lo guardiano e da’ frati con dolore inestimabile recevuti. Fereno il morto sepellire, e al vivo de donare la corda apparicchiare; quale, essendo ligato, per non volere il tormento recevere, confessò de piano averlo lui morto per l’accagione de supra ricontata; vero che lui non possea estimare cui avesse il morto maestro in tal modo a cavallo misso. Per la quale confessione non gli fu data la corda, ma in uno fiero carcere posto, e mandato subito per lo ministro, per farlo dal vescovo de la cità dagli ordeni sacri deporre ed al potestà seculare presentarlo, che per omicida il iusticiasse como le leggi comandavano.

          Era per aventura in quei dì venuto in Salamanca il re Ferrando, al qual essendo ricontata la istoria, ancora che continentissimo principe fusse stato, e multo del successo caso se condolesse e morte d’un sì notivole maestro, nondemeno de la piacevolezza del fatto vinto, con suoi baroni sì forte ne ridia, che non si possea in piedi tenere. E venuto il dato termene che proceder si dovea a la iniusta condennazione del frate, messere Roderico, che vertuosissimo cavaliero era e multo dal re favorito, stimulato dal zelo de la verità, parendoli che ’l suo tacere sarebbe stato unica accagione de tanta iniusticia, se diliberò prima bisognando morire, che ’l vero circa tal fatto occultare; ed essendo dinanzi al re, ov’erano più baroni e populi radunati, disse:

          — Signor mio, la rigida e non iusta sentencia a l’innocente minore data insiemi con la verità del fatto me inducono a decidere la questione d’un tale accidente. E però se vostra maiestà vole perdonare a colui che iustamente abbia il maestro Diego ucciso, io il farò qui de presente venire, e con approbata verità racontare sì como il fatto particularmente è successo.

          Il re, che clementissimo signore era, e disideroso intender il vero, fu multo liberale del chiesto perdono; quale avuto, il cavaliero nel cospetto del re e d’ogn’altro circustante dal principio de l’innamoramento del maestro verso la sua donna, e tutte le littere e imbassate per lui mandate, e ogne altra cossa per lui adoperata insino a quell’ultima ora, puntalmente ricontoe.

          Il re, avendo prima la testificazione del frate già sentita, e parendoli a quella in gran parte esser conforme, e tenendo messere Roderico per integro e buono cavaliero, senza altro esamino gli diede a tutto indubia fede; pur con ammirazione e con pena, e talvolta con oneste risa, considerava la qualità del travagliato e strano caso. Tuttavia per non consentire che ’l non dovuto condanno de l’innocenti frate si mandasse ad effetto, si fe’ venire il guardiano e con lui insiemi il povero frate; a’ quali il re, in presenzia de’ suoi baroni e d’altri nobili e populi, manifestoe como era da vero tutto il fatto sequito; per la cui accagione comandò che ’l frate a supplicio de cruda morte condennato non fusse, ma incontinente in libertà posto. De che essendo cossì fatto, con la fama restituita, letissimo a casa se ne tornoe. Messere Roderico insiemi con lo avuto perdono fu con mirabile lode commendato de quanto intorno a tal fatto adoperato avea. E cossì la novella maravigliosa in brevissimi dì con veloce fama e gran piacere per tutto il castigliano regno fu divulgata; e dopo essendo in le nostre italice parte pervenuta, e a te, potentissimo re nostro signore, con breve eloquio racontata, m’è già piaciuto, per ossequire a’ tuoi comandamenti, farla digna de eterna memoria, sì como ne la sua fronte particularmente si demostra.

 

MASUCCIO

 

          La qualità e maniera degli estranei e nuovi e impensati casi de la racontata novella, illustrissima mia madonna, non dubito che dopo le avute risa saranno a te e agli ascoltanti accagione fargli dire che ’l nostro maestro Diego fusse stato dignamente guidardonato del suo fervente amore. E ultre a ciò me pare esser certo che alcuni diranno che si lui fusse stato frate spirituale ovvero osservante, non averebbe atteso a sì fatte e disordenate lascività, e per quelle consequitane la oscura morte. E quantunque in altra parte de questa mia operetta a questi tali becconi, e proponendo e respondendo, satisfaremo, distinguendo la vita e operazione de’ conventuali e de’ osservanti, nondemeno me occorre a tal proposito alquanto brevemente toccarne, dicendo che indubitatamente starebbe meglio tutto il cristianesimo, si non avessimo altra religione de quella che Cristo ne lassò in terra per mezzo del glorioso apostolo san Petro; e como che quella anco in parte sia corrotta, pure gli ministri de essa, e anco quilli frati che conventuali sono chiamati, ce demostrano chiaramente como e quale ne dovemo da loro guardare, per ciò che tutte loro apparenze, e nel vestire e ne l’andare e in ogn’altra loro operazione, non sono altro che spaventevoli voci e cridi che dicono: “Non vi fidate de nui!”. Per la qual accagione quanto costoro siano non sulo da non biasmare ma più tosto da commendare, che non vogliano col collo torto, mal vestiti e sotto ipocrita vista ingannare altri, ciascuno che ha fiore de intelletto ne può vero iudicio donare.

          Ma se a tutti coloro che hanno la mente lupina, ed a nui se demostrano coverti de pelle de mansueti agnelli, avvenisse ciò che al nominato maestro intervenne, non dubito se guardarebbono de venire ad ogne ora a contaminare le nostre brigate. Quanto Idio provede al puoco senno de’ sciocchi seculari, che non si sanno accorgere de la moltitudine de’ ficti religiosi, che hanno robata l’arte ai cerretani, e vanno discorrendo i regni e gli paesi con nuove maniere de inganni, poltronizzando, robando e lussuriando! E quando ogne arte a loro vien meno, si fingono santi e mostrano far miraculi: e cui va con tonicelle de san Vincenzo, e quali con l’ordene de san Bernardino, e tali col capestro de l’asino del Capistrano, e con milli altri diabolici modi ce usurpano le facultà e lo onore. E como che tali loro operazione rimbombeno e siano ventilate per tutto l’universo, nondemeno ne la sequente novella, al serenissimo principe tuo dignissimo consorte intitulata, intenderai una singularissima beffa sotto nome de santità per un diabolico frate dominichino in persona de una illustrissima donna alamanna adoperata. Da la conclusione de la quale potremo pigliare argomento che le loro secure, quanto più sono erti ed eminenti gli arbori, tanto con maiore baldanza e temerità hanno in quelli vigore e ingegnanosi mandarli giù a terra, como ti sarà demostrato.

 

NOVELLA II

 

argomento

 

          Un frate dominichino dà ad intendere a madonna Barbara che conciperà de un iusto e farà lo quinto evangelista, e con tale inganno la ingravida; dopo, sotto altra fraude si fugge e il fatto si scuopre; il patre bassamente marita la Barbara.

 

A LO SERENISSIMO PRINCIPE ALFONSO D’ARAGONA

DIGNISSIMO DUCA DE CALABRIA.

 

ESORDIO

 

          Sono alquanti, serenissimo signor mio, che volendo voltizzare supra ’l senno e la integrità, ed estimando mostrarosi a’ vulgari buoni e de vertù ornati, lo loro conversare fanno de continuo con religiosi, e si da multi veduti sono, sputando paternostri si pascono de piedi de santi. Quanto coloro che ciò adoprano siano de nefandi peccati e scelestissimi vicii macchiati, quelli che con tali vengono a strette prattiche, vero testimonio rendere me ne possono. Da questi tali dissimulatori sono io de continuo soffiato, morso e lacerato; per accagione che dicono ch’io ho dirizzata la penna e la lingua, che non pare che d’altro sappia ragionare o scrivere si non contra de’ frati; quali affirmano la maior parte esser osservanti de loro regule, e se alcuno scelerato ce ne fusse, il numero de’ buoni perfidiano che è infinito. E como che dagli già ditti ipocriti murmuratori io non vorrei esser lodato, nondemeno basti loro per eterna resposta, che le manifeste sceleragine ogne dì adoperate universalmente per li malvagi religiosi, e con nova arte e con diversi ingegni, approvano de continuo la mia verità. E da coloro, che sono del vero e de la onestà amici e cognoscitori, sarà il mio dire cum perpetue laude commendato.

          Occorreme dunque, graciosissimo signor mio, a tal proposito dire che, quantunque più facilmente tra cento soldati se ne trovarebbono la metà buoni, che tra tutto un capitulo de frati ne fusse uno senza bruttissima macchia, nondemeno, quando ben fusse il numero de’ buoni maior che de’ gattivi, ne sequirebbe non minore inconveniente: sì como avviene ne le perigliose battaglie, ne le quale assai maior detrimento rende un vile codardo che non fanno utile dieci animosi, non altramente avverrebbe a’ miseri seculari, quali più che non fa bisogno a loro falsità prestano fede; ché più roina, vergogna e danno ce porgerìa la prattica e conversazione de uno sceleste occulto e ribaldo frate, che da la perfezione de cento buoni ne traessimo commodità alcuna. Contra i quali non me pare per loro digno ed eterno gastigo che sia altro da dire, si non che Idio possa presto destruere il purgatorio, a tal che, non possendo de elimosina vivere, andassero a la zappa, unde la maior parte de loro hanno già contratta la origine. Tuttavia voglio in questa mia verissima istoria, a te, mio dio terreno, dirizzata, alquanto ritraerme de loro generalità offendere; ma a particulare persona discendendo, ti mostrarò como un frate predicatore, multo singulare tra’ dominichini estimato, con una singularissima beffa pigliasse fra’ suoi volpini lacci una de le più illustre donne de tutta la Magna. Vale.

 

narrazione

 

          Racontasi dunque con approbata verità como negli prossimi passati anni fo ne la Magna un gran signore, il duca de Lanzhuet nominato, de stato ricchissimo, de gioie e de contanti ultre ogn’altro barone alamanno.

          A questo la fortuna concesse una sula figliola, Barbara nominata; e como, per essere unica, fusse stata dal patre unicamente amata, cossì le sue bellezze uniche erano per tutta la Magna esistimate. Costei essendo in puerile età, ispirata fuorsi da Spirito Santo o talvolta mossa da fanciullesco più che da ordenato appetito, con solenne voto promise osservar castità tutto il suo vivente; e cossì la sua virginità a Cristo dedicata, tutta ornata de vertù e laudevoli costumi, che altro ch’una santolina a veder non parea, pervenne agli anni de marito. E sentendo essere da più baroni con grandissima istanzia al patre per muglie domandata, gli parve de necessità essere costretta tal sua disposizione manifestare; e con acconcia manera al patre e matre palesatola, da tutti dui tal nuova fu agramente e con ragione tollerata; e quantunque e con minacce e con losinghe se ingegnassero retrarla da la ostinata impresa, pur, cognoscendo del tutto lei disposta sequire tal cominciato camino, con dolore non mai simile gostato prepuosero daresene pace e ponere tal cosa a beneficio de natura. La Barbara, palesato il suo volere, fatto in la sua camera un divotissimo oraculo, non sulo era quasi continua a la orazione, ma con digiuni e discipline il suo dilicatissimo corpo macerava, che mirabile cosa era a considerare.

          La fama de tante santimonie era già per tutta la Magna, e alta e bassa, e anche in le nostre italice parte pervenuta; per la qual accagione de infiniti religiosi e d’ogne sorte in brevissimo tempo dintorno a la cità del ditto duca se retrovarno, con diverse accagione loro andata colorando. Non altramente i vulturi e’ famellici lupi correno dietro a le puzzolente cadavere, che faciano costoro, per avere in preda lo onore con le facultà insiemi de tanto eccelsa e singular madonna. Fra’ quali vi fu un poltrone frate, il nome del quale, o ch’io nol sappia, o ch’io nol voglia divulgare, o che fusse stato italico o todesco, per alcuna onesta accagione intendo tacerlo. Costui dunque, essendo ne l’ordene de san Dominico solenne predicatore reputato, con grandissima arte da cerretano, col manico del coltello che amazzò san Pietro martiro e con altre coselline del loro san Vincenzo andando e per lo alamanno barbaro paese discorrendo, secundo il parere de multi becconi de infiniti miraculi facea.

          E pervenuta la sua fama a noticia de madonna Barbara, secundo il disio e suo antiveduto fine, volunterosa de vederlo, mandò per lui, quale con le sue solite cerimonie subito vi andò. Ove dopo che la donna como santo lo ebbe recevuto e onorato, li fe’ nota la sua incommutabile intenzione, chiedendogli de gracia gli dovesse donare consiglio e finalmente aiuto per la salute de l’anima sua. Il frate, ben considerate le sue più divine che umane bellezze, essendo anche lui giovene e robusto, subitamente de lei s’innamorò, e per manera che da ora in ora si sentia sì da la concupiscenzia assaglire, che puoco vi volse a venirgli dinanzi al suo cospetto meno. Pur in sé tornato, con assai ornate parole il suo santo proposito mirabilissimamente commendoe, laudando sempre e benedicendo la divina Provvidenzia, che da questo ingannevole mundo avea eletta sì digna virginella: persuadendoli, anche dinanzi a’ suoi parenti, che tal sua perfetta disposizione avesse non sulo a lei fatto profetto, ma ancora ad altre donne e presenti e future; e per accagione che la conversazione de’ mundani era periculosa, la confortò dovesse con alcun’altre vergine donne dal mundo seperarsi, intrando sotto qualche religione, a tal che lei fusse causa fare un altro coro de vergine in terra e a Cristo Iesù disponsate. Ove dopo li multi ragionamenti avuti con lei, e col duca e sua muglie, parendo finalmente a tutti il consiglio ottimo e santo e supra vere ragione fundato, e anche per consolazione de la Barbara, ferono in brevissimo tempo costruere un magno e suntuoso monasterio, e quello, como il frate volse, a la beata Caterina da Sena intitularno, a tal che l’imperio non venisse ad essere da aliena mano posseduto. Quivi con la Barbara insiemi una gran caterva de figliole de nobili parenti se rinchiusero; dove, con gli ordeni e modi del ditto frate, a fare una santa e perfetta regola incominciarono, e in tal manera, che altro che Idio, unico cognoscitore de gli occulti cori, averebbe possuto investigare che de la contaminata anima d’un tal ribaldo ne avesse il gran diavolo la corporale possessione già prisa.

          Costui, per sentire ogne intrinseca cogitazione de quelle virginelle, continuamente a tutte persuadeva che, ad effugare le tentazione de l’inimico de Dio, non vi cognoscea più salutifero e proprio remedio che continuo recorrere a la santa confessione; quale adoperando, senza accorgesi nulla de tanta ascosa malignità, aveano fatto un rapace lupo signore di loro digno gregge. Quale cognoscendo averle a suo modo adescate, gli parve tempo mandare ad esecuzione il suo libidinoso e nefando disiderio; e una sera al tardo, avuto per cauta via un libretto de la Barbara, ove certe divotissime orazione erano scritte, con alcune figure de santi, tra’ quale era lo Spirito Santo, dritto a la cui bocca fece in littere d’oro le sequente parole: “Barbara, tu conciperai del iusto e farai il quinto evangelista, che supplirà a quello che gli altri mancarno; restarai incorrutta, e beata sarai nel cospetto de Dio”. E ciò fatto, serrò il libro, e la matina per tempo il pose unde la sera l’avea già tolto; e de la simile continenzia ordenò multe altre carticelle de fine azzurro in littere d’oro scritte, e quelle conservate, aspettava operarle al suo bisogno.

          La Barbara, a le solite ore in cella venutasene per dire sue costumate orazione, e, volgendo la carta ove era il suo divotissimo Spirito Santo, veduta la qualità de la nuova scrittura, tutta d’un tale accidente sbigottì. Dopo, alquanto rasicurata, letto il tenore del doloso annuncio, de maraviglia, confusione ed angoscia li donò non piccola accagione; e tornata a releggere, tuttavia più leggendo si travagliava, anzi se confundea nel suo giovenili femineo e non contaminato core. E cossì ammirata, da la incepta orazione toltase, rattissima al patre spirituale se n’andoe; quale da canto tirato, da fanciullesco timore superata e vinta, lagrimando gli mostrò il libro con la indorata scrittura. E quella subito dal frate vista, tutto stupefatto mostrandosi, fattosi il signo de la croce, in tal forma gli parloe:

          — Figliola mia, io iudico questa esser diabolica tentazione e fraude del dimonio infernale, quale, mal contento de tanto vostro perfetto stato, cerca ponervi gli suoi pericolosi lacciuoli dinanzi, per farvi ad eterna perdizione precipitare. Per tanto te ammonisco da parte de Dio e de santa obedienzia, che tu né a questo né a cose simili per alcun tempo debbi mai prestar fede: nondemeno assai commendo lo avermelo palesato, e cossì farai de continuo per lo inanzi, e ti persuado e per penitenzia impongo, a tal che sì fatte insidie supra de te non abbiano a dormire senza lo approbato remedio de la santa confessione. Dunque, ben forte e costante a la battaglia starai del maledetto inimico de Dio, a ciò che a l’ultimo sia doppia la palma de la tua vittoria, però che la vertù ne la infirmità se fa perfetta.

          E con queste e altre assai simile e sante parole la lasciò alquanto quetata de la sua ordenata barattaria. E da lei partitosi, como davanti avia già proposto, chiamato a sé un suo cherichetto, fe’ quello occultare dentro la intemplatura de la camera de la donna, e gli donò alquante de ditte carticelle, ordenandogli como e quando buttar le dovea. La gentil giovane, in camera intratasene ed in orazione postasi, a Dio supplicando con umili core gli donasse noticia d’un tale accidente, subito si sentì cascare in grembo una de ditte cartoline; quale prisa e letta, vedutala sì bene ornata e con simili parole confirmare la incarnazione del nuovo evangelista, tutta a tremare subito incomincioe; e priso per partito levarsi, e veduta cascare la secunda e la terza, e, prima che da quindi si partisse, cascarne infine a dieci, con grandissimo timore uscissene fuore e chiamato il frate, gli mostrò tutta ismorta le preditte cartucce. Il venerabile lupo, fatto vista de tutto stupire, disse:

          — Figliola mia, queste sono pur cose da donare grandissima ammirazione, e da non trapassarle senza maturo consiglio, imperò che cossì potrebbe esser divina ispirazione como il contrario. Adunque, non mi pare che facilmente corriamo a credere, né ancora dovemo stare al primo nostro proposito ostinati; ma più tosto abbiamo recurso a la santa orazione, e tu da un canto e io da l’altro supplicaremo a Dio, che per sua bontà summa e infinita se digni manifestarne se questa revelazione è buona o rea, e se la dovemo sequire o fuggire. Ultre a questo, domane in la tua camera celebrar intendo, dove col ligno de la vera Croce, e con altre reliquie oportune da effugare ogne diabolica operazione, vederemo quello che esso onnipotente Signore ne demostrarà.

          A la Barbara parve che li dati consigli fussero tutti santi e da esequirli; e però respuose multo piacergli che cossì se facesse.

          Venuto adunque il nuovo giorno, levatosi il frate per tempo, e poste sue artegliarie per sacrificare a Satanas tutte in ordene, dato prima il signo al fraticello che al solito luoco se ne andasse, lui in camera de la donna intratosene, e da lei divotamente recevuto, con ficta divozione a celebrar la missa incomincioe; e dal principio insino al fine mai il ditto cherichetto se arrestò gittare de ditte cartoline, como colui che ’l suo maestro gli n’avia non piccola copia apparicchiata. La giovene donna vedendo tanti e sì continui messi, e ciascuno con simile imbassata, e che né orazione vigilie o altre discipline per lei adoperate non l’aveano ad altro che in sul credere confirmata, gli parve certissimamente tale revelazione dal Spirito Santo procedere; e fra se medesma gloriandose de tanto bene, se cominciò ad estimar beata, credendo essergli quanto le scrittoline demostravano apparicchiato; e ditta la missa, e tolte le cartucce supra de lei e de l’altare sì belle cascate, che veramente pareano scritte d’angelica mano e lavorate, tutta lieta e gioconda dimorava.

          Il frate, a cui già parea tempo venire a l’effetto del cogliere da tal fertile giardino l’ultimo e più suave frutto, disse:

          — Figliola mia, io veggio per tanti manifesti signi, questa cosa esser voluntà de Dio, e che ’l nostro più rassicurarce altro non sarìa che presuntuosamente voler più discernere quello procede de mente divina, qual vedi apertamente mostrarne voler un tanto eccelso tesoro dal tuo felice vasello produrre. Dunque stando nui più increduli, temo ne ’l divino iudicio si volga inver de nui: tuttavia, non per dubitare ma per ultima confirmazione de questo fatto, vederemo se la Sacra Scrittura in qualche parte ne avesse alcuna cosa preditta.

          E tolta subito la Biblia, revoltate le carte ove lui medesmo avia posto il signo, trovò ne l’Evangelio de Ioanni ove dice: “Multi altri assai signi fece Iesù nel cospetto de’ suoi discipuli, che non sono scritti in questo libro”. E ciò letto, a la donna revolto, cossì disse:

          — Altro testimonio a nui non bisogna: ecco che ogne nostro dubitare c’è spianato. Veramente questo sarà colui che ’l nostro evangelista ne demostra, qual supplirà a quello che gli altri mancarno; unde il dubitare omai più soverchio che necessario sia iudicato; nondemeno supra de te io lasso questa soma, se più incredula starai.

          La donna, a l’ultime parole respondendo, disse:

          — Oimè, patre mio, perché queste parole, essendo a vui noto sulo nel vostro consiglio fermarsi ogne mio bene e speranza? E però quanto a vui pare e piace ad esequire sarò sempre disposta.

          Il frate, veduto il fatto in manera ridutto, che sulo restava donare a quello con opera compimento, disse:

          — Figliola mia, tu parli saviamente; però a me sulo un dubio ne l’animo resta. Como trovaremo persona a ciò atta, de cui fidar ne possiamo, atteso che tutto il mondo è de inganni e tradimenti pieno?

          La Barbara, che con grandissima purità andava, respuose:

          — Patre mio, le nostre scritture ne dicono che quello che in ciò sarà attore, vuole esser iusto e santo como voi sete; e però io non vedo qual meglio possa tal fatto meco aduperare che vui, massimamente essendo mio patre spirituale.

          Al che il frate respuose:

          — Io non so como per me ciò far si potrebbe, atteso ch’io anche ho promisso servare castità tutto il mio vivente. Nondemeno, avenga ch’io iusto non sia, per non consentire che le tue sante e dilicatissime carne siano d’altre mano contaminate, ed ultre a ciò per salute e augumento de la cristiana religione, io sono apparicchiato. Non però restarò recordarte che tal cossa a dirla con persona trasportar non te lassi. Ché non dubito, ad altrui noticia venendo, non poco per male Idio l’averebbe; e sì como ora te pòi e meritatamente la più beata donna tenere che nel presente seculo se truovi, ribella e inimica gli tornaresti.

          La gentil donna, senz’altro riplicare, con grandissimi sacramenti gli affirmò de mai con persona vivente palesarlo.

          — Or via, — disse il frate — questa sera col nome de Dio saremo in su l’opera senza più indugiare; ma perché tali congiungimenti a laude e gloria de l’altissimo Dio far si doveranno, insino a l’ora che congiunger ne dovemo, bisogna siamo continui a la santa orazione, a ciò che divotamente intramo a questo santo e divino misterio.

          E con tal conclusione da lei accombiatatosi, a la sua stancia se ne tornoe; e pensando del suo prolifico seme doversi generare il santo evangelista, non sostenne per quel dì il suo corpo de quelli grossi cibi contaminare, che comunamente, per ingannare altrui, spesse volte usava, ma con dilicatissime vivande, ottime confezione e solenni vini con temperata manera tutto si riconfortò. Venuta dunque l’ora con tanto disio aspettata, per cauta via in camera de la Barbara se n’introe, quale digiuna e lagrimevole già mai da la orazione s’era partita; e veduto il frate e in piè levatasi, reverentemente il recevette. Il quale ancora che dal piacere de la donna fusse fieramente priso, e ogne punto mille ore de intrar ne le sue amorose braccia li paresse, pur diliberato a non incominciare l’amoroso gioco con veruna lascività, ma sulamente cominciare a vedere si colei a lume de torcia fusse sì bella ignuda como vestuta al giorno demostrava, gli impuose che ignuda si spogliasse; qual non senza grandissima vergogna cossì per obedire esequio. Lui, in camicia dispogliatosi, accese dui gran torce, e la donna in mezzo de quelle collocata, vedendo le sue eburnee e dilicate carne, che con loro splendore il lume de l’accese torce superavano, fu de tanta concupiscienzia pieno e vinto, che per morto ne le braccia cascare gli si lascioe; e in sé tornato, postoglisi dinanzi in genocchioni, fando quella sedere in maestà, con le mane giunte e capo inchino cossì disse:

          — Io adoro te, felicissimo ventre, nel quale da qui a poche ore il lume de tutto il cristianesimo ingenerar si deve.

          E ciò ditto, basciato in mezzo del giglio, con gran disio li suoi dolcissimi e rosati labri appiccoe, e senza punto lasciarli, con lei in braccio supra del preparato letto se gittoe. Quello che tutta la notte se facessero, ciascuno il può facelmente considerare; so ben io, che, secundo per la giovene fu a l’ultimo palesato, non sulamente al numero del quinto evangelista pervennero, ma agli sette doni del Spirito Santo.

          La Barbara, ancora che spiritualmente avesse il cibo pigliato, nondemeno, fra se medesma iudicando, concluse quella sula esser la più dulce e suave cosa che tra mortali adoperare o gostar si potesse; e piacendogli finalmente il gioco, fin che de la certa concezione de l’evangelista fussero firmi, ogne notte a l’amorosa battaglia più freschi si retrovarno. E in tal dolcezza continuando, la donna dadovero gravida devenne; e da tutti dui per manifesti signi cognosciuto dubitando il frate de sua vita, un giorno a la Barbara cossì disse:

          “Figliola mia, tu vedi che, sì como a Dio è piaciuto, il nostro ottato fine è già adimpito, e tu, essendo gravida, col voler d’esso Creatore parturirai. Io intendo al santo papa conferirmi, e lo successo divino miraculo manifestarli, a tal che lui mandi qui dui de’ suoi cardinali, che l’abbiano nel suo nascimento a canonizzare, per la qual accagione de maiore eccellenzia e supra ogn’altro santo sarà reputato.

          La donna, che, como è già detto, purissima era, facilmente credendo, da nuova vanagloria assaglita, multo gli piacque che tal camino per lui se pigliasse. Il frate, che chiaramente vedea ogne giorno augmentare il vaso del nuovo evangelista, al presto partirsi del tutto si dispuose; e da lei tolti alcun’altri pastucci per conforto del suo relassato stomaco, tolto con poco piacere da lei conviato, intrato in camino, in breve tempo in Toscana se ritrovoe. Quello che dopo lui se facesse, e dove, per ingannare altrui, con nuove arte e ingegni traversasse, considerilo cui non è da passione occupato. Devesi per fermo tenere che in ogne lato ove arrivò questo precursore de Anticristo, a quanti fede gli prestarno, la divinità degli angeli del paradiso gli fe’ gustare. La Barbara che gravida remase e più tempo gli impromissi cardinali aspettando indarno, quanto de lei e del suo parto sequisse, ad andarlo cercando la necessità non me costrenge. Ben so io questi esser gli frutti, frondi e fiori, che le prattiche de questi ingannatori frati ultimatamente ne rendono.

 

MASUCCIO

 

          Quale dunque omai umano spirito sarà bastevole a tante battaglie reparare, quante vedemo continuamente con inganni e tradimenti usare per questi, non dico santi frati, ma più tosto ministri del gran diavolo? Quali, essendosi nuovamente accorti generalmente intendersi, per qualunque ha fiori de intelletto, le reprobate parti de lor corrutta vita, per ultimo remedio hanno trovato de se finger santi. E per dare a credere agli loro divoti i loro evidenti inganni, e agli creduli fargli toccar con mano, dico che trovano alcuni tratti da la forca e in estrema miseria condutti, quali da loro con ogne piccola quantità de dinari corrutti, li fanno fingere quale esser attratto, quale cieco, e altri de incurabili infirmità oppressi; e videndo la folta e spessa calca de l’ignaro populo invaghito, né sapendo de che apprestarli udienza, fanno i già ordenati assassini a sé vinire, quali, toccando le fimbrie de’ loro vistimente con la vertù de le reliquie, quale dicono esser state de’ lor passati santi, con alte voce confessar si senteno per lo toccare del santo predicatore esser liberati. E supra ciò si grida misericordia, campane si suonano, e longhi processi e autentiche scritture si fanno; e con tale diabolice operazione la fama divulgandosi, de uno in altro regno volando, convien per forza, a cui ben discerne i loro tradimenti, mostrar de credere falso per vero, però che altramente e dal grosso vulgo e da gli ipocriti sarìa per eretico tenuto e reputato. Che ciò sia vero, ultre le manifeste esperienzie, avimo viste in questa nostra etate, la precedente novella ne ha mostrato li frutti che de le loro santità si coglieno. E benché de gli sofferti inganni fatti per un sì vile poltrone a la nominata gentil madonna se ne deve e meritamente avere e dolore e compassione, per quello che appresso sequirà non senza grandissimo piacere e festa sarà da trapassarne.

 

NOVELLA III

 

argomento

 

          Fra Nicolò da Nargni, innamorato de Agata, ottene il suo disiderio; vene il marito, e la muglie dice il frate averla con certe reliquie liberata; trova le brache del frate a capo del letto; il marito si turba; la muglie dice esser state de San Griffone, il marito sel crede e lo frate con solenne processione ne le conduce a casa.

 

AL CLARISSIMO POETA IOANNE PONTANO.

 

ESORDIO

 

          Se de’ veri amici como de se medesmo, magnifico mio Pontano, lo onore e commodità se recerca, io, ancora che del numero de’ tuoi minimi amici sia, a quello cercare e volere e per ogne debito disiderare son costretto. Il che, cognoscendote de tante singularissime vertù accompagnato, che lume de’ retorici e specchio de’ poeti meritamente appellar te potremo, ultre le infinite altre notivoli parte che in te sono, vedendo quelle de una sola macchia contaminate, quale facilmente nettar si puote, non ho voluto in alcun modo tacerla. Ciò è il continuo e con stretta prattica tuo conversare con religiosi d’ogne sorte; che quanto ad un uomo de tanta integrità, como tu sei, maior mancamento e più repreensibile sia che con eretici tener trame, tu medesmo iudicarlo porrai, atteso con loro non altri che usurari, fornicatori e omini de mala sorte conversar si vedono, a ciò che sotto tale ipocrita conversazione possano il compagno ingannare. Dunque, non essendo lupo, non conviensi de la sua pelle foderarsi il tuo mantello. Remuovite, ti priego, da sì reprobato e dannabile camino, persuadendote massimamente a non sulo da tal prattiche al tutto retrarti, ma de tua casa, como fussero de la contagiosa peste ammorbati, con decreto eterno equalmente gli priva; e, ciò operando, d’ogne futuro suspetto ti traerai, e a loro non darai materia intrar per l’uschio de la tua amistà a contaminar, como sogliono, le tue brigate. E a ciò che a ditto precipicio correr non ti veggia, ultre le prenotate ragione, ti mostrarò, per autorità del mio parlare e per esempio del tuo futuro operare, ne la sequente novella a te dirizzata, che ragione rendìo l’amicicia d’un santo religioso ad un medico catanese, de loro più ch’altro sequace, ancora che gelosissimo fusse, e como e con quanta sottilissima arte da la muglie e dal frate fusse stato il poveretto tradito e beffato.

 

narrazione

 

          Catania nobile e clarissima, como chiaro sapemo tra le notivole cità de l’insula de Sicilia è nominata; ne la quale, non è gran tempo, vi fu un dottore de medicina, maestro Rogero Campisciano nominato. Costui, quantunque de anni fusse pieno, prise per muglie una giovenetta chiamata Agata, de assai onorevele fameglia de la cità preditta, la quale, secundo la comune sentencia, era la più bella e legiadra donna che in quelli tempi in tutta l’insula si trovasse; unde il marito non meno che la propria vita l’amava. E perché rare volte o mai sì fatto amore vien senza gelosia, in brevissimo tempo senz’altra accagione sì geloso ne divenne, che non sulamente dagli estrani ma da amici e parenti gli avia già la conversazione interditta. E quantunque lui fusse multo domestico de’ fra’ minori, guardatore de’ loro dinari e procuratore de l’ordene, e finalmente tutto familiare e cosa loro, nondemeno per maior sua cautela a la sua donna avia imposto e ordenato che de loro conversazione, non manco che de’ disonesti seculari, guardar si dovesse.

          Avvenne intanto non poi longo tempo, che in Catania arrivò un fra minore, fra Nicolò da Nargni nominato: questo, ancor che de’ bizzochi sembrasse, e con un paio de zochi como cippi de carcere, col corame al petto del mantello, col collo torto e tutto pieno de ipocrisia andasse, pur egli era giovene, bello e ben complessionato; ed ultra che in Peroscia studiato avesse e in la loro dottrina solenne maestro devenuto, era un famoso predicatore, e stato già compagno tra gli altri de san Bernardino, secundo chiaramente confirmava, del quale dicea aver alcune reliquie, per le cui vertù Idio gli avia mostrati e continuamente de multi miraculi gli mostrava; per la cui accagione e per divozione de l’ordene un mirabilissimo concorso a la sua predicazione avea. De che accadde che, una matina fra l’altre, predicando, vide tra la feminile turba madonna Agata nominata, quale un carbunco tra multe bianchissime perle gli parve; e con la coda de l’occhio talvolta percotendola, senza punto interrompere il suo sermone, fra seco medesmo più volte disse felicissimo potersi tener colui, che de lo amore d’una sì vaga giovanetta fusse fatto digno. Agata, como de ciascuno è usanza che la predica ascolta, mirando fiso de continuo a lui, e parendoli ultre modo bello, non con alcuna disordenata sensualità, che ’l marito fusse como il predicatore bello fra se medesma disiderava, venendogli anche in pensamento e diliberazione da lui volersi confessare. E con tal proposito dimorando, sì tosto como dal pergolo scender il vide, fattaglise incontro, che gli donasse udienza il supplicoe. Il frate, che ne l’intrinseco letissimo era, ma per occultar in faccia la sua magagna, respuose non esser officio il confessare. A cui la donna disse:

          — Or non goderò io per amor de maestro Rogero mio marito alcun privilegio con vui?

          Respuose il frate:

          — Poi che vui site muglie del nostro procuratore, veniti ultre, ché per suo rispetto volenter intendo da ascoltarvi.

          E da parte tiratisi, e postosi il frate al solito luoco ove si confessa, e lei davanti inginocchiatalisi, per ordene a confessare s’incominciò. E avendo narrati parte de’ suoi peccati, contando de la grandissima gelosia del suo marito, gli domandò de gracia che per tal modo con sua vertù se adoperasse, che al marito tal fantasia del capo traesse in omne modo, credendo fuorsi che tale infirmità si sanasse con erbe e con impiastri, como il marito gli suoi infirmi guariva.

          Il frate, che a tal proposta letissimo era tornato, parendogli la sua prospera fortuna aprirgli l’uschio unde a fornire il suo disiderato camino intrar dovesse, dopo che con assai ornate parole l’ebbe confortata, in cotal forma gli respuose:

          — Figliola mia, non è da maravigliare che ’l tuo marito sì forte de te sia ingelosito, perché, altramente facendo, per ben che savio e da me e da ogn’altro ne sarìa reputato. Né de ciò lui inculpar si deve, procedendo questo per sula operazione de la natura, quale avendote con tante e sì angeliche bellezze produtta, per niun modo potrebbono senza grandissima gelosia esser possedute.

          La donna, de ciò ridendosi, parendoli omai tempo retornarsi a le compagne che l’attendeano, dopo alcun’altri dulci mutti, pregò il frate che l’assolvesse; quale, gittato un gran suspiro, a lei pietosamente volto, cossì respuose:

          — Figliola mia, niuna persona ligata può altri assolvere; unde, avendome tu in sì piccolo spacio ligato, né me né te senza il tuo ausilio assolver porrei.

          La gentil giovane, che siciliana era, la chiara cifra subito intese; e como che per vederlo sì bello, e che de lei fusse priso summamente gli piacesse, pur che i frati attendessero a sì fatte cose non poco maravigliosa ne devenne, como colei che per la sua tenera età e per la solenne guardia del marito non sulamente con veruno religioso avea avuta per alcun tempo prattica, ma per fermo si persuadeva che ’l fare de’ frati agli uomini non altramente fusse che a’ pulli quando se castrano. Ma cognoscendo chiaramente costui esser gallo e non capone, con disiderio mai simile gostato, diliberandosi del tutto donargli il suo amore cossì gli respuose:

          — Patre mio, lasciate il dolore a me, che venendo qui libera, tornarò serva de vui e d’Amore.

          Il frate, con la maior gloria che mai sentisse, a la donna respuose:

          — Dunque, poi che le nostre voglie son sì conforme, non trovarai tu modo che, da questa cruda carcere in un medesmo punto uscendo, parimente la nostra florida gioventù godiamo?

          Al che respuose che lei volentere il farebbe, se potesse:

          — Nondemeno — soggiugnendo — pur adesso un modo nel pensier me occorre, che con tutta la gelosia estrema de mio marito la nostra intenzione esequiremo. Unde essendo io solita aver quasi ogne mese nel core una fiera passione, e tal che d’ogne sentimento quasi me priva, né trovandosi insino a qui per argomento de medico posser a quella in minima parte remediare, ed essendomi dichiarato da donne antique ciò procedere da la matrice, e che com’io giovane sia e atta a produrre figlioli né per la vecchiezza de mio marito ciò far si potrebbe, ho pensato che, un de questi giorni che lui andarà in prattica in contado, me fingerò esser da la solita passione oppressa; e mandando subito per vui che me prestate alcuna reliquia de san Griffone, a conferirvi con esse a me secretamente apparicchiato e con l’opera de una mia fidatissima fante, al nostro bel piacere saremo insiemi.

          Il frate allegro disse:

          — Figliola mia, beneditta sia da Dio, de quanto bene hai pensato, e parmi che tal ordene esequire si deggia, e io menarò il nostro compagno meco, qual per compassione non farà stare indarno la tua fidata fante.

          E in tal conclusione remasti, con caldi e amorosi suspiri si diparterno. La donna, tornata in casa, a la sua fante fe’ palese l’ordene priso col frate per la comune loro satisfacione e piacere. La fante, che multo lieta fu de tale novella, respuose ad ogne suo commandamento essere de continuo apparicchiata. E como la loro benigna fortuna permise, il maestro Rogero andò in prattica, secundo lo antiveduto pensiero de la muglie, la sequente matina fora de la cità; e per non dare a l’opera alcuno indugio, fingendose subito esser da la solita passione assaglita, cominciò ad invocare san Griffone in suo soccorso. Al che la fante consigliando disse:

          — Perché non mandate vui per le sue sante reliquie, che da ogne uomo son sì miraculose riputate?

          La donna, como già tra loro preposto aveano, fando vista con fatica posser parlare, a la fante voltatasi, disse:

          — Anzi ch’io ten priego vi mandi.

          A cui, pietosa mostrandosi, disse:

          — Io medesma andarò per esse.

          E rattissima de quinci partitasi, trovato il frate e a lui fatta la ordenata commissione, con un suo compagno, secundo avea promisso, giovene multo e al mestiero attissimo, subito se misse in camino. E giunti in camera, accostatosi divotamente fra Nicolò al letto ove la donna sula iacea, e da lei che caramente lo aspettava con umilità grandissima recevuto, disse:

          — Patre mio, pregate Dio e ’l glorioso san Griffone per me.

          Al che il frate respuose:

          — Esso Creatore ce ne faccia digni! Ma a vui bisogna aver buona divozione dal canto vostro; che se la gracia sua volite recevere mediante la vertù de le reliquie ho meco portate, convien che prima contritamente recorramo a la santa confessione, a ciò che, sanata l’anima, facilmente il corpo si possa guarire.

          La donna, respondendo, disse:

          — Io non pensava né disiderava altro, e de ciò summamente ve supplico.

          E ciò ditto, dato onesto conviato a quanti in camera dimoravano, non remanendovi altro che la fante e ’l compagno del frate, serratisi dentro ottimamente, a ciò che da nulla fussero impediti, ciascuno scrapistratamente con la sua se appiccoe. Fra Nicolò sul letto montato, per meglio e senza alcuno impazzo menare le gambe, parendogli fuorsi stare in sul securo, trattese le mutande e al capo del letto bottatele, e con la bella giovene abbracciatose, la dolce e disiata caccia incominciorno; e avendo il suo amaistrato levrere tenuto uno longo spacio a laccio, da una medesma tana cavò arditamente dui lèpori; e raccolto a sé il cane per cercare il terzo, senterno in su l’uschio de la strata maestro Rogero a cavallo, quale era già da prattica tornato. Il frate con la maiore pressa del mundo del letto bottatosi, da pagura e dolore vinto, de pigliar le brache, che avia poste al capo del letto, totalmente si dimenticoe. La fante, anche con poco piacere dal cominciato lavoro remossa, aperta la camera, e chiamate le genti che in sala attendeano, dicendo che la sua madonna era per la Dio gracia quasi del tutto guarita, laudando tutti e rengraziando Idio e san Griffone, gli fece dentro a lor piacere intrare.

          E arrivando fra questo mezzo il maestro Rogero in camera, trovando queste novità, non meno del vedere esser cominciati a venir frati in sua casa fu dolente che del nuovo accidente de l’amata donna; la quale, a la vista ricognosciutolo ultre modo cambiato, disse:

          — Marito mio, veramente io ero morta, se ’l nostro patre predicatore con le reliquie del beatissimo Griffone non mi succorrea; quale avendomele al core approssimate, non altramente da multa acqua è un piccolo fuoco spento, che ogne mio dolore sostenuto mi fu per quelle immediate tolto.

          Il marito credendo, udito che salutifero remedio a sì incurabile infirmità si era già trovato, non poco fu contento, rengraciando Dio e san Griffone; ma al frate a l’ultimo voltatosi, gli rendé infinite mercè, de quanto bene avea adoperato; e cossì dopo alcuni altri divoti e santi ragionamenti priso conviato, il frate e ’l compagno onestamente da là se parterno. E caminando, sentito il suo buon cane or là or qua andar fuora de la scapola, recordandosi aver la catena al capo del letto dimenticata, dolente ultre modo, al compagno revoltatosi, il successo accidente gli racontoe; dal quale essendo al non dubitar confortato con ciò sia cosa che la fante sarìa la prima che le trovarebbe e quelle occoltarìa, quasi ridendo, tale parole suggiunse:

          — Maestro mio, ben demostrate non esser avezzo de star in disagio, volendo, ad ogni luoco ove vi trovate, donare al vostro cane tutta la scapola ad un tratto; ma fuorsi vui esequiti lo esemplo de’ frati dominichini, quali de continuo portano i lor cani senza alcuna lassa, e quantunque facciano de gran prede, nondemeno gli cani allacciati sono più fieri e meglio aboccati, quando in la caccia se retrovano.

          A cui il frate respuose:

          — Tu di’ il vero, e voglia Idio che del mio commisso errore scandolo non ne siegua; ma tu como facisti de la preda che tra le unghie ti lasciai? So ben io che ’l mio sparaveri prise ad un volo due starne, ed avendo per la terza tentato, se venne il maestro; cossì egli se avesse prima fiaccato il collo!

          Respuose il compagno:

          — Quantunque io fabro non sia, m’era con tutte mie forze ingegnato fare dui chiodi ad una calda, e già n’avia finito l’uno, e de l’altro tanto composto, che appena vi restava a far si non la testa, quando la fante, l’ora che nacque biastemando, disse: “Ecco il mio messere a l’uschio!”. Per il che da l’imperfetta opera tolto, ove vui eravate me condussi.

          — Oh! Dio volesse — disse il frate — che retornare a la già lassata caccia a me fusse concesso, como tu, quando a grato te sia, potrai fornire tuoi chiodi a centinaia!

          Al che respuose il compagno:

          — Io nol niego, ma più vale la piuma de tue prise starne, che quanti chiodi a Milano si fanno.

          Il frate de ciò ridendose, con multi altri faceti mutti de lor fatta baruffa occultamente tra loro si godevano.

          Maestro Rogero, subito partiti i frati, accostatosi a la muglie e quella accarizzando, toccandogli la gola e ’l petto, se ’l dolore gli avia data multa noia la domandava; e in più diversi ragionamenti intrati, mossa la mano per acconciarli il guanciale sotto ’l capo, gli venne priso un nastaro de le brache ivi dal frate lassate; e fora tiratele, e cognosciuto de continente quelle esser de frati, cambiato tutto nel vulto disse:

          — Che diavolo vuol dire questo, o Agata? che vogliono queste brache de frati significare?

          La giovane donna, che prodentissima era, e nuovamente amor gli avia più svegliato l’ingegno, non indugiando punto a la resposta, disse:

          — E che è quello ch’io te ho ditto, marito mio, si non che queste miraculose mutande essendo state del glorioso messer san Griffone, como una de sue famose reliquie avendole il patre predicatore qui portate, l’onnipotente Dio per vertù de quelle me ha già fatta gracia, e cognoscome esser del tutto liberata? E per maior mia cautela e divozione, volendonele lui portare, de gracia gli chiesi che insino a vespro me le lasciasse, e dopo lui medesmo o altro avesse per quelle mandato.

          Il marito, udita la subita resposta e sì bene ordenata, o il crese o de creder mostrava; ma essendo natura de gelosi, da dui contrari venti era de tale accidente il suo cervello continuo combattuto, che, senza altramente replicarlo, a la già fatta resposta se quietoe. La donna, che sagacissima era, cognoscendolo alquanto supra de sé stare, con nuova arte pensò toglierli totalmente dal petto ogne prisa suspicione, e, revolta a la fante, gli disse:

          — Va via in convento, e, trovato il predicatore, gli dirai che mandi per la reliquia me lascioe, che la Dio mercè insino a qui non ne ho più de bisogno.

          La discreta fante, inteso a pieno quanto la donna in effetto disiderava, ratta al convento conduttasi, fatto subito chiamare il predicatore, qual venuto a l’uschio, credendosi fuorsi gli portasse la recordanza da lui già lasciata, con allegro viso disse:

          — Che novella?

          La fante mal contenta respuose:

          — Non buona, mercè de la vostra trascorragine; e sarìa ben stato peggio, si non per la prodencia de la mia madonna.

          — Che c’è? — disse il frate.

          La fante puntualmente il fatto racontandogli, e soggiunto che gli parea, senza più indugiare che con qualche cerimonia a pigliar la ditta reliquia mandar si dovesse; e resposto il frate: “Sia in buon’ora!” e a quella donata licenzia e speranza de ogne cosa mal fatta raconciare, andatosene de botto al guardiano, in tal forma gli disse:

          — Patre mio, io ho fatto de presente un grandissimo errore, quale possendose col tempo punire, vi supplico non tardate col vostro soccorso, secundo la necessità cerca, a quello in promptu remediare.

          E per lo più breve modo possette ricontata la istoria, non poco il guardiano de ciò turbandosi, e de la sua improdencia agramente reprendendolo, cossì gli prise a dire:

          — Or ecco le tue prodezze, valente uomo. Ben te credevi tu stare al sicuro; e se non potivi far senza de cavartele, non avevi tu altro modo de occultarle, o in petto o a la manica, o in qualunque altro luoco che supra de te fusse stato? Ma vui, como avezzi a fare de questi scandalazzi, non pensate con quanto piso de coscienzia e infamia del mundo nui li abbiamo a raconciare. Veramente io non so qual causa me ritiene ch’io non te faccia, como a te si converrebbe, senza misericordia incarcerare; nientedemeno essendo al presente più de bisogno usar remedio che repreensione, correndoce massimamente l’onor de l’ordene, per altra volta il serbaremo.

          E fatta sonar la campanella a capitulo, congregati insiemi tutti i frati, e narrato loro como in casa de maestro Rogero medico, per la vertù de le mutande che furono del loro san Griffone, un miraculo evidentissimo Idio ce avia in quel giorno mostrato; quale a tutti brevemente recordato, gli persuase che de continente s’andasse in casa de ditto maestro, donde ad onore e gloria de Dio, e augmentazione de’ miraculi de lor santo, solennemente e con la processione la ditta reliquia se pigliasse.

          E cossì ordenato, fattili a coppia dividere, con la croce inanzi verso la signata casa se avviarno. Il guardiano de un ricco piuviale vestito, col tabernaculo de l’altare in braccio, con gran silenzio ordenati, a la ditta casa del maestro arrivarono. Qui da lui sentiti, fattosi incontro al guardiano, e domandatolo de l’accagione de tal novità, con allegro volto cossì, como preposto avea, gli respuose:

          — Maestro nostro carissimo, le nostre ordinazione vogliono che occultamente debbiamo portare le reliquie de’ nostri santi in casa de coloro che le domandano, a tal che se l’infermo per alcun suo mancamento non recevesse la gracia, per non diminuere in parte alcuna la fama de’ miraculi, de nascoso ne le possiamo a casa retornare; ma ove Idio mediante ditte reliquie un evidente miraculo mostrar volesse, nui dovemo in tal caso, con ogne cerimonia e solennità che possiamo, condurnele in chiesa, manifestando il ditto miraculo, e quello ascrivere in publica forma. Unde essendo, como già sapete, la donna vostra de la sua periculosa infirmità liberata e per la vertù de le nostre reliquie, semo venuti con questa solennità a retornarnele a casa.

          Il maestro, che tutto ’l capitulo de’ frati con tanta divozione vedea, estimò che a niun mal fare ne sarebbero mai tanti concursi; e donata indubia fede a le simulate ragione del guardiano, avendo ogne suspetto pensiero da sé al tutto remosso, respuose:

          — Vui siate i benvenuti! — e prisi per mano lui e ’l predicatore, in camera, ove la moglie stava, li menoe.

          La donna, che in tal punto non dormia, con una tovaglia bianca e odorifera in fra quel mezzo avea le ditte brache fasciate; quale il guardiano scoperte, con grandissima reverenza le bascioe, e fattele dal maestro e da la muglie, e finalmente da quanti in camera dimoravano, divotamente basciare, postele nel tabernaculo che per ciò portato avea, dato il signo a’ compagni, tutti accordandosi, “Veni Creator Spiritus” a cantare incominciorno. E in tal forma discorrendo per la cità, da infinita turba accompagnati, a la lor chiesa condutti, postele supra l’altare maiore, paricchi dì, per divozione de tutto il populo, che aveano già il fatto miraculo sentito, star le lasciarono.

          Maestro Rogero, disideroso de l’augmento de la divozione de le genti verso quell’ordene, andando de continuo in prattica e fuori e dentro la cità, dovunque si trovava, a pieno populo ricontava il solenne miraculo, che per vertù de le brache de san Griffone Idio avea in sua casa demostrato. E fin che lui dimorava a far tale officio, fra Nicolò e ’l compagno de continuare la cominciata e fertile caccia non si scordavano, con piacere grandissimo de la fante e de la madonna. Quale, ultre ogn’altra sensualità, seco medesma iudicava veramente tale operazione esser sulo remedio a la sua acerba passione, sì como quello ch’era più approssimato al luoco, unde tale infirmità si era causata; ed essendo lei muglie de medico, se ricordava avere inteso allegare quel testo de Avicenna, dove dice che li remedii approssimati giovano e li continuati sanano; per questo lei, e l’uno e l’altro con piacere gostando, cognobbe del tutto essere de la non curabile passione de la matre liberata per lo remedio oportuno del santo frate.

 

MASUCCIO

 

          Ancora che tutte le parte de la narrata novella de gran piacevolezza siano piene, e da spesso releggerle e ascoltare, nondemeno io vorrei che nel cospetto de color se leggessero, che de continuo me stanno adosso con l’arco teso, mordendo e remproverando il mio scrivere contro de questi falsi ingannamundo, a ciò che con loro susurrare, ultre l’inganno e commisso adulterio per lo ribaldo frate, dessero perfetto iudicio, qual publico eretico, qual de la fede de Cristo notorio dispregiatore e de le sue opere e dottrina, avesse, non che fatto, ma pur pensato, ponere un paio de brache fetide, albergo de pidocchi, de mill’altre spurcizie repiene, dentro lo eletto vaso e vero recettaculo del sacratissimo corpo del Figliolo de Dio. Leggasi pur ne la enormissima Passione de Cristo, ché non si trovarà che i perfidi giudei, quantunque con grandissima iniquità e vituperio l’uccidessero, li avesser mai fatto sì gran dispregio che a questo aguagliar si potesse. Aprasi adunque la terra, e, una con li lor fautori, la multitudine de tanti poltroni vivi li trangutisca, non sulo per gastigamento de’ presenti, ma per timore ed eterno esemplo di tutt’i futuri scelerati lor pari. Tuttavia, per non sostenir che i mormoriti de ditti mei avversarii abbiano tanta forza, che dal cominciato ordene, de narrare quel che con verità sento de questi tal soldati de Lucifero, possano retrarmi, mostrarò appresso, ancora che non vogliano, un sottilissimo partito da dui altri dannati religiosi pensato, per accumular pecunie e per cupidigia de farsi prelati, secundo intenderite, nel mostrare de’ loro ingannevoli miraculi, che senza posserce reparare faciano.

 

NOVELLA IV

 

argomento

 

          Fra Ieronimo da Spoleto con un osso de corpo morto fa credere al populo surrentino sia il braccio de san Luca; il compagno li dà contra; lui prega Idio ne demostre miraculo; il compagno Finge cascar morto, ed esso orando lo retorna in vita; e per li duppi miraculi raduna assai moneta, deventane prelato e col compagno poltronizza.

 

AL MAGNIFICO MESSERE ANTONELLO DE PETRUCIIS

REGIO UNICO FIDO SECRETARIO.

 

ESORDIO

 

          Esistimo, magnifico mio maiore, che volendo dar principio a scrivere a te, mare d’ogne retorico stile, se in me fusse la lira de Orfeo o la eloquenzia de Mercurio, non altramente che un vil canto d’un cieco al grosso vulgo te parrebbe. Questo sulo me fu accagione, perch’io infino a qui ho differito scrivere la sequente novella. Ma pur, cognoscendola assai faceta e bella, cossì inornata e ruginosa de inviaretela ho diliberato. Quale avvenga che a te profitto alcuno render non possa, per aver de’ mundani travenuti casi soverchia noticia, nientedemeno, ad altrui leggendola, non dubito che assai utile conseglio ne prenderanno, e serrà fuorsi a loro efficiente accagione fargli da la nova fraudolente setta de’ santi guardare; quali, con ogne dolosa arte e sottilissimi inganni fingendo far miraculi, se adattano a robarne onore, robba e contentezza insiemi. E como che de loro malvagità penso niuna eloquenzia sarìa bastevole posserne a compimento parlare, tuttavia, per togliere da un gran campo un picciolissimo fiore, appresso una diabolica fictione fatta per un fra minore sentirai, a la quale, secundo il mio bassio iudicio, non serìa stato niuno umano accorgimento sofficiente a repararce.

 

narrazione

 

          Nel tempo che re Iacomo francese, prima conte de la Marcia nominato, devenne marito de l’ultima de’ Durazzi, arrivò in Napoli un fra minore, fra Ieronimo da Spoleto nominato; il quale, secundo i sembianti quasi santo mostrandosi, non sulamente in Napoli ma per tutte le cità circustante continuamente andava predicando, e in esse maravigliosa fama e divozione se avia vindicata. Unde successe che, trovandosi ad Aversa, per una mirabile cosa gli fu mostrato un corpo de un notivole cavaliero, da longhissimi anni passato, ad un monasterio de fra’ predicatori; il quale, o per essere stato ben conservato, o fuorsi per buon temperamento che quel corpo avesse ne la sua vita, o che pur altro ne fusse stato accagione, era sì intero e saldo, che non sulamente ogn’osso stava al suo debito seggio collocato, ma la pelle in manera immaculata, che, toccando la testa, la postrema parte del corpo si sarebbe mossa. Messere lo frate, che ben avea a tutto rimirato, de posser avere alcun membro de ditto corpo subito imaginosse, a ciò che con quello, sotto nome de reliquia, e centinaia e migliaia de ducati cavar ne potesse, e de quelli non sulo poltronizzare, ma per posser, como sogliono, pervenire mediante quelli ad alcun grado de prelatura. E se ben se rimirasse intorno, si vedrebbe quanti ne son devenuti gran prelati a le spese de’ miseri e sciocchi seculari, deventando questo de l’eresia inquisitore, quell’altro de la cruciata collettore: taccio de alcuni, che con bulle apostoliche, o vere o false che siano, remettono i peccati, e per forza de moneta collocano ciascuno in paradiso, empiendosi a torto e a deritto le budelle de fiorini, ancora che da loro santissime regule espressamente gli sia proibito.

          Tornando adunque al nostro fra Ieronimo, fatto ebbe il pensieri, e subornato il sacrestano del luoco, ancora che dominichino fusse stato, col favore del priore de Santa Croce, il braccio con la destra mano del ditto corpo ottenne; in la quale non sulamente la pelle e alcuni pelucci si vedeano, ma ancora le unghie sì polite e salde, che quasi de uomo vivo si mostravano. E per non dare indugio al fatto, posta messere lo frate la santa reliquia in più viluppi fasciata con zendato e suavi odori dintro una cassetta, de quinci partirsi se dispuose; e retornato in Napoli, trovato il suo fido compagno, non meno sofficiente artista de lui, fra Mariano da Saona nominato, e fra loro concluso de andarsene in Calabria, provincia da grossa e inculta gente abitata, per posser ivi i lor ferri adoperare, supra de tal partito se firmarono.

          Fra Mariano, travestitose per cauta via in frate de san Dominico, se n’andò al porto per trovar passaggio in Calabria; da l’altra parte fra Ieronimo con tre altri suoi compagni carichi de bisazze a’ maritimi liti se condusse. Dove per sorte trovato un ligno de mantioti, che in quello già partir volea, e in esso tutti montati, poco amici e l’un da l’altri seperati mostrandosi, non altramente che i barri in le fere fanno o talvolta quando in alcuno albergo de camino arrivano, e cossì ordenati, dati i remi i marinari in acqua e spiegate le vele a’ venti, a lor viaggio se drizzorno. Ed essendo non multo lontani a Crapi, subito diserrò loro un gruppo adosso sì fiero e periculoso, che per argomento marinaresco non possendose a quello reparare, ad una picciola spiaggia vicina a Surrento quasi per perduti a or mal grato andar gli convenne; dove con difficultà non piccola tirato il ligno in terra, sagliti tutti e inviati a la cità, quivi, fin che ’l tempo se acconciasse, dimorar diliberarno. Cossì tra gli altri il nostro fra Ieronimo con suoi compagni a luoco de’ frati conventuali andatosene, anche fra Mariano, dominichino devenuto, con gli altri seculari ne l’albergo si collocoe. Dove cognosciuto che ’l turbato mare non era da presto abonazzarse, se dispuose il valente frate, per non perdere tempo, quivi la prima esperienzia de la sua falsa reliquia demostrare; recordandosi massimamente ne le sue contrate aver già sentito che la ditta cità de Surrento tra l’altre del reame era, ultre la sua nobilità, antiquissima, e per quello i citadini tenere ancora de quella grossa rugine degli antiqui, e con loro possergli facilmente, non meno che in Calabria, il suo diliberato disigno reuscire.

          E donato de ciò occultamente aviso al suo fra Mariano, essendo la sequente matina domenica, mandò il guardiano del convento a pronunciare a l’arcivescovo, che lui con la sua benedizione intendea fare una divota predica la sequente matina a la chiesa maiore; e per tanto che ’l fesse intimare dentro e fore la cità li supplicava, a ciò che venendoce quella quantità de populo e con tanta divozione quanto li fusse visto sofficiente, avesse ad onore e laude de Dio loro mostrata una santa reliquia, e la più divota che in lor tempi avessero veduta. L’arcivescovo, che lui anche era degli antiquissimi surrentini, donata a tutto indubia fede, e mandata subito la escomunica non sulamente per la cità ma per tutto il circustante contado, che ognuno per la ditta accagione divotamente ad udir la predica e veder la reliquia se conducesse, che per un servo de Dio al populo surrentino mostrar si dovea, e divulgata finalmente la novella per tutto il paese, concursero la matina in chiesa tanta gente, che la mità appena vi capea. E venuta l’ora del predicare, fra Ieronimo, da multi frati con loro solite cerimonie accompagnato, montato in pergolo, e supra le opere de la misericordia e de la santa elimosina fatta una longa diceria, quando tempo gli parve, discopertose il capo, e in tal modo a parlare incominciò:

          — Reverendissimo monsignore, e vui altri gentiluomini e donne, patri e matre mei in Cristo Iesù, io non dubito abbiate avuta noticia del mio predicare in Napoli, dove la Dio mercè e non per mei meriti e vertù, ho avuta de continuo singulare audienzia. Udendo la fama de questa vostra nobilissima cità e la umanità e divozione de’ citadini, con la bellezza del paese insiemi, me diliberai più volte venire a pronunciare la parola de Dio, e godere alquanto con vui de questo vostro gracioso aere, quale in verità iudico esser multo conforme a la mia complessione. Venutami poi una ubedienzia dal nostro patre vicario generale, ch’io dovesse andare subito in Calabria, per pigliare alcuni luochi in certe cità ne aveano chiamati, me fu necessario torzere il camino per andare ove m’era già ordenato. Unde, como credo sappiate, trovandone col nostro ligno in questo vostro golfo, e da contrarii venti e tempestosi mari combattuti, contra ogne forza e voluntà de’ marinari, arrivammo qui quasi per perduti. Quale venuta estimo non sia per contrarietà de’ venti causata, ma per divina operazione del mio Creatore, che ha voluto in parte al mio disiderio satisfare; e a tal che vui anche siate partìcipi de ditta gracia, vi voglio mostrare per augmento de vostra divozione una mirabile reliquia, cioè un braccio con la mano destra intera de quello eccellente e glorioso cancellero del nostro redentore Iesù Cristo messere san Luca evangelista, quale il patriarca de Costantinopoli al nostro patre vicario la donoe, e lui la manda per me in Calabria per la ragione preditta, imperò che in tal provincia non fu mai corpo né membro d’alcun santo. Per tanto, brigata mia, che Idio ve benedica, ognuno con divozione si tragga il capuccio a vedere questo tesoro, che isso Idio più per miraculo che per mia operazione de vedere vi ha concesso; notificandovi in prima ch’io ho una bolla da nostro signore il papa, per la quale concede grandissime indulgenzie e remissioni de peccati a qualunque a ditta reliquia farà qualche elimosina secundo la sua possibilitate, a tal che, de quelle se ne raduna, e se ne faccia un tabernaculo d’argento con alcune gioie ligate, como conviensi a tanto eccelsa cosa.

          E questo ditto, cavatasi da la manica una bolla a suo modo contraffatta, gli fu da tutti, senza altramente leggerla, donata grandissima fede; e cossì ciascuno s’appressava per volere la sua elimosina offerire, ancora che ’l potere fusse multo estremo. Fra Ieronimo, la sua composta favola ordenatamente pronunciata, fattasi dar la cassetta da’ suoi compagni ov’era il santo braccio, e fatte allumare de multo torce, inginocchiatosi, e con gran riverenzia in mano tenendola, divotamente coll’occhi pieni de lacrime basciato prima l’urlo de la cassetta, ove la sua reliquia chiusa, per ingannare altrui, con solennità retinea, voltatosi a li compagni, una divota laude de san Luca pontificalmente cantarno. E veduto finalmente tutto il populo stare ammirato, aperta la cassetta, da la quale usciuto mirabile odore, rimossi li viluppi del zendato, e prisa la reliquia e discoperta la mano con uno poco del braccio, cossì disse:

          — Questa è quella felice e santa mano del fidelissimo secretario del Figliol de Dio! Questa è quella beata mano, quale non sulo scrisse tante eccellenzie de la gloriosa Vergine Maria, ma anche la sua figura più volte in propria forma retrasse!

          E volendo procedere a ricontar le lode de ditto santo, ecco da l’un canto de la chiesa fra Mariano da Saona col suo nuovo abito dominichino, e con grandissima importunità fattosi far luoco, con alte voce sgridando verso il suo fra Ieronimo, in cotal forma cominciò a parlare:

          — O vile ribaldo, poltrone, ingannatore de Dio e degli uomini, non hai tu vergogna a dire sì grande ed enorme bugia, che questo sia il braccio de san Luca, atteso ch’io so del certo che ’l suo sacratissimo corpo è a Padua tutto intero? Ma questo osso marcio lo divi tu aver tratto da qualche sepoltura per ingannare altrui. Io mi maraveglio grandemente de monsignore e de quest’altri venerabili patri chierici, che te dovrìano lapidare, como si’ digno.

          L’arcivescovo e tutto il populo, de tal novità non poco ammirati, le sue parole remordendo, gli diceano che tacesse; né lui con tutto ciò del gridar se arrestava, anzi, che tuttavia più fervente si mostrava a persuadere al populo che non gli credesse. Mentre che in tali termini stava la cosa, parendo a fra Ieronimo tempo far lo pensato e ficto miraculo, mostratosi alquanto turbato, posto con la mano silenzio al populo che continuo murmurava, e visto brevemente ognuno attento a ciò che dir volea, rivòltosi verso l’altare maiore, ove una imagine del crocefisso stava, e a quello inginocchiatosi, con multe lacrime cossì prise a dire:

          — O Signore mio Iesù Cristo, redentore de la umana gente, Dio e uomo, tu che me hai plasmato e fatto a la tua imagine e qui me hai condutto, per li meriti del tuo gloriosissimo corpo e per quella tua immaculata carne umana, e per la amarissima passione ne redemisti, io te supplico anche per le mirabile stimate che donasti al nostro serafico Francesco, te piaccia mostrare evidente miraculo, in presenzia de questo divotissimo populo, de questo valente frate, quale, como inimico ed emulo de nostra religione, è venuto a remproverare la mia verità; per modo tale che s’io dico la bugia, mandame subito la tua ira adosso, e fammi qui de presente morire; e s’io dico la verità, che questo sia il vero braccio de messere san Luca, tuo dignissimo cancellero, Signor mio, non per vendetta ma per chiarezza de la verità, manda la tua sentenzia supra de lui, per modo tale che, volendo, né con lingua né con mani possa dire la colpa sua.

          Non ebbe appena fra Ieronimo la sua scongiura fornita, quando fra Mariano subito, como già preposto aveano, cominciò a torcerse tutto de mano e de piedi, e urlare forte, e balbuziare con la lingua senza mandar fuora una sula paruola, e con gli occhi travolti e bocca torta e ogne membro attratto mostrandosi, abandonatamente a l’anderietro cascar si lascioe. Veduto il manifesto miraculo per quanti in chiesa dimoravano, generalmente fu in manera per tutti gridato misericordia, che, essendo tronato, appena quivi si sarebbe sentito. Fra Ieronimo, vedendo il populo a suo modo adescato, e per più accenderlo e fare che l’inganno fusse compito, cominciò a gridare forte:

          — Laudato Idio! Scilenzio, brigata mia!

          Ed essendo per lo suo dire ognuno quietato, fatto pigliare fra Mariano, quale per sembianti parea morto, e collocare dinanzi l’altare, cossì a parlare incominciò:

          — Signori gentilomini e donne, e vui tutti altri contadini, io vi priego per vertù de la santa passione de Cristo, che ognuno si inginocchi e divotamente dica un paternostro a riverenzia de messer san Luca; per li meriti del quale Idio retorni non sulo questo poveretto in vita, ma gli perduti membri e la amissa favella gli restituisca, a tal che la sua anima non vada in eterna perdizione.

          Né più tosto il comandamento fatto, postosi ciascuno ad adorare, lui de l’altra banda dal pergolo sciso, e priso un coltellino e raso un poco de l’unghia de la miraculosa mano, e postola in un bicchiero d’acqua beneditta e aperta la bocca de fra Mariano, quel preziosissimo liquore in gola gli gittoe, dicendo:

          — Io te comando in vertù del Spirito Santo che de continente te levi su e retorni a la pristina sanità.

          Fra Mariano, che con grandissima difficultà avea insino a quell’ora tenute le rise, avendo recevuto il beverone, e a l’ultimo sentito il ficto percanto, subito in piè levatosi, aperti gli occhi, tutto stordito cominciò a gridare: “Iesù! Iesù!”. Unde veduto le brigate quest’altro manifesto miraculo, ciascuno territo e stupefatto “Iesù! Iesù!” similmente chiamava, e cui a sonar le campane correa, e cui a basciare e toccar li panni del predicatore, tal che ciascun parea sì de divozione compunto, che credea che l’ultimo e general iudicio fusse venuto.

          Fra Ieronimo che adempir volea quello che ivi l’avia condutto, con difficultà non piccola in sul pergolo remontato, comandò che la reliquia dinanzi l’altare fusse collocata, dintorno a la quale tutt’i suoi compagni fece assettare, cui con torce in mano accese, cui a far fare luoco affaticati, a tal che ognuno senza impedimento orare e offerire al santo braccio a suo piacer potesse. Ove ultre la multa quantità de moneta, che con la maior calca che fusse vista mai vi fu offerta, vi furno tali donne da sfrenata carità assaglite, che da dosso se spiccavano e perle ed argento ed altre care gioie, e le offerivano al santo evangelista. E cossì tutto quel giorno tenuta discoperta la santa reliquia, e parendo tempo a lo frate de retornarsi a casa con la già fatta preda, dato un cauto signo a’ compagni, e quelli destramente aviluppato ogne cosa insiemi col braccio dintro la cassetta, tutti de brigata verso il convento se aviorno. Il frate, non men che santo generalmente estimato e riverito, fu da l’arcivescovo e da tutto il populo insino a casa onorevilmente accompagnato; e fatti redurre fra Ieronimo ed autenticare i dui notivoli miraculi in publica forma, la sequente matina, veduto il tempo atto al partire, col non piccolo fatto guadagno, col suo fra Mariano e l’altri compagni nel loro ligno se imbarcorno. E con prospero vento navigando, in brevi giorni in Calabria arrivati, dove con nuove e diverse manere de inganni impietese ben le tasche de moneta, traversato ultimamente dentro e fuori Italia, e col favore del miraculoso braccio de lor innumerabili inganni ricchissimi, a Spoleto se ne retornorno. Dove parendo loro stare in sul securo, fra Ieronimo per mezzo d’un signor cardinale comparatose un vescovato non per simonia ma, secundo lor nuova intelligenzia, per procurazione, e quivi insiemi col suo fra Mariano poltronizzando, fin che vissero, buon tempo se donarono

 

MASUCCIO

 

          Demostrato ne ha in parte la passata novella con quanta arte gli fraudolenti e rapacisimi lupi se studiano le nostre facultà usurparne, senza che alcuno umano provedimento fusse bastante a repararce. E quel che peggio in nostro dispregio adoprano de continuo, si è che, predicando, dannano e redarguiscono l’avaricia non sulo per peccato mortale, ma como irremissibile vicio de eresia; e d’altra parte manifestamente vedemo l’avaricia non sulo universalmente a tutt’i religiosi esser innata passione, ma, como benivola amica e sorella d’ognuno de loro, non altramente sequirla e abbracciarla, che se per espresso precetto de obedienza da lor regule decreto e ordenato fusse. E se presso lo fine de ditta novella ho ditto che ’l nostro fra Ieronimo comperasse il vescovato, e che la simonia abbia cambiato nome, niuno se ne deve maravigliare, atteso che a ciascuno manifesto può essere, che persona alcuna, per vertuosa che sia, né per averé negli studii o nel sequire la romana corte gli anni e le facultà consumate, possa mai pervenire ad alcun grado di prelatura, si non col favore del maestro de la cecca; e quella conviensela comprare a l’incanto, como se fa de’ cavalli in fiera, ultre le subornazione de’ doni e de’ pattuiti dinari, che se fanno non sulo a coloro che ’l favoriscono, ma agli altri che de dargli noia desistono; né fia maraviglia, se da questo nasce che la usurpazione sia chiamata devuta pensione. Potremo adunque da ciò cavare argomento, che e frati e preiti e monaci hanno con nuovo idioma trovata strana lingua; imperò che a tutt’i scelestissimi vicii appropriano il suo nome, e con qualche notivole parola de la Scrittura Sacra; e cossì, mangiando a le spese del Crocefisso e poltronizzando, anzi pur a le nostre, se fanno beffe de Dio e degli uomini. E quando a lo più esacrabile peccato, che in opprobrio de Dio e de la natura commetter si possa supra la terra, dicono: “Lo secreto de l’ordene”, e senza resparagno, timore o vergogna lo adoprano, ciascuno può pensare che faranno degli altri, che non sono de tanta orribilità. Io, volendo più ultre dire de quello che publico e occulto sento de’ fatti loro, son tirato dal voler l’incominciate novelle sequire; del che producerò a tal mio processo un altro approvato testimonio, e in la sequente novella quinta mostrarò como un ribaldo preite, ultre il cantare del Gaudeamus, e Per incarnati Verbi misterium, e Veni, Sponsa Christi, e altre infinite enormità, chiamava la sua spada nel suo andare in curso: Salvum me fac; e anche trasformando il nome dal suo naturale, dicea voler ponere il papa a Roma e cavare il turco da Costantinopoli.

 

NOVELLA V

 

argomento

 

          La Missimilla, vaghiggiata da un preite e da un sarto, promitte lo suo amore a tutti dui; gode in casa col sarto; il preite va per la promissa, vole intrare per forza; il sarto per paura si recovera nel solaro; il preite intra e dice voler ponere il papa a Roma; il sarto vede la festa e pensa non dover andar senza suoni; suona la piva; il preite fugge; il sarto repiglia possessione de la persa preda.

 

AL MAGNIFICO MESSERE ANGELO CARACCIOLO.

 

ESORDIO

 

          Tra’ vulgari si suole talvolta ragionando dire, magnifico mio compare, che non sulo con dinari se pagano gli debiti; quale proverbio se ad alcuno fu mai caro, o bisogno ne ebbe, io sarò de quelli l’uno, che ad usarlo teco son costretto. E ciò avviene, ché dal cominciamento de la nostra amicicia insino a qui me trovo in tante e sì diverse manere de cose a te obligato, che non sulo al remunerar de quelle in alcun modo comparer porrìa, ma al pensare de como insufficientissimo me cognosco. E perché a li magnanimi, qual tu sei, le poche cose, recevendole da coloro con li quali in vera amistà sono congiunti, sogliono più che le suntuose agradire, me son disposto alcuna particella del mio a te devuto debito con la sequente novella satisfare. Supplicote dunque con amore la recepi; e se in tutto o in parte il rozzo idioma de mia materna lingua te dispiace, che non il fiore del mio inculto e inesercitato ingegno ma il sulo frutto de quella prender debbi. Vale.

 

narrazione

 

          Leggese in più autentiche e de memoria digne scritture le nobiltà e ricchezze furno già nel dilettevole paese de la costa de Amalfi; e como che negli passati tempi quelle e maiori con verità dire se ne potrebbono, nondemeno, per quello che de presente vedemo, non sulo le ricchezze con li maritimi trafichi deminuiti sono e li gran palagi ruinati, ma gli abitanti con difficultà grandissima vivere vi ponno.

          Unde, a nui tornando, dico che non multo [lontano] da la cità, de la quale quanto sia piacevole il luoco, il nome in parte lo demostra, [era una villetta], ne la quale non è gran tempo che essendo un preite, donno Battimo nominato, il quale, ancora che de villa fosse, pur del prattico e de l’intendente avea, ed essendo giovene e robusto multo, del tutto si era dato più al servicio de le donne, che a le debite ore gli divini officii celebrare; e in tal gioco de continuo esercitandosi, a multi poveretti del paese facea portar la diadema de l’ariete in su la fronte. De che, fra l’altre, avvenne che un giorno puose gli occhi adosso ad una giovenetta sua vicina, la Massimilla nominata, muglie d’un povero lignaiuolo; quale, ancora che per la sua gran bellezza multo se gloriasse quando da alcuno era amata, pur, essendosi accorta esser de lei il preite fieramente priso, fuorsi per avere altronde posti i suoi pensieri, già mai se dignò, non che d’altro, ma de una sula piacevole guardatura satisfarlo.

          Il preite, che instabile e volunteroso era per natura, cognosciuto che ’l vaghiggiare non gli giovava, e che né prieghi né losinghe in lei trovavano luoco, cominciò con importunità grandissima, con gridi e con minazze a sequitarla, per modo tale che la giovene, più per fastidio e paura che per vaghezza che ne avesse, gli promisse un dì che, como il marito andava fuora il paese, era contenta fare il suo volere. Remaso dunque il preite al promisso ordene contento, e onestamente il suo namoramento rifrenando, avvenne che un giovene de un’altra villetta non multo da quella lontana, chiamato maestro Marco, sartore, similmente de la Massimilla innamoratosi, né essendo quello ne la sartoria troppo esperto, si era dato ad andare per le feste, che in quelli luochi dintorno si faceano, sonando con una sua piva multo bella ch’egli avea; ed essendo de vulto e de persona bello e tutto pieno de nuovi mutti, dovunque andava era con festa e piacere recevuto; per la qual cosa gli mettea de gran longa miglior ragione che ’l suo mestiero antiquo.

          Amando dunque, come è già ditto, ultre modo la nominata giovene, e con dulci e accorte manere vaghiggiandola, de indurla a similmente amarlo gli fu accagione; e in tale amore continuando, un dì accadde che la Massimilla gli fe’ con piacere la simile impromissa che al fastidioso preite con rincrescimento fatta avea; de che il maestro letissimo con non picciolo piacere e disiderio la partenza del povero marito aspettava, quantunque e dal preite e da la muglie non fusse con minore ansietà aspettata. E como da la lor ventura o sciagura del marito fusse permisso, non passorno multi dì, che ’l pover uomo andò per marinaro in una caravella che in Palermo facia suo viaggio.

          E fandose una festa pochi dì poi la sua partita ad un luoco multo al loro vicino, ed essendovi chiamato il maestro Marco a sonar con sua piva, e per aventura trovatavi la Massimilla che con altre paesane era a ditta festa andata, ne fu ultre misura contento; e con piacer comune tutto quel giorno vaghiggiatise, venuta l’ora che la la festa finir si dovea, il maestro Marco, per cauta via a la donna accostatosi, per lo più breve modo possette gli chiese de gracia che la già fatta promissa osservare gli dovesse. La giovene, a cui non multo grieve era stato lo impromittere, similmente como a persona disecreta lo attendere parendogli assai legiero, dopo diverse e losenghevole paruole de un namoramento de villa, gli disse:

          — Da qui a un poco io partirò de qua e andarò per quella via che va quinci traverso. Tu adunque starai bene attento, e subito partita sarò, mi sequirai, che in buono e cauto luoco, como il nostro bisogno recerca, ne trovaremo.

          Avia la Massimilla una sua casetta con uno orticello in una costa de montagna supra il casale, quale il marito in luoco de bottega esercitava, laborando in essa ligname de le barche, e talvolta l’anno in tempo de estate con la sua fameglia v’andava ad abitare; dove pensò la giovene posser siguramente esser col maestro, a pigliare non sulo il rimanente del giorno piacere, ma eziandio gran parte de la sequente notte. Il maestro, de tal cosa letissimo, voltatosi ad un piccolo figliolo che con lui avia, e datagli la cornamusa de la sua piva, gli impuose che a casa ne la portasse; lui, da l’altra banda, postasi la piva in centura, e veduta partire la Massimilla, quando tempo gli parve, presto se avviò sequendo la sua pista. E traversando il paese, quasi in un medesmo tempo ne la già signata casetta se retrovarno; e intrati dentro e serrato l’uschio, se acconciavano per ordenatamente godere.

          Il preite, che de ciò niente sapea né de tal uomo meno avia suspetto, ma pur sapendo che ’l marito de colei era andato in Palermo e che ella era stata a la festa, parendoli già ora de redursi in casa, e avisatosi trovarla a la solita abitazione de la villa, e diliberatosi andare a provar sua ventura, postasi la via tra’ piedi, con una gran coltellessa a lato che lui chiamava Salvum me fac, con lento passo, per via de diportarsi, verso la casa de la Massimilla se invioe. E trovatala serrata dal canto de fuori, estimò subito lei essere là dove era, imperò che de andarvi era spesse volte solita; ed essendoli assai noto il luoco con la qualità del camino, ancora che duro gli paresse per lo grandissimo caldo che facea, da amore sospinto, revolti suoi passi verso del monte e con non picciolo affanno a la signata casetta arrivato, e quasi in quel punto che ’l maestro appena avia a basciar incominciato, sentendo la giovene dentro e credendola esser sula, con non poco gaudio a picchiar l’uschio incomincioe.

          La donna, lasciato il basciare, disse:

          — Cui è de fuora?

          Respuose:

          — Io, sono il tuo donno Battimo.

          — E che buona nuova a tal ora? — disse la giovene.

          A che il preite respuose:

          — E como, non sai tu quello che voglio? Pur adesso non c’è né tuo marito né altri che ’nce impacce; aprimi, te ne priego.

          Disse lei:

          — Deh! va con Dio, buonuomo, ch’io non sono al presente acconcia a far tal cosa

          Il preite, a tal resposta più turbatosi, senza più consiglio disse:

          — In fé de Dio, se tu non me apri, io buttarò questo uschio per terra, e farò a tuo mal grato quello ch’io vorrò, e dopo te andarò svergognando per tutto il paese.

          La Massimilla, sentuto il suono de le parole e cognosciuto avere il cervello supra il capuccio, e che prima lo avrebbe fatto che ditto, voltatasi al maestro, che non manco de lei tremava de paura, sapendo il capo balzano del preite, cossì gli disse:

          — Amore mio fino, tu pòi chiaramente cognoscere il periculo in che nui siamo per questo dimonio scatenato maladitto da Dio; e per tanto, a nostro comune salvamento, montarai su per questa scaletta, e intrarai per lo cataratto e ricoverara’te nel solaro, e tirara’te la scala dietro. Quivi chetamente alquanto spacio te starai, ch’io spero far per modo che, senza portarsi niente del nostro, se n’andarà con la sua mala ventura.

          Il maestro, che più de pecora che de leone l’animo avea, al subito consiglio de la giovane accordatosi, pianamente esequio quanto per quella gli fu ordenato; e quivi dimorando, posto l’occhio per un pertuso che nel solaro stava, con insupportabile dolore aspettava a che devesse il gioco reuscire. Il preite che de gridar non si arrestava che gli fusse aperto, veduto la giovene il buonuomo occultato, con lieto vulto gli corse ad aprire; e toccandoli ridendo la mano, volendo in parole procedere, il preite l’appicciò non altramente che l’affamato lupo la timida capra, e, senza alcuna onestà o ritegno, non sulo a basciar la cominciò como il maestro fatto avea, ma a rabiosamente mordere, nitrendo forte como cavallo de battaglia; e avendo già l’arco teso, dicea per ogne modo voler poner lo papa a Roma.

          La donna, che dal maestro sapea esser veduta, dicea: — Che papa è questo, e che buona ventura da parole son le tue? — e tutta isdegnosa mostrandosi, debolmente se difendea.

          Il preite ad ogn’ora più infocato nel suo amore, diposte brevemente le parole, diliberò li fatti adoperare; e bottatala de netto supra un letticciuolo e fuorsi per lo primo corritore acconciato, reposta mano a’ suoi ferri, gridando: “A Roma intra il papa!” il puose a la pulita dentro al pallio per ciò atto e ordenato, e in manera che ad ogne colpo gli facia vedere e toccare l’altare e la tribuna de san Pietro.

          Il maestro Marco, che col dolore avea in parte cacciata la paura, e, como fu ditto, mottiggevole era multo, trovandosi massimamente sul sicuro, veduta questa danza, ancora che odiosa gli fusse, diliberò fra se medesmo fare una nuova piacevolezza; e tolta la sua piva che a la centura tenea, disse:

          — Per mia fé questa non è festa da intrare lo papa a Roma e andar senza suoni.

          E postavi su la bocca, cominciò a sonare una maravegliosa intrata de porto, fando continuamente gran rumore e pista supra ’l solaro che de tavole era. Il preite, che ancora il ballo non avea finito, udito il sonare e ’l gran scamattico farsi supra ’l capo, e dubitando li parenti de la giovene e del marito non fusser qui venuti cum gladiis et fustibus, per fargli e danno e vergogna, sbigottito e con la maior pressa che avesse mai, lasciato il cominciato e imperfetto ballo, como più presto seppe, recordatosi de l’uschio e quello trovato aperto, se diede in tal manera in gambe, che, senza mai voltar capo indietro, insino a casa sua non si retenne.

          Maestro Marco, cognosciuto che ’l suo nuovo avviso era a più lieto fine reuscito che lui estimato non avea, con assai maior festa fe’ lo scendere, che con paura non avea fatto ’l saglire; e trovata la giovene quasi trangosciata de soverchio riso, che ancora dal macino levata non si era, repigliò la possessione de la già perduta preda; e como che ’l papa senza suoni a Roma non avea compito l’intrare, con piacevoli balli puosero il turco a Costantinopoli.

 

MASUCCIO

 

          Mottiggiando alquanto, dirò che gli è da credere che la Massimilla restasse con assai maior piacere de la uscita del turco da Costantinopoli, che non era stata la gloria de l’intrata del papa a Roma. Ma perché lei sula ne porrìa dar sentencia, lo lassarò estimare per similitudine a due donne monache, che appresso de racontare intendo, quale avendo e clerici e laici senza suoni recevuti, ne clariscono in causa scientiae como a salvamento de loro medesme seppero il partito in promptu pigliare.

 

NOVELLA VI

 

argomento

 

          Due monache godeno de notte con un priore e con un preite; sentelo il vescovo e puonese in aguato; piglia il priore a lo uscire del monasterio; il preite resta dentro; la sua amorosa sente che ’l vescovo vole intrare; lei sotto inganno fa levar l’abbatessa dal suo letto; fanci occultare il preite; e, trovato dal vescovo, la monaca resta libera e l’abbatessa infamata, e coloro in dinari condennati.

 

AL SERENISSIMO ROBERTO DE SANSOVERINO

PRINCIPE DE SALERNO E DEL REAME AMMIRAGLIO.

 

ESORDIO

 

          Non avendo, serenissimo principe, in alcuna de mie novelle de la grande astucia e sottilissimi partiti in promptu prisi per le più de le donne monache né poco né multo infino a qui parlato, m’è parso e utile e necessario, volendo a te, unico signor mio, novellando alcuna cosa nova scrivere, de lor costumi e manere darte qualche noticia; a tal che, si per alcun tempo avessi de loro qualche digno gesto sentito, te possi con la presente loro moderna operazione in sul tuo credere confirmare, ed apertamente descernere como loro con l’arti in li monasterii imparate hanno già de loro defettivo sesso la natura soperata, e talvolta col sapere soperano quello degli prodenti uomini, sì como il sequente processo ne renderà in parte testimonio. Vale.

 

narrazione

 

          Ne la nobile e tua antiqua cità de Marsico como già te può esser noto, è un monasterio de donne de summa onestà famosissimo, nel quale lo anno passato non essendo altro che dieci monache, tutte giovene e de gran bellezza ornate, con una vecchia abbatessa de buona e santa vita, la quale, ancora che la sua florida gioventù non avesse indarno trapassata, nondemeno de continuo a le sue brigate persuadeva a non dover col tempo insiemi la lor giovenile etate perdere e consumare, con infinite ragione affirmandogli nissun dolore potersi a quello aguagliare, che vedersi il tempo aver indarno ispeso, né avvedersene si non quando o poco o niente il pentire al remediar vale. E como che a ciò non gli bisognasse assai fatica, attesa la loro ottima e generale disposizione, pur fra l’altre due ve erano de nobile fameglia e mirabile ingegno dotate; l’una de quale, ancora che Chiara non si chiamasse, mutandoli nome Chiara la nominarò, e meritamente, considerato che ben seppe, quando gli fu bisogno, il suo fatto chiarire; e l’altra io medesmo battizzarò, e la chiamarò per nome Agnesa.

          Costoro, o che fusser state più de l’altre belle, o fuorsi più agli ricordi ed ordeni de la lor prelata ossequiose, vedendo che ’l vescovo de la cità con fieri ed espressi editti avea proibito l’intrare e ’l conversare de quel monasterio a qual si fusse persona, diliberarono con tutto ciò de non restare, anzi con maior sollicitudine e studio adoperare tutt’i loro ingegni con strani e varii argomenti, per possere a loro libidinose voglie satisfare. E in tali pensieri continuando, ed esequito l’effetto, in breve tempo il loro ben cultivato terreno produsse de multi frutti in forma de belli monachini; e stabilita tra esse due una indissolubile amistà e perpetua lega, sì lievemente si studiavano menare il rasuro, che più tosto scorticare che radere sarìa stato iudicato. E como che tal loro operare non stesse troppo occulto, ma a noticia de multi pervenisse, fra gli altri a messere lo vescovo fu tal cosa manifestata; il quale andato un giorno a questo venerabile luoco, e fuorsi per refermarlo in bene operare, avvenne che ancor lui del piacere e bellezza de la Chiara si trovò esser fieramente priso; e dopo multe sue ordenazione e novi provedimenti, a casa se ne retornò altramente che non n’era partito. Dove, cominciato a scrivere ed a sonettare, significò brevemente a la sua Chiara che tutto per suo amore si struggea.

          La Chiara, che più giorni lo avia tenuto in trame per meglio infiammarlo ne la sua passione, veduto a l’ultimo messere lo vescovo aver un viso fatto da mal pintore, e fuorsi ritratto da gli primi de Adam, e ultre a ciò avarissimo fuor de modo, in ciò assai contrario agli uncini de la Chiara, del tutto se diliberò ponerlo al suo piccolo libretto de gli beffati. Messere lo vescovo, accortosi del fatto e che del suo amore era uccellato, e che questa era Chiara per altri ma turbida per lui, se diliberò voler sapere qual fusse colui, al qual costei avesse suoi pensieri drizzati; e como amanti, a cui rare vie sono occulte, sottilmente inquisito il fatto, e trovato che ’l venerabile priore de san Iacobo godeva con sorore Agnesa, e la Chiara con un altro ricchissimo preite, chiamato donno Ianni Salustio, se triunfava, e che de compagnia quasi ogne notte andavano a sollazzare con le ditte loro innamorate, prisa de tutto singulare informazione, prepuose per ogne modo aver li dui prefati artisti ne le mano, non sulamente per ottimamente carpirgli de la folta piuma che aveano, ma per vindicarsi ancora de l’oltraggio, quale a lui, più fortunato e facile in ottinere il vescovato che la gracia de Chiara, già faciano. E andando ogne notte personalmente con gran coorte de’ suoi lopacchioni cherici dintorno al luoco, per posser tal duppio suo disiderio adimpire, avvenne che una notte, uscendo da quello il priore, ed incontratosi tra lo aguato de’ inimici e da loro priso, fu dinanzi a Caifas pontifice presentato; e tremando d’altro che de freddo, ancor che de niuna cosa fusse domandato, pensatosi fuorsi, con incusare il compagno, toglier da sé il furore del vescovo, disse che lui non andava a niuno mal fare, ma sulamente avia accompagnato donno Ianni Salustio dentro al monasterio, e lassatolo in cella con la Chiara.

          Il vescovo, non poco lieto de aver priso il priore, né manco volunteroso de avere il compagno, quello ben ligato e mandatonelo a casa, poste in ordene sue artegliarie per intrar de requeto nel monasterio, diliberò prendere a salva mano il Salustio, se possibile gli fusse stato. Agnesa, che vigilante e dubiosa era remasa, sentuto il priore esser stato priso, ancor che infino al core gli dolesse, pur, como leal compagna, avendo udito che ’l vescovo cercava de intrare, andatasene rattissima in cella de la Chiara, gli racontò in breve como il fatto andava. La qual novella quantunque da la Chiara fusse con grandissimo ricrescimento ascoltata, cognoscendo quanto de male gli ne dovia sequire, nientedemeno non perdendosi niente de core, como astuta ed animosa da subito consiglio aitata, da tal evidente e periglioso fango pensò liberarsi; e fatto levare in piede ’l preite, che per sorte allora avea discarricata la balestra e fatti de multi belli tratti al versaglio, e avisatolo a lo stare attento, rattissima a la camera de l’abbatessa se n’andoe, e con spaventevole voce chiamatala, disse

          — Madamma, corrite che ’l serpe o altra fera pessima s’è data tra’ vostri pullicini, e tutti se li mangia.

          L’abbatessa, che, como vecchia e religiosa e femena, avarissima era, ancora che la vecchiaia multo l’annoiasse, pur, per difensare i suoi, subito se gittò dal letto, e d’un trotto lupino verso la massaria de’ suoi pulli se n’andoe. La Chiara, che bene attenta stava, vedendo che ’l pensiero gli era reuscito, cavato senz’altro indugio il preite da la sua cella e pigliatolo per lo lembo de la camisa, con panni in collo, con frettolosi passi, a guisa de bestia che va al macello, in camera de l’abbatessa lo condusse; e fattolo colcare nel suo proprio letto, più veloce che ’l vento in la sua camera se ne retornoe; e quasi in quel medesmo punto che ’l vescovo era con la sua brigata intrato, e giunto nel dormitorio, e per aventura con l’abbatessa scontratosi, quale con un bastone in mano aliegra del non trovato serpe e vittoriosa tornava, veduto il vescovo col vulto de l’arme, tutto territa guardando, cossì gli disse:

          — Messere, che novelle son queste a tal ora?

          Il vescovo, che con la fierezza del suo orribile viso averìa spaventati gli orsi, a lei revoltatosi, puntalmente ogne cosa gli ricontoe, concludendo che lui intendea per tutte manere avere il Salustio e la Chiara in mano. L’abbatessa, dolente a morte del successo caso, e quanto gli era possibile la sua innocenzia escusando, respuose che a suo volere satisfacesse, che de tutto lei ottimamente se contentava. Il vescovo, che ’l perder più tempo assai gli dolea, con la sua brigata e con l’abbatessa a la cella de la Chiara brevemente se condussero; e percosso l’uschio, la chiamarono che quello aprisse. Chiara, che niente dormito avea, pur fingendo de tutta sonnacchiosa levarse, non fornita de vestire, stropicciandosi gli occhi, venuta a la porta, senza sbigottita mostrarse, sorridendo cossì disse:

          — Che vol dire tanta armata?

          A cui il vescovo, ancora che più che sé l’amasse, e a la vista de tanti lumi più che l’usato bella gli paresse, pur, per dargli gran timore, disse:

          — Como, ribaldella, nui semo qui per punire como a sacrilega, e tu parli mottiggiando, e como si non sapessimo che ’l Salustio è giaciuto questa notte con teco ed ancora è qui dentro?

          L’abbatessa, che prodente era, da la prospera fortuna de Chiara incitata, prima che quella a niente respondesse, con multe villane parole prima increpatala, furiosamente quasi le mano gli volia porre addosso. Chiara, che ne l’altrui tana avea già il suo orso collocato, alquanto isdegnata verso l’abbatessa in tal forma respuose:

          — Madamma, vui siete corsa con troppa furia, e contra ogne onestà e dovere cercate maculare il mio onore. Ma io spero in Dio e nel glorioso san Tomaso, al servicio del qual nui semo, che messere non uscirà da qui, che apertamente cognoscerà la mia innocenzia con l’altrui peccato; e Colui che liberò Susanna da la falsa accusa de’ pessimi sacerdoti, liberarà me da la infamia che mi è posta adosso.

          E ciò ditto, con ficte lacrime e gran furia disse:

          — Intrate, lupi rapaci, puro a vostro modo.

          Il vescovo, che per fermo tenea che ’l preite fusse dentro, subito quivi con tutt’i suoi intrato, e cercato in parte che appena un lepre vi sarebbe possuto stare, né per nissun modo trovandolo, pieno d’ira e de isdegno uscitosene, disse:

          — In buona fé! nui il troveremo, senza lasciarvi luoco a cercare.

          L’abbatessa, a tal che si cercassero le celle de tutte le monache, disse:

          — Messere, per Dio, cercate per tutto, e cominciate da la mia camera.

          E ’l simele dissero tutte l’altre monache, che ivi al strepito erano corse.

          Il vescovo, parendogli comprendere a che effetto l’abbatessa parlava, impuose a dui de’ suoi che intrassero in camera de la innocente abbatessa e che quivi de cercar fingessero, como luoco a lui non suspetto, per posser presto a l’altre pervenire. Intrati adunque coloro, e veduto il letto alquanto rilevato, cognosciuto in quello esser uomo, tiratigli li panni da dosso, trovorno il misero Salustio mezzo morto; quale da loro cognosciuto, subito como cani da presa l’appicciorno, e gridando: “Ecce homo!”.

          A quel rumore venuto il vescovo con quanti seco erano, intrati subito dentro, e trovato il preite in camisa giacere nel letto de l’abbatessa, ciascuno può facilmente iudicare quanto restassero de ciò tutti ammirati, massimamente la dolente ingannata abbatessa, quale attonita e stupefatta de tale accidente stava, recordandosi tal uomo non aver lei in letto lasciato, né sapea se quel che vedea o per sogno o pur per vero lo estimasse, parendogli che non meno il negare che l’accettare gli fusse interditto, Madonna Chiara, veduto il fatto reparo esser redutto al remedio del disiderato fine, se può legiermente presumere a quante sconce ed enorme parole verso il messere lo vescovo prorumpesse, et etiam incontra la povera e beffata abbatessa, dicendo tra l’altre cose:

          — Per la croce de Dio, io mandarò domane per miei parenti, che da questo bordello publico me togliano, dove si trovano preiti de notte dentro i letti de coloro che dovrìano dare a l’altre buono esempio. Vecchia del diavolo! che possa cascare fuoco da cielo, e miracolosamente la toglia de supra la terra!

          E con queste e altre assai simile parole con gran furia intratasene in cella, e dentro serratase, lasciò il vescovo con tutto ’l resto de fuora abbagliati. Il quale, convertita la sua rabia in grandissimo dolore e scorno, verso il dolente preite voltatosi, quello fe’ subito como un latro ligare, e senza altramente accombiatarsi da l’afflitta e svergognata abbatessa o altre monache, a casa se ne retornò. La sequente matina fatto vista de formare il processo, per volere il priore e ’l preite al fuoco condennare, finse per mezzo de buoni amici il suo rigido furore aver mitigato; e cossì lo fuoco che volea dare a’ sacrileghi con altri insiemi minazzati tormenti, in lo gulosissimo liquore de messer san Ioanni Boccadoro se converterno. E fu de tanta singular vertù, che non sulamente coloro da la meritata morte assolse, ma, ultre la remissione del peccato, diede loro plenaria autorità de possere per li già da loro sulcati mari liberamente navigare, e per ogn’altro pelago che a loro fatto venesse, senza alcuna pena, pur che, como figlioli de obediencia, donassero a messere lo vescovo la lor dovuta decima parte, a tal che Idio da bene in meglio i lor guadagni multiplicasse. Ecco adunque, gloriosissimo signor mio, como la sagace Chiara col suo subito reparo dagli lazzi de messere lo vescovo se liberoe, e, inculpando altrui che del fuoco la minazzava, netta del periglioso ioco uscìo.

 

MASUCCIO

 

          Per non volere, novellando, da una in altra materia trascorrendo trapassare, ho lasciato e de lasciare intendo certi utili e necessarii secreti da sapere d’alcune donne monache, e tra l’altra de coloro che a frati son sottoposte. Taccio, dunque, de le sette e mortali inimistà che frati e seculari hanno fra loro; e como quelle che se impacciano con laici son peggio che giudee tenute e reputate, e como ad eretiche sono incarcerate, discacciate e persequitate ad ogn’ora; e l’altre, faorite e onorate, hanno officii, hanno licenzie, hanno a l’ultimo prerogative grandissime. Taccio eziandio quanto dir si potrebbe circa lo sposarse con li frati, dov’io medesmo non una ma più volte sono intervenuto e visto e toccato con mani: fanno le nozze grandi, da una ad altra custodia gli amici convitano, con le salmerie carriche d’ogne bene si presentano, la missa vi cantano, de festiggiare e mottiggiar non lasciano, con secreti istrumenti vi ballano, con lo assenso de l’abbatessa e de loro prelato capituli scritti e sigillati fanno; e suntuosamente cenato e fatta ogn’altra nuzial cerimonia, non altramente che se dal proprio patre gli fusse per matrimoniale legge stata concessa, senza timore o vergogna in letto se nde intrano.

          E benché io cognosca avere impropriamente parlato, atteso che ne la precedente novella dissi che de quelle monache il cultivato terreno de belli monachini producea, nientedemeno, constando a me de ciò il contrario, non tacirò quello che intorno a tal fatto con maiore acerbità e abominazione considerar si deve. Dico che, per non ingravidarsi, de infinite arte usano, che de narrarle la onestà mel vieta; ma che diremo, quando scampa loro l’asino dal cavestro, e lor prolifico seme genera il natural suo feto? Che, per non far venire il parto a compimento, de infinite e varie medele usano, e tant’altre detestande e venenose bevande e de sotto e de supra oprano, che, continuo martellando, prima che l’innocente anima de lor figlioli abbia il materno latte gostato, o vista la eterna luce del cielo, o almeno l’acqua del santo battesmo recevuta, la uccideno e violentemente a le parti infernali la relegano. E s’alcuno dirà questo esser bugia, miri tra le fetide cloache de monache, e quivi vedrà de loro commissi omicidii testimonio manifesto, e vi troverà un cimiterio de tenerissime osse de la già fatta uccisaglia, non minor de quella che per Erodes in li innocenti ebrei fu operata.

          Né so che altro intorno a ciò dir mi sappia, si non che la pazienzia de Dio troppo sostiene; e io non possendo o non sapendo, a tal preposta materia, a compimento scrivere, a la sequente novella, per lo più breve modo porrò, de pervenire intendo; de la quale non è longo tempo ne donai aviso al magnifico Marino Caracciolo, nobilissimo partenopeo, ancora che ’l dolore del mio caro e vertuoso fratello me avesse l’ingegno per manera offuscato, ch’io medesmo non sapea qual camino prender me devesse per dare al mio scrivere principio; pur da’ suoi prieghi confortato e da più sue littere spronato, a scriverli me condussi.

 

NOVELLA VII

 

argomento

 

          Fra Partenopeo se innamora de Marchesa; fingese partesano del re per aver lo favore de la corte, e sotto inganno impètra la chiave del monasterio; il compagno li la conduce in cella; e’ dàgli dinari: la Marchesa se ne fida ad un altro suo amante; il fatto se divulga; il frate è vituperosamente priso e a perpetua carcere condennato.

 

AL MAGNIFICO E GENEROSO MARINO CARACCIOLO.

 

ESORDIO

 

          Tante sono state le accagione e sì iuste, per le quale me trovo indutto a grande e inusitato dolore e a continuo tedio de mia vita, che non avrai da maravigliarte, magnifico mio Marino, se insino a qui ho teco servato silenzio e non te ho scritto. Che se consideri, non han possuto ultimamente gli avversi insulti de la mia crucciosa fortuna, che il grande amore ch’io te porto, non abbia in me il suo luoco retrovato, e mossa l’angosciosa mente e relassata mano a scriverte la presente, e de un nuovo travenuto caso donarte sofficiente aviso, non sulamente per satisfare in parte al tuo onesto disiderio, ma per tua eterna cautela e de qualunque nel futuro la leggesse, como e quale dagli aguati de’ malvagi, ipocriti e ficti religiosi ne dovemo continuamente guardare. Imperò che sotto ingannevole apparenza de lor vesta, non como a fere silvagge e rapace, quali per lo abbaiamento de’ cani e rumore de’ cacciatori agli lor soliti boschi si rifuggeno, ma como domestici lupi e de nui devenuti familiari, sgridati, se recoverano nel secreto de nostre proprie camere, coverti de scudo de loro innata e temeraria presunzione, usurpandoce lo onore, le polpe e l’osse, con ogne nostra facultà insiemi, sì como, ultre le altre esperienzie, ancor questa de rendertene certissimo ti sarà accagione. Vale.

 

narrazione

 

          La chiara fama, che per l’universo è già sparsa, può dare a’ posteri vera noticia, como dopo la morte de l’eccelso e glorioso principe re don Alfonso de Aragona, restò pacifico re e signore de questo nostro siculo regno il vittorioso re don Ferrando, como suo erede e unigenito e multo amato figliolo; del quale fra brevissimo tempo dal santissimo papa Pio fu investito e como dignissimo re unto e coronato. Repigliato dunque da tutt’i baroni e populi il debito omaggio, e del regno intera e pacifica possessione, como volse la invida e prava fortuna, instabile e non contenta de tanta quiete e pace, non valicò il secundo anno del suo quieto solio, che il fuoco de la pestifera e mortal guerra per tutto il regno universalmente s’accese. Era tra tanti mutamenti de stati e cambiamenti de fortuna la magnifica e nobilissima cità de Napoli, ultre ogn’altra italica fidelissima, sì tribulata ed oppressa, che de continuo si vedeano gli nimici assaglire e depredare infino a le invitte porte de quella.

          Per queste e assai altre accagione non necessarie a ricontare, era la ditta cità quasi depopulata remasa; e tra gli altri li religiosi, de’ quali la multitudine era grande, non trovando gli soliti e fertili pascui ne la cità, gran parte de loro, che aveano renunciato fame, freddo e fatica per lo amor de Cristo, e como nimici d’ogne disagio se ne erano de ciascuno ordene fuggiti ove meglio parea a ciascuno e con più commodità posser poltronizzare. Nondemeno remasino alcuni; e vi restò fra gli altri un santo frate napolitano, predicatore grandissimo e ottimo confessore, e non meno investigatore de bellezza e facultà de donne che de vicii o mancamento de fede, che in alcuno uomo fusse stato; del quale como ch’io il cognosca e sappia il nome e la religione, de la quale lui falsamente se appellava osservante, per onesta accagione il tacirò e sulo fra Partenopeo qui chiamarlo intendo. Costui non como gli altri volse andar de fuora, ma il remaner dentro si elesse, per aver più ampio campo de posser senza alcun ritegno le sue insino allora occultate sceleragine adoperare. E cossì de pastore devenuto lupo sotto mansueta vista d’agnello, col collo torto, discalzo e mal vestito, che, a cui cognosciuto non l’avesse, un altro santo Ilarione gli sarìa sembiato, se avia con tale apparenze vindicata una fama e divozione maravigliosa, e non sulo tra privata gente, ma avia per tal modo abbagliata la signora regina, or col fingerse sfrenato aragonese, or con assai altri simulati inganni, che da niuno secreto consiglio era privato. E in sì malvagio stato continuando, como amico de se medesmo, se avia paricchi centenara de fiorini accomodati.

          E accompagnatose con un altro, fra Ungaro, non meno de lui scelerato ribaldo, passati un giorno per lo Pendino de’ Scigliati, e veduta qui abitare e contra voglia stare a publico guadagno una giovanetta siciliana de bellezza assai maravigliosa, il venerabile patre, ancora che de cursiggiare venesse, e non senza guadagno, e col compagno amichevolmente divisa la preda, viste e considerate tante bellezze vendersi a sì vile e minimo prezzo, ultre che fieramente de lei se accendesse, gli occorse de lui volere tutta ad un tratto tal mercanzia comperare. E a lei accostatosi, con divoto modo in tal forma gli disse:

          — Figliola mia, forzaraite domane venire fine a la nostra chiesa, per salute de l’anima e contentezza de te medesma.

          A chi la giovane presto respuose volervi volentieri andare. Per il che priso e infiammato a casa se ne retornò; e chiarita la sua nuova passione e quanto circa tal fatto adoperare intendea al suo fidatissimo fra Ungaro, con grandissimo disiderio attendea la sequente matina, per dare a tutto con opera compimento. Quale venuta, e saglito in pergolo, né appena cominciato il suo sermone, quando l’aspettata giovane vide apparire, e de tanta onestà vestita, che in milli duppii se raccesero le fiamme del suo priso e nuovamente ligato core.

          Finita dunque la predica, fattalisi la calca de subito intorno e d’uomini e de donne, qual per consiglio e qual per faore, avendo altrove firmati suoi pensèri, a tutti respuose:

          — Figlioli mei, non avete vui sentita la parola de Cristo ne l’Evangelio de stamane, che più festa e gloria se fa nel coro celestiale per un’anima dispersa convertirse, che de novantanove perfette e non indigenti de penitenzia? Per tanto, io voglio vedere se porrò fare intrare qualche scintilla de spirituale amore nel freddo petto de questa poveretta giovane.

          E prisala per mano, al sediale ove si confessa la menoe; e col suo mantello aviluppatosi, benignamente ad esaminare la incominciò de l’accagione del suo stare al comune servicio, e fattasi serva degli beccari de carne umana.

          La giovane, ancora che per la multa prattica avesse non poco de l’intendente, non possette cognoscere la malignità del suo ascoso core, ma lacrimando, per lo più brieve modo che possette, tutto ’l fatto del suo disaventurato avenimento gli ricontoe. A la quale il frate:

          — Figliola mia, — disse — Colui che è unico cognoscitore de’ secreti, me sia testimonio con quanta amaritudine ho ascoltati gli tuoi avversi casi, e quanto a me è noioso vederte in sì reo stato dimorare. E per tanto, quando tu te disponessi del tutto retrarte ad onore de marito, io te offero tutte mie facultà, qual non vaglion sì poco, che non bastassero a farte stare commodissimamamente bene; e ultre a ciò da ora voglio che tu pigli de l’anima e del corpo mio la intera possessione, pur ch’io ti veggia de la tenebrosa carcere uscita, ne la quale, secundo tu medesma dici, contra ogne tua voluntà dimori; certificandote che col tuo gracioso e accorto aspetto, e tue più divine che umane bellezze, me hai in manera priso, ch’io sono assai più tuo che non son mio nuovamente devenuto, in modo che sono tutto tuo. Supplicote dunque, dolcissima vita mia, che de me e de te medesma compassione te muova, e vogli redurte in casa de una donna vidua nostra divota, con la quale senza alcuna infamia o scandalo te starai, dove ti farò godere de quanto a l’animo te diletta, fin che ’l nostro Creatore ce mandarà alcun buono e discreto giovene davanti, a cui per muglie te donaremo, como ’l mio core unicamente disidera.

          La giovane, la cui credenza era infino a qui stata lontanissima da quel che con tanta lascività li avia provisto a scoprirli la sua passione, como prodente cognobbe esser vero quello che per adietro avia per falso iudicato, como questa infernal coorte de poltroni hanno in preda gran parte del cristianesmo; e como colei che ad ogne prezzo sapea vendere la sua mercanzia, veduto che ’l frate con tanta istancia de comperalla cercava, prepuose non sulo de non donarla ma più tosto stravenderla a carissimo prezzo, e cossì gli respuose:

          — Patre mio, io ve rengrazio de tanta vostra buona carità, ma, per dirvi il vero, io sono col mio caro uomo in tal termene, che de me non oso far quel che vorrei; imperò che essendo lui un gagliardo giovane, ricco, amato e multo faorito in questa cità, non dubito che, vedendosi de me privo, ponerìa mille vite in periglio per averme, e dopo per suo onore guastarme de la persona. Nondemeno il tempo suole adattar multe cose. Fra questo mezzo vederete se io vi posso in cosa alcuna servire, io non meno disidero esser vostra che vui mostrate d’esser mio.

          Il frate, sentendo pur il fatto termenarsi in satisfar la maior parte del suo disiderio, non curando altramente del resto, a la giovane, che Marchesa avia nome, in tal modo respuose:

          — Tu parli saviamente, figliola mia, che Dio te benedica! ma ove nui averimo commodità d’esser insiemi, atteso che del tuo uomo io non mi fidarei in alcuna manera?

          A cui ella respuose:

          — Del mio uomo dubitare non bisogna, che ultre che lui è de natura secretissimo, traendo de questa cosa profitto, como vui dicite, non è da credere che lui medesmo cercassi donarsi la zappa ne lo piede. Fate pur vui de contentarlo, e a me lassarete del resto l’affanno.

          Disse il frate:

          — Poi che a te pare, a me tutto piace; però non resta altro da esequirsi, si non qualora io manderò de notte il nostro compagno con lo mio abito, e travestita in frate con lui insieme a me te ne verrai, che io averò modo dentro la nostra cella cautamente receverte.

          La giovane, contenta, nel priso ordene rimasi; e dato che lui [era] disideroso gli lasciasse un bascio per arra, e la Marchesa altresì per più nel suo amore infiammarlo, quantunque fusse da la ferrea graticula, che ne la sedia stava, a quella la via impedita de posserli de la dolce bocca far copia, pur graciosamente il più che possette la sua serpentina lingua gli porse. E con tal suavità dispartitisi, tornata in casa e trovato il suo uomo, a quello in tal modo a dire incominciò:

          — Griffone mio, io andai stamani credendo esser prisa, ma se tu se’ savio, io ho pigliato uno ucellone per lo becco, coverto de folta piuma, che aremo spacio de pelarlo de paricchi mesi.

          E cominciato dal principio, fine a l’ultima conclusione ogne cosa per ordene puntualmente gli racontò; del che essendo lo Griffone ultre misura letissimo, milli anni gli parve che la fusta d’Ungaria venesse a rimborcare la siciliana barca.

          Fra lupo da l’altra banda, che letissimo era remasto, volendo al fatto pensiero donar celere e votivo espedimento, a ciò che da niuno degli frati recevesse impaccio, andatosene subito a la regina, cossì gli cominciò a parlare:

          — Sacra maiestà, io chiaro cognosco che a niun de’ nostri pari lo attendere a parcialità de stati mundani serìa conveniente, ma sulo considerando io esser cristiano, da necessità me trovo costretto con la voluntà de nostro signore il papa confirmarme, como vicario de Cristo in terra e de la santa matre ecclesia santissimo pastore; nientedemeno, parendomi far bene, dico, non sulamente sono costretto ad esser partesano del signor re e vostro, ma anco, bisognando, a pigliarne grieve martirio, non altramente che per la nostra catolica fede il recevesse. Occurreme dunque, donna mia, non per dir mal d’altrui, che Dio non voglia, che la maior parte de’ nostri frati non essendo de tal mia buona e cauta intenzione, serìano da esser poco più che niente esistimati, in qualunque cosa uno irremediabile scandalo sequir [non] ne potesse. E per questo, cognoscendo io essermi de bisogno de loro multo ben guardare, sarà necessario a tal cosa si pigli alcuno remedio, unde conducendose de notte a me alcun vostro partesano mio divoto, per revelarme qualche suspetto che ne la cità se avesse, o fuorsi per insignarme alcuno occulto modo de trovar dinari per lo signor re, o per mill’altre cose occurrente, e, per non esser cognosciuti, cui travestito in frate, cui in un modo, cui in altro conducer si vole; e li nostri portanari son tanto stimolosi, che, volendo, da qualunque ce viene, spiculare e intendere ogne particularità de sua venuta, fanno che questi tali prima diliberano retornarsi che fidarsi e non saper de cui; la qual cosa quanto potessi da un’ora ad un’altra nocere o iuvare a lo stato del signor re, la maiestà vostra facilmente lo può comprendere. Per tanto a me pare, e de ciò quanto posso vi supplico, a ciò che da periculi possibili ed evidenti ne liberamo, che subito ordenate col nostro prelato che per servicio del vostro stato me conceda per ogne modo una chiave del luoco, e che monisca tutto il convento che niuno de loro debbia per alcuna via impacciarsi de cui o de giorno o de notte a parlar mi venesse, e che me consigne una stanza seperata da l’altre, ov’io possa occultamente e ad ogn’ora senza loro incommodità donare udienza.

          La regina, che al buon frate donava indubia e grandissima fede, cognosciuto il suo acconcio parlare e supra vere ragione fundato, prima rendutele infinite gracie, fatto a sé venire un suo privatissimo cortesano, al maior de’ frati de continente lo invioe, che senz’altra eccezione subito fusse il supraditto volere de fra Partenopeo ad intero effetto mandato. Ove in quello istante essendo a compimento ogne cosa esequito, auta la chiave, e senza indugio guarnitase una camera da signore, venuta la disiderata notte, mandò il suo fra Ungaro a condurli la Marchesa in frate ammascarata. Né avendo multe ore aspettato, vedendo tornare il buon cacciatore che senza cani avia già condutta la preda, fattosi loro incontro, ed ardentissimamente basciatala, prisala in braccio, con mille dolci parole dentro in camera la condusse; dove, dopo la digna collazione licenziato fra Ungaro, a lor piacere in sul letto montarono, e per fargli toccare che ancora gli frati sanno a suon de naccare far ballare altrui, como che matutino non sonasse, da nove volte in su fe’ il frate il suo ardito gallo dolcemente cantare.

          Il fra Ungaro, che remasto era de fuori, udendo batter fieramente la cartera, non essendo da Medusa convertito in sasso, ma como ad uomo vivo venne ancora la resurrezione de la carne; e trovandose più che mai da tal furore infiammato, gli occorse far non altramente che i fanti de cucina, i quali da golosità vinti e per non contaminar l’arrosto del signore, sulo a lo odor de quello si mangiano lo asutto pane; tal che, como ’l fatto andasse, ciascuno me può intendere senza altra glosa: penso ben io che quella notte gli fusse più volte lo suo braccio amico.

          Venuta dunque l’alba e volendo il venerabile frate mandarne la giovane a casa contenta, donatili de più cari gioielli, e aperta una sua scatola colma de moneta, ridendo gli disse:

          — Anima mia, nui non usamo toccar dinari, e però tu medesma ne pigliarai quanti a te piace.

          De che non aspettando lei multi inviti, stesa la dilicata mano e prisine quanti in quella ne caperono, e repigliati suoi arnisi, e dato al frate un stretto ed amoroso bascio, con la guida de fra Ungaro a la sua casa se ne retornoe; e bottata la moneta in grembo del suo Griffone, gli disse in che termene stava la cosa, e como avia il frate in manera adescato, che in brevissimi dì se confidava rodergli infine a l’ossa. E fatta de ciò tra loro grandissima festa, disiderosi traere al resto, multo spesso il cominciato camino se continuava; ed essendo ognuno, ma per diversi respetti, de tal gioco contento, quantunque lo amore del frate ogne dì augmentasse e li doni e le spese non iscemassero, nondemeno, essendo la già ditta colma scatola deminuita in manera che un cieco n’avrebbe il fondo veduto, non che la Marchesa che de ciò si era multo bene accorta como quella che in simili baratti era espertissima, cominzò con infinite colorate ragione a denegar l’andata.

          Il che il frate, che da sfrenata libidine era vinto, pur accortosi, ancora che tardi, como la giovane de la sua robba e non de lui era invaghita, aguzzò l’ingegno de rimpire la vota scatola de altra quantità de moneta; e trovata in la loro chiesa per mezzo del suo fra Ungaro una gran quantità de dinari per uno sbandito citadino occultati, e de quelli avutine circa cinquecento fiorini, e lo resto consignati a la corte, in la sua interlassata impresa se tornoe. E avendo già tanta sicurtà prisa de coloro, che non sulo de notte col suo fra Ungaro ma talvolta de dì a la inonesta casa de Marchesa si conduceano, ferono le loro sceleste operazione in publica voce e fama del vulgo devenire. Dove per mezzo d’un nobile giovene, fuorsi da la Marchesa amato, ne ebbe il suo prelato particulare informazione; qual per non consentire che tal figliolo de perdizione maculasse la loro perfetta religione, sentendo una notte che fra Partenopeo a goder con la Marchesa e senza fra Ungaro si era in quella volta condutto, accompagnato da multi suoi frati e da altri gentiluomini divoti de l’ordene, in casa de la giovane si condussero secretamente; e quelli a salva mano prisi, ultre le fiere battiture che a fra Partenopeo furono date, quale ignudo nel letto con la Marchesa trovorno, fu a perpetua carcere condennato, e quivi amaramente li suoi giorni finìo.

 

MASUCCIO

 

          Se l’acerbo e condigno supplicio dato al nostro fra Partenopeo fusse stato o fusse accagione de retraer gli altri da’ reprobati vicii e continuati mali, serìa non sulo laudevole, ma da essere tra’ vertuosi con eterna memoria commendato; ma perché ne siegue il contrario, parmi che omai se lasseno con lor pravità vivere in pace. Atteso che veramente si può iudicare tale perversa generazione essere de natura de lupi, i quali, avvenendo che tra le lupine caterve alcun ne sia per tal modo ferito, che non possa gli altri sequire, tutti gli si volgono intorno e rabiosamente lo sbranano, como se de’ loro avversarii fusse stato: similmente queste venerabile gente fanno, che qualora ad alcun de loro interviene alcun manifesto scandalo, e tal che con loro fraudolenti mantelli nol possano coprire, non ce basteno continue e fiere battiture, ma infinite persecuzione e perpetua carcere a condennarlo. E ciò per due evidentissime ragione lo adoprano: l’una, ad esempio e timore degli altri, che non facciano venire le loro opere in publica voce e fama del vulgo incautamente; l’altra, che gli persequitatori abbiano maior credito e fede dei seculari.

          E che ciò sia vero, non son multi giorni passati, che trovandomi con alcuni de loro, supra questa medesma materia parlando, uno, de non minimo credito e reputazione e assai mio domestico, tal parole me disse:

          — Masuccio mio, si per una nave che pate naufragio nel viaggio de Alessandria, l’altre ne lasciassero il navigare, mai granello de pepere tra nui si mangiarìa; ma veramente le furche son fatte per gli sventurati.

          Da le qual parole se porrìa pigliare argomento, che ogne loro grandissima sceleragine gli pare esserli per approvata consuetudine permissa, dove senza stimulo alcuno de vergogna o coscienzia l’adoprano; e né timor de Dio né periculi de vituperosa morte li può raffrenare, quando a scapucciare incominciano. E cossì, per maior testimonio de tutto il supraditto, mostrarò quel che un famoso predicatore e solenne maestro in Sacra Scrittura senza alcun riguardo dicesse in la sequente novella a certi scolari, che poco più ne averìa fatto un lascivo soldato.

 

NOVELLA VIII

 

argomento

 

          Un giovene legista non vuol studiare, vende i libri e godese li dinari; un frate, predicando, promitte far resuscitare i morti; il giovene con alcuni compagni va a la predica; con una piacevole facecia crede mordere il predicatore; lui con subita e digna resposta si vendica.

 

AL NOBILE E VERTUOSO FRANCISCO SCALES REGIO SECRETARIO.

 

ESORDIO

 

          Iudico, suavissimo mio Scales, che al cominciamento de nostra amicicia a me si appartenga dare al scrivere principio, sì como tra gli amici assenti è costumato farsi. Volendo dunque, per non parere al tutto ingrato degli recevuti onori e colti frutti de tua iocundissima amistà, non sulo al presente visitarte de familiare scritture che communemente usar si sogliono, ma como singulare amico, m’è parso de una bella piacevolezza e digna de aviso farte copia. Quale con ocio leggendo, te ricordarai de’ nostri accorti ragionamenti; ché quantunque con neuno religioso sia laudevole la soverchia prattica, nondemeno cognoscirai quanto sono meno ree le conversazione de alcuni, che ne l’estrinseco de loro apparenze ce demostrano continuamente quello che è già dentro il centro de lor cori. Vale.

 

narrazione

 

          Napoli, cità eccellente, como che meritamente sia capo del nostro siculo regno, cossì è e serà sempre florentissima in arme e in littere per li suoi generosi citadini illustrata; ne la quale, non son già multi anni passati, fu un dottor legista de onorevole fameglia, ricchissimo e multo costumato. Costui, ultre gli altri beni concessili da fortuna, avea un suo unico figliolo, Ieronimo da Vitavolo nominato; il quale amandolo il patre unicamente, e disiderando lasciarlo dopo lui, ultre la ricchezza, de alcune vertù como bene incommutabile adornato, con ogne sollicitudine se dispuose farlo studiare. E como che comprender gli parea che ’l figliolo a ciò il capo non avesse, e più volte fra se medesmo e con suoi coniunti dolutosene, essendo con tutto ciò de anni pieno e finalmente venendo a morte, fatto a sé venire il suo Ieronimo, lo costituì de tutt’i suoi beni erede, e ordenatoli dovesse in legge studiare, etiam tutt’i suoi libri e de gran valore li lascioe; e cossì posti in assetto i fatti suoi, non dopo longo spacio con laudevole fama passò de questa vita fragile con onore de ample esequie. Ieronimo, che remasto era capo e signore de casa e con assai migliara de fiorini in contanti, como colui che poca fatica in acquistarli avea durata, diliberatosi non ponere in quelli multo amore, e cominciatosi suntuosamente a vestire, e a discorrer continuo con compagni per la cità, e ad innamorarsi, e in milli altri modi a dissipare il suo senza alcun ritegno, non sulamente gli fuggì del tutto l’animo da studiare, ma gli remasti libri, e dal patre in tanta estima tenuti e venerati, gli vennero sì fieramente in odio, che per capitali inimici gli reputava.

          Costui dunque, essendo un dì per aventura, o fuorsi per alcuna sua oportunità, intrato in lo studio del morto patre, e in quello visti tanti e sì belli e bene ordenati libri, como in simili luochi sogliono stare, e a la prima vista timendo e parendoli che gli volesser correre adosso, e alquanto poi rassicuratosi, revoltosi con mal viso a ditti libri, in tal modo a dir incomincioe:

          — Libri, libri, finché mio patre visse, vui me facestivo continua guerra, quando che, ora in compararvi, ora in ornarvi, avia per tal manera ogne sua cura e studio dirizzato, che, occurrendome lo bisogno de qualche fiorino o altra cosa, como i giovini disiderano, sempre da quello me furono denegati dicendome che volea i suoi dinari sulo in libri convertire; e ultre a ciò contra mia voglia intendea ch’io avesse vostra domestichezza; supra il che avute più volte con lui sconce parole, fostivo spesse fiate accagione farmi da questa mia casa avere perpetuo esilio. Dunque a Dio non piaccia, poi che per vui non remase ch’io non fusse discacciato, che da me non siate per tal modo licenziati, che nissuno ne vederà mai più questo mio uschio; e massimamente dubitando non me facessivo impazzire, como poca fatica ce durarestivo, volendo far de me como più volte me ricordo facestivo de mio patre, il qual, como troppo invaghito de vui, parlando sulo, e con strani atti e de mano e de testa, non altro che per matto tal fiata lo iudicai. Per tanto averete pazienzia, ch’io vi voglio in questo punto vendere, e de’ recevuti oltraggi ad un’ora vindicarmi, et etiam de’ possibili periculi de freneticare liberarmi.

          E ciò ditto, e con lo cunto d’un suo fante composti de ditti libri alquanti volumi, in casa de un legista suo amico gli mandoe; col quale in poche parole convenutosi, quantunque bottati e non venduti fussero, toccatine paricchi centinara de fiorini, con gli altri insiemi remistatigli, nel cominciato godere continuoe. Donde, e per la sua ricchezza e per altre sue continue facecie e piacevolezze, era sempre da’ più acconci giovini accompagnato. Del che abbattendose un dì con suoi compagni in la veneranda chiesa de San Lorenzo, dove un dottissimo frate, predicando, avia al populo pronunziato che intendea far la predica del iudicio la sequente matina, e in quella i morti parenti de ciascuno far resuscitare, occorse al ditto Ieronimo intorno a questo un faceto motto appropriare. E venuta la matina, lui con la sua brigata e con un dottore legista in lor compagnia quivi conduttisi, e modestamente da parte tiratisi, con piacere aspettavano quando la predica s’incominciasse. Venuto finalmente il predicatore e con grandissimo fervore cominciato del iudicio a predicare, stando col capo discoperto, né altramente movendosi che falcone quando esce de cappello, e senza interromper punto il suo sermone, de continuo in un lato verso una donna vidua si volgea, qual’era da lui supra ogn’altra cosa amata.

          Ed essendo a quello orribile ditto: “Venite, mortui, ad iudicium”, avendo fatti occultare dentro ’l pergolo dui trombetti, e subito a quella parole un suono spaventevole e crudo in manera incominciarono, che quanti ve erano, non sulamente ammirati e stupefatti ma attoniti e perplessi restarono: taccio de alcuni venuti fuorsi da Grosseto, i quali, or là or qua volgendosi per le sepulture, veramente aspettavano che in quel punto dovessero i morti resuscitare. Ieronimo, che con gli altri compagni seperato stava, e de la bestiagine del grosso populo se rideva, vedendo quello generalmente piangere e gridare misericordia senza intender l’accagione, parsoli omai tempo de dire la sua già pensata piacevolezza, cavatosi un fiorino falso de borsa, e al dottore che con loro stava revòltosi, cossì gli disse:

          — Io son certo che tra’ resussitati, e de’ primi, sarà mio patre, como colui che per mio poco provedimento niuno gli sta adosso, e de tratta vorrà sapere da me perché non ho studiato, e talvolta me repeterà gli libri, e milli altri piati me ponerà adosso. Dunque, togli questo fiorino, e como mio avvocato per me questa matina responderai, ché de certo vinceremo il nostro piato.

          Finito il suo ditto, quanti dintorno aveano udita tal piacevolezza e remirato con che acconcio modo e gracia la porse, il dottore e gli altri cominciorno sì forte a ridere, che parea che de ratto scoppiar tutti dovessero. Il predicatore, che alto stava e lontano, girandosi in tondo, como per cognoscer li venti suol fare il prodente nauchiero, e facilmente accortosi de l’atto de Ieronimo, e del gran riso facìano i suoi compagni dal pianto di tutto l’altro populo assai difforme, dubitando del suo vaghiggiare si fussero accorti, como colui che era un gran pratticone e pronto e ottimo parlatore, e ultre a ciò non avendo niente de l’ipocrito, se diliberò voler intender da coloro l’accagion de lor ridere, e, si fusse stato per quello che lui dubitava, con subita e acconcia resposta raconciarlo.

          Finita dunque la predica, senza alcuna dimora ov’era Ieronimo con sua brigata se condusse; e salutatigli tutti con piacevole viso, in tal modo gli parloe:

          — Gentiluomini mei, si egli non è disdicevole, vi prego, de vostro festiggiare quando li populi più piangeano, mi dicate l’accagione.

          Ieronimo, estimando costui ciò voler sapere per qualche matta presunzione, como a’ più de lor pari è de costume, né altramente cognoscendo la fodera del suo mantello, volendo con cambiato ditto morderlo, fattosi avanti, cossì gli disse:

          — Patre mio, avendo nui donata indubia fede a la vostra promissa, stavamo lieti aspettando il resuscitare d’una legiadra giovenetta morta già ne la prossima passata peste; quale essendo ammorbata, e dal marito vòto d’ogne carità abandonata, mandato per me, che più che la propria vita l’amava, feci per quella e con medici e con ogn’altro opportuno remedio quello che ad un tanto amore si espettava; del che, per mostrarmi lei gratitudine de’ recevuti beneficii, nel cospetto de più persone me si donò del tutto, promittendomi che, guarendo, non del marito ma mia esser volea. Unde la poveretta pur morendosi, ed essendo in questa vostra chiesa sepellita, pensando io che ’l marito abbia benché tardi pianto la sua avara crudelità, e per tanto, sentendo anco lui questa vostra resurrezione, col suo parentato se sia qui condutto, per menarsene la mugliere a casa; avea io da l’altro canto menato qui il mio avvocato, e pagatolo multo bene, per defendere la mia iustissima ragione e con ogne audacia presentarla inanzi de vui, como vero cognoscitore e ottimo decisore d’ogne amorosa passione, a tal che, se ’l caso succedea, avessivo donato iusta e publica sentenzia, di cui esser dovea. Ma vedendo ultimamente cotal fatto in favola converso, como le più de le volte le vostre parole sogliono reuscire, ne facciamo festa ridendo, como già visto avete.

          Il prodentissimo frate, udita la trasgressa e ben composta leggenda, ancora che del primo avuto suspetto se removesse, prepuose tal preposta non esser senza condigna resposta da trapassare, a tal che coloro cognoscessero che de grasso il suo cervello fusse condito; e verso Ieronimo voltatosi, cossì disse:

          — Vui altri signori seculari ve site avezzati le vostre donne, finché son giovane, goderve, ma poi che invecchiano e che ad altro che a percantare i vermi a’ fanciulli o a medicare li matrone non vagliono, le rimettere a nui che le scorticamo; e confessando i lor peccati e ricontandoce tutti gli auti piaceri ne la lor gioventù con vui, non ne avanzamo altro, ascoltandoli, che un radoppiamento de’ nostri intollerabili dolori; e quando avviene che alcuna ne passe da questa vita, la mandate di subito ai frati, ove, volgendo le puzzolente cadavere, a nostro mal grato sepellirle ne conviene. Cossì adunque vui de le lor dilicate carne godite, e nui de le corrotte osse ne tribulamo. Per le quale accagione possiti considerare in che manera nui poveri frati siamo da vui crociati, e como de questo mundo non avemo altro de quello che per nostra industria ne procacciamo. E per che con manco pazienzia tollerar possemo, è il non lasciarne con quiete e pace le nostre donne monache possidere, quale ab eterno ne avemo iustamente vindicate; e volesse Idio che depredar vi bastasse la parte che ragionivolmente non vi conlingerìa, e lasciassivo il persuaderli ne arrobeno, sì como fanno, per darlo a vui. E si vero testimonio alcun render ne puote, veramente io sarò quello, imperò che, dopo sono in questa cità, non senza mio grandissimo interesse so bene como il fatto sia andato. E si non che alcuni animali mal tinti de nostro pelo, a li quali vui altri con poco senno troppa fede prestate, ancora che osservanti si chiamino, e che hanno bandita la croce contra lo onore e facultà vostre, che, per amore de l’ordene, de ditte ingiurie ce vendicano, la nostra religione starìa male. Né contenti anche del supraditto, venite de presente a ponermi piati de cose morte e putride tra le mano, per non deviare dal vostro principiato camino. Nientedemeno, se alcun de vui vuol fare ultima esperienzia, s’io son buon cognoscitore de l’amorose differenzie e de sue passione ottimo decisore, menatime una bella giovenetta viva e sana, de la quale fatto che ne averò appreso de me il sequestro, como la ragion vuole, ch’io spero, per dura che sia la questione, al costituito termene darne sì fatta e più che iusta sentenzia, che a la giovane piacirà summamente, e quantunque ognuno de’ litiganti ne appellerà, le loro appellazione non saranno ammesse. Remanetevi in pace, e Dio sia con vui.

          Remasti Ieronimo e’ suoi compagni non sulo ammirati ma confusi de la digna e sentenziosa resposta de messere il frate, e tutti s’accordarono a dire che tra gli altri poltroni costui como meno gattivo se possea in parte commendare; ma io col mio poco senno ad ognuno persuado che, senza far distinzione alcuna, de longi li termeni de nostre case tutti insiemi andar li facciamo.

 

MASUCCIO

 

          Non dubito che sarranno alcuni de’ moderni disiderosi de, pigliandomi in sermone, dannarmi, ov’io ho ditto che, per aver sì lascivamente parlato, il prescritto predicatore ne debbia esser in parte commendato. E como che a questi tali saprei da me medesmo con facilità respondere, pur, e per approbazione del mio parlare e per esemplo de’ posteri, ho voluto como necessario produrre in mia difesa a questo proposito la irreprobabile autorità del nuovo san Paulo, dico de fra Roberto da Lecce, trombetta de la verità, quale per firma conclusione tiene e con vere ragione prova, rarissimi religiosi esser ogge supra la terra, che gli precetti de lor regule compitamente osserveno, secundo da’ santi fundatori de quello fu ordenato. Condiscendendo a l’ultimo a la particularità de’ suoi minoristi, affirma che quelli fra’ minori, quali osservanti vonno esser chiamati, mancano evidentemente in le più alte e importante cose che per lo serafico Francesco fussero ordenate, e alcune inutile e supersticiose inviolatamente le osservano: portano gli zoccoli grossi e mal fatti, che mai san Francesco ne vide, per mostrarsi a l’ignaro vulgo umili, poveri e obedienti; vesteno gli mantelli de vari colori repezzati, col coirame per fibia e lo ligno per bottone, e altre simili ipocrite apparenze né scritte né a la loro santissima regula pensate.

          Né tacirò d’altra parte che, trasgredendo dal necessario, per la umilità, non sulamente superbi, elati e pieni de fasto deventano, ma de gloria, e più d’altra gente che viva, disiderosi; e, per la obedienzia, ogne dì a li lor prelati se rebellano, massime quelli che, tornando predicatori, voleno le mule portante, con li famegli a piede e col somaro de biade carco, tal che più tosto erbaiuoli o vero cerretani che servi de Dio porrìano esser iudicati. Ma che dirò de’ confessori, che a bastanza lo precetto de la santa povertà osservano, e massimamente de non toccar dinari che siano falsi, ma accumulare li buoni? E certo pare che loro insaciabile gulosità mai se abbia da impire. E cossì evidentemente deviando da’ ditti doi espressi precetti e solenni voti, dicono che l’autorità de’ summi pontifici loro ne ha dispensato; ma al terzo voto de la castità essi medesmi senza autorità papale ogne dì se ne dispensano. Quanto son miseri coloro, che con le loro brigate conversar li permettono! Potremone dunque con le prime parole confirmare che quilli tali, che nissuna supersticione de ipocresia non usano, como meno gattivi sono da essere onorati, amati e commendati, e gli altri da nui con decreto eterno e perpetuo esilio banditi e discacciati. E, al presente de loro tacendo, dirò in questa altra nona novella de un preite, al quale essendo stata interditta l’arte a lo cognoscere carnalmente una sua commare, adoperò l’ingegno a satisfare al comune disiderio.

 

NOVELLA IX

 

argomento

 

          Un preite iace con la commare; il marito geloso lor vieta la prattica; la giovane se finge spiritata; mandano il marito in peregrinaggio e ’l preite torna a godere con la commare senza sospetto.

 

AL MAGNIFICO MESSERE DRAGONETTO.

 

ESORDIO

 

          Tornandomi a memoria, generoso e spettabile cavaliero, aver più volte, confabulando insiemi, negli nostri ragionamenti trascurso quanta è la corta e poca fede ogge si può e deve meritamente avere a preiti, monaci e frati, a confirmazione de’ quali m’è occorso, dandote aviso d’un piacevole caso, render gli ascoltanti accorti de la strana cautela novamente da’ preiti nel loro andare in curso trovata; quali, accorgendosi che, per religiosi, lor sia la conversazione de donne usurpata, per vindicarsi la perduta preda, si sono ingegnati a devenire de le belle giovini compari, non fando del violare alcun caso il celebratissimo sacramento del battismo, ove la maior parte de la nostra santa e cristiana fede consiste. Cossì adunque tradendo Cristo, beffando san Ioanni e ingannando il prossimo, né vivi né morti uscir de le lor branche possemo; unde Idio per eterno miraculo a ciascuno la mente illumini, de cognoscer li loro occulti tradimenti, como tu, prodentissimo cavaliero, ottimamente discerni.

 

narrazione

 

          La Pietra Pulcina è un castello posto in Valle Beneventana, da rozza gente, e più atta a la coltura o massaria de bestiami che ad altri trafichi o lucrevoli esercicii, abitato; ove essendo a questi dì passati un preite giovene e de buona presenzia, e sapendo pur un poco leggere, con lo aiuto de madamma santa Croce, unico favore de ignoranti, fu creato arcipreite de ditto castello. E como che lui fusse stato de gran longa megliore invescatore de bosco che pastore de anime umane, pur cominciò ad esercire l’officio con men mal che possea; e ultre che in breve tempo de la maior parte de uomini e donne de ditto castello compare devenisse, agli tempi necessarii e ordenati a ciascuno gli spirituali sacramenti donava. Costui finalmente, como quel che poco caso facea de metter ad un bisogno san Ioanni intro un pertuso, posti gli occhi adosso ad una giovenetta sua commare, de singular bellezza ornata, lo cui nome era Lisetta, de quella fieramente si innamoroe. Era la ditta giovane donna muglie d’un giovane, il Vineciano chiamato, il quale, essendosi como fante a piede ne la prossima passata guerra al soldo esercitato, e, per gli frutti che la pace communemente ai soldati dona, a l’ultimo repatriato, domando la terra con la zappa e l’aratro, col proprio sudore la sua vita e de la bella muglie onestamente ducea.

          Ed essendosi accorta che ’l suo compare de lei era invaghito, cognoscendolo per la nova dignità pur il primo de la terra, a grandissima sorte sel reputava, e seco medesma più volte de ciò gloriandosi, volenteri lo averìa interamente satisfatto; si non che il marito, como prattico, era de lei in manera devenuto geloso, che, andando ogne dì a la solita coltura de’ campi, in sua compagnia de continuo la menava. Ma accadendo un giorno, per esser la giovane indisposta, de restarsi in casa, e lo marito andare fuora con suoi boi, essendo tutto da l’arcipreite sentito, de fare de l’amor de la commare esperienzia totalmente si dispuose; e passando a sua casa dinanzi:

          — Buon dì, — disse — commare.

          A la voce del quale tutta iocunda affacciatase, rendutoli il conveniente saluto, ove andassi cossì per tempo il domandoe; a la quale, ridendo, in tal forma respuose:

          — Io era adesso venuto che ’l compare è andato fuora, e tu pur si’ una volta remasta, a pregarte che la sua cavalla insino a la vigna me prestassi, dopo che lui ne è tanto scarso, che non sulamente non consenterìa che alcuno la cavalcassi, ma che appena, si non appresso de lui, si vedesse.

          Lisetta, che discretissima era, avendo ottimamente compriso de qual cavalla ragionato gli avea, ancor lei sorridendo, in tal modo respuose:

          — Compare mio, il pensiero per ogge v’è vero falito, imperò che site a tal tempo venuto, che, volendo imprestarvela, non porrìa, atteso che ha per manera guasto il dosso, che de la stalla usciri non potrebbe; e volendoci mio marito questa matina a l’albi cavalcare, per lo difetto ricontato per nissuna via possette

          L’arcipreite, intesa multo bene la natura del male:

          — E anche questo — disse — è de nostra ventura; che non so quando sì bel destro como adesso aver si potessi, avendo io massimamente provisto da tanta biava donargli, che dinanzi superata gli sarebbe, e sì bene governarla, che un’altra volta son certo de meglior talento imprestata me l’avresti.

          — Aimè! — disse la giovene — tutti sete cossì avantatori e baldanzosi! Ma io non vidi mai cavalla, per ammorbata che fusse, che gli avanzasse un granello dinanzi.

          — Como non? — respuose lui. — Or priega pure Idio che vi monti su, che gli veri effetti maior testimonio ne renderanno.

          A che la giovane disse:

          — Or va con Dio, compare, che fra quattro o sei giorni spero se gli porrà metter l’imbasto, e saremone su la prova.

          E con simili ragionamenti partiti, il corto termene vallicato, e la cavalla in manera redutta che ogne gran fatica averebbe sostenuta, andando il Vineciano al costumato esercicio, la giovene, che la fatta promissa osservare intendea, con colorata accagione in casa se remase. Il che saputo l’arcipreite, senza altro intervallo dinanzi a l’uschio de la giovane si condusse; e in quello, senza esser da alcun visto, intrato, trovata la cavalla in ordene, acconciatese con poche parole a suo modo le staffe e de supra montatovi, gli donò una stretta sì fiera, che, a non partirgli i sproni da’ fianchi, se trovò avere de buone due miglia e mezzo e in brevissimo spacio il suo camino avantaggiato; e se la bestia dentro ’l curso, per lo ratto correre, de sotto non gli inciampava, facilmente, como già preposto avea, averebbe il terzo miglio fornito; e a tal che gli effetti da le parole non discrepassero, ad ogne miglio la biada gli avantaggiava. Unde con grandissimo piacere tutto quel giorno cavalcando, senza saper la sera il numero de sue fatte miglia, il cominciato camino continuarno. Appressandosi finalmente l’ora che ’l Vineciano a casa retornar dovea, l’arcipreite, con buona ordenazione accombiatatosi, la cavalla quasi stracca, ma non sacia, al suo stabulo lascioe. Ove successe che essendo dal marito, o per vicio de gelosia o per esserne fatto accorto, vetata e monita che, per quanto non volea la morte recevere, se guardasse per lo inanzi de aver con l’arcipreite parlamento alcuno, la donna, recordandosi de l’abbondante biada del suo caro compare, multo difforme da quella del marito, dal quale a pena una picciolissima misura la settimana gli ne toccava, fu quasi morta de dolore; e fattolo a l’arcipreite sentire, e da lui con ricrescimento mai simile tollerato, dopo multi e varii trattamenti per una fida mezzana adoperati, ad uno fine più piacevole che periculoso [se] firmarono.

          E per mandarlo senza dimora ad effetto, una domenica matina, uscendo da la chiesa, in presenzia de tutto il populo fingendosi la nostra Lisetta spiritata, de mano, de bocca e d’occhi a torcerse incomincioe, e in manera urlando, che quante brigate v’erano, per verissima spiritata la fuggivano. Il marito, che più che la propria vita l’amava, vedendo tal novità, dolente fino a morte e piangendo amaramente, fattala in casa condurre, e avendo il dolore in parte cacciata la gelosia, mandato subito per il compare arcipreite che scongiurasse lo spirito e vedesse con qualche santa orazione de farlo de quindi partire, lagrimando il supplicoe. Lo quale con gravità fattosi avanti, e con solito ordene cominciando sua scongiura, cui ello fusse lo adomandoe; a cui la giovane, como già ordenato aveano, respondendo disse:

          — Io sono lo spirito del patre de questa poveretta giovene, e de andare dieci anni topinando in tal modo son dannato.

          Il Vineciano, sentendo quello essere il suo socero, accostatoglisi, piangendo cossì gli disse:

          — Deh! io te priego da parte de Dio che tu esci de qui, e non voler più affligger tua figliola.

          E respondendo lo spirito disse:

          — Fra pochi giorni io uscirò de qui, ma te annuncio che intrarò poi nel corpo tuo, dove starò tutto il tempo che te ho ditto, a purgare il mio peccato, atteso che tu fusti allegro de mia morte.

          Il povero Vineciano, udita la fiera novella, lassato de la muglie il presente dolore, per la paura de’ suoi prossimi futuri guai tutto territo, disse:

          — Ahi dolente me! Non si troverà alcun remedio, o per via de elimosine o de altri beni, che tal sentenzia rivocare si potesse?

          — Maisì, — respuose lo spirito — se tu volisse.

          Disse egli:

          Como, s’io voglio? Io ne venderò insino a l’asino mio!

          Allora il spirito disse:

          — A te conviene andar quaranta dì in peregrinaggio a quaranta chiese, e a far dire in ciascuna una missa per remissione de’ miei peccati; e lassa ordene a l’arcipreite tuo compare, del quale iniquamente hai pigliata gelosia, che in questo mezzo ne debbia dire qui altretante, e che ogne dì venga a dire tutte le ore canoniche a l’urecchia de tua muglie, imperò che le sue orazione son multo accette nel cospetto de Dio, atteso quanto è da bene e spirituale persona; e però da qui avanti li abbi fede e divozione grandissima, che per le sue orazione io spero de non sulamente receverne la gracia, ma che Idio ne abbia da multiplicar continuo le tue massarie.

          Il Vineciano, udendo che pur alcun reparo se trovava a tanto male, quanto lui per indubitato tenea essergli apparicchiato, respuose che senza altra dimora ogne cosa ad effetto mandarebbe; e subito al santo compare voltatosi, e a quello supplicato che tutto il supraditto esequisse, e che per espedizione de quello il suo bello porco vendesse, si mise brevemente in camino. L’arcipreite, che con gli occhi avea finto de lagrimare e col core dadovero riso, pigliò de continente il carrico de quanto dal compare gli era stato ordenato; e repigliata possessione de la muglie e de le piccole facultà sue, prima che ’l marito dal santissimo viaggio retornasse, per firmo si può tenere che, per cavare un spirito dannato da quello afflitto corpo de la giovane, con grandissimo piacere de tutti dui assai più d’un centinaro ve ne puosero de beati. E cossì ad un medesmo tempo le non cominciate misse forono finite, il Vineciano tornato dagli fatti peregrinaggi, e Lisetta liberata, e lo spirito purgate le pene. Restò il Vineciano per causa de tanti beneficii obligatissimo al santo compare, tal che per inanzi mai ebbe de la bella muglie gelosia. Quale nel tempo de la sua infirmità tutti i secreti e de uomini e de donne che gli davano noia, como gli spiriti sogliono fare, avea revelati, como colei che da l’arcipreite gli n’era fatta multa copia, per averli avuti da coloro in confessione, secundo la reprobata usanza e dannata prattica de tal pravissima generazione.

 

MASUCCIO

 

          Piacevolissime cose sono state quelle de la racontata novella, e non senza riso da trapassarle, e tra l’altre de la inciampata de la bestia, che non fe’ fornire il terzo miglio al buon cavalcatore; quale camino, da cui non ne è fatta esperienzia, pare che con difficultà si possa credere. Nondemeno con abominazione grandissima si può e deve considerare la pessima qualità e pravi costumi non sulo del rustico arcipreite ma de la maior parte de’ sacerdoti, quali non fanno più caso o difficultà a rompere e violare il celebratissimo sacramento del Battista o revelare i secreti de la sacratissima confessione, che farebbono errandosi una minima particella nel dire de loro in divoto officio. E quando l’un da l’altro d’alcun de ditti esecrabili vicii o maiori si confessa, se maiori committere si ponno, e per quelli meritasse non che la perpetua carcere ma la penosa e orrenda morte del fuoco, dànnosi per penitenzia un paternostro, como se in la chiesa avesse sputato; e quando per caso li venisse alcun secularo tra le mano, che fusse in qualsivoglia de ditti detestandi errori cascato, ultre il rumore che gli fanno in testa, il condannano per eretico, né mai ad assolverlo si concordano, se prima non hanno la facultà de madamma santa Croce. E che ciò sia vero, mostrarò in la sequente decima novella, e ultima a più trattar de’ fatti loro, como un vecchio penitenzieri, non in villa o in luoco rustico, che l’ignoranzia il possesse in parte escusare, ma ne l’alma cità de Roma e nel mezzo de san Piero, per summa gattività e malicia vendea, a cui comparare il volea, como cosa propria il paradiso, sì como da persona digna de fede me è stato per verissimo ricontato.

 

NOVELLA X

 

argomento

 

          Frate Antonio de san Marcello confessando vende il paradiso; accumula infinita pecunia; dui ferraresi con sottilissimo inganno gli vendeno una contrafatta gioia; accorgese esser falsa, e per dolore como desperato ne more.

 

AL NOBILE E GENEROSO FRANCESCO ARCELLA.

 

ESORDIO

 

          Vertuosissimo mio Arcella, se nui mortali volemo accortamente pensare quanta e qual sia stata sublima e immensa la misericordia e abundante gracia del grande Idio verso la umana generazione, chiaramente cognosceremo che dal principio del nostro procreamento non sulo gli bastò averne fatti ad imagine e similitudine sua, ma volse appresso donarne a dominare e mare e terra, monti e piani, con tutte generazione de animali irrazionali a nui subietti, inclinivoli e proni al nostro vivere. E quantunque gli nostri primi parenti per loro ardito gusto ad essi e a tutt’i successori loro la inevitabile ed eterna morte cercassero, nondemeno, per mostrarne in ogne atto la sua gran liberalità e summa affezione, volse mandare il suo unigenito figliolo, volendoce da quella redimere, a pigliare con amarissima passione morte in sul ligno de la croce, per la quale immediate ne furono aperte le serrate porte del paradiso. E ultre a questo, per non lasciare niuna parte a demostrarne la vera affezione del suo caritativo amore, volendo retornare al patre und’era venuto, il glorioso pontifice san Piero suo dignissimo vicario ne lascioe con amplissima potestà, e dopo lui tutto il sacerdotale clero successivamente como a suoi commissarii, che ne possano e vagliano donare, pur che nui vogliamo, la propria cità del paradiso. Ma quel che con maiore ammirazione considerar si deve, è la infinita pazienzia de esso creatore Idio in tollerare alcuni de ditti commissarii supra la terra, quali con la ditta autorità confessando vendeno como cosa propria, a coloro che comparare il credeno, lo paradiso; e, secundo la possibilità del comperatore e la quantità de’ dinari, gli dànno e toglieno più e meno alto luoco appresso la gran maiestà de Dio, non fando distinzione da un omicida, o altro d’ogne vicio sceleratissimo, ad un uom modesto e de buona e costumata vita onorato, pur che le loro avare mano vengano ad esser unte de moneta. E si non ch’io ho del tutto diliberato de non volerli più col calce de la penna offendere, io te recarei qui tanti e tali antiqui e digni de fede esempli, e tant’altre moderne e vere testimonianze de’ fatti loro, che a te e a multi grandissima ammirazione darìa, como la divina iusticia non consente a tutti insiemi fulminargli e rilegargli ne l’estremo centro de l’abisso. Nondemeno appresso ti demostrarò quel che un vecchio religioso, per accumulare moneta, facesse; quale avendo ad infiniti innocenti cristiani il paradiso venduto e per lui le sue porte a tutti aperte, nel suo ultimo partire gli furno meritamente in sul viso riserrate. Vale.

 

narrazione

 

          Nel tempo de Eugenio quarto, dignissimo principe del Cristianismo, fu in Roma un religioso d’anni pieno, catolico e de buona e santa vita esistimato, il cui nome fu frate Antonio de san Marcello, de l’ordene de’ servi, grandissimo tempo tra ’l numero degli altri penitenzieri ne le sedie de san Piero esercitato. Nel cui officio continuando e dimorando, e non con vulto de l’arme, como alcuni sogliono, ma con piacevole accoglienze e dolci manere persuadeva a ciascuno lo andarsi da lui a confessare, imperò che, como l’acqua l’acceso fuoco ammorta, cossì la santa elimosina mediante la vera confessione purga in questo e in l’altro mundo gli peccati; e quando alcuno per aventura a lui fusse andato, il quale tutte sceleragine e irremissibili peccati, che per umano spirito adoperar si possano, avissi commisse, pur che la mano d’altro che vento gonfiata li avesse, de botto de rimpetto a san Ioan Battista il collocava. E in tale enormissimo guadagno multi anni continuando, ed essendo quasi per santo da ciascuno tenuto e reputato, avvenne che la maior parte de ultramontani e anco de italici d’altro che da costui non si arebbeno saputi per nissun modo confessare, rempiendoli ogne dì la tasca de varia qualità de monete. E benché avesse con questo modo assai migliara de fiorini accumulati, e con ipocrita vista alcuna demostrazione de fabricare nel suo monasterio facesse, nondemeno erano sì rare e poche le spese, che a la sua grande intrata altro non era che un bicchiero d’aqua del Tivero aver tolto.

          Unde non dopo longo tempo arrivando in Roma dui gioveni ferraresi, l’uno Lodovico e l’altro Blasio nominati, quali, como usanze de lor pari sono, con false monete e gioie contrafatte e con altre assai arte tutti coloro ingannando che giunger si posseano sotto vento, andavano continuamente il mondo trascurrendo; costoro essendo un giorno de la gran ricchezza de frate Antonio fatti accorti, e como lui supra ogn’altro vecchio e religioso era avarissimo, tal che non ad altro fine stava a ditto luoco de penitenziaria che per innata cupidità, dove de celestial sedie fando continuo baratto, con più proprio nome banco de publicano serìa stato chiamato; e trovato como ancora il buon frate con certi cambiatori de moneta, como che d’ogne lingua esperti star vi sogliono, tenea stretta prattica e conversazione, e che altre industrie quelli non facìano che de cambiar monete de lor paese, sì como tuttavia dinanzi a san Piero, per comodità degli ultramontani che vèneno, oggedì fanno, e che da quisti tali non sulo gli erano le monete cambiate e, per accumularle, in italiche redutte, ma anco la compara de alcune gioie, che li venivano a le mano, li consigliavano; cossì adunque de suoi progressi particularmente informati, de ponere il frate al numero degli altri da loro beffati se diliberarno. Del che, avendo Blasio multo bene la lingua castigliana, fingendose esser uno de li cambiatori de la nazione spagnola, appiccatase una banchetta al collo, con suoi dinari una matina per tempo como gli altri dinanzi san Piero si collocoe; e ogne volta che frate Antonio intrava o usciva, con lieto viso fandoli costui de capuccio, salutava.

          E in tal ordene continuando, e venendo anco disiderio al frate de aver sua domestichezza, e un dì chiamatolo, piacevolmente e del suo nome e de qual parte fusse il domandoe. Blasio, de ciò letissimo devenuto, parendoli che ’l pesce odorasse l’esca, con accorte manere in tal forma gli respuose:

          — Messere, io ho nome Diego de Medino, al piacere vostro, e son qui non tanto per cambiar monete, quanto per comparare alcuna bella gioia, ligata o sciolta, che ne le mano me capitasse, de quale la Dio mercè sono grandissimo cognoscitore, como quel che longo tempo in Scocia dimorai, dove volsi intendere multi secreti de tal arte. Como che sia, patre mio, io son tutto vostro; e venendove de le nostre monete tra le mano, io sono apparicchiato con ogne picciolo guadagno a servirvi, cossì per respetto de l’abito, como per amore de la vostra nova e a me carissima cognoscenza.

          Il frate, udito lo acconcio parlar de costui, e avendo inteso esser sì gran lapidario, non in poco grado piaciutoli, anzi a grandissima ventura tenendosi de avere un tale amico acquistato, cossì con viso iocundo gli respuose:

          — Vedi, Diego, tu devi sapere che ogne buono amore è reciproco; però, avendo io de singulare autorità e fuorsi maiore de’ penitencieri de questa chiesa, non vi rincresca, quando alcuno de vostra nazione o d’altra vi capitasse inanzi, mandarlo da me, che per vostro amore lo averò per recommendato, e de far per vui il simile o più me darete accagione.

          E in tal modo da parte in parte ringraziatisi, e concluso non altramente usarsi l’un l’altro che da patre a figliolo, ciascuno a far suo officio se retornoe. Lodovico, che, secundo l’ordene tra loro firmato, era travestito in marinaro provenzale de galea fuggito, e per san Piero andava mendicando, sapea sì ben far l’arte del gaglioffo, che, ultre a quello che de fornire intendea, recevendo quasi da ognuno elimosina, de assai minuti aravogliava. E discorrendo per la chiesa con l’occhi sempre al pennello, e visto frate Antonio senza impaccio de confessare, con lento passo a lui accostatosi, umilmente de un poco de udienza gli supplicoe. Il frate, che avea borsa d’ogne dinaro, ancora che secundo vista poverissimo lo estimasse, pur de riverso voltatoglisi, [e quello postoglisi] a’ piedi e fattosi il signo de la santa croce, cossì gli prise a dire:

          — Patre mio, ancora che li mei peccati siano grandi, io non sono qui tanto per confessarmi, quanto per revelarvi un grandissimo secreto, e più presto a vui che ad altri, parendomi comprendere in vui grandissima bontà e divozione verso il servicio de Dio; né so qual spirito dentro me stimola o per mia ventura o vostra buona sorte, che me sento costretto sulo a vui manifestarlo; e per tanto vi rechedo e supplico per lo vero Dio e per lo santissimo sacramento de la confessione, vi piaccia con quel silenzio tenermi, che vui medesmo discernerete persuadere al bisogno.

          Frate Antonio, che ben considerava secundo il suono de le parole posser da quello traere alcuna utilità, verso lui subito voltatosi e tutto estimatolo, benignamente cossì gli respuose:

          — Figliolo mio, a volerti de me fidare, quello ne porrai esequire che l’animo te consiglia; pur de recordarti non restarò che ogne tuo secreto palesar mi porresti senza niuna dottanza, imperò che devi ben sapere che non a me ma a Dio il diresti, e che niuna vituperosa morte, ultre la dannazione eterna che ne sequirìa, potrebbe esser bastevole a punir colui in questo mundo, che revelasse un minimo secreto de la santa confessione.

          Lodovico, che astutissimo era, cominciato a lagrimare, disse:

          — Messere, io credo ciò che vui dite, ma non resta ch’io non tema che la cosa sarà multo periculosa, e che non abbia da suspicare como possa senza scandalo e periculo de la mia vita reuscire.

          Il cupido frate da l’altra banda, usando ogne sua sagacità, continuamente gli persuadeva con efficacissime ragione che supra la sua coscienza non dubitasse. E con tale astucia grandissimo spacio detenutosi, vedendolo finalmente ben infiammato nel disio de saverlo, tutto timido, como e quale era stato per forza detenuto ad una galea de catalani un longo tempo, ordenatamente gli ricontoe, concludendo in summa lui avere un carbuncolo supra de sé de infinito valore, il quale ad un greco suo compagno, che de morbo era stato morto in ditta galea, avea de notte furato, como quel che sulo sapea lo ditto greco tener a costa il petto quella preciosissima gioia, la quale, insiemi con un todesco, con altre assai ricchissime cose aveano dal tesoro de san Marco arrobate con sottilissima arte; e che per loro mala sorte erano in ditta galea incappati, de la quale, essendo in quelli dì andata traversa in Faro, lui con più altri era campato, e con lo aiuto de Dio conduttosi in Roma.

          E finita sua ben ordenata diceria, lagrimando suggiunse:

          — Patre mio, io chiaro cognosco che, portandola adosso per sì longo camino, quanto è da qui a casa mia, de farmi appiccar per la gola un dì potrebbe esser accagione; e pertanto io non curarìa per assai minor prezzo de quel che vale da me alienarla. E perché, como vui vedete, par che Idio me abbia ispirato, che dirittamente inanzi a vui me sia condutto, e fuorsi abbia ordenato, per li multi beni che vui, secundo ho inteso, facite, che sia un tanto tesoro più presto vostro che d’altro, vi supplico per tutte le preditte ragione, che questa cosa sia in manera condutta, che alcuno scandalo sequire non ne possa; e io vi mostrarò la ditta gioia, e se farà per vui, mi darete tanto che, retornato sarò a casa, io ne possa maritare tre mie figliole, de le quale pur ogge ho sentita novella che son vive e in estrema miseria redutte; ché altro de la ditta gioia non vi domando.

          Frate Antonio, udita la conclusione de la sua ben composta favola, non sulamente il crese, ma ne fu tanto lieto, che tra la pelle caper non gli parea; e dopo che con multe ornate parole de tenerlo secreto lo ebbe rassigurato, che gli mostrasse la gioia lo rechese. Lodovico pur timido mostrandosi, e lo frate de continuo stimulando, cavatosi a l’ultimo, quasi tremando, de petto un pezzo de cristallo in oro fino ligato con un foglio arrobinato, sì maestrevolmente fatto, che veramente un finissimo carbuncolo parea, la grandezza del quale et etiam la bellezza era tanto maravigliosa, e sì bene in cendato involto e artificiosamente acconcio, che altro che vero lapidario non l’avrebbe per falso cognosciuto; e in mano ricatoselo, e con l’altra covertolo, guardandosi intorno, a l’ultimo al guloso e rapacissimo lupo il mostroe. Dal quale visto, e restatone tutto confuso e ammirato, parendoli de maior pregio che lui non credea, subito gli occurse dal suo castigliano amico farsene consigliare; e a Lodovico voltatosi, disse:

          — In verità la gioia mostra d’esser multo bella; però esser porrìa che dal tuo compagno te fusse il falso narrato; ma per uscir de dubio, piacendote, io la mostrarò cautamente ad un maestro mio singularissimo amico, e s’ella è como pare, io te donarò non sulamente quello che hai domandato, ma quanto serà de mia facultà.

          A cui Lodovico disse:

          — Questo non fareti vui, imperò che potrebbe esser accagione de farmi iusticiar per latro.

          Respuose il frate:

          — Veramente de ciò non dubitare, che io t’imprometto de non partire de questa chiesa, ma sulamente andarò infine a l’uschio maiore, dove è un castigliano grandissimo gioiellieri, persona multo da bene e mio spiritual figliolo, al quale con gran cautezza la mostrarò, e a te subito la tornaroe.

          Lodovico replicando disse:

          — Oimè! ch’io dubito non siate ogge accagione de la morte mia, e se possibil fusse, dirìa de no. Tuttavolta vi prego e recordo, avvertati multo bene como de spagnoli vi fidati, imperò che sempre furono uomini de corta fede.

          Disse il frate:

          — Deh! lasciatene il pensieri a me, ché, quando lui fusse il peiore uomo del mundo, non m’ingannarebbe, como quel che non manco che a se medesmo mi porta amore.

          E da lui partitosi, se n’andò ratto ove era da Diego con gran disio aspettato; il quale veduto, e al modo usato salutatolo, e da frate Antonio respostoli, e da parte tiratolo, occultamente gli mostrò la cara gioia, pregando, per quanto amore gli portava, che con verità il valore de quella gli dicesse. Como Diego ciò vide, fe’ vista primo de ammirarsi, e poi sorridendo disse:

          — Messere, voletimi vui ucellare? Questo è il carbuncolo del papa.

          Il frate letissimo respuose:

          — Non curate vui de cui è! ditemi pur che potrebbe egli a vostro iudicio valere.

          Lui, pur ridendo, disse:

          — Che bisogna? e tu il sa’ meglio de nui. Ma io credo che voleti far pruova del mio magisterio; e poi che cossì vi piace, io son contento, e senza tenervi in tempo, vi dico che altro che ’l papa o vineciani non la potrebbono per quel che vale comparare.

          Disse il frate:

          — Per quanto amore portate a l’anima vostra, parlateme davero: de che precio esser potrebbe?

          — Oimè! — Diego respuose — ancor che ogge le gioie siano a terra, io vorrei più tosto questo carbuncolo, cossì povero como sono, che trenta migliara de ducati.

          E da capo remiratala, la basciò, dicendo:

          — Beneditto sia il terreno che ti produsse!

          E restituitala al frate, disse:

          — Per vostra fé, è ella del papa?

          — Maisì! — respuose il frate — tuttavia il si convien tener secreto, imperò che sua santità non vuol che sia vista si non a la sua mitra, ov’io vado adesso a farvela rencastare.

          E ciò ditto, tolto da lui conviato, retornatosene tutto godente a Lodovico, gli disse:

          — Figliol mio, la gioia è multo bella, ma non è già de quel valore che tu credivi. Nondemeno io pur la toglirò, per ponerla in una croce de la nostra chiesa. Che serìa dunque ne l’animo tuo volerne?

          Respuose lui:

          — Non dite cossì, che ben so io che cosa egli è, e che se io la potessi portare senza periculo de mia vita, certamente straricco io ne sarìa. Ma prima dilibero bottarla qui nel siguro, che venderla con periculo in altre parte; e per questo, per soccorso de mie estreme necessità, in le vostre mano me remetto, e fate secundo che Dio e la vostra buona coscienzia v’ispira, massimamente volendola per la vostra chiesa.

          Disse il frate:

          — Beneditto sia tu, figliolo mio! ma atteso che nui poveri religiosi non avemo altre rendite de quelle elimosine ce son fatte da le divote persone, e tu anco sei povero, bisognarà che l’uno verso l’altro usi qualche discrezione. E a ciò che de me tu ne vedi la esperienzia, io te donarò per adesso ducento ducati, e quando avvenisse che de qui per alcun tempo tu recapitasse, de quella gracia che Idio fra questo mezzo ce mandarà, io te farò participe.

          Lodovico recominciato a piangere:

          — Oimè! — disse — messere, e vui sète uomo de Dio e non vi fate coscienzia nominar sì minima quantitate? Non piazza a Dio ch’io faccia tale errore!

          A cui il frate disse:

          — Non turbarte, buono uomo, né lagrimare senza ragione; dimmi, tu che ne vorresti?

          — Como che ne vorrei? — disse Lodovico. — Io crederei aver fatta maiore elimosina a la vostra chiesa che coloro che la fundarno da la prima pietra, quando per milli ducati ve lo donasse.

          Frate Antonio, che da un canto la pessima avaricia e da l’altro la gulosità de la ricchissima gioia lo stimulava, de l’orza a montare incominciato e Lodovico a calare in poppa, dopo i longhi debatti, nel mezzo del camino, cioè de cinquecento ducati, se raffisero. E insiemi verso san Marcello aviatise, giunti in camera, e reposto il bel carbuncolo in cassa, cinquecento ducati de buon oro gli donoe. Quali recevuti, e con lo adiuto del frate cosìtisegli adosso, con la sua benedizione da lui partitosi, più veloce che ’l vento dinanzi san Piero si condusse; e dato un signo al compagno, che dubioso stava aspettando al determinato luoco, fra loro insiemi unitisi e date vele a’ venti, trovali pur, frate Antonio mio, se sai! Remasto adunque dopo la fatta compara a maraveglia contento, credendose straricco esser devenuto, se pensò per mezzo de un lapidario suo carissimo amico e compare vender la ditta gioia a nostro signore. Per quello subito mandato, e la finissima pietra con gran cerimonie mostratali, gli disse:

          — Che vi pare, compare mio, ho fatto io buona compara, a como son frate?

          Como ’l compare la vide, cominciò a ridere; il frate, ciò vedendo, de che ridesse, ancora lui sorridendo, il domandoe; al qual respuose:

          — Io rido de l’inganni infiniti e varii, che li uomini del mundo pensano [per] ingannare gli poco provisti, declarandovi che rari cognoscerebbono questo per falso.

          — Como? — disse il frate — e non è egli buono? Che potrebbe valere? Miratelo bene, per l’amor de Dio.

          Respuose il compare:

          — Io l’ho d’avanzo mirato, e dicovi de certo che non val più che quanto ce è de oro, che non ascenderebbe a dieci ducati; e a tal che vui medesmo il cognoscate, vel mostrarò.

          E priso un coltellino, destramente dal luoco del suo seggio lo scantoe, e tolto via il foglio, li fe’ vedere un chiarissimo cristallo, che al raggio del sole un lume acceso vi sarebbe veduto. Il frate, considerato lo inganno, e parendoli che ’l cielo in testa gli cascasse e ’l terreno gli fusse sotto piedi rapito, per fiera rabia e dolore immenso, alzate le mano, tutta la faccia con li suoi vecchi unghioni a lacerar s’incomincioe. Il compare, de tal cosa maravigliandosi, disse:

          — Che aveti, compare?

          — Oimè! — disse — figliolo mio, son morto, ch’io l’ho comparato cinquecento fiorini d’oro. Ma per Dio, infine a san Piero me fate compagnia, ove è un ladroncello castegliano cambiatore che per buon mel consiglioe, che certamente deve tener trame con colui che me l’ha venduto.

          Il compare de tutto fattosi beffe, pur per compiacere al compare montati a cavallo, e tutto il dì cercata Maria per Roma, né finalmente trovatala, dolente e tristo il buon frate a casa se ne tornoe; e postosi a iacere, e piangendo e battendosi e donando la testa per lo muro, si causò tal febre, che, senza recordarsi de recevere niuno spirituale sacramento, fra brevissimi giorni passò de questa vita. Cossì adunque gli multi dinari acquistati vendendo la celestial patria, gli forono e meritamente potissima accagione farli alfine aver da quella esilio sempiterno, e a l’ultima partita non portarsene tanto che avesse satisfatto al gran nocchieri de Caronte, per farsi passare de là dal rivo a la cità de Dite; dal qual passaggio Dio ne libere me e ciascun fidel cristiano. Amen.

 

MASUCCIO

 

          Tante sono le occulte beffe e gli dolusi inganni, che gli religiosi continuo fanno contra i miseri seculari, che non è da maravigliare, si loro talvolta dai prodenti sono altresì con arte e ingegni beffati; e perché de recevere inganni non sono usi, presumeno tanto nel lor temerario sapere, che indubitamente si persuadeno che niuno ingannare li sappia o possa; e quando avviene che alcun ne incappe tra gli seculari lacciuoli, sì acerbamente il tollerano, che per quello a desperata morte se inducono, sì como la prescritta novella ne ha chiaramente demostrato. Unde essendomi al tutto disposto, de tal perversa e malvagia generazione più avanti non trattare, quantunque a bastanza non abbia scritto, pur de più molestarli per lo avvenire a me medesmo ponerò silenzio, lasciando de’ fatti loro infiniti secreti, i quali a rarissimi seculari serìano noti. Né me estenderò a quanto la penna me tira, a narrare le mortale e fiere inimistà e pravissime invidie hanno non sulamente tra l’una religione e l’altra, ma in un medesmo convento tra loro, non manco che i curiali de’ gran principi; ma, che peggio diremo, che subduceno gl’insensati seculari a pigliar le parcialità loro, tal che e per li seggi e per le piazze ne questioneggiano publicamente, e qual franceschino e qual dominichino deventa, e mill’altre bestiagine da tacerle.

          E però lasciandoli omai senza impaccio perseverare in la possessione da tante centinara d’anni goduta, in altri luochi il nostro piacevole camino dirizzaremo; e cui per lo inanzi vorrà lor conversazione e prattica sequire, se l’abbia e sequa col suo carrico. Questo ben dico io, e per firmo confesso, quanto de’ fatti loro in le passate dieci novelle ed in altre parti ho ragionato, non averlo con intenzione fatto de lacerar quelli che a compimento le lor approbate e santissime regule osservano; quali avvenga Dio che rari siano e con difficultà iudicar si possano, pur quelli tali sono indubiamente e lume e sustenimento de la nostra fede e cristiana religione. Né parrà, a cui ben pensa, gran maraviglia trovarsi fra tanta multitudine de infiniti sceleratissimi e viciosi, atteso che l’onnipotente e grande Dio avenga creassi tutti i cori angelici buoni e perfetti, pur in la più digna parte de loro non piccola pravità vi si trovoe, per lo che del cielo per divina iusticia infine a l’infimo centro de l’abisso ruinoe. E che si può dir de Cristo nostro vero redentore, il quale venuto a pigliar carne umana per lo peccato de’ primi parenti, tra lo piccolo gregge per esso eletto vi fu pur Iuda iniquissimo, che in mano de li perfidi iudei lo vendette? Unde né ’l peccato degli angioli né de Iuda la integrità degli altri che restorno in alcuno atto ebbero a maculare.

          Per questo potremo con verità concludere, che gli enormissimi difetti de’ falsi religiosi in alcun modo la vertù e perfezione de’ buoni ledere né offendere porrìano; ma più tosto quanto sono più grieve le sceleragine de’ gattivi, tanto con maior luce la integrità de’ buoni sarà distinta; imperò che como il negro corbo con la candida columba coniunto augmenta quella bianchezza, cossì le detestande opere e manifeste offese, per tale iniquissima gente fatte a lo eterno Dio, approvano de continuo la laudevole vita de’ vertuosi. Ma perché ogge par difficultoso distintamente cognoscere gli buoni da’ rei, quali, como ho già ditto, de pastori deventano lupi con manto de la mansueta pecora avolti, non restarò de dire, prima che de più ultre reprendendo faccia fine, che del certo più conveniente e salutifero sarebbe, volendosi senza scandalo vivere, che i lor ministri, como ottimi cognoscitori de lor propria moneta, gli bollasser tutti d’alcuna nova o strana stampa, a tal che a la prima vista como signati iudei fusser gli falsi da ciascun cognosciuti. Ma perché tal fatto bisognarìa preponersi nei loro generali capituli, avendo io da far altro, lasciarollo al mundo como l’ho trovato; e posto a questa prima parte lieto fine, a la secunda col voler del mio Creatore e piacer degli ascoltanti perveneremo. Finis.

 

INTRODUZIONE PARTE SECONDA

 

QUI FINISSE LA PRIMA PARTE DEL NOVELLINO. INCOMINCIA LA SECUNDA FELICEMENTE, IN LA QUALE DIECI ALTRE NOVELLE SE CONTENGONO, E IN QUELLE DE BEFFE E DANNI PER GELOSI RECEVUTI E D’ALTRI PIACEVOLI ACCIDENTI, E SENZA OFFENSIONE D’ALTRUI, SARANNO RACONTATI, SÌ COMO DE SOTTO SI CONTENE.

 

          Dopo che pur, e non senza corporale affanno e travaglio de mente non piccolo, sono già con la mia disarmata barca uscito dagli atroci mari e rabiosi venti de tanti nefandi ed enormissimi ragionamenti, e col voler de Dio conduttome al disiato porto de salute, e in quello le faticate osse e relassati membri reposati, raconciata la scusita vela, e ogn’altro maritimo artiglio reposto in assetto, vedendo la stagione de qualità mutata, e ’l bonazzato mare concedermi col novo e suave zefiro insiemi lo quieto sulcare de sue onde, e ultre ciò ogne pianeto e bellezza del cielo amica e benivola a me demostrarse, me pare omai assai debita cosa, con tal prosperosa tranquillità dando vele a’ venti, debbia in altre iocunde e deliciose parte il mio ligno derizzare, e nel delettevole e gracioso paese intrato, d’altro piacevole e vezzoso ragionare rendere gli ascoltanti a me iocundi e grati. A contemplazione de quelli, e prima de mia serena stella, per la quale la cominciata fabrica s’è missa e finirà, sequirò appresso dieci altre novelle, che la secunda parte del mio Novellino saranno, ne le quale alcune piacevole facecie, e senza offendere altrui, se conteneranno; ed esse, le passate e future mescolando, e col priso ordene l’una da l’altra dipendendo, serà il mio continuare. E prima e non senza accagione cominciarò con acconcia manera de la prava infirmità de la gelosia gli venenosi effetti a racontare, sì como ne la sequente novella, per me a lo illustrissimo signore don Frederico d’Aragona dirizzata, con faceto ordene si contiene.

 

NOVELLA XI

 

Argomento

 

          Ioan Tornese per gelosia mena la muglie fuori de casa in uomo travestita; un cavaliero suo amante con un sottilissimo tratto in presenzia del compagno carnalmente la cognosce; il marito con furia ne torna la mugliera a casa; il fatto se divulga, e Ioanni morendone de dolore, la muglie se remarita e gode.

 

A LO ILLUSTRISSIMO PRINCIPE DON FREDERICO D’ARAGONA

REGIO SECUNDOGENITO.

 

ESORDIO

 

          Quantunque, speciosissimo principe, per multi poeti se discriva la gelosia esser una amorosa passione, da suave, dolce e soverchie fiamme d’amore causata, nondemeno per li contrarii effetti che de continuo se ne vedeno, iudico tal morbo esser pena intollerabile a comportare, e con gravissimo affanno e de mente e de corpo sustenuta; unde son sì duri e acerbi a gustare gli frutti, che tal venenosa pianta produce, e la sua amaritudine sì aspra e fiera, che raro o mai si trovò alcuno, de quella oppresso, che, estimandosi evitar le furie de Cariddi, non ruinasse tra le voragine de la baiante Silla; sì como per la sequente novella intenderai de una nova manera de gelosia e strana cautela per un insensato geloso adoperata; quale credendosi la muglie guardare non sulo dagli vagheggiamenti degli amanti, ma de non farla in abito femineo da nessun vedere, gli avvenne che lui medesmo si fu accagione gli fusse un giorno in sul viso da uno cavaliero carnalmente cognosciuta.

 

narrazione

 

          A la preposta materia dunque venendo, dico che nel tempo de l’illustrissimo mio signor duca Filippo Maria de’ Visconti fu in Milano un legiadro e nobile cavaliero, per nome ditto messere Ambrosio de l’Andriani, giovane ricco, bello e costumato. Costui, per generosità del suo peregrino spirito disideroso veder gli ordeni e gesti de’ principi cristiani, avendo multe parte e dentro e fuori Italia ricercate, e sentendo finalmente le gran magnificenzie e triunfi, che la immortal memoria de Alfonso re tuo avolo de continuo in la cità de Napoli facea, se diliberò del tutto, de quelli anco vedendo, al suo disiderio satisfare; e postisi milli fiorini in borsa, e de cavalli, de famegli e digni vestimenti guarnitosi, a Napoli se condusse. Dove viste tante dignissime parte e singulare circustanzie de la città, iudicò seco medesmo che la sua presenzia non avea la sentita fama in parte alcuna diminuita; per la qual accagione, e per la prima che condutto lo avea, prepuose, ivi godendo e dandosi buon tempo, fin che la portata moneta gli bastava, dimorare. E domesticatosi con alcuni gentiluomini de Capuana e menato da quelli talvolta per feste, chiese e giostre, dove multe caterve de donne se radunavano, le quale ben considerate, con suoi compagni disse che le donne napolitane a suo iudicio erano più de presenzia, de gracia e de donnesco valore fornite, che de soverchia bellezza copiose.

          Era tra ditti ragionamenti un nobile giovane, e de’ suoi più cari compagni, Tomaso Caracciolo nominato, il quale, affirmando che ’l cavaliero dicea ’l vero, subiungendo disse:

          — Se la tua sorte il vedere de una giovenetta de Nola muglie de un calzolaio chiamato Ioan Tornese te concedesse, io non dubito, secundo d’altri ho già sentito, quella esser la più bella donna che per Italia abbi vista ancora confessaresti. Ma ciò mi pare quasi impossibile, atteso che ’l marito, e per la sua inaudita gelosia, e per esser stato posto in sospetto che ’l signor duca de Calabria sul per la fama de tante bellezze cerca ponerli la prova adosso, la tiene in manera rinchiusa, che persona alcuna, per congiunta che li sia, la può mai vedere. Né puro si nne fida; e s’è vero quel che da una sua vicina mia domestica me è stato per fermo racontato, che non so s’io mel creda, udirete una cosa strania, che, per non lasciarla senza de lui in casa, de continuo la mena seco, in ogne parte ov’egli vada, in uomo travestita; e cossì traendosi da sospetto, godendo si dà il più bel tempo de populano de questa nostra terra; unde se tu vorrai, voglio che andiamo a far prova de vederla.

          E senza altra replica insiemi aviatisi, a la potega del calzolaro se condusseno; e quivi giunti, disse Tomaso:

          — Maestro, aveti vui alcun paro de scarpe pulite per messere Ambrosio?

          Al quale:

          — Maisì, — respuose — al piacer vostro.

          E fatto intrare il cavaliero, e in un banchetto assentatolo, a calzarlo incomincioe. Tomaso, che prolungar tempo cercava, voltatosi a loro, gli disse:

          — Or via, io andarò per una mia faccenda qui appresso, mentre che vui a calzar vi ponerete.

          E con tale escusa partitosi, lascioe che ’l maestro a calzare incominciava. E stando col capo inchinato, como a tale esercicio se richiede, e messere Ambrosio col viso elevato, e volgendolo per ogne lato, como quel che tutti i suoi pensieri in veder la bella donna avea dirizzati, avvenne per sua gran ventura che, ficcando gli occhi per un picciolo cataratto, vide la donna che giù in potega mirandolo stava. E avendo spacio de ottimamente raffigurarla, miratala multo bene, e finalmente viste e considerate le sue rare e inestimabile bellezze che nel vulto demostrava, gli parve de gran longa de maiore eccellenzia e formosità adorna, che ’l suo Tomaso riferito non gli avea; e cossì, per la lunga dimora che ’l maestro in ben calzarlo facea, gli fu non sulamente de ben mirarla concesso, ma eziandio farla con amorevoli e dolci signi accorta, como del suo amore infinitamente ardea. La giovane, che prodentissima era, cognoscendo che per la estrema cautela del marito non l’avrebbe in nessuno atto possuto satisfare, ancor che d’esser al legiadro cavaliero piaciuta summamente gli fusse caro, se diliberò non demostrarli alcun signo de benivolenzia o graciosa resposta. E in tal forma finito il calzare, e lo cavaliero a doppio il maestro pagato, con lieta fronte gli disse:

          — In verità mai portai scarpe, che a mio iudicio me dicessero tanto bene; e però fate ne abbia ogne dì un paro, e io ve pagarò sempre a tal pregio.

          Il maestro, letissimo de sua buona sorte, tenendosi a grandissima ventura lo esserli un sì galante e magnanimo cavaliero in potega arrivato, estimando da quello dover traere un gran profitto, respuose:

          — Sia col nome de Dio, e io v’imprometto servirvi de continuo megliore.

          E tornato intanto messere Ambrosio al suo Tomaso, tutto godente, quanto la sua benigna fortuna nel suo cominciamento gli avesse concesso, pontalmente gli racontoe, affirmando aver colei il più famoso vulto che alcun altro ne avesse visto mai, però che del resto non veduto perfetta sentenzia donar non ne possea; pregandolo in summa che circa ciò gli fusse de ogne suo prodente consiglio liberale. Tomaso ancora che del tutto gli ne fusse la speranza fuggita, nientedemeno, como singulare amico e volunteroso de servirlo, assottigliato dal suo canto ogne suo ingegno, senza ponto né de ragionamento né de luoco partirsi, trascorsero insiemi tutte vie e modi, che per ogne ferventissimo amante pensar si potessero; e in uno finalmente firmatisi, prepuosero aspettare e luoco e tempo da posserlo con comodità mandare ad effetto. E sequitando de continuo il cavaliero ogne dì a comparar le scarpe al solito prezzo, avvenne che ’l maestro, per più adescarlo, incominciato a dirli assai del servitore, e alcune volte dietro un retretto de la sua potega convitatolo la matina con una legeretta collazione, non poco fu accagione che ’l cavaliero de tal carezzi se contentasse.

          Continuando dunque costoro ne la già cominciata amicicia, e venendo il dì de santa Caterina, che le brigate andavano a Formello, postosi il cavaliero dinanzi al Castello a passeggiare, però che quivi da presso alloggiava, diliberò vedere se Ioan Tornese a la ditta festa si fusse con la muglie al sopraditto modo condutto. Dove non multo dimorato, visto assai de longi Ioan Tornese con un giovenetto scolaro a braccio venir verso de lui, comprese subito esser quello che già avia per coniettura estimato. Ed essendosi con loro per camino un specialissimo suo amico e compare accompagnato, e domandato cui lo giovane fusse, gli respuose, como a più altri avia ditto, che era un suo cognato de Nola studente in medicina, per visitar sua sorella ivi venuto. E con tal ragionamento giunti ove passeggiava il cavaliero, e a quello fatto ognuno de barretta, lui da l’altro canto rendutoli il simigliante saluto, guardato fiso lo scolaro e firmamente raffigurato esser quello che con summo disiderio aspettava, domandatoli con lieto vulto ove andassero, li respuosero che a Santa Caterina erano inviati. Messere Ambrosio, cominciato a passeggiare con loro, per camino disse:

          — E ancora io stava per andarvi, e alcun de’ mei famegli o altro cognoscente, cossì soletto, aspettava, che venisse in mia compagnia; ma non essendo alcun venuto, io verro con vui.

          E de brigata aviatisi, e giunti ove la festa se celebrava, essendo la folta calca de la gente, fu concesso al cavaliero talvolta strenger la mano al novo scolaro, per farla accorta che la cognoscea; ed essendoli per la simile cifra resposto, como quella che ottimamente il cognoscea, parendoli che ’l pensiero reuscir gli dovesse, ne fu ultre modo contento. E avendo da la matina per tempo, de quanto per compimento del fatto fusse de fare e dire, plenamente il suo oste informato, e similmente posti tutti suoi famegli in faccende, che niuno se ne facesse infine al tardi vedere, aspettato con quelli fin che la festa fo finita, con loro medesmi verso la casa se ne retornoe. E giunti dinante lo suo albergo, priso Ioanni per mano, in cotal modo a dir gli cominciò:

          — Maestro mio caro, tante volte me avete vui convitato e fatto onore in casa vostra, che me pare assai conveniente cosa, ancor ch’io sia qui forastero, che vui stamane con questi vostri compagni restati a far collazione con meco.

          Ioanni che, como è ditto, gelosissimo era, e che non manco degli ucelli che degli uomeni timea, parutoli assai duro menar la muglie disnando per gli alberghi, ancor che avesse cambiato vestimento, avendo più volte repugnato e renunciato l’invito, costretto a l’ultimo a non turbar lo amico, spronato massimamente dagli persuasioni e conforti del caro compare, ad accettar si condusse. E montati de brigata supr’una loggetta, ov’era la tavola posta e bene adornata, chiamato il cavaliero subito l’oste, e domandatolo ove fussero suoi famegli, gli respuose che, per comparar biada e strame, al mercato erano andati. Del che fingendosi turbato, disse:

          — Ancora che tutti fussero appiccati per la gola, nui pur faremo i fatti nostri. Fate lui che abbiamo da mangiare del buono.

          A cui l’oste, como già ordenato gli era, respuose:

          — Messere, qui non ho cosa nissuna dilicata in ordene, secundo vui vorresti.

          — Como non? — disse il cavaliero — poltrone ribaldo, che mi vien voglia stamane cavarti gli occhi! Ho dispesi qui ultre a docento fiorini, e adesso che ho minati meco questi miei amici, da li quali ho recevuti mille onori, e non ti vergogni dir che non hai niente?

          L’oste, tutto timido mostrandosi:

          — Non vi turbate, — respuose — messere, ché, se qui fusse il re, in un tratto sarete serviti.

          Il cavaliero, voltatoglisi con furia, gli disse:

          — Or va via, bestia che tu se’, e ponemi tosto ad arrostire de’ meglior capponi che tu hai.

          Cossì l’oste partitosi per dare a ciò subito recapito, e remaso il cavaliero più soffiando, era da coloro a pazienzia confortato, atteso che in ogne caso non manco estima possea far de loro che de ottimi servitori. Il cavaliero, ringraziatili, disse:

          — E’ mi vien voglia, ultre lo fallir de l’oste, impiccare un de’ mei famegli, como retornano, avendomi lasciato tuttodì ogge cossì sulo como vedete.

          Ioanni, che la trama non vedea, pur per umiliarlo disse, per mostrarseli volunteroso a compiacerli:

          — Volete vui nulla? che nui anco ne reputamo esser de’ vostri famegli.

          A lo qual respuose:

          — Io vi ho per fratelli; ma io vorrei un poco de salsa del sinapo, che vui la nominate mostarda, senza la quale io non porrei mangiar lo rosto stamani, e un mio fameglio sa ove si vende de l’avantaggiata e buona, e credo sia in Mercato Vecchio, e non avendo cui mandar per essa, non posso fare che contro i mei famegli non me adiri.

          Ioanni, che pentito era de la fatta offerta, como colui che de lasciar la muglie per tanto spacio infine al core doluto gli averebbe, senza altramente offerirse, a tacer se dispuose. La qual cosa cognosciuta, il cavaliero, verso de lui revoltatosi, disse:

          — Deh! maestro mio, non vi essendo multo grieve, ve priego pigliate tanto affanno de vui medesmo andar per questa salsa, che fra questo mezzo sarà in ordene il nostro disnare.

          Il poveretto Ioanni pessimo contento, parendoli inonesto il dinegare un sì piccolo servizio, né occorrendoli colorata accagione del menarsene la muglie in compagnia, non pensando in tal caso più salutifero remedio de quello del suo compare, a quello accostatosi e pianamente il suo scolaro ricomandatoli, priso un scudellino, volando per la salsa se invioe.

          Il cavaliero, vedutolo partito, voltatosi al guardiano:

          — Oimè! — disse — io ho scordato il megliore.

          — E che vi manca? — respuose.

          Disse il cavaliero:

          — Io arei voluto qualche pomo arancio, e per la rabia me scordò dirlo a Ioanni

          Il quale respuose con pura fede:

          — Ancora io andarò spacciatamente a portarne, imperò che ne ho de le [più] belle del mundo in potega, e pur eri de Salerno me ne vennero.

          E de subito partitosi, e messere Ambrosio sulo con la donna remasto, secundo lo antiveduto suo pensiero, considerando non era tempo da perdere, prisala per mano, disse:

          — E tu, messere il medico, tra questo mezzo intenderai de secreto una mia passione.

          — E in camera tiratala, e accostatala al letto con quella debole contradizione che sogliono fare tutte coloro che unicamente il disiderano, con velocissime ale fe’ uno avantaggiato volo. Quale appena fornito, tornato il compare con li aranci e trovata la camera serrata, summamente de tal atto fra se medesmo se maravegliò; e posto l’occhio per un pertuso, e visto che ’l cavalieri dopo il fatto se avia la giovane in braccio recata, e a quella de multi secreti e dolci basci donava, il che non poco rincresciutoli, e con isdegnoso vulto indietro tiratosi, estimando che ’l cavaliero, dal disonesto vicio assaglito, avesse il bel scolaro e a lui lasciato in guardia lascivamente cognosciuto, discesosene a l’uschio, e Ioanni supragiunto, né vedendo con lui la muglie, tutto stordito e fuor de sé, dove fusse lo scolaro suo cognato, subito il domandoe.

          Al quale egli in tal modo respuose:

          — Volesse Dio che me avessi morsa la lingua stamani, quando il restar qui te persuadetti, imperò ch’io ho persa la fede de questo cavaliero tuo tanto amico; e veramente de un uomo compito de ogne vertù che mi parea, lo ho scoverto per un gran ribaldo.

          — Oimè! — disse Ioanni — e che ce puote essere?

          — Il malanno che Dio gli done! — respuose — imperò che avendone con quella medesma arte, che mandò te, me anco mandato per queste pome arance, al mio retorno l’ho trovato con tuo cognato in camera serrati, e per le fessure de l’uschio ho visto aver con quello usato, non altramente che si fusse una bella e vaga giovenetta.

          Sentita Ioanni la pessima novella, né vivo né morto remaso, ma tutto perplesso e fuor de sé, de supra montato, e visto il cavaliero a tavola assettato, e como non fusse fatto suo ragionando con lo scolaro, de ira e de dolore acceso, lagrimando e con dirotta voce cossì disse:

          — Per mia fé, messere, la vostra è stata una gran cortesia milanese; ma dopo avete mangiata la carne senza aspettare più salsa, vui gustarete la salsa senza assaggiar mai più de tal vivanda.

          E bottato il scudellino supra la tavola, prisa la muglie per mano, con grandissima furia, disse:

          — Orsù, in nome del diabolo, andiamone a casa, che, senza mangiare, nui avemo pagato lo scotto, e io per peggio ce ho recato la salsa.

          E fieramente minazzatala, a la dirotta con lei se partì.

          Il compare, che non sapea la intrinseca doglia, sequendolo giù per le scale, lo andava remordendo de lo aver fatto un tal scorno a un tanto uomo per un garzone, dicendo:

          — E che ne potrebbe egli esser? O cridi tu che se ingravide? Poi che la cosa è fatta, che bisognava commetter tale errore e perdere un tanto amico per sì minimo dispiacere?

          Ioanni, che con frettolusi passi a menar la muglie verso la casa sulamente attendea, per la gran rabia dentro rodendose, de respondere non si curava. Il buon compare per tanto non restandosi de non lo andar de continuo increpando, ma sempre confortandolo al raconcio del commisso fallo, e per sì piccolo sdegno causato, lo andava per tal modo molestando, che, non possendo Ioanni più soffrire, de ira tutto fremendo, gli disse:

          — Oimè! compare, faraime stamane biastemare Idio e tutta la corte del paradiso: non vidi tu che questa è mia mugliere?

          — Como esser puote — disse egli — e perché la meni tu in tal modo?

          Al quale piangendo raccontatali l’accagione, il compare prodentissimo, agramente prima biasmatolo, suggiunse:

          — Ioanni mio, tu te sei mal consigliato, e del tuo folle pensieri te ne è sequita la condigna pena: cercasti saltar de la patella per dare in su la brasa. Deh! poveretto, e perché non avvertisti como oggi è guasto e corrutto il mondo, e che assai più difficultosamente se guardano i fanciulli che le donne? e massimamente costei, che un loiro de falconi incarnati parea, ch’io me son maravigliato stamane, como mille volte non ne fusse de braccio strappato. Ma poi che la cosa è fatta, e tu non d’altri che de te medesmo ramaricar ti puoi, dico che te l’haggi con la tua mala ventura, e per lo inanzi te sforza ad usare altra cautela, e se Dio te ha donata muglie femena, non la volere in masculo trasformare. Non dico che de lei non abbi quella guardia che de mugliere bella e giovane aver si deve, ma non con sì fatte e inaudite stranietà, imperò che poco al fine vagliono, quando le muglie al tutto se disponeno ingannar lor mariti, ché niuno umano provedimento fu mai sofficiente a repararce. E pensa che tu non se’ il primo, né l’ultimo sarai a recever de queste botte: non te specchi mai in li gran maestri, che, dimorando spesso tra questi lazzi, per non aggiunger col dolore eterna infamia, con la loro prodenzia quanto ponno l’occultano?

          E con tali e altri assai conforti e ragione infine a casa repacificandolo, e quivi lasciatolo, né volendo ancor lui esser ascritto al numero de li beffati, rattissimo ne l’albergo se ne retornoe; dove il cavaliero col suo carissimo Tomaso trovati, e con loro mescolatosi, tutti insiemi de la già fatta beffa e de lo ordenato disnare si goderno. Ioanni dopo il longo pianto per dolore morendo, e la muglie per allegrezza remaritatasi, senza esser de la sua propria e bellissima forma cambiata, la sua florida gioventù godette.

 

MASUCCIO

 

          La recevuta beffa de Ioan Tornese, per travestir la muglie de femena in uomo, me tira a tal principiato ordene un altro sottilissimo inganno racontare, da un nostro salernitano ad un oste gelosissimo de la muglie adoperato, né più differente dal racontato caso, che d’esser l’amate de uomo in femena travestito. Al quale essendo ogn’altra via de adimplire il suo disiderato proponimento interditta, adoperò per tal modo il suo mirabile ingegno, che ’l marito medesmo a giacere in un letto con la ben custodita muglie lo condusse; dove per niun tempo de ciò accorgendosi, non fu dal dolore costretto a receverne morte, sì como il misero Ioanni, qual dopo la vergogna la propria vita ne perdìo.

 

NOVELLA XII

 

Argomento

 

          Un giovene ama la muglie de un oste; travestese in donna vidua e con sua brigata de notte arriva ne l’albergo de l’oste, quale con colorata accagione pone la travestita vidua a dormire con la muglie; quale dopo alcun contrasto gode con la amante, e lo oste senza accorgersene è a doppio pagato.

 

A LO ECCELLENTE SIGNOR DON INICO D’AVALOS

DIGNISSIMO CONTE CAMERLINGO.

 

ESORDIO

 

          Persuadome, eccellente e vertuosissimo signore, che gli filosofanti investigatori de superiore intelligenzie, de’ movimenti de’ cieli e ordeni de’ pianete, ed eziandio inventori e cognoscitori e per argomenti e per ragione d’ogne cosa produtta da la natura, ognuno da per sé e tutti insiemi, non ebber mai tanta sottilità de intelletto e isvigliazione de ingegno, quanto in un sulo punto ha prestato e de continuo presta il signore Amore a la maior parte de quelli che, ferventemente amando, sequono l’orme de sua vittoriosa insegna. Né manco è da maravigliarse, a cui ben considera, quanto siano ammirabile e omnino incompreensibili le astuzie de malvage femine, quando ingannare i lor gelosi mariti se disponeno; unde si può cavar sentenzia che, dove il providimento d’alcun sagace amante insiemi con la pravità de la diliberata donna se unisce, niuno umano sapere o accorgimento potrebbe a quello reparare, sì como tu, prodentissimo signor mio, discerni, como quel che al resto de’ viventi puoi dare irreprobata dottrina.

 

narrazione

 

          Negli anni che la nostra salernitana cità sotto l’imperio del glorioso pontifice Martino quinto si reggeva, in essa de grandissimi trafichi se faceano, e mercanzie infinite de continuo e d’ogne nazione vi concorreano: per la cui accagione venendoce ad abitare con tutte loro brigate de multi artesani forestieri, tra gli altri un buon uomo d’Amalfi, chiamato Trofone, per fare albergo vi si condusse; e menata seco la muglie de assai bellezza fornita, e priso albergo a la strata del nostro seggio del Campo, tolse ancora un’altra casa al tenimento de Porta Nova in una onestissima e chiusa contrata, da non posservi alcuno senza coloratissima accagione passare. E quivi collocata la muglie e sua fameglia, avvenne che de questa giovane se innamorò un gentiluomo de la cità de assai onorevole fameglia, il cui nome per alcuna buona accagione de tacere ho diliberato. Costui, amando ferventissimamente, né cognoscendo modo alcuno per la disposizione del luoco a fornire suo disiderio, né per la solenne guardia del gelosissimo marito avendo ardire de intrare con lei in trame, si pensò voler in ciò interponere l’arte de una certa feminella sua domestica, la quale, vendendo alcune coselline da donne, per tutta la cità discorrendo andava. E fatto a quella il suo volere un giorno manifesto, e con larghe promisse ordenatali quanto era de bisogno, contentissima de servirlo, da lui brevemente si partì; e traversando de multe contrate, a quella de la giovane pervenne, e ora una e ora un’altra a comparar de le sue robe invitando, accostatasi a l’ultimo al suo uschio, ove quella stava, non essendo da nessuno intesa, cossì gli disse:

          — E tu, bella donna, non compre de queste mie gentilezze, che sono belle? Ché s’io fussi giovane e bella, como tu se’, ogne dì comprarei cose nove, e supra quel che ha fatto la natura aggiungerei l’arte, a tal che niuna a me aguagliar si potesse.

          — Oimè! — disse la giovane — tu me vuoi ucellare.

          Respuose la vecchia:

          “Per nostro Signore!, io dico da vero, avisandote che per tutta questa terra è voce che tu sei la più bella donna de questo reame; e quantunque alcune gentildonne in un luoco ove me son oggi trovata, mosse più da invidia che da ragione, dispregiassero le tue bellezze per ponere innanzi le loro, e che dicessero che non hai buon sangue, e simile cose, como son solite dire, ché veramente a tutte escono gli occhi quando alcuna de nostre pare ne è bella, nientedemeno quivi un giovenetto de nobil casa, qual non so se tu ’l cognosci, loro fe’ quella resposta che meritorno, e alfine gli concluse che niuna de loro sarìa in bellezza bastevole a scalzarte i calzari.

          Respuose la giovane:

          — Dio le guarde a casa sua, e se non fusse disdicevole, averìa caro intendere quale furono le gentildonne, e cui il nobile giovene che mi defensoe.

          La vecchia, che accortamente la trama tessea, respuose:

          — Le donne per adesso tacirò, per non dir male de altrui, ma del giovane te farò volentieri accorta.

          E senza aspettar resposta e per nome e per cognome nominatolo, suggiunse:

          — E quello che più ultre me dicesse, io non intendo manifestartelo, se prima non mi giuri de secreta tenermi.

          La giovane, como è de loro usanza, volenterosa alquanto de saperlo, de mai palesarlo gli impromise; unde la vecchia, e non senza grandissima arte, allora in tal modo a dir gli comenzoe:

          — Figliola mia, io non te saprei altro consigliare de tutto quello che a te fusse onore, e però non si deve guardare a quanto gli uomini dicono, egli me disse che te ama più che se medesmo, e in tal manera si trovava de te invaghito, che non sulamente il sonno ma il cibo me giurò averne perduto, e cossì como candela accesa si consuma. E quantunque io te abbia recordato e recordo te debbi conservare lo onore e buona fama, ché non avemo meglior ricchezze in questo mundo, pure non tacirò non avisarte che ’l mi pare lo maior peccato che committer se potesse, de far un tal giovane cossì stentando morire, atteso quanti sono li suoi laudabili e piacevoli costumi, costumato, liberale ed onestissimo. E mi volse donare un gentil anelletto, che a te da sua parte lo portasse, e io, dubitando de’ fatti tuoi, per quella volta toglier non lo volsi; ma se tu sapessi quello che lui disidera da te, io me persuado che facilmente e senza nissun mancamento de tuo onore il porresti contentare. Egli dice che non vorrebbe altro da te, si non che tu te contentasse da lui esser amata, e che, per guidardon de questo, alquanto ad amar lui te disponesse, e quando talvolta te inviasse alcun de’ suoi doni, accettarlo e portarlo per suo amore te dignasse. Queste, figliola mia, mi parno cose assai legiere, e tu e ogn’altra giovane il doverebbe fare, a ciò che non passassivo senza coglier li fiori de la gioventù, essendovi da la onestà il gustare de’ suavi frutti vetato.

          La giovane udendo tante effettuose parole e con tante ragione per la prodente messaggiera davanti parateli, ancor che naturalmente onestissima fusse, gli parve esser da necessità costretta a fidelmente amarlo, non intendendo però de la sua innata onestà per nissun modo gli termeni preterire; e a la vecchia voltatasi, cossì gli disse:

          — Or via, madonna, tornarete al gentiluomo e gli direte che per amor de sue vertù io son contentissima accettarlo per mio unico amatore, e questo sulo da me gli baste; e diteli che pensi bene d’esser secreto, e non casche in lo error de li più de li giovani, che, trovandose tra compagni, non sulamente de quel che fanno, ma de cose che mai videro si vantano, avisandolo che io vorrei prima morire, che a noticia de mio marito venisse, il quale supera de gelosia ogn’altro geloso.

          Unde paruto a la vecchia aver non poco per lo primo assalto adoperato, e cognoscendo la cosa andar per buona via, in questo modo respuose:

          — Figliola mia, tu parli saviamente, ma vo’ che sappi che lui tra l’altre sue singulare vertù è secretissimo; e, se Dio me lassi far buona fine, quando lui me palesò tal fatto, ultre a cento sacramenti me fece fare de secreto tenerlo, esso tremava com’una cannuccia, e de milli colori ad ogn’ora se li cambiava il viso. Per tanto non te retragga questo respetto a non amarlo, che del certo verrà volta che fra te medesma te gloriarai de aver il più bello, il più secreto e d’ogne vertù compito servitore de donna de questa terra. E benché quel che tu gli concedi sia assai, e lui non mi pregasse d’altro, pur non restarò de rammentarte che tu non vogli cossì miseramente perdere la tua florida gioventù; e se la fortuna e tuoi parenti de donarte sì bruto e de bassa sorte marito sono stati accagione, che ancora tu non vogli de te medesma esser inimica, ma che sappi trovar manera da godere, ché non ce è paro dolore che altrui in vecchiezza pentirse.

          E poi scazando disse:

          — Sai che li dirò da tua parte? Che suo bel danno, se non saprà trovar modo d’esser con teco.

          A le qual parole la giovane alquanto isdegnosetta respuose:

          — Per la fede mia, tu te ne guardarai multo de dirli tal cosa; ma davanzo gli deve bastare, quando gli dirai quello che t’ho imposto.

          Disse la vecchia:

          — Io te priego che non te corrocci né de mia importunità te maravegli, ch’io te giuro per questa croce, che se io non gli porto buona nova, lui si donarà la morte. Nondemeno io tel ricommando quanto posso, ed a ciò che me creda la grata resposta che me hai donata, fa che domane gli te facci vedere a Santo Agostino, e che lui, forbendose il suo naso, dica: “Io a te me ricommando”, e tu, togliendote i capegli dal viso, gli respondi: “E io a te”. E in questo trapassarete il tempo, fin che de godere vi sarà da fortuna meglior camino mostrato.

          Al che la giovane respuose:

          — E anche io gli sarò liberale, e ricommandatami infinite volte a lui, gli direte che venga matina, ché io non posso multo in chiesa dimorare.

          Cossì dunque la vecchia partitasi, e la giovane con novi volgimenti de core remasa, nel quale per le maestrevoli parole de la vecchia un continuo verme rodere si sentia, trovato subito lo amante, ogne cosa per ordene con la diliberata conclusione puntalmente la vecchia gli racontoe. Il quale, letissimo de tal novella, levatose la matina per tempo, e al signato luoco conduttosi, e quivi trovata la giovane più bella fattase che da essa natura non era stata produtta, e da quella non sulamente fuor d’ogne usanza buonissima gracia recevuta, ma la promissa resposta col dato signo vedutone, più giocundo che fusse mai ne remase. E in breve la donna partita e lui a casa tornatosi, cominciò a pensare como l’ultimo frutto d’amore gli fusse stato de coglier concesso; e avendo supra ciò varie e diverse vie trascorse, e in una diliberatamente firmatosi, avenissene pur quel che vuole, prepuose farsegli trovare in casa, e per tal e tanta manera che lei fusse a concederli forzata quel che unicamente disiderando avea già cominciato a pregustare. E fidatosi de certi gentiluomini de Capuana, che quivi erano venuti a far festa con l’arcivescovo lor parente, una sera al tardi mandati ad un certo luoco e cavalli e muli a lor sufficienza, e lui como donna vidua con pappafico e cappello travestitose, con dui altri ragazzetti in fanciulle similmente travestite, e supra i carriaggi ordenate montati, tutti de brigata a cavallo, como notte fu, inverso de la cità se aviorno.

          E pervenuti al seggio del Campo, Trofone a la pista de’ cavalli, como è usanza de osti, uscito fuori, disse:

          — Signori, volete vui alloggiare?

          Al quale un de loro respuose:

          — Maisì! avete vui buone stalle e letti?

          — Messer sì — disse l’oste — dismontate pur, che sarete ottimamente serviti.

          Colui, tiratolo da parte, gli disse:

          — Vedi, oste, la tua buona fama ne ha condutti qui, e però ne conviene prender de te quella sigurtà che al nostro bisogno se rechiede. E, perché sappi, nui avemo qui la figliola del conte de Sinopoli, novamente per morte del quondam messer Gorello Caracciolo suo marito inviduata, e cossì mestuosa, como tu vedi, al patre de presente la torniamo. E per onestà, mal volentieri, non possendosene far altro, la faremo ne l’albergo questa notte dormire; però per cortesia vi pregamo vi travagliate trovarne alcuna donna da bene, con la quale questa notte con due altre sue fantesche possa albergare; e nui pagaremo il doppio de quanto meritasse.

          A cui l’oste respuose:

          — Signor mio, de qui dintorno non cognosco io persona a ciò atta; nondemeno io vi offero ciò che posso. La verità è ch’io ho mia casa un poco da qui lontana, ove tengo mia muglie assai giovane; unde, piacendovi, si porrà con ella dimorare, e lo pagamento sia rimesso in vui.

          Il gentiluomo, a la donna revòltosi, disse:

          — Vedite, madonna Francesca, a me pare che starite de gran longa megliore in casa de questo valente uomo in compagnia de donne, che qui tra nui.

          Lei con summissa voce resposto contentarsi, e l’oste lasciato a loro un garzone che li mostrasse la via, rattissimo in casa se condusse, e chiamata la muglie, gli impuose che spacciatamente la camera acconciar dovesse, imperò che una contessa vidua de giovanil etate dovea quivi in quella notte albregare. La giovane, li cui pensieri da l’inganno eran multo lontani, con puro core respuose:

          — Marito mio, tu sai la casa; nondemeno si farà quanto sarà possibile.

          — In buon’ora! — disse l’oste — fagli de l’acqua calda e odorifera, che talvolta ne deve aver gran bisogno, imperò che tutta sta piena de fango.

          Arrivata dunque fra questo tempo e con dui gentiluomini la donna, e da quelli dismontata e prisa in braccio, con l’altre due fanciulle in camera la condussero; e quivi giunta, e fando vista de dispogliarsi, diede conviato a quelli che l’aveano accompagnata. Per la qual accagione non parendo conveniente a l’oste de remanervi, a la muglie revòltosi, disse:

          — Abbi per ricommandato il servizio de questa donna, e dilicatamente li apparecchia da cena e da dormire, e serrateve dentro multo bene, e io andarò ne l’albergo a servir le sue e altre brigate che me aspettano.

          E con tal ordene lasciatili, e per più segurtà da fuora serratigli, e data la chiave ad un de coloro, con essi insiemi ne l’ostaria se ne retornoe. La giovane remasta con lo amante, e dadovero tenendo che donna fusse, volonterosa de servirla, a spogliar l’agiutoe; e milli anni parendoli de veder si bella fusse, lei medesma remossili gli arnesi che ’l vulto gli ascondeano, e fiso guardatola, e alquanto la imagine del suo amante rappresentataglisi, timida e vergognosa indireto tiratasi, de più accostarglisi non ardiva. Il quale, vedutala supra de sé stare, dubitando de’ periculi possibili per la improdenzia spesse volte de giovanette donne, parutoli già tempo farla de l’inganno accorta, prisala per mano e in braccio recatasela, in cotal modo a dir gli comenzoe:

          — Dulcissima vita mia, io sono il tuo fidele e perpetuo amatore, e qui in tal manera condutto, atteso che tra la gran gelosia de tuo marito e la summa tua onestate ogn’altra via me aveano interditta; e questa sula remasa dal signore Amore mi fu con grandissima speranza aperta e demostrata. E cossì conduttomi, como vedi, ne le tue graciose braccia, te supplico che tal mio passionato ardire per comune onore e contentezza con discreta manera temperar debbi, e con quella pace e quiete te volgi verso il tuo unico e ferventissimo servitore, cogliendo parimenti i dulci e suavissimi frutti de la nostra gioventù, che prodentissima donna farebbe.

          La giovane, ancora che tutta isdegnosa più volte per uscirli de mano avesse sue forze indarno adoperate, pur cognoscendo che ’l gridare de eterna infamia gli sarìa stato accagione, essendoli eziandio da prima colui assai piaciuto, con seco medesma in promptu consigliatasi, prise per partito donargli quello che, possendo, talvolta negato non gli avrebbe; e a lui revolta, disse:

          — Se ’l poco senno de mio marito vi ha qui condutto, io non intendo con mia eterna vergogna quinde cacciarve; ed essendo ne le vostre mano donata, non me occorre dire altro, si non pregarvi per Dio, e per la vertù, a la qual site per vostra nobilità obligato, che, contentando il vostro disio, ve sia il mio onor ricommandato.

          L’amante, de tal parole letissimo, strettamente basciatala, gli disse che dubitar non gli bisognava, imperò che lui continuo la propria vita a ritaglio metterìa per conservazione del suo onore e buona fama, quando bisognasse. E con tale e altre assai dolci e lusinghevoli parole raumiliatala, prima che de quel luoco partissero, il primo frutto del loro amore assaggiarono; e fatta poi una legieretta collazione, e intratisene al letto, vinti da pari disio, godendo tutta la notte in piacere consumarno. E ordenata fra loro più cauta manera da godere, como l’alba fu, i compagni de la nova contessa, fatti i carriaggi mettere in ordene e montati a cavallo, insiemi con l’oste a casa se ne andarono; e trovata la donna in assetto, cavalcatala subito, e più che ’l dovere l’oste pagato, ancor che verso Calabria drizzassero il lor camino, la medesma sera con grandissimo piacere e festa repatriaro. L’amante finalmente, guidardonata la maestra correra, per longo tempo con la giovane felicemente godette: qual lieto fine a te, vertuosissimo signor mio, conceda Amore, sì como tu maiormente il disideri.

 

MASUCCIO

 

          Singulare e assai netta si può dir la beffa per lo amalfitano oste recevuta, e a gran cortesia da soverchia bestiagine causata; e non dubito che saranno alcune donne, [quale] parlano raro e sputano tundo per esser savie reputate, che diranno che quando a sì fatti partiti se abbattessero, che a la nominata giovane intervenne, prima se averebbono fatte morire, che per alcun modo al voler de l’amante consentito. Unde a queste tale non so che altro per adesso respondere me debbia, si non pregare Dio che loro non conceda tanta desgracia de venire a termene d’esser forzate de quel che supra ogn’altra cosa disiderano. Ma il senno e providimento loro è tanto, che rare son quelle che a sì fatte estremità e periculi se conducano, anzi esse medesme fanno col disio insiemi a l’amante consequir l’effetto, sì como in altre parti più diffusamente parlaremo. Ma che si porrìa dir de la mirabile arte e maestrevole via per la messaggiera reservata nel poner l’amante in gracia de la sua amorosa? Certamente assai. Ma essendo oggi l’arte de’ senzali venuta sì al sottile, che non sulamente vecchi ma fanciulli par che dormendo la sappiano ottimamente adoperare, me ne tacirò de più parlarne; e trapassando più avanti, dirò de un altro notevole inganno in persona de un nostro straticò marchisano adoperato per un giovane salernitano: e fu la burla sì faceta e bella, ch’io medesmo, scrivendola, de ridere non me posso per alcun modo contenire; de la quale, quanti sono oggi nella nostra cità, me ne ponno rendere verissimo testimonio.

 

NOVELLA XIII

 

Argomento

 

          Pandolfo d’Ascari vene straticò a Salerno; tolle muglie e male la tratta in letto; un giovane s’innamora de lei, fa fare una forma virile e a modo de spata la porta a lato; la fameglia de la corte lo menano dinanzi al potestà, e, presente la muglie, son discoperte l’arme; lo straticò si turba e dà bando al giovane; la novella se divulga, e lui per dolore ne more; la muglie gode con lo amante.

 

A LO ECCELLENTE SIGNORE BERNABÒ SANSOVERINO

CONTE DE LAURIA.

 

ESORDIO

 

          E si infino a qui a scrivere sono indugiato, eccellente e vertuosissimo signor mio, non è per altro remaso, si non che la materia, che adietro ho pertrattata, non sulo poco piacere ma fastidio e recrescimento penso te averìa ne l’animo generato. Dunque per fuggire il già ditto inconveniente, col tempo ho trovato al scrivere manera, che non dubito la tua accostumata umanità sempre sarà verso de me benivola e grata; unde leggerai la singular beffa e non senza grandissimo danno sustenuta per un nostro straticò più d’alcun altro geloso, dove chiaramente iudicarai quanto è periculosa e matta l’impresa ad andar, de povere arme guarnito e con debole forza, a combattere con la venenosa vipera, che ad ogne gran percossa resiste; e certo malagevolmente le inespugnabile rocche debellar si ponno per quilli a cui e polvere e pietre insiemi vengon meno. E benché a te non accade il consiglio, imperò che de quanto ad artigliaria bisogna te truovi ottimamente guarnito, nientedemeno non te deve esser discaro avere de ciò documento, per saperte nel futuro providere, e massime per la instabilità de la fortuna, a tal che como al ditto straticò non te intervenga.

 

narrazione

 

          Erasi accostumato quasi ogn’anno il nostro principe degli Ursini mandarce straticò tra sorte de animali, che più in gubernare e pasturare pecore che in podestaria se avrìano de gran longa saputo adoperare; ove tra gli altri vi mandò un marchisano, Pandolfo d’Ascari nominato, qual non sulo era avaro, como è già de costume de’ marchisani, ma misero fuor de modo. Costui menando seco de multi famegli disordenati e male in ordene de arnesi, e nova foggia de uomini in mascari contrafatti, pur tra’ più onorevoli e furiosi, per averne avuta buona derrata, fu un suo assessore caùto, il quale, ancor che multo attempato fusse, pur averìa multo meglio saputo ordenare o tramare una tela in un telaro, che assai o poco de leggi avesse avuto noticia. Cominciato dunque lo straticò con gran braura ad esercir l’officio, e mandando gli soliti bandi, proibendo lo andar de notte, lo portar de l’arme, e altre assai ordenazione avvenne che, quantunque e lui e tutt’i suoi famegli fussero, como è ditto, mal forniti de arme da offender gli uomini, pur, per quel che dopo fu a ciascun manifesto, fu scoperto per malissimo adagiato de quell’arme e vestementi, che al servicio de le donne se adoprano; e nonostante quello, como la sua desaventura volse, una certa infirmità del suo picciolo genital membro gli supravenne, per medicamento de la quale gli medici in tal manera il conciorno, che, nonostante biforcato gli remanesse, gli ne avanzò sì poco, che per nulla sarìa da esser stato iudicato. Il che essendo pur guarito, ancor che omai vecchio e impotente fusse, non restò de cercare con ogne istanzia e sollicitudine de pigliar muglie; e innamorandose de una giovane genoese de assai nobil parentato e summa bellezza, la quale de quelli prossimi dì s’era da un monasterio partita, dove il patre per povertà l’avia monacata, e ben che ’l ministro e tutto il collegio fratino facessero ogne loro sforzo per non perdere sì digna preda, pur veduto colei del tutto disposta a prima morire che per alcun tempo in monasterio retornare, e cognoscendo finalmente vana loro fatica, convertito il dolore in massima rabia, la escomunicorno publicamente, non possendosi contra quella altramente vindicare. De che il namorato straticò, non avendo riguardo al poco poter de sua debile natura, a la gioventù de la donna, né a l’esser stata monaca, che non poco era da ponderare, cossì povera e senza nulla, per alcuni messi che al derupo il confortavano, per muglie se la pigliò.

          E con gran festa a casa menatasela e onorevolmente vestitala, ancor che l’animo, come esser sòle costume de’ vecchi, gli crescesse in manera che de far le maraviglie minazzava, pur la prima notte le forze per tal modo li venner meno, che sulo in mordere e basciare la sua mirabile prova fu convertita. Al che quantunque lui allegasse certe ragione fabulose in suo favore, pur la giovane como a prattica cognobbe con quanta pessima vita avea la sua giovenezza da trapassare. Il straticò, ancor che tardi, accorgendosi che gli basci non sulo non giovavano, ma più tosto a la donna erano como un gittar de lardo in sul fuoco, e che ancora che a lui venesse meno la biada, a la cavalla non scemava l’appetito, se diliberò senza resparagno alcuno adoperar, cossì mal in ordene como se trovava, quel poco istrumento che gli era avanzato, qual era de sì raro e minimo valore, che a l’affamata gola e appetito de la donna altro non era che un pasto de sparaveri ad un famelico e arrabiato lupo. E dimorando de continuo in questo amaro stato, avvenne che de costei se innamorò un dottor legista de la nostra cità, giovine bello e vertuoso e de assai onorevole fameglia; e avendo per varii modi tentata ogne via per intrargli nel core, e poco giovatoli per la strana cautela del gelosissimo marito, propuose darsene pace, e remettersi de tutto a beneficio de fortuna.

          E in questo stando, consigliatosi con un giovane del nostro populo, gli occorse fare una notevole beffa al straticò, e in sua presenzia fare accorta la mugliere de che arme fusse ben guarnito, per soccorrere a’ suoi maior besogni. E vedendo de continuo gli sbirri de la corte andar dintorno togliendo l’arme a cui le portava, e lo menavano dinanzi a lo straticò pregione, qual continuamente con la bella muglie dimorava; mandato il populano secretamente ad un maestro lignaolo, e fatta fare una forma virile ultre la natural misura grossa e ben formata, e quella fatta colorire e appropriare, che quasi de vera carne parea, e a la coda fatto acconciare un manico de spata, e postala dentro un longo fodero, a lato se l’appiccoe. Dove con altri suoi compagni se mise a passeggiare dinanzi a la fameglia de la corte; da’ quali essendo visto, como famelici e vaghi de preda subito intorniandolo, gli dissero:

          — Donaci questa arme, e vieni al straticò, a pagar la pena del bando.

          Il giovane letissimo negò volerli l’arme donare, ma che voluntieri volea andar dinanzi al straticò, ad allegare per qual ragione la portava. Li quali, postoselo in mezzo, e con gran furia menatolo nel palagio, e de brigata intrati in camera, e lo straticò e la mugliera giocando a scacchi e in presenzia del caùto iudice trovorno.

          Al tumulto de’ quali il straticò alzata la testa, e veduto il giovane armato, lasciato subito il gioco, che altro che un bascio non vi andava, credendo fuorsi far con lui un buon provento, in piedi levatosi, cossì disse:

          — Con quale autorità o da che presunzione te movi tu a portar arme proibite, che niuno de questa cità, per nobile che sia, presumisse portarle?

          Il giovane con piacevole viso respuose:

          — Messere, queste non sono arme da nocere agli uomini, anzi è un certo voto fatto per un gentiluomo.

          Al straticò parendo che costui il beffasse, e turbatisimo, con una mano pigliatolo per petto e con l’altra afferrato il manico de la ficta spata, per traerla fuori ed evaginarla adoperava ogne sua pruova; lui da l’altro canto tenendo forte:

          — Messere, — dicea — non me fate ingiuria, coteste non sono arme, lasciatemi andare per fatti mei, si non che me ne agiuterò al sindicato.

          Il straticò ognora più de ira infiammandose, diliberato totalmente volerla, fattose agiutare da’ suoi famegli, e trattala finalmente fuora, e veduto il fiero bestiolo da la donna e da tutti, al quale se sarebbe noverata ogne venuzza quando è nel suo furore più acceso, cominciorno a fare le maior risa che mai in lor vita facessero. Del che lo straticò non poco iratose de aver trovato il contrario de quanto cercava, subito imaginò como tal fatto in vero era processo; e tutto stordito tenendo in mano pur stretto il nuovo vessillo, nol sapea lasciare, né tenerlo onesto parendoli, ma in sé tornato, e diliberatosi agramente il giovane de le falsificate arme punire, revòltose al iudice:

          — Capra, — disse — quid videtur vobis?

          Il montone respuose in lingua canina:

          — Messere, in verità costui sarebbe digno d’aspro e rigido castigamento, ma de iure longobardo non gli possemo far nulla.

          Il straticò, che tardi s’era accordo che ’l suo assessore era una bestia, diliberatosi per lui medesmo voler in tutt’i casi esperimentare ciò che de tal atto fusse stato accagione, al giovane voltatosi, disse:

          — In fé de Dio, tu non te partirai de qui, che a tuo mal grado me dirai de ciò tutto il conveniente.

          Il giovane, vedendo che la fortuna de passo in passo a reuscirli il designo il faorizzava, senza aspettar tempo a la resposta, disse:

          — Messere, dopo che pur sapere il volete, io vel dirò, con reverenzia de madonna che è qui. Non sono ancora multi dì passati, che al cotal dottor legista una fiera e periculosa infirmità del suo secreto membro gli supravenne; al quale niuno argomento de medico non valendo, ed essendone quasi disperato, ebbe ricurso ultimamente a quello che tutt’i fideli cristiani deveno avere, e cossì fece vóto a questi nostri miraculosi santi martiri Cirio e Ioanni, de ogne anno una volta appiccare una statua de cera, a misura né più né meno de sua grossezza, dinanzi i loro divotissimi corpi; per li meriti de’ quale devenutogli sano como fusse mai, volendo il suo vóto mandare ad effetto, né trovando in questa cità maestro alcuno che ’l voglia o sappia fare, gli è stato de besogno far scolpire la presente forma a la sua simigliante, e commettere e pregare a me che la porte in Napoli, e quivi ad un singular maestro mio amicissimo la faccia in cera formare; unde parendomi disonesto portarla discoverta, l’avea acconciata a modo de spata, como vui vedete. Ecco adunque il gran male ch’io ho fatto! Se de ciò si merita punizione, sia col nome de Dio, ch’io sono per receverla apparicchiato.

          La donna, che fra questo mezzo avea visto il brando e contemplato, e per fermo tenendo che vero fusse quanto colui del suo amante avea referito, convertitosi il primiero riso in profundi suspiri, considerandolo multo difforme dal suo continuo stimulo, con rabia disse:

          — Messere, toglietevi, prego, quella miseria de mano e lasciati andar costui con Dio, e torniamo a fornire il nostro gioco.

          Il straticò, da grande ira acceso, cognosciuto non posserlo con iusticia punire, e che quanto più con lui parlava più de novo l’offendea, furiosamente gittato in terra il non nocevole istrumento, e dopo a lui revolto, disse:

          — Tòlmeti dinanzi, ladroncello da forca, malvagia e pessima generazion che vui sète; ma questo e peio me sta bene, imperò che essendone fatto accorto che non vi venesse, atteso che i salernitani ingannarono il diavolo, non dovia de ciò voler vedere la prova; ma a la mia fé non mi ingannereti più, che me n’andarò altrove. Or vattene pur tu con la tua mala ventura, e fra due ore abbi sgombrata questa cità, ché altramente per rebello te farò pigliare.

          — Il giovane, vedendo il fatto in parole termenato e aver ottimamente l’amico servito, curatosi poco del resto, repigliata l’arme de terra, e rengraziata la corte, da loro se partì; e data una volta per tutte piazze e seggi de la cità, con colore de querelarsi de l’esilio, in ogne lato la successa istoria ricontava, non senza grandissime risa e festa degli ascoltanti. E dopo a Nola al ditto signor principe andatosene, in presenzia de tutt’i suoi cortesani e de altre genti, la novella, con l’arme in mano, del suo marchisano straticò e con l’accagione insiemi puntalmente gli racontoe. De la quale fatta grandissima festa, e per manera piaciutali, che più e più volte volse gli fusse a pieno populo ricontata, e al giovane concessa gracia de repatriarse, non sulamente in la cità se retornoe, ma col ditto faore con altri suoi compagni continuamente l’arme portava; a’ quali mai nessuno degli sbirri presumì toglierle, dubitando sempre del primero inganno.

          Il straticò, accorgendosi esser già favola del vulgo devenuto, fu non meno de l’essersi condutto a Salerno pentito, che de aver mugliere giovane pigliata; unde per questo, e fuorsi per esser da soverchia gelosia stimulato, prima che l’officio fornisse, de permutarsi a Sarno de gracia li fu concesso; dove essendo, o per antica passione, o per nova fatica, o che pur altro il causasse, in brievi dì infirmandose, morì. La muglie con poco dolore, senza figlioli e con assai ricchezze remasta, a la sua paterna casa tornoe; e recordandosi del lungo e fervente amore del dottore e del figurato ucello, qual lui vivo in gabbia tenea, vedendose libera e donna de se medesma, con discreta e cauta manera a sé introduttolo, né curando altramente remaritarsi, con grandissimo piacere, fin che vissero, parimente il lor perduto tempo ristorarno.

 

MASUCCIO

 

          Recordome più volte aver tra savii udito ragionare che i vóti che in questo mundo ne le avversità si fanno, e per alcun mancamento satisfar non si ponno, con autorità papale si deveno in altra manera e forma permutare. Per la qual accagione me persuado che ’l dottor legista, avendo de ciò dottrina, vedendo che per essergli dal straticò stato interditto, non aver possuto avere il suo vóto in cera per appiccarlo ogne anno una volta dinanzi a quelli corpi santi, gli fusse stato dispensato de posserlo in causa pia ed in carne viva e vera permutare, como già fece non sulo una volta l’anno ma infinite il mese, offerendo quello dentro al sacro templo de la valle de Iosafat, e fuorsi per averne nel dì del iudicio più vero testimonio. Ma lasciando il faceto ragionare da canto, dico, certamente infelicissimo potersi tener colui che da le ditte due prave infirmità, avaricia e gelosia, si trova inquietato; imperò che ultre lo stimulo, che de continuo dentro lo martella, senza possere in esso veruna contentezza regnare, suole multo spesso tra quelli inconvenienti, che più fugge e teme, ruinare; né par gran maraviglia, atteso che tutti sottili argomenti e ingegni de’ latri sono a cautamente robare cui ben guarda. E ch’io dica il vero, ultre le tre racontate novelle, sequendo in simil tema il mio ragionare, ne mostrarò appresso manifesta esperienzia de quel che ad un vecchio ricco, avarissimo e fuor de misura geloso intervenne, quale ad un tempo fu privato de onore, robba e contentezza insiemi, e per la sua gelosia priso como il pesce a l’adescato amo.

 

NOVELLA XIV

 

Argomento

 

          Un cavaliero missinese se innamora de una giovane napolitana; sente il patre de lei avarissimo; piglia con lui domestichezza e dàgli guadagno; finge volersi retornare a casa sua; impignali una schiava bene da lui del fatto informata, e quella contamina la figlia; robano il patre e insiemi con lo amante se fuggono; il cavaliero la sposa, retornano a Napoli e godeno de loro amore.

 

AL PRESTANTISSIMO MESSERE IACOBO SOLIMENA

FISICO SALERNITANO.

 

ESORDIO

 

          Quanto la golosa e rapace avaricia con suoi detestandi vicii se abbia ampliata per tutto l’universo, e como, a cui pone le sue ungue adosso, ogne vertù gli lacera e occupa, tu, novello Esculapio, col tuo peregrino ingegno lo potrai con non multa difficultà iudicare. E ultre ciò avendo per adietro degli effetti de la gelosia non a bastanza toccato, me pare, più ultre trapassando, de dire non esser tal passione sempre da soverchio amore causata, ma certamente lo più de le volte da pusillanimità grandissima travenire; però che la maior parte de’ gelosi o sono vecchi o bruti o impotenti, o vero de sì poco core, che credono che ognuno, che apparescente veggono, sapirà meglio e più de lui a la muglie satisfare. E perché al numero de’ magnanimi e de’ liberali da li teneri anni te ho cognosciuto, e ottimo medico da sanare ogne langore, me è piaciuto, donandote de la sequente novella noticia, supplicarte che de salutiferi remedii, che a l’una e l’altra passione accadeno, al tuo Masuccio e dottrina e consiglio prestar ne debbi, a tal che, da te istrutto, possa agli posteri la tua mirabile scienza con autorità non piccola comunicare. Vale.

 

narrazione

 

          Messere Tomaso Mariconda, mio avulo e tuo affine, como a te può esser noto, fu multo notevole e legiadro cavaliero, e al suo tempo non poco in la nostra cità tenuto e reputato; quale, essendo d’anni pieno, como è de’ vecchi usanza, de infinite e dignissime istorie ricontar se delettava, e quelle non senza grandissima facundia e memoria incredibile le porgea. Ove tra l’altre me ricordo udirli ne la mia fanciullezza per verissimo ricontare, como dopo la morte del re Carlo terzo nacque nel nostro regno grande e continua guerra per le solite oppressione datence per casa d’Angioia; nel qual tempo essendo in Napoli un cavaliero missinese, Guiffredo Seccano nominato, e multo divoto partesano de casa de Durazzo, e un dì, como a cavallo per la cità [era], gli venne vista ad una fenestra una bellissima giovenetta figliola d’un vecchio mercatante, del cui nome non bene me ricordo; e quella ultre modo piaciutali, subito de lei si trovò fieramente priso. E como volse la lieta fortuna de tutti dui, avvedendosi la giovane, che Carmosina avia nome, che al cavaliero era piaciuta, quantunque mai avesse cognosciuto che cosa fusse amore, né appena alcun altro uomo veduto, avvenne cosa forse inaudita, che in un medesmo punto una fiamma parimente in doi cori arse, per modo tal che, l’un l’altro mirando, parea che a nissuno il partir fusse concesso; pur dopo alquanto spacio, da onestà e timore tirati, non senza grieve e pari pena se diparterno.

          Messere Guiffredo, cognoscendo che amore a l’improvista con un colpo ne avea doi bottati a terra, e che altro che attitudine non gl’impedia a posser le concorde voglie satisfare, tutto se diede, como d’amanti è costume, ad investigare cui fusse la giovane, e de cui figliola. Trovato brevemente il patre, intese esser quello ultre la vecchiezza geloso e avaro fuor de modo, e in manera che, per non esser de maritare la sua unica figliola requesto, de continuo reclusa in casa e peggio che vile serva la tenea. E de tutto il cavaliero pienamente informato, per aver qualche colorata accagione per quella contrata passare, e, se non la giovane, almeno le mure de la casa vedere, cominciò ora de una, ora de altra de sue vicine innamorato mostrarsi; de che essendo da multi non altro che per un pascivento iudicato, era la sua astucia e sagacità in deriso degli sciocchi venuta. Il quale, de ciò poco curandose, sequendo il suo prepostato aviso, col patre de la donna artatamente grandissima domestichezza prise, per accagione che assai volte, e senza averne alcun bisogno, de le sue mercanzie a carissimo prezzo comparava, e ultre a ciò, per più adescarlo, quasi ogne dì d’altri cortesani in bottega gli conducea, fandoli de continuo de freschi dinari toccare; il quale, e dal cavaliero e da’ suoi compagni gran profitto traendo, avea tanta amistà con lui contratta, che quasi ognuno de ciò se maravigliava. Volendo dunque il cavaliero il suo designo ad ultimo effetto mandare, un dì reclusosi col mercante dentro suo fundico, in tal manera a dir gli comincioe:

          — Bisognandomi ne’ mei fatti conseglio e agiuto, io non saprei omai ad altro che a vui recorrere, qual non altramente che proprio patre per la vostra bontà e amo e temo; e per tanto non restarò de non aprirvi ogne mio secreto. Unde sappiate che egli son già multi anni che, essendomi da mio patre partito, sono stato qui e da lo amor del re e da le condizion de la guerra detenuto, e in manera che ’l repatriare non me è stato fine al presente concesso. Adesso son più dì che con multe littere e imbasciate sono da lui sollicitato che, prima che se termenano gli anni de sua vecchiezza, a revedere il vada. Ai commandamenti e pietà del quale non possendo resistere, ho priso per partito de andarvi; dove per alcun breve termene dimorato, intendo al servicio del re mio signore subito retornare. Né avendo de cui più commodamente che de vui in tal caso e ogn’altro possa fidarmi, voglio che certe mie robbe infine al mio ritorno me fate conservare; e ultre a ciò lo maior pensieri si è d’una mia schiava, però che grieve me parrìa venderla per la sua bontà, e d’altra parte trovandome dal bisogno de trenta ducati costretto, e che per mio onore nessun mio amico de sì minima quantità rencrescerei, ma più tosto, in tale ambiguità stando, de vui sulo pigliar questa sigurtà ho diliberato, de affannar vui de questo dinaro e de lasciarvi la schiava; e se fra ’l mezzo ch’io torno, la trovarete a vendere per lo prezzo che me costò de settanta ducati, fate de quella como fusse vostra.

          Il cupidissimo più che savio vecchio, occupatosi con tutti i sentimenti a la utilità che del chiesto servicio venir gli possea, non discernendo altramente l’inganno, senza altra consulta in tal forma gli respuose:

          — Vedi, messer Guiffredo, egli è tanto l’amor ch’io ti porto, che, per cosa che me recercassivo, non saprei dir de non, sul che per me far si potesse; e per questo voluntieri son disposto servirvi del dinaro vi bisogna, e la schiava terrò per vui, a ciò che non se abbia male a vendere; e quando sarete a salvamento retornato, se ella farà al mio bisogno, saldarò il vostro cunto in modo che non altramente che proprio figliolo sarete da me trattato.

          Il cavaliero, letissimo de l’avuta resposta, gli disse:

          — Io non sperava altro da vui, e lo rengraziarvi me parrebbe soverchio; ma faccia il signore Dio che con comune comodità gli frutti de la nostra buona amicicia vi possa demostrare.

          E con la ditta conclusione da lui partitosi, montato a cavallo, como già era solito, per la contrata de la sua donna passoe, e per aventura, como lor comuni fati aveano fuorsi per lor pari felicità ordenato, vide la giovane alquanto demostrarseli a la fenestra, e poi indrieto quasi raminga tirandosi, fargli una piacevole e pietosa guardatura; del che lui mirandosi intorno, e nissuno vedendo, non avendo tempo de usar più longo sermone, gli disse:

          — Carmosina mia, confòrtate, ch’io ho dato modo de presto cavarti de pregioni.

          E andosse con Dio. La giovane, che ben avea le parole de l’amante intese, ne fu non poco contenta, e quantunque a lei non potesse andar per il capo che ciò dovesse alcun buon effetto parturire, nientedemeno, da fredda speranza incitata, sperava e non sapea del che.

          Il cavaliero, giunto in casa, e fattasi venir la schiava, gli disse:

          — Anna mia, fornita è già la cosa tra nui ordenata, e però fa che sie prodente a quel che averai da operare.

          La quale ancora che dottissima fusse ne l’arte, più volte insieme l’ordita trama reiterarono. E cossì da là a pochi dì essendo ogne cosa in ordene, andatosene dal vecchio mercante, in tal forma gli parlò:

          — Quanto a me sia noioso il partirme per alcun termenato tempo da la vostra fruttuosa amistà, il vero cognoscitor de tutt’i segreti me ne sia testimonio. Tuttavia convenendome puro questa notte partire, per esser il mio passaggio in ordene, vi son venuto a chieder conviato, e ultre ciò togliere il dinaro che vi chiesi, e che mandate per la faccenda che sapete.

          Il vecchio, che d’altro Idio non pregava, avendo già dubitato non fusse pentito, fu de tal novella letissimo; e numeratili de botto li trenta ducati, mandò per la schiava, quale con certe altre coselline del cavaliero in casa se condusse.

          E venuta la sera, il cavaliero, dal mercante accompagnato e d’altri suoi amici infine agli liti marini, e con tutti abbracciatosi e ditto adio, dentro una fusta che andava a Missina, s’imbarcoe. E non essendo multo dal porto lontani, fattose porre ad un levuto, secundo avea col patrone ordenato, a Procida ponere si fece, dove, in casa d’un suo amico reparatosi, infine a la terza notte dimoroe. E al costituito termene con la schiava, con certi compagni siciliani partitosi, a fare ogne gran periculo ben disposti, a Napoli se condusse; e per cauta via in la cità intrato, con suoi compagni in una casa a quella del mercante contigua se occultoe, quale in quell’anno per la malignità de la guerra era già remasta vòta de pesonanti, e ivi chetamente infine al sequente giorno dimororno. La sagacissima schiava, giunta in casa del mercante, fu da la Carmosina lietamente recevuta, e, sapendo de cui era, prise con lei in breve spacio grandissima domestichezza; e però che la brevità del tempo la spronava, non senza mirabil arte e maestrevole parole l’accagione de la sua venuta puntalmente gli discoperse, e quanto col suo patrone aveano supra de ciò ordenato, confortandola da passo in passo nel suo ragionare a ultimamente sequir l’impresa, per eterna quiete e felicità de tutti dui. La giovane, che per più respetti maior voglia del cavaliero ne avea, non lasciando in longo sermone la schiava multiplicare, gli disse che ad ogne sua requesta era apparicchiata ad esequire a tutti ordenamenti del suo signore, da lei non altramente che la propria vita amato.

          Al che disse la schiava:

          — Figliola mia, se tu hai da portartene alcune cosette, pónitele in assetto, ché ’l fatto serà per questa notte in ordene; e sappi che ’l mio patrone e lo servo è con suoi compagni in questa casa a nui congiunta, secundo il signo che in quella ogge ho visto, a la quale, como tu sai, facilmente potremo andare da l’astrico nostro.

          La giovane, inteso il curto termene del suo scampo, basciatala cento volte, gli respuose che lei non avea del suo né poco né multo da pigliare, ma che intendea pigliare de quello de l’avarissimo patre, assai più che avesse possuto estimare esser bastevole per la sua dote.

          E in su tal conclusione firmatese, venuta l’ora de la mezza notte, dormendo il vecchio e ogn’altra persona de casa, aprerono una cascia, e trattine tra gioie e contanti ultre il valor de mille e cinquecento ducati, e con quelli vallicato l’astrico, chetamente ove era il cavaliero pervennero. Dal quale con grandissima festa in braccio recevuta e ardentissimamente basciata, senza più avanti procedere, ché la dubbiosa stancia nol comportava, tutti de brigata in la via se condussero; e verso il mare aviatisi, e cautamente per un pertuscio dietro le Beccarie de la cità usciti, trovato il lor ligno non sulo acconcio e armato da veloce andare ma quasi atto da volare, e tutti dentro montati, dati i remi in acqua, in poche ore ad Ischia se trovorno. E presentatosi il cavaliero con sue brigate dinanzi al signor de quel luoco, che singular suo amico era, e secundo con lui avea per inanzi ordenato, furno assai benignamente recevuti e onorati; e qui stando, parendoli già esser sul securo, colsero il dolce e primo frutto del lor reciproco amore, e con non manco piacere de l’uno che de l’altro ivi felicemente de lor rapina goderno.

          Venuto il chiaro giorno, il vecchio patre non trovando la figliola né la impignata schiava, e accortosi ultimamente degli dinari e gioie involati, per li quali non minore amaritudine ne sentiva, se ’l dolore, pianto e ramarico fo grande, ciascuno sel può pensare; né sarà da maravigliare fusse sì fiero, che più volte ne stessi per lui medesmo per la gola appiccarsi; e cossì dal danno e da la vergogna oppresso, rinchiuso in casa in continue lacrime dimorava. La innamorata coppia in Ischia letissima dimorando, per loro continuo uso la gentil giovane ad ingravidar si venne; il che essendo al cavaliero carissimo, gli occorse voler una vertuosa liberalità usare, e ad un medesmo punto a Dio e al mundo e a se stesso satisfare. E mandato per mezzo del signore de Ischia per lo patre de Carmosina e suo parentato, e quivi venuti, e dopo alcuni contratti insiemi radunati, il cavaliero con gracia del re e con comune contentezza e general piacere de tutt’i napolitani onorevolmente per sua legittima sposa la pigliò; e dal furtivo e venereo gioco al giunonico uso trasportati, repatriati in Napoli, ivi, fin che vissero, con felicità goderno. E cossì il vecchio geloso, avaro e insensato, dopo il danno raconciò lo fatto.

 

MASUCCIO

 

          Il felice fine de la racontata novella non dubito che darà materia a multi con infinite lode la sagacità de la giovane commendare, quale, vedendosi cossì vilmente tenuta e peggio che serva reputata, lei medesma un sì valeroso amante avesse procacciato, e pigliatose de le robbe del miserissimo patre più che de dote non gli contingea, e infine con onore e contentezza devenirgli sposa. La qual cosa quantunque ad Amore più tosto e non a lei si potrebbe attribuire, quale gli svegliò l’ingegno adormentato a fargli con animosità grande sequire quanto lui medesmo insegnato gl’avea, nientedemeno non laudarò io, né a nessuna donna consigliarei che, per grandi che fussero le promisse de l’amante, a ciò sequire trascorrer si lasciassero, ché, posto che a la nostra Carmosina ben gli avvenesse, non sono però tutti gli animi degli uomini de una medesma qualità e opinione; e quello che ’l cavaliero usò per una sua innata bontà e singular vertù, altri fuorsi la dannarìano per viciosa e trista, e, trovandosi a simili partiti, a loro parerìa avere fatta una gran pruova, quando a le loro amorose avessero il fiore de loro virginità rapito, e con quello insieme arrobarle, e dopo lasciarle schernite. E ancora che ciascuna fusse secura che al suo proposito lo effetto gli reuscisse, pur iudicarei che più sana parte fusse da sequire il contrario però che de gran longa è migliore ad altrui non ponerse a periglio de posser perire, che presso il periculo non periclitare. E ultre ciò me persuado, niuno posser negare che la estrema gelosia con l’antiqua miseria insiemi del vecchio mercante non gli fusser state accagione de la beffa dal gran danno accompagnata che lui recevette; e si eziandio ne sequì il raconcio de l’onorevole fine, non fu perché li reprobati vicii non avessero gli loro venenosi effetti demostrati, quali son tanti e sì orribili, che pur con ammirazione restarò a dirne. E perché ne la sequente novella de materia assai difforme e contraria da la gelosia trattar me conviene, de tal prava infirmità alquanto ne lasciarò il ragionare; e da madonna Avaricia non partendomi, mostrarò una abominevole operazione de un goloso avaro, per la quale si potrà comprendere quanto tal vicio occupa l’intelletto, e ogne vertù, onore e contentezza fura.

 

NOVELLA XV

 

Argomento

 

          Un signor cardinale ama una donna e per dinari corrumpe il marito; conducegli la muglie in camera; torna la matina per reaverla; la donna, parendoli star bene, non vuol retornare; dicegli parole assai; non montano nulla; a la fine se piglia il promisso dinaro e como disperato va in esilio, e la donna gode col cardinale.

 

AL DIGNISSIMO MESSERE ANTONIO DA BOLOGNA PANORMITA.

 

ESORDIO

 

          Sulo al pensare de voler scrivere a te, famoso e clarissimo poeta, lume e gloria de la nostra italica nazione, l’ingegno e la lingua, la mano e la penna me sento in manera insiemi avviluppati, che nissun de loro può o vale al solito officio retornare. Pur rimembrandomi lo averti talvolta visto pigliar non picciolo piacere degli inordenati disvarioni e grosso parlar de’ vulgari, e per quello porre da canto le digne e ornatissime scritture, como quel che nissuno alto e retorico stile a te, novello Apolline, non sulo ammirativo non sarebbe, ma novo piacer nullo ne prenderesti; questo adunque me ha dato baldanza a repigliar l’arme da terra, e rassicuratomi a pur scriverti la presente. In la quale intenderai un novo contratto, anzi inusitata compara, fatto tra un mantuano dadovero babione e un novo fariseo, qual credendosi fuorsi lui dover esser del glorioso Pietro successore, disposto de non lasciar il pastorato a strane nazione, ma che non uscisse fuor de sua sementa, de aver alcun figliolo se ingegnoe; e con quella autorità con la quale la cappa e ’l cappello rosso se haveno vindicato portare per rimembranza del vermiglio sangue de Cristo sparso sul ligno de la croce, similmente con quell’altra, ove disse Idio: “Crescite et multiplicamini”, dicono posser licitamente aver figlioli. De la vita e costumi de’ quali, non volando sì alto il mio falcone, de più ultre morderli me rimango, e sulo a la istoria a te promissa vengo.

 

narrazione

 

          Credo sia già per l’universo manifesto il sacro e gran concilio che ’l beatissimo Pio secundo ordenò e fece ne la cità mantuana, per fare il general passaggio incontro al turco; il quale con tutto il suo collegio de’ signori cardinali essendosi ivi condutto, il radunare de’ convocati prìncipi e potenzie de’ cristiani aspettava, per dare indrizzo a tutt’i necessarii preparatorii che sì alta impresa persuadea. Ed essendo tra gli altri un signor cardinale, il cui nome e dignità taceremo, il quale, per ben che fusse de’ maiori officii ne l’apostolica corte esecutore, non era però ancora da la florida età a l’altra pervenuto, ed era eziandio de assai gracioso aspetto da la natura dotato. Lasciarò da canto il suo suntuoso vestire, gli ornati e gran palafreni, la onorevole fameglia, e ultimamente la magnificenzia del suo viver regale; ma che dirò de la sua magnanima natura e degli altri contraria, che liberalissimo e d’ogne vertù e gentilezza vago e divotissimo devenia, tal che sulo ello era estimato il più legiadro e benigno signore, che in gran parte del cristianesmo si trovasse? Costui adunque dimorando in un palagio d’un gran citadino, e dintorno a quello de multe e belle donne abitando, una tra le altre ivi era, quale indubitatamente il resto de la cità de bellezzi soperava; ed essendo dal ditto signore più volte vista e unicamente piaciutali, como gran cacciatore e vago de sì fatte prede, diliberò non lasciarvi cosa alcuna a fare, per ottinere de tal impresa la disiata vittoria. E stando la casa de la giovane a la sua multo contigua, e le fenestre guatandosi de rimpetto, avendo per ciò assai copia de mirarla, con acconcia manera la vaghiggiava; e accortose lei esser più ch’altra donna onesta, per non posserla, con suoi varii e belli modi adoperando, mai condurre ad una sula volta con piacevolezza guatarlo, la avuta speranza alquanto indrieto revolse.

          Pur da amore fieramente stimulato, cognoscendo non potersi le alte imprese senza grandissimi affanni conquistare, e che quelle che con facilità se ottengono, son poco appregiate e presto infastidiscono, ancora che diverse vie avesse trascorse, pur ultimamente in una se raffisse; e diliberatosi de vedere se con l’amo de l’oro avesse il suo marito possuto pigliare, imperò [che] multo povero e avarissimo il cognoscea, mandato senza altra dimora per lui, e quello subito venuto e dinanzi al signore in camera menato, dopo le umane e familiare accoglienze fattolo presso de sé sedere, in cotal modo a dir gli cominciò:

          — Gentiluomo, essendo tu prodente, como te cognosco, non me pare de bisogno con longhi sermoni o persuasive ragione te debbia io dar ad intendere quel che tu ottimamente cognoscerai esser la eterna tua quiete, e del tutto fuggire ogne tuo presente e futuro affanno. Unde la gran bellezza de tua onestissima muglie me ha in manera pigliato, ch’io non ne posso reposo pigliare; e como che chiaro io cognosca niun consiglio o ragione concedermi a te, che suo marito sei, un tal servigio per me chieder si deggia, nondemeno d’amore e onestà estimando niun’altra persona meglior de te il possa fare né più occultato tenirlo, ho priso per remedio voler più presto te che altro mezzano per me medesmo intromettere in tal fatto, pregandote che, cossì per mia contentezza como per tua fruttuosa commodità, vogli che tanto disiderato dono per te me sia concesso. E benché tanto digna cosa comprar non si possa, pur tu cognoscerai tal servigio non essermi donato ma a grandissimo pregio venduto, però che lei de la persona e tu de tutte mie facultà voglio che dal primo dì intera possessione pigliate. E se ciò far vorrai, dimmelo presto e non tenermi in tempo, a tal che lo bene e providimento, che verso de te fare intendo, de continente ne vedi gli effetti sequire.

          Era il buon uomo, como de sopra dissi, povero e cupedo ultre misura; il quale viste tante offerte da colui farsi, che ricchissimo e multo liberale il cognoscea, estimando non minimo profitto se ciò sequir gli dovesse, e confidandosi massimamente nel suo senno de multo covertamente menar tal trama, gli furno le ditte cose efficiente accagione ad abbagliarli l’intelletto, a rompere l’amor del matrimonio, a dispregiar lo onor del mundo e ad offendere con tal vituperevole spata a sé e a la sua eterna contentezza; e senza altramente pensarvi, in breve parole cossì respuose:

          — Monsignore, io sono al vostro chiesto servigio apparicchiato, e però a vui il comandare e a me sarà l’obedire ad ogne vostro piacere e contentezza.

          Dal quale con aliegro vulto infinite gracie renduteli, si partì; e per non dare al fatto più longa dimora, la sequente notte per assai largo modo con la muglie dintorno a tal fatto a ragionare incominciato, e ad ogn’ora de loro necessità facendo scuto, concludendo dicea che qualsivoglia inonesta cosa cautamente adoperata quasi como per non fatta tener si possea. La donna che disecretissima era, non sulo ultremodo gli fu molesto, ma da grande ira accesa, vilmente ingiuriandolo, gli concluse che se per alcun tempo a ciò pensare, non che a ragionarne, trascorrer si lasciasse, senz’altro mezzo a’ suoi fratelli il redirebbe. Il marito, non curandosi per quella prima volta de la sua strana resposta, lasciati vallicare alquanti giorni, quando tempo gli parve, de cose assai piacevole con la muglie muttiggiando, un’altra volta con acconcia manera gli fe’ la simile requesta, che davanti fatta gli avea. La quale, più rigida che mai demostrandosi, subito se n’andò in casa de’ suoi fratelli, a’ quale con poco piacere la istoria del suo vile marito ricontoe; qual ascoltandola iratisi, e de botto fatto venire il lor cognato, gli racontorno quello che aviano odito, minacciandolo forte ed ingiuriandolo, ché contra lo onor de tutti fare intendea. Lui, che la resposta tritamente se avea già preparata, senza alcun sbigottimento e quasi ridendo, disse:

          — Fratelli mei, in verità con più onestà me averestivo possuto domandare, e io ve avrei tratti de dubio; ma dovendosi da tanto congiunte persone ogne cosa tolerare, ve dirò il vero de ciò che vostra sorella e mia muglie vi ha referito. Sentirete dunque che essendo io posto in sospetto che ’l cardinale, che a nui sta d’incontro, ardentissimamente la amava, e che occultamente con alcuni de casa mia tenia trame, essendo lei pur giovane e bella, ancora che per onestissima la tenga, dubitando de la fragilità de le donne, diliberai far de lei l’ultima esperienzia; e, se la trovava como trovata la hone, commendarla e retraerme d’ogne e presente e futuro sospetto, e se, toglialo! fusse stato il contrario, una insiemi con vui far quello che de lei se rechieda. Ove, como voi vedete, la Dio mercè avendo vista e provata la sua vertù, ogn’altro e novo e vecchio sospetto da me si è partito, e da qui avanti in maiore estimazione la averò.

          Coloro, udendo la conveniente scusa, parendoli possibile che lui a tale antiveduto fine ciò fatto avesse, summamente de tal suo cauto consiglio il commendorno, e dopo più debatti con la muglie il pacificorno. E a casa retornatisi, credea che ’l marito non gli dovesse più negli soliti ragionamenti retornare. Il signor cardinale sentite tal novelle, e agramente tolleratale, la calda speranza se incominciò ad intepidire; puro, da la sua fiera passione astretto, con più fervore che mai il suo vaghiggiare continuava, e con atti, e talvolta con parole, ogne sua facultà lui medesmo senza alcun ritegno gli offeriva, fandola dadovero certa che per lei como il ghiaccio al sole se consumava. La donna, che non era da la natura d’altri metalli stata produtta che tutto il resto del sesso femineo si siano, con tutta la sua gran vertù ed onestà, per lo continuo martellare se indusse, senza mostrargline alcun signo, ad amarlo, e talvolta, col marito ragionando, l’accorte manere e laudabile costumi de quel signor incredibilmente commendava. Questo fu dunque accagione de fare il dolente marito rassicurare a de novo al solito ragionamento intrare; e cattato il tempo che ben disposta la cognobbe, gli disse:

          — Iacomina mia, como tu medesma puo’ render testimonio quanto cordialmente, e certo per tue vertù, te ho amata e amo, e se l’altro eri te rechiesi de quello che tu sai, non voglio che credi che ’l poco estimare lo avesse causato, ma due potissime ragione contro ogne mio piacere a quello me indussero: e prima la nostra estrema necessità, in la quale per nostra mala fortuna e senza nostra colpa simo condutti, ché un altro modo da sustentarce veder non me lascia; l’altra, e quella che con non manco amaritudine me affligge, si è il pensare a questa prossima festa, che la nostra marchisana cità de far se appresta a’ prìncipi radunati, e in quella per mancamento de robba non posserte fare comparire secundo io vorrei, e como a la nostra condizione e tua grandissima presenzia e bellezza si converrìa. A le qual cose considerando, si troverebbono de tanto potere, che non sulo a quello sequir trasportar me lasciarìa, ma anche ad eterno martirio o dura morte pigliarne; e quantunque a ciò altro che tema de vergogna non ce repugne, puro, como altra volta te disse, niuna cosa per cauta via adoperata può mai in alcun danno o vituperio retornare. E a tal che tu cognosca ch’io dico il vero, vedi che questo signore, per esser tenerissimo del suo e nostro onore, ancora che tutto se consume, non ha voluto de persona che viva, altro che de me, fidarsi, como a colui che più ch’altro appertiene de secreto tenerlo. Unde non sapendo io che altro circa questo recordar te sappia, concludendo dico, in ciò esequir debbi quanto l’animo te consiglia, e io sempre restarò per contento, né lasciarò non rammentarte che, qualora da la misera povertà seremo assagliti, de te medesma e non de la fortuna ne averemo insieme da ramaricare.

          La donna, stimulata de continuo dal misero marito, quale con tante simulate ragione al dirupo la conducea, e ultre ciò cognoscendosi da un tanto gracioso, ricco, bello e liberal signore supra ogn’altra cosa amata, diliberò per le ditte e altre assai ragione ogne vertuosa catena spezzare, e ad una ora a sua eterna contentezza satisfare e al marito render quella pena che lui medesmo se procacciava. E dopo che tacere il vide, cossì gli respuose:

          — Marito mio, avendo a’ mei fratelli piaciuto de non sulo una volta darmete per muglie, ma anco contre mia voluntà un’altra volta qui remandarme, donde con iustissima causa me era partita, essendoce pur, como ce sono, non debbo né posso altramente de me disporre che quello che tutte le belle donne oprano e per lor mariti fanno, cioè d’esser ad essi ossequiose e in ogne cosa, como lor maiori, obedirli. Dunque vedendo apertamente esser la tua intenzione del tutto disposta, che la mia persona da l’altrui braccia sia contaminata, restarò quieta a far quanto tu vuoli, e che con tante ragione me hai persuaso; e però, quando e como te piace, io sono a ciò apparicchiata. Puro non restarò dirte vi pensi maturamente, e guarda, marito mio, che de ciò che fai non te penti a tempo che ’l remediar non abbia luoco.

          Il marito, letissimo de la non consueta resposta, parendoli che le sue parole avesser fatto frutto, gli disse:

          — Mugliere mia, de niuna cosa fatta con buona maturità e ordene altrui se ne pentì già mai; e però de questa lascia il pensiero a me.

          E da lei partitosi, se n’andò ratto al cardinale, e con allegro volto salutatolo, gli disse:

          — Signor mio, la faccenda è in ordene per questa notte; e certo con grandissima difficultà gli ho fatto dir de sì. Però gli ho promissi tricento ducati per questa prima venuta, quale vuole subito, per convertirgli in ornamento de sua persona per la solennità che de fare se aspetta; dunque de farnela retornare contenta, omai il carrico sia il vostro.

          L’innamorato signore, che pratticone e prodentissimo era, intese de botto la gattività de colui esser tale qual lui disiderava, e con gran piacevolezza gli respuose che non sulo tricento ducati, quali minimissima cosa estimava, ma volea che lor fusse quanto lui tenea; e dopo altre effettuose parole, conclusero de l’ora e del modo como lui medesmo gli la dovea in casa condurre. E a la muglie retornatose e lo priso ordene narratoli, non possette da quella altra resposta avere, si non:

          — Marito, marito, pensa e vedi ben che fai.

          E venuto lo aspettato termene che partir si doveano, puro con lo usato mutto l’andava mordendo, e per lo camino non restava de dirgli:

          — Marito mio, io dubito che tu te pentirai.

          Al che lui, per lo sulo pensare agli tricento ducati in sì poco spacio guadagnati, non vi puose niuna cura, né meno intese l’effetto de tal parole, como colui che l’avaricia li avea non poco l’intelletto offuscato; e cossì quivi la condusse.

          La giovane donna giunta in camera e ne le amorose braccia del gracioso signor trovatase, ultre l’infiniti basci, gli fe’ tante effettuose e non simulate cariezzi, che, prima che a cogliere gli dolci frutti de amore pervenissero, a lei venne voluntà col primo suo proposito confirmarsi, cioè de più presto morire che al suo marito caro retornare. Il signore, dato al marito onesto conviato, e che per tempo a remenarne la muglie retornar dovesse, con la giovane nel delicioso e ricchissimo letto se nde introe; e venuti a quello che d’Amore per ultimo refrigerio si porge, da pari disio vinti, tutta quella notte per lo delettevole venereo giardino caminorno, tal che la donna, non avendo per ancora simili bocconi gostati, seco medesma iudicò sulo in quello esser la summa felicitate; e, per non volerse da quella partire, con discreta manera ed acconcio parlare al signore la sua voluntà e ultimo partito priso per loro comune contentezza del tutto fe’ palese, concludendo finalmente che, se lui de retenerla non si contentava, esso per perduta e ’l marito per non recoverata in eterno la possea ascrivere e reputare. Il signore, che con mai simile gostata suavità le parole con l’effetto insieme avea ascoltate, prima che d’alcuna resposta la satisfacesse, con infiniti, dolci e amorevole basci de sua intenzione certificatala, in tal modo gli respuose:

          — Anima mia dolce, io non so altro che dir te sappia, si non che, avendote io donata l’anima e tu a me il tuo formoso e dilicato corpo, del mio e del tuo con le facultà insieme ordena e disponi como e qual ti piace, ch’io resto contentissimo.

          E tornato a rebasciarla, essendo omai dì chiaro, fattala vestire, in un’altra camera la fe’ condurre; e sentito il marito esser già da l’albi venuto per remenarsene la mugliera a casa, sel fe’ per un camerero chiamare. Quale intrato, e veduta la muglie, e sorridendo il buon giorno donatoli, e poi accostatali, de secreto in tal modo gli disse:

          — Iacomina mia, sappi ch’io sono multo pentito per averte qui condutta, ché simil dolore non sentivi mai quale ho patuto questa maladetta notte, ché, pensando a te, non ho possuto reposo alcuno pigliare.

          La donna, che la resposta avia già preparata, gli disse:

          — Marito mio, e io anco son pentita che da la prima requesta del venir qui me facisti non dissi de sì, imperò che le tante dolcissime notte, ch’io ho perdute, non le recoverarò mai al mio vivente; e certo se tu hai mal dormito, io ho ottimamente vigliato, però che questo mio signore me ha fatte più cariezzi in questa sula notte, che non mi facisti tu in tutto il tempo che fui la tua, e ben per mia mala sorte. Veggio che la sua liberalità, de la quale tu sì caldamente me ragionavi, in milli doppii maiore la ho retrovata; però che, avendoli stamani del tutto discoverta la mia ultima voluntà, volermi con lui remanire, me ha donate le chiave d’ogne suo tesoro. E pertanto, qualora te piace, togli il pregio, per lo quale vendisti lo onore del comune parentato, e de me e d’ogne mio affare voglio che ’l fatto sia la tua ultima sorte, atteso ch’io me lasciarei prima squartare, che con teco retornasse già mai.

          Al dolente marito parutoli che ’l cielo gli cascasse in testa, cossì respuose:

          — Iacomina mia bella, mottiggi tu o parli da vero?

          Lei respuose:

          — Io mottiggio, e ho ragione; ma tu fuorsi credi ch’io voglia far prova del tuo amore, como tu dicisti a’ mei fratelli, che me avevi, per provar la mia costanza, requesta? Or voglio che poi una volta la provasti, quella in eterno te basti, e che de me per lo inanzi non possi alcuna esperienzia vedere; però che devi recordarte quante volte te disse: “Marito mio, guarda che fai”, e che te penteristi; e tu me respondisti che a te lasciasse il pensiero. E io cossì feci e intendo de fare, e che ’l pensiero sia tutto il tuo e non d’altri, e remedia puro, se sai, ché tutta gioiosa e senza alcun pensiero ne le deliciose braccia del novo mio signore me retrovarò sempre più fresca.

          E aperto un forzieri e da quello trattone un sacchetto, ove tricento ducati avea poco avanti numerati, gli disse:

          — Togli il pregio de la poco da te gradita muglie, e qui più niente dimorare.

          E in un’altra camera intratasene, disse:

          — Adio, marito mio, e un’altra volta pensa che fai.

          E dietro serratase, mai più al suo vivente de viderla gli fu concesso. Il misero marito, non sapendo pigliar altro reparo al suo mal fatto baratto, per meno perdere, toltisi li tricento ducati, pieno de lagrime e suspiri a casa se ne retornoe; dove dubitando non manco del furore de’ cognate che de la sua vergogna, brevemente se ne fuggì; ma quel che de la donna avvenesse, e como il resto del suo tempo triunfando godette, ciascuno il può facilmente iudicare.

 

MASUCCIO

 

          Temeraria presunzione sarebbe de colui che in parte alcuna volesse dannare quel che la mantuana giovane adoperò per castigamento del gattivo marito e sua eterna consolazione, e del non volersi muovere da tanti beni quanti impensatamente e contro sua voluntà avea trovati, fuorsi ab eterno da la sua lieta fortuna destinatigli; e ultre ciò, como non si possa o debbia de l’ingannato aver compassione, avendosi lui medesmo il recevuto inganno comparato, cossì veruno meritamente porrìa biasmare il signor cardinale, che non chiuse l’uschio a la benigna fortuna, avendoli quello che unicamente disiderava totalmente in mano recato; anzi me pare commendar lo debbiamo ché, avendo il suo disiderio satisfatto, non si lasciò da avaricia affliggere a non far al buon uomo avere il promisso dinaro, como fuorsi alcun’altri avrebbeno fatto. Ma perché de tutti è stato a sufficienzia ragionato, e che non è da maravegliare se li uomini non si ponno l’uno da li aguati de l’altro guardare, voglio con un’altra novella un sottilissimo inganno racontare fatto ad un santo per dui nostri salernitani, e como e con che cauta manera seppero traere de multi centinara de fiorini dal sagace populo fiorentino.

 

NOVELLA XVI

 

Argomento

 

          San Bernardino è ingannato da dui salernitani; l’uno li fa credere aver trovata una bursa con cinquecento ducati, e l’altro dice averla perduta, dàgli i signali e recovera la bursa; il santo raccomanda la povertà del primo al populo fiorentino; raduna un gran dinaro, dàgli a l’ingannatore; quale col compagno trovatosi, dividono tra loro la preda.

 

A LO ILLUSTRISSIMO E REVERENDISSIMO

SIGNORE DON IOAN D’ARAGONA.

 

ESORDIO

 

          Recordome, illustro e reverendissimo mio signore, più volte con meco medesmo aver diliberato, prima ch’al fine del mio novellare pervenga, una de esse, de piacevole e onesta materia compilata, a te, summa venustà e singulare specchio de’ sequaci de Piero, intitulare, e dopo con l’altre insiemi unirla e annoverare. E volendo il prepostato pensiero mandare ad effetto, te invio la presente non meno vera che piacevole novella, per la quale, ultre il piacere, intenderai che non sulamente gli uomini mundani ma eziandio gli santi possono e sono in questa presente vita, sotto fede de ficta bontà, multe volte da altrui traditi e beffati.

 

narrazione

 

          Angelo Pinto nostro salernitano, secundo gli antiqui che ’l cognobbero affirmano, fu ne’ dì suoi il più solenne maestro de ingannare altrui con ogne singulare beffa, che per Italia mai il paro se avesse trovato. Costui, dunque, avendo multe parte e dentro e fuori Italia recercate, e quasi in ogni luoco i suoi ferri adoperati, arrivò a Firenze, e in quel tempo che ’l nostro divotissimo san Bernardino vi predicava; dietro al quale, per continua demostrazione de tanti evidenti miraculi che facea e per la divulgata fama de sua perfetta vita, la maior parte de Toscana correa. Pur tra la multitudine degli ascoltanti per aventura un dì trovatosi lo ditto Angelo con un altro giovane puro salernitano, chiamato il Vescovone, assai dotto discipulo secundo la sua età ne la scienzia d’Angelo Pinto, e recognosciuti insiemi, e per remembranza de la patria fattisi de multe cariezzi, e gran parte de’ loro accidenti l’uno a l’altro narratisi, ultimatamente disse il Vescovone:

          — Angelo mio, io me sono qui fermato per fare un bel tratto, e non ho ancora trovata persona de cui fidare me possa, e che sia forte de qualche centinaro de fiorini.

          E racontatoli il modo, e quello summamente ad Angelo piaciuto, gli respuose lui esser paratissimo e con dinari e con tutto l’ingegno a voler in tal notevole inganno intervenire.

          E per non indugiare più supra tal pensiero, avuta una bursa ben grande con certe bursette dintorno, vi puosero dentro cinquecento ducati d’oro, che ad Angelo de assai maior somma dispersa erano già remasti; e seperati gli vineciani dagli fiorentini e tutti gli altri secundo loro stampe in diverse bursette, e de tutti pigliato il cunto e fattone un recordo in una cartuccia, e quella per lo Vescovone ben servata per averla ammanita al bisogno, e replicatose tra loro quanto aveano cautamente ad esequire. Angelo la sequente matina con la bursa in petto, travestito in peregrino, fornita la predica e san Bernardino itone in cella, e lui sequendolo appresso, gli si bottò a’ piedi, chiedendoli de gracia che compita udienza gli donasse, atteso che ’l fatto non patea dimora; il quale benignamente resposto esser apparicchiato, lui in tal modo, lagrimando, a parlar gli cominciò:

          — Patre mio, vui senterite che avendo in questi dì prossimi avuta a Roma plenaria remissione de’ mei quasi irremissibili peccati, ancora ch’io fusse restituito in la prestina innocenzia che fui quando recevetti l’acqua del santo battismo, puro, per recompensa de mie enormissime sceleragine, mi fu dato per aggiunta penitenzia che dovesse andare a San Iacomo de Compostella. Al quale viaggio essendo in camino, ed eri matina qui raffittomi per udire le vostre sante parole, il diavolo, fuorsi croccioso per essermegli cavato da le mano, me bottò un cavestro dinanzi a’ piedi con lo quale me avesse per la gola appiccato!; e ciò fu questa bursa, ch’io ho in mano, ne la quale sono ben cinquecento ducati, e con essa insiemi me ha tutte mie estreme necessità parate dinanzi, e fatteme videre tre mie figliole mal vestite e de età de marito e belle assai, de le quale etiam ho considerati tutti i periculi possibili, che per mancamento de robba potrebbono intravenire; e con ditte e altre assai ragione me ha confortato a retornareme indietro, e con le mie povere brigate godermi de tanto bene mandatome da la fortuna. De che io, pur armato del forte scuto del Spirito Santo, ho resistuto a sì fatte tentazione, pensando sulamente che ogne gran tesoro è nulla a respetto de l’anima, quale Idio col suo preciosissimo sangue volse recomperare. E con tal proponimento da vui venuto, vi priego da parte de Dio pigliate questi dinari, e domane, predicando, il pronunciarite al populo, ché non dubito se trovarà il patrone; quale dicendovi li signali che in essi sono, gli restituerite; e si non vi pare che de ciò con buona coscienza io possa pigliare alcun beveraggio, vi supplico raccomandare la mia povertate al populo de questa cità, como e quale meglio parerà a la paternità vostra.

          Il glorioso santo, udito il parlar de colui de tanto colorata santimonia ornato, e veduto il dinaro conforme a le parole, consideratolo massimamente tutto e quello parutoli vecchio e de buono aspetto, non sulo diede a le sue parole indubia fede, ma gli parve che ciò fusse uno inaudito miraculo, e a como era il mondo guastato e corrutto da la lupina avaricia e insaziabile gulosità del dinaro, se avesse in umano spirito tanta bontà retrovata; e dopo che con multe mirabile lode ebbe la sua usata vertù commendata, gli disse:

          — Figliolo mio, io non so che altro dire me te sappia, si non che, si tu avessi crocifisso Cristo, avendo usata questa sula bontà, te serebbe perdonato, senza fare altro peregrinaggio. Tuttavia te conforto a sequire il prepostato camino, e sta de buon core, ché Idio non farà passare questo bene irremunerato; e io dal canto mio domane farò il debito, como tu medesmo vederai, e in manera ch’io spero, con la gracia del mio Creatore, talvolta averai maior soccorso a la tua povertà, e con buona consienza, che non era questo che ’l maladetto inimico de Dio te avea parato dinanzi, per farte precipitare a perdizione.

          Angelo gli rendé infinite mercè de sua carità, ma più assai de la fatta offerta, de volere al populo la matina per lui supplicare; e lasciatali la bursa piena de fiorini, gli disse:

          — Patre mio, dateme il modo ch’io ho da tenere, però che ve aviso, non per iattarmi, ma per dir la verità, io sono puro de nobile gente nato, e mal volontieri, possendosene altro fare, me farei qui elimosinando cognoscere.

          San Bernardino facilmente credendolo, de maior compassione gli donò accagione, e per tanto gli ordenò che da la cella del suo compagno non si partessi. Venuto adunque il novo giorno, e secundo la sua usanza saglito in sul pergolo, e cambiato il prepostato tema, disse: “Fecit mirabilia in vita sua: quis est iste et laudabimus eum?” e poi suggiunse: “Signori citadini, essendome novamente venuto un mirabile accidente tra le mano, e più tosto miraculo che umana operazione, me è parso conveniente trasgredere l’ordene de la promissa predica, e preponervi il tema che avete udito. E ciò è che un povero uomo per purgazione de’ suoi peccati andando a San Iacomo, ante eri matina tra la multa calca gli se venne volgendo tra’ piedi, e fuorsi mostratagli dal diavolo, una bursa con una brigata de centinara de fiorini; e supra de ciò avute più tentazione e battaglie da sua estrema povertà e dal pensare a sue lasciate brigate, a le quale con difficultà può dare gli nutrivi elementi, e multe altre sue miserie infinite, ultimamente, confortato da l’amor de Cristo, col signo de la croce le ha tutte vente ed effugate, e, piangendo amaramente, da me se ne è venuto, e la ditta bursa colma de fiorini me ha portata, quale ho in mio potere. E non so che più avesse possuto far san Piero, o vero il nostro serafico Francesco, unico dispregiatore de mundane divizie e de Cristo imitatore, de non voler avere alcun proprio, si non, trovando il tesoro, cercare de restituirlo al patrone. Quanto dunque maiormente potemo commendar costui, essendo inviluppato al mundo, poverissimo e carrico de figliole, e puro nobile persona, che da vergogna l’andar mendicando gli è già interditto, avere usata tanta bontà; de che meritamente me pare che de costui sulo possa oggi la chiesa cantare il tema proposto a la vostra caritate: Egli ha fatte cose mirabile in vita sua”.

          E poi con alta voce cominciò a dire:

          “E vui, rapacissimi lupi, gulosissimi avari, carnalazzi infangati ne la feccia de questo ingannevole mundo, ogne dì andate dietro le usure, a’ falsi contratti e a’ mali guadagni, e con li vostri inganni tenete l’altrui, robbate le chiese, usurpate le facultà degl’impotenti, bevitive il sangue de’ poveri, non esequite i testamenti, e con mille altre pravissime operazione ve deviate da Cristo, sequendo la scola del diavolo!”.

          E cossì il santo vecchiarello adirato e infiammato de carità, affaticato finalmente nel dire alquanto se quietò; e reiterato poi il tema, disse:

          “Io non porrei né con penna scrivere, né con lingua ricontare le lode che de costui meritamente dir si potrebbono; nondemeno un sulo argumento de sua bontà e purità vo’ che prendiate: egli, parlando meco, ha fatto e fa gran caso de non voler chiedere il beveraggio de’ trovati dinari, con credere non possa con buona consienza recevere. E però, brigata mia, colui che ha persi ditti dinari venga da me, e porti i signali de la bursa e de la quantità de’ fiorini con la qualità insiemi de loro distinto numero e stampe, ché già sono l’uni dagli altri seperati, e, senza pagare un soldo, sel toglia con la benedizion de Dio. Però non restarò confortarve a sequir la dottrina del nostro redentore Iesù, qual vole che, como ogne male sia con misericordia punito, cossì niun ben passe irremunerato. Parme dunque, figlioli mei, che questo povero gentiluomo receva alcun restoro de sua usata vertù; e perché anco a me pare da necessità esser costritto de dovervi la sua povertà recommandare, priego tutti coloro che sono segnati del triunfante vessillo de la croce de Cristo, ognuno botti quella carità qui, supra questo nostro mantello, che Idio lo spirarà. Però niuno passe un soldo, ché, a tante migliara de persone che qui vedo, non si radunerà sì poco, che non basteno a trarlo d’affanno; e a ciò vi conforto, e dechiaro che questo sarà maior ben, che de soccorrere a la necessità de ospitali o de qualsivoglia altro mendicante”.

          E cossì ditto, appena ebbe il suo mantello in terra gittato, che tutto il populo si mosse con la maior calca che fussevi già mai, ognuno porgendo la santa elimosina; e in tal manera fu tutto il dì da’ compagni de san Bernardino il mantello a recevere le fatte offerte tenuto. Il che la sera se retrovorno de buona misura aver circa milli fiorini racolti. Erase fra questo mezzo il Vescovone travestito in mercante genoese, e, sapendo ottimamente quella lingua, se fe’ avanti, e tra la multa calca, con importunità grande forte gridando, fattosi far luoco, e, lagrimando, postose dinanzi ai piedi del santo frate, in tal modo gli disse:

          — Messere, i dinari sono mei, e qui o altrove vi darò compitamente i signali de quelli, ché li ho tutti per iscritto.

          E cavatosi il recordo de petto, che per ciò avea reservato, il diede in sue mano. Al quale san Bernardino con piacevole viso disse:

          — Figliolo mio, tu hai avuta più ventura a trovare i tuoi dinari, che non avesti senno a ben guardarli; però verrai con meco e vederemo: si son tuoi, senza costarte un dinaro te gli togli.

          E fatta la benedizione al populo, in cella se ne venne, e versati i dinari, e trovatigli a la scritta del Vescovone conformi, piacevolmente gli li rendìo. Quali avuti, se ne andò ratto dove i famegli d’Angelo albergavano, e, como proposto aveano, tutti insiemi usciti de Firenze, ad un determinato luoco il lor maestro aspettarno. Al quale la sequente matina essendo le ditte monete integramente consignate, e per mezzo del ditto santo da certi bancheri suoi devoti, per far che l’inganno fusse più compito, in oro converse, acconciatiseli indosso, con la sua gracia e benedizione da lui se accombiatò; e andato ove i compagni l’attendeano, tutti insiemi con grandissima festa a Pisa se condussero, e quivi diviso tra loro amichevolmente il bottino, ognuno al suo camino traversoe; e de continuo a le altrui spese godendo, se può credere che i lor giorni termenarno.

 

MASUCCIO

 

          Non meno piacevole e con grande arte ordenata che utile e fruttuosa se porrà dire la racontata beffa, per lo essere con sì bel tratto da uomini vulgari ingannato non sulo un sagace santo, ma quasi tutto lo astutissimo populo fiorentino. Né meno serà da ridere de un altro inganno fatto pur per dui altri idioti romani, secundo appresso de narrare intendo; il quale, ancora che non fusse de tanta importanza, puro serà tanto più da notare, quanto per esser lo ditto inganno fatto in Bologna, dove quasi tutto il mundo manda a comparar senno; da la quale cità ognuno ne recarebbe le bisacce piene, se a l’uscir de quella non aprissero la bocca, sì como la maior parte de coloro che ne vengono ce ne mostrano evidente signo.

 

NOVELLA XVII

 

argomento

 

          Un dottore legista ne manda una coppa in casa; dui barri se ne accorgeno; l’uno va con un pesce a la muglie, che ’l fazza apparicchiare per lo marito, e da sua parte li cerca la coppa; lei gli la dà, torna il dottore in casa, trova la coppa perduta, va per recoverarla; l’altro barro va in casa, e dice la coppa esser trovata, e che mande il pesce; la muglie sel crede e dàgli il pesce; e’ con lo compagno se trova, e se godeno de la beffa e del guadagno.

 

AL REVERENDISSIMO MONSIGNOR E DIGNISSIMO

CARDINALE NEAPOLITANO.

 

ESORDIO

 

          Se ogne ragione, reverendissimo monsignore, vole e costrenge coloro i quali voluntariamente prometteno a dovere a’ loro creditori satisfare, essendome io a tua reverendissima signoria de una de mie novelle per mia promissa fatto debitore, me pare non sulo da ragione ma da ogne convenevolezza esser costretto da la già fatta promissa, adimpiendo il debito me disublicare. Unde per lo subscritto processo intenderai de un facetissimo e animoso inganno per dui romani barri verso un sagacissimo dottore legista bolognese adoperato, il quale, ancora che ad infiniti suoi studenti avesse imparato de vendere ad altrui senno, non ne seppe tanto a la muglie comunicare, che a l’inganni de’ ditti romani né prima né poi reparar sapesse.

 

narrazione

 

          Messere Floriano da Castel San Piero fu ne’ dì suoi in Bologna multo famoso e singular dottore legista, il quale una matina uscendo da chiesa con certi altri dottori, vennero passeggiando per la piazza maiore; ed essendo in una bottega d’argentieri, ove lui se avea fatta lavorare una ricca e bella coppa de argento indorata, senza andar più ultre fatta col maestro ragione e pagatolo, voltatose intorno per mandarnela a casa per lo suo fameglio e non trovatolo, pregò l’argenteri che per lo suo garzone a casa ne la mandasse; il che il maestro fece volentieri. Erano allora in Bologna arrivati dui giovini romani del rione de Treio, quale andavano discorrendo per Italia con monete e dadi falsi e con mill’altri ingannevoli lacci, per ingannare altrui e mangiare e godere a le spese del Crocefisso, de’ quali l’uno era chiamato Liello de Cecco e l’altro Andreuccio de Vallemontone; e trovandosi per aventura in piazza, quando messere Floriano ne avea la coppa in casa mandata, e quella veduta, si propuosero de far pruova de averla tra le mano. E sapendo multo bene la casa del dottore, como il garzone videro tornato, cossì Liello, dato l’ordene al compagno de ciò che a fare aveano, se n’andò ad una taberna, e comparata de certi grossi una bella lampreda, e sotto ’l manto occultatasela, prestissimo a casa de messere Floriano se condusse; e picchiato a l’uschio, domandò la madonna, e dinanzi a lei condutto, disse:

          — Vostro marito vi manda questo pesce, che ’l fate subito e dilicatamente acconciare, perché lui con certi altri dottori vengono a disinar qui stamani; e dice che gli remandiate indereto quella coppa, che dinanzi il garzone de l’Orso vi portoe, perché non ha fatto buon cunto col maestro, e vuole tornarla a repesare.

          La simplice donna facilmente credendolo, subito datagli la coppa, impuose a le fantesche che spacciatamente il pesce fusse acconciato; e dato ordene al resto da recever foresteri a disinare, con piacere aspettava la lor venuta. Liello, avuta la coppa, traversato subito il camino verso San Michele in Bosco, dove era un priore romano tutto loro domestico e non meno sofficiente artista de loro, e da quello lietamente recevuto, racontatoli il fatto, aspettando Andreuccio, che in piazza era remasto per sentir de ciò alcuna cosa, del fatto guadagno insiemi se godevano.

          Venuta dunque l’ora del disinare, messer Floriano, lasciati i compagni, a casa se ne venne; al quale la muglie fattase incontro, e vedutolo sulo, disse:

          — Messere, ove sono gl’invitati?

          Il dottore, maravigliatosi de tal dimanda, gli respuose:

          — De quali invitati mi dimandi tu?

          — Non lo sapete vui de cui dico? — gli respuose. — Io per me ho acconcio onorevolmente da disinare.

          Messere Floriano, più ammirato, disse:

          — E’ mi pare che tu frenetichi stamani.

          Respuose la muglie:

          — Io so ch’io non sono uscita de me. Vui me aveti mandata una gran lampreda che l’acconciasse, ché dovevate menare qui a disinare certi altri dottori, e io ho fatto quanto me mandastivo a dire; che adesso vi piazza altramente, qui non si perde nulla.

          Disse lui:

          — Io non so, mugliera, che te dichi; ma Dio ce mande persona che ben ne faccia, e che de continuo ne reche del suo, senza toglierne del nostro; ma de certo questa volta nui siamo stati colti in scambio.

          La donna, che la coppa incautamente avea donata, udendo che ’l marito dadovero non ne sapea nulla, con gran recrescimento disse:

          — Messere, a me pare tutto il contrario, però che colui che me portò il pesce, me chiese da vostra parte la coppa d’argento, che poco avanti per lo garzone de l’Orso me avevate mandata, e dissemi i signali, in manera ch’io gli la diedi.

          Quando messere Floriano intese che la coppa era trabalsata, subito se avisò averla sotto inganno perduta, e disse:

          — Ah! insensata bestia, tu se’ stata ingannata!

          E subito uscito fuori de casa, iunto in piazza, andava cercando senza saper che, dimandando ciascuno che scontrava se niuno verso casa sua con pesce in mano avesser veduto andare, usando mille altre frenetichezze senza frutto alcuno; e andandosi tutto trastullando e mandando a le bollette, e ogn’altra oportuna inquisizione facendo, talvolta con fredda speranza credea gli fusse stato fatto per burla.

          Andreuccio, che da un canto de la piazza como a persona da bene si stava, ancora che estimasse che ’l compagno e la coppa erano a porto de salute, puro gli dolea aver perduti paricchi grossi dispesi in la lampreda, senza de quella aver assaggiato, e per questo prepuose, con un altro inganno non meno singularissimo del primo, la recoverare. E priso tempo, quando messere Floriano stava più travagliato nel cercare, rattissimo a la sua casa se n’andoe, e saglito su, con allegro vulto disse:

          — Madonna, buona nova vi porto, perché ’l vostro messere ha trovata la coppa, quale i suoi compagni, per burlar con lui, gli aveano fatta involare; però lui me ha mandato qui, che gli porti il pesce che avete apparicchiato, ché ’l sel vuoleno godere insiemi con coloro che aveano la coppa trabuscata.

          La donna, che con gran dolore e travagli era remasta per aver per sua accagione persa la coppa, fu multo lieta, sentito quella esser retrovata; e, tutta godente, prisi dui gran piatti de stagno con una tovaglia bianca e odorifera, e postovi dentro il pesce bene acconcio, in mano a lo buono Andreuccio lo donoe. Quale, essendo fuor de casa, avviluppato ogne cosa sotto ’l manto, volando a San Michele si condusse; dove col priore e Liello retrovatose, con grandissima festa la buona lampreda si godettero; e al priore donati i piatti, e la coppa venduta cautamente, se n’andorno senza alcun impaccio. Messere Floriano, non avendo tutto ’l dì possuto inquidere cosa alcuna de tal fatto, la sera al tardi, digiuno e multo cruccioso, a casa se ne tornoe; al quale la muglie fattase incontro, gli disse:

          — Laudato sia Dio, che puro trovasti la coppa, e io ne fui chiamata bestia.

          A la quale con fellone animo respuose:

          — Tòimete dinanzi, pazza presuntuosa, se non vòi recevere la mala ventura, ché pare che, ultre al danno per tua bestiagine causato, me vogli ucellare. La donna, confusa remasta, tutta timida disse:

          — Messere, io non muttiggio.

          E, narratali la secunda beffa recevuta, messer Floriano in tanta fantasia e dolore ne cadde, che fu vicino ad impazzirne; e più tempi faticato con sottili e diverse inquisizione per trovar l’ingannatori, e de quelli niente mai sapendone, per longo spacio in odio e mala vita con la muglie dimoroe. E cossì gli romani, del fatto inganno godendose, lasciarono il dottore con beffe e dolore e danno.

 

MASUCCIO

 

          Non si porrà negare che, ancora che a l’ingannatori de la racontata novella reuscisse e l’uno e l’altro tratto adoperati, che non fussero le ditte beffe de grandissima temerità e periculo piene. E como che communamente si suol dire che tra gli gran risichi sono gli multi guadagni, pur sogliono a le fiate de le vulpe incappare, e ad un tratto pagar li danni e l’interesse. Però laudarìa a questi tali artisti che per piccolo guadagno non ponessero la lor vita per capitale, anzi prendessero esemplo da’ fratocci de santo Antonio, quali, nel loro andare in curso, non pongono in su tavoleri altro che parole, de le quale traeno tanto profitto, che de continuo salvi e sicuri e colmi insino agli occhi se ne retornano a le case loro, sì como la prossima sequente novella ce ne renderà aperto testimonio.

 

NOVELLA XVIII

 

argomento

 

          Un fratoccio de santo Antonio con le gliande percantate campa dui porci da morte; la patrona li dona una tela; vene il marito e se ne turba; seque il fratoccio per reaverla; lui il vede da longi, bòtta fuoco dentro la tela e rendela al patrone; il fuoco bruscia la tela, e le brigate tengono che sia miraculo, conducenolo a la terra, e raduna de buona roba.

 

A LO ECCELLENTE SIGNORE ANTONIO DE SANSOVERINO DEL SERENISSIMO PRINCIPE SALERNITANO PRIMOGENITO.

 

ESORDIO

 

          Insino a tanto, eccellente e vertuoso signor mio, che con la mia insofficiente lira darò opera, scrivendo, a cantare le accumulate vertù, che nel tuo giovenile e peregrino spirito dimorano como in loro conveniente seggio, ho voluto sulo per arra la presente facetissima novella mandarte; de la quale almeno te restarà cautela a cognoscere de quante manere de corsali vanno per lo mundo discorrendo, e con quante novissime arte inducono gli sciocchi a farsi da lor medesmi impir le budelle de fiorini e reputar per santi, como ne la sua fine con piacere non piccolo te serà manifesto. Vale.

 

narrazione

 

          Como a ciascuno può esser noto, gli spoletini e cerretani como fratocci de santo Antonio vanno de continuo attorno per Italia, cercando e radunando gli vóti e promisse a loro santo Antonio fatte; e sotto tal colore vanno predicando e fingono far miraculi, e con ogn’altra manera de cauti inganni che possono adoperare, se impieno multo ben de dinari e d’altre robe e retornanosi a poltronizzare a casa; de’ quali più in questo nostro regno che in altre parte ogne dì ne vengono, e massimamente in Calabria e in Puglia, ove assai elimosine e poco senno vi trovano, quasi de continuo drizzano il lor camino. Dove l’altro anno del mese de iennaro capitando a la Cirignola un de questi tali cerretani a cavallo, e col somaro carrico de bisacce e col fante a piede andando elimosinando per la terra, e fando inginocchiare il cavallo a reverenzia del barone messere santo Antonio secundo loro usanza, e in una parte capitando, gli vennero veduti dinanzi la casa d’un ricchissimo massaro dui gran porci, e non essendovi il massaro, la muglie li fece elimosina con più divozione de l’altre; per lo quale atto parve al fratoccio quello esser terreno buono da ferri suoi, e mostrandosi tutto de carità repieno, al suo fante voltatosi, e piano parlando, per modo che la donna lo intese, cossì gli disse:

          — Gran peccato è a sì belli porci dover cossì presto de morte subitanea morire.

          La donna, che a le parole avea le urecchie pesole tenute, disse:

          — Messere, che dice de’ mei porci?

          Respuose lui:

          — Io non dico altro, si non che mi pare un gran mancamento de natura che debbiano da qui a poche ore morire, senza traersene profitto alcuno.

          La donna, che insino al core tal novella gli dolea, disse:

          — Deh! uomo de Dio, io te priego me descopri l’accagione de tal biastema, e, se possibel fusse, de farvi alcun reparo.

          A la qual respuose:

          — Donna da bene, io non ne so render altra ragione, si non che sarà cossì per un certo signo che ’nce ho cognosciuto, che persona che viva non se ne sarebbe accorta, altro che nui frati, che avemo la gracia dal nostro barone messere santo Antonio; e serebbonci remedii, se io avesse qui alcuna de le nostre gliande percantate.

          Disse la donna:

          — Videte per Dio se ne avete niuna, ché ve la pagarò multo bene.

          Il fratoccio, revolto al suo fante, il quale era multo ne l’arte ammaestrato, gli disse:

          — Martino, guarda tra le nostre bisacce, si ve ne fusse alcuna.

          Lui respuose:

          — Messere, egli ve ne son due, che le ho servate per l’asino nostro, che cossì spesso si sòle ammorbare.

          Disse il maestro:

          — Facciamone gracia a questa donna, a ciò che per tal mancamento non si perdano sì digni porci, ché lei non serà tanto ingrata, che non abbia per ricommandato il nostro ospitale de alcun paro de lenzuola per li poveri infirmi.

          Disse la donna:

          — Per l’amore de la croce de Cristo, campatime questi porci da tanto mala sorte, ch’io vi darò una tela nova e sottile, che ne farrete non che uno ma due para de lenzuola al vostro ospitale.

          Il fratoccio subito fattese porgere da Martino le ditte gliande, e fattose venire un vaso d’acqua, postavi dentro de molta caniglia e mesclandovi dentro le percantate gliande con assai orazione ditte col suo fante, dinanzi a li porci le puose; quali, como affamati, de continente ogne cosa se mangiorno. Donde il fratoccio, a la donna revolto, gli disse:

          — Ormai possete le vostre bestie tenere libere da la cruda morte, che incorrere doveano, e piacendovi recordare del beneficio recevuto, me dati presto spacciamento, ché in questo punto intendo departirmi e andarmene con Dio.

          E tal pressa era causata non tra quel mezzo venisse ’l marito, e interdittali la già sperata preda. De che la donna piacevolmente gli donò la promissa tela; quale avuta, subito montato a cavallo e uscita la terra, per lo camino de Tre Santi se invioe, per postea a Manfredonia condursi, dove ogn’anno buona pastura vi trovava.

          E non multo poi de la sua partita iunto il massaro in casa, che dal suo campo tornava, al quale la muglie fattase incontro, con allegro viso gli disse la nova, como gli suoi porci erano per la vertù de gliande percantate de santo Antonio da la improvista morte liberati, e anco de la tela che lei, per recompensa de tanto ben, avea dato a l’ospitale per suvvenimento de’ poveri. Il marito, che con piacere avea ascoltato che suoi porci dal gran pericolo erano campati, sentendo che la tela avea cambiato patrone, ne fu ultre modo dolente, e se la pressa de recoverarla non lo avesse impedito, averìa con un querciolo multo ben la schena de la muglie remenata; ma per presto attendere al necessario, senza dire altro, a la muglie dimandoe quanto tempo avea che ’l fratoccio era partito e quale camino tenea; al quale fu resposto che non avea un quarto de ora, e che andava verso Tre Santi. Il valente uomo, tolti circa sei altri giovini armati, rattissimamente dietro la pista del fratoccio se avviorno, e non avendo appena un miglio caminati, che ’l védero de longi; al quale dato de loiro, e con alte voci chiamato che aspettasse, non restavano de tirare verso lui. Il fratoccio, al gridare revolto, e vedendo la brigata abbaiando vinirgli adosso, estimò subito che fusse ciò che era; e da’ suoi soliti providimenti aitato, spacciatamente se fe’ dare la tela da Martino, e postasela dinanzi l’arcione, e, con le spalle revolto agli inimici, priso il fucile e destramente cavato il fuoco, lo appicciò ad un pochettino de esca; e como presso gli sentì, cossì puose l’esca accesa dentro le molte pieche de la tela, e revolto a coloro, che erano già giunti a lui, e disse:

          — Che voleti, valenti uomini?

          Il massaro, fattosi avanti, disse:

          — Vile poltrone ribaldo, che me viene voglia de passarte questa partesana per mezzo il corpo, non hai avuta tu vergogna venire a casa mia, e sotto inganno robare la tela a mia muglie? Dàlla qua, che vermicane te nasca!

          Il fratoccio, senz’altramente replicargli, li bottò la tela in brazzio, e disse:

          — Buon uomo, Dio te perdone! io non ho robato la tela a tua muglia, ma lei la ha de sua voglia donata a’ poveri del nostro ospitale. Ma tòglitela col nome de Dio: spero al nostro barone messere santo Antonio, che fra brevissimo spacio ne mostrerà evidentissimo miraculo, ché se abbatterà il suo fuoco non sulo dentro la tela ma al resto de’ tuoi beni.

          Collui, avuta la tela, poco o nienti se curò de le biasteme e scongiure del fratoccio; e retornandosene verso casa, non ebbe una bottata de pietra con mano caminato, che, venendogli puzza de brusciato, vide fumare la tela, e altresì védero e sentero gli compagni. De che lui, con la maiore paura che avesse mai, bottata la tela in terra, e scupertala, vide che tutta se brusciava; e tutto territo, e impaurito del peggio, chiamò il fratoccio, che per amore de Dio se retornasse a pregare il suo miraculoso santo Antonio che revocasse la cruda sentenzia, quale cossì presto lo avea sopraiunto. Il fratoccio, per non far la tela consumare, senza aspettare multi prieghi, prestissimo vi venne, e comandato a Martino che ammortasse l’acceso fuoco, subito lui se bottò a terra, e con ficte lacrime mostrò divotamente orare; e ciò fatto, rassicorato il massaro d’ogne altro sospetto priso per lo suo commisso errore, con colloro insiemi se ne retornò a la terra. Dove saputa la novella del manifesto suo fatto miraculo, ogne persona, e maschi e femene, insino a’ fanciulli, gridando misericordia, gli se ferno incontro, e con non meno gloria che fu recevuto Cristo in Ierusalem, intrò ne la terra. Al quale fuoro fatte tante offerte e duoni, che dieci summari non le averebbono portate; de che lui, convertite le più cose in dinari contanti, ricco e letissimo traversò, [senza] che ve retornasse a rempiere le bisacce.

 

MASUCCIO

 

          Multe e diverse sono l’arte, con le quale gli viventi se studiano a volere senza corporale affanno fare grosse prede, sì como le tre racontate novelle haveno apertamente demostrato, quale in vero tutte se ponno dire piacivoli e con grandi astucia e sottilissimi partiti adoperate. Però quella, che appresso de racontare intendo serà non meno de l’altre faceta, e tanto più da riderne, quanto colloro che l’adoperarno, senza niuna industria o arte e con poco o niente affanno guadagnorno; [e questa, non diviando] dal priso ordene, racontarò.

 

NOVELLA XIX

 

argomento

 

          Dui caùti vanno a Napoli; l’uno resta stracco a la Torre, e l’altro gionge a tardi a ponte Riziardo e ivi se giace; un altro, amalfitano, passa da quindi la notte; ha pagura degli appiccati, chiama l’appiccato; il caùto se crede il compagno e corregli appresso; cullui crede che sia l’appiccato; fugge; quello il seque; getta il sacco; il caùto il piglia, scontrase col compagno e retornansi a casa.

 

AL VERTUOSO E MAGNIFICO MESSERE BERNARDO DE ROGIERI.

 

ESORDIO

 

          Volendome nel mio novellare degli perfetti amici recordare, e ne la mia operetta i lor nomi con perpetua memoria scolpire, sono da tale debito costritto, prima che più ultre vada, de tanto perfetto e singularissimo amico rammentandome, la presente novelletta de faceta materia composta a te intitulare; per la quale, ultra la sua piacevolezza, nel cominciamento intenderai in parte la genologia degli quasi nostri compatrioti caùti, a tale che tu, prodentissimo presente loro potestà e rettore, possi perfetto iudicio donare, si gli moderni haveno devuto dagli antiqui loro vestigii diviare.

 

narrazione

 

          La Cava, citate multo antiqua fidelissima, e novamente parte devenuta nobile, como è già noto, fu sempre abundantemente fornita de singulari maestri moraturi e tesseturi, de la cui arte o vero mistieri loro v’era sì bene avvenuta, che in dinari contanti e altri beni mobili erano in manera arriccati, che per tutto ’l nostro regno non si ragionava d’altra recchezza che de quelle de’ caùti. De che se gli figlioli avessero sequiti gli vestigii de’ patri loro, e andati dietro l’orme de’ loro antiqui avuli, non serebbono redutti in quella povertà estrema e fore de mesura, ne la quale al presente già sono. Ma fuorsi loro dispregiando le ricchezze acquistate in tal fatichevole mistiero, e quelle como a beni de la fortuna e transitorii avendo a nulla, sequendo la vertù e nobilità como cose incommutabile e perpetue, universalmente si sono dati a deventareno legisti e medici e notari, e altri armigeri, e quali cavaleri, per modo tale che non vi è casa niuna, che, dove prima altro che artegliaria da tessere e da morare non vi se trovava, adesso, per scambio de quelle, staffe, speroni e centure indorate in ogne lato vi se vedeno. Il che de le due supraditte vie quale avessero devuto fuggire o sequire, lo lasso non sulo a te, ma a colloro che, non avendo altre faccende, leggendo la presente novella ne possano iusta sentencia donare.

          E io, sequendo la istoria, dico che nel tempo che ’l famoso maestro Onofrio de Iordano avea pigliata la impresa del mirabile edificio del Castello Novo, la maiore parte de’ maestri e manipuli de la Cava se conduceano a Napoli, per lavorare a la ditta opera; ove tra gli altri fuorno dui giovini del casale de Priato, quali, non meno disiderosi de vedere Napoli, ché anco stati non vi erano, che per vaghezza de guadagno, una domenica matina dietro ad un maestro se avviarno. E caminando con multi altri caùti a la sfilazzata, avvenne che costoro, che de caminare non erano usi, remasero una gran via dietro, e per la pista degli altri, ancora che non sapessero il camino, tanto si affaticorno, che quasi a tardi gionsero a la Torre del Greco. E uno de loro, ch’era assai più de l’altro stracquo, prepuose ivi allebergare; l’altro, dandose core, e credendosi fuorsi giongere i compagni, affrettando il passo quanto possea, non ebbe tanto potere, che tra ’l mezzo camino fra la Torre e Napoli non gli supragiongesse scura notte. De che lui, multo pentito d’avere il compagno lassato, pur trottando, senza sapere ove si fusse, gionse al dritto de ponte Riziardo; del quale videndo le mure e la porta, se crese albergo, e vinto da stracchizza, e anco per fuggire una menuta pioggia che facea in quella ora, se accostò al detto uschio, e avendo con un sasso pur assai picchiato, e niuno respondendoli, convertito il bisogno in pazienzia, sentatosi in terra e appoggiata la testa a la porta, con diliberazione infino al matino ivi aspettare il compagno, con debole sonno se adormentò.

          Era per aventura quel medesmo dì partito d’Amalfi un poveretto sarto, con uno sacco in spalla de giopponi, per venderli la sequente matina a Napoli in sul mercato; al quale similemente la notte e la stracchizza lo avea a la Torre supragionto, e ivi albergato, con proposito de la matina a buona ora retrovarse a luoco e a tempo de spacciare sua povera mercanzia. Ed essendo poco più che passata mezza notte, se destò, e ingannato da la luna, credendosi esser vicino al dì, intrò in camino; e caminando tuttavia e non videndo farsi giorno, cominciò ad intrare a l’arena passati gli Orti, e ivi essendo, sintì sonare matutino de’ frati, per la quale accagione s’accorse anco esservi gran parte de notte. E in questo se venne recordando degli appiccati che erano a ponte Riziardo, e, como colui che amalfitano era, che de natura sono timidi e de poco core, cominciò a temere forte, e, con lento passo caminando, non ardeva de passare, e de volgerse indietro avea gran paura; e cossì abbagliato e pauroso, che ad ogne passo gli parea che uno degli appiccati gli se facesse intorno, venuto appresso al sospetto luoco, ed essendo de rimpetto a le furche, e anco non veduto niuno appiccato moverse, gli parve avere già una gran parte de periculo passata; e per dare pur a se medesmo animo, disse:

          — O appiccato, vòi venire a Napoli?

          Il caùto, che avea male e poco dormito, avendo sentito prima la pista e credutose il compagno, e poi udendosi invitare a lo andare a Napoli, lo ebbe per certissimo, e subito respuose:

          — Èccome che vengo!

          Quando l’amalfitano si sentì respondere, tenne per fermo che fusse l’appiccato; per la cui accagione fu de tanta paura territo, che portò periculo de lì cascare morto.

          Pur, in sé tornando, e vedendo cului verso de sé venire, non gli parve tempo d’aspettare, e bottato via il sacco, cominciò fieramente a fuggire verso la Maddalena, sempre con alte voci gridando Iesù. Il caùto, udendo il gridare e lo sì rattamente correre, credea che da alcun altro fusse stato assalito; e sequendolo appresso, pur gridando, dicea:

          — Èccome a te, aspettame, non dubitare!

          Quale parole davano al fuggente de maiore timore accagione. Il caùto, puro sequendolo, se trovò dinanzi il sacco da collui gittato; e quello priso, ed estimandolo de megliore roba pieno, e sapiendo che ’l compagno non avea tale sacco, cognobbe cului che fuggea non esser desso; e non corandose più ultre, col fatto guadagno se ne retornò dove la notte con non piccolo disagio era dimorato, e quivi sentatosi, aspettava in sul fare del giorno o dal compagno o d’altri essere a Napoli condutto.

          Lo malfitano, con spaventivoli gridi e silluzzi assai, gionse a le taberne del ponte, al quale fattisi incontro gli gabelloti, il domandarno de l’accagione del suo gridare; a’ quali lui affermava del certo avere visto uno appiccato moverse da le forche e dargli la caccia infino a l’urlo del fiume. Il che da tutti fu facilmente creduto, e, non meno de lui impauriti, il racolsero dentro, e serrate le porte, e signatisi de croce, infino a dì chiaro non uscero de casa. Il compagno caùto, che remasto era a la Torre insiemi con un altro pur de la Cava, essendo omai dì, arrivarono al dritto de ponte Riziardo; a’ ragionamenti de’ quali furono dal compagno cognosciuti, e fattosi loro incontro, racontò il suo avvinimento. De che l’altro, che prattico al paese era, subito estimò como il fatto possea essere intravenuto, e per non perdere la preda del sacco, diliberaro per la via de Somma retornarsene a casa; e cossì fecero; e diviso tra loro il bottino, non dopo multo a Napoli si retornarno. La novella in pochi dì fo per tutto ’l paese divulgata, e de vero se recontava che gli appiccati de notte davano la caccia agli uomini che suli passavano per ponte Riziardo, ognuno supra de ciò componendo varie e diverse favole; per accagione de le quale, non v’era paesano alcuno, che per quello luoco avanti dì passasse, che non signasse la bestia e lui, e con croci e altri assai percanti passava il piriglioso passo.

 

MASUCCIO

 

          Diverse e strane sono le paure che gli morti sogliono agli vivi donare, sì como ogne dì infinite esperienzie se ne veggono; ove tal volte accade che alcuni, andando de notte ed essendono da tale soverchio timore assaliti, trasvedono in manera che più volte iudicano una cosa per un altra, e dopo supra a quello componeno le più nove e maravigliose favole che mai se vedessero; de che in parte la passata novella ce ne ha data noticia. La quale me ha già retornato a memoria de farme un’altra natura de paura appresso scrivere, tanto differente da la recontata, quanto lo ’mpaurito, da le calente fiamme d’amore speronato, andò volentariamente a trovare la paura, dietro a la quale ne sequiro multe notivole piacevolezze, che nel venente trascorso seranno declarate.

 

NOVELLA XX

 

argomento

 

          Iacomo Pinto ama una donna vidua, e da messere Angelo gli è promisso farli per nigromanzia avere la donna; conducelo a parlare con Barabas; lui sel crede, dàgli certi animali e per paura fugge via; il fatto se divulga, e lui se ne va al soldo e retorna savio e ricco.

 

AL SPETTABILE IOAN FRANCESCO CARACCIOLO.

 

ESORDIO

 

          Cognoscendo l’altezza de tuo ingegno, multo vertuoso Ioan Francesco, me persuado che facelmente potrai comprendere quanto e quale siano difficile ad invistigare le potenzie del gran signore Amore, e como de continuo per lui adoperandose, faccia li matti savii e gli discreti stulti retornare, e gli animosi codardi e gli timidi gagliardi divinire; ultre ciò, quasi como ad esecutore de la Fortuna, gli ricchi ad infima miseria conduce, e gli poveri talvolta in stato secundo repone. E perché non me pare de besogno a te, che dagli teneri anni si’ stato seguace del poderoso Amore, darte novo avviso del suo imperio, e quante volte multi sagaci e prodenti uomini e donne, rescaldati da sua calente fiamma, a darse con le proprie mano acerba e cruda morte si sono lassati trascorrere, sulo me è piaciuto con la presente demostrarte una sua nova potenzia, adoperata supra ad uno nostro nobile citadino non multo savio né troppo animoso; [quale] d’Amore trafitto, devenne discritissimo e de più animosità che ad umano cuore non se rechedeva, e consequentemente, essendo poverissimo, gli fu accagione de, con audevole fama e prodezza de sua persona, arricchire, e de’ suoi multi affanni con felicità godere. Valete.

 

narrazione

 

          Sono già pochi anni passati, che in Salerno fu uno giovene de nobile e antiqua fameglia, chiamato Iacomo Pinto, il quale a ben che fusse del seggio de Portanova, ove communamente tenemo essere l’academia del senno de la nostra cità, a lui serebbe stato più proprio e conveniente luoco per sua stanza il nostro paese del Monte, nel quale loro dicono essere la maiore parte de la rugine de’ nostri antiqui. Costui, como che fusse vacuo de roba e de senno non pieno, pur, avendo alquanto l’animo nobile, se innamoroe de una donna vidua, giovene e assai bella, socera d’uno nostro straticò; e non essendo mai più stato innamorato, cominciò a menare questo suo amore sì cautamente, che fanciullo non era in Salerno che non se ne avesse accorto, e in manera che in ogne lato e tra gentiluomini e tra donne con mirabile piacere se ne ragionava, e ognuno supra de ciò lo muttiggiava; de che lui, trafitto da mai più non provata saetta, de’ muttiggiamenti non corandosi, sequea invano con grandissima passione la cominciata impresa.

          Era tra gli altri del suo seggio, che de sue bestiagene ogne dì pigliava novo piacere, un altro gentiluomo, chiamato Loisi Pagano, de grandi ingegno, piacevole, gentil e costumato multo, col quale Iacomo unicamente se fidava e ragionava de la sua fiera passione. Loisi ad ogne ora più accorgendosi del cervello travolto de costui, gli occorse de, con questo innamoramento beffizzandolo, fare dare da lui alcuno castigo ad uno novo Gonello pur salernitano, mai da niuno ponito de quanti inganni e bagattelle avea adoperate tutto ’l suo vivente, fandosi chiamare messere Angelo; e quando como a medico e quando como a mercante, ancora che ferraro fusse, discorrendo per Italia, spesso se ne retornava a casa pieno infino a culmo. E un dì essendo Loisi con Iacomo supra gli usati ragionamenti, gli disse:

          — Iacomo mio, tu hai poco disiderio de uscire de pene, avendo cossì facile espediente como tu hai. Tu sai che messer Angelo è lo più gran nigromante che oggi sia supra la terra, e io ne posso rendere testimonio, ché de multe imprese me ha fatto avere vittoria, e lui è pur dal lato de naturale matre tuo parente: perché non vadi da lui, e, losengando, lo prega che del suo mestero in ciò te sia favorevole? Ché del certo, volendolo lui, serai interamente satisfatto. E se per aventura facesse prova de volerte porre al numero de l’altri da lui beffati, fa che mini le mano, in manera che mai per lo innanzi non pense de beffare gentiluomo che de te non se recorde.

          Iacomo, ciò udendo, ne fu multo lieto, e gli ne rendì infinite gracie; e parendoli quasi avere al suo disiderio intero effetto, disse de fare quanto aveali ordenato. Loisi, da lui con fatica sviluppatosi, andò prestissimo a trovare messer Angelo, e gli disse quello che avea tramato, per averne qualche dì de grandissimo piacere. Messer Angelo letissimo de la nova caccia postagli tra le mano, senza saper che Loisi non avea minore voglia che lui fusse ben bastonato che Iacomo beffato, a non partire trattarno la manera de quanto e como intorno a ciò era per loro da esequire. E non dopo multo Iacomo mandò per messer Angelo, e, quasi lacrimando, li discoperse de secreto la sua già divulgata per tutto passione; e poi gli disse:

          — Parenti mio, al bisogno se pareno gli amici. Io ho novamente sentito che tu se’ un gran nigromante, per la cui sienza non dubitarò che, volendo, me traerai d’affanno: pregote donque per Dio, te piaccia adoperarte intorno al mio bisogno, in manera che io possa dire non sulo da te aver la donna racquistata, ma con quella la vita mia medesma in dono recevuta.

          Messer Angelo con piacevole viso gli respuose sé dal canto suo essere apparicchiato a compitamente servirlo, e da uno ragionamento in un altro trascorrendo, gli disse:

          — Iacomo mio, io non so como vui siti securo, perché l’animosità vostra convene essere grandissima.

          Disse Iacomo:

          — Or che potrebbe egli essere? Io vo’ che tu sappi che io anderei insino a l’inferno, tanto me ha dato Amore grandi ardire.

          Respuose lui:

          — Anco ve è peggio, ché vi serà necessario parlare da viso a viso con un fiero diavolo chiamato Barabas, quale sulo de costringere a le mei voglie ho potestate.

          Disse lui:

          — Io parlerò con Satanasso, ch’è maiore, se tu vòli, e se la necessità il recerca.

          — Dio il voglia! — respuose il nigromante. — Ma como averemo nui l’altre cose che ’nce son de bisogno? perché nui volemo una spata che abbia ucciso uomo.

          Esso subito respose:

          — Io ne ho una che fu de mio fratello, che ha morti più de dieci.

          Disse dopo:

          — Quello avemo che a me parea il più difficultoso; l’altre cose se troveranno troppo bene. Nientedemeno providìti da ora, che se abbiano, quando vel dimandarò, uno castrono nero e ben grosso e quattro caponi grassi, e aspettamo che la luna sia al scemo; e lassati fare a me, ché vi darò la preda tra le unghie per muglie o per donna, como la voleti.

          Iacomo, contentissimo de tale offerta, disse che farebbe de avere ogne cosa al dato termene. Messer Angelo, da lui partito e con Loisi trovatosi, gli referì tutto l’ordene con Iacomo priso; e a tale che tra loro non cascasse errore, più volte se redissero insiemi ciò che in sul fatto con mirabile piacere sequitò poi. E vallicati alquanti dì, essendo messer Angelo de continuo da Iacomo sollicitato, gli disse:

          — Parenti, io sono in concio dal canto mio; ma vui trovastivo quello che ve dissi?

          — Maisì, — respuose lui — e in ciò me è stata multo favorevole la fortuna, però che mia cognata avea li più belli caponi del mundo, e io li ne ho fatti portar quattro de’ megliori; e ultre ciò, ho avuto per una strana via uno castrono grosso como un toro, nerissimo e con quattro corne, che pare sì orribile a reguardare.

          Messer Angelo con gran festa gli respuose:

          — Parenti, vui me pareti un altro da poco tempo in qua, e pare che Amore vi abbia aguzzato l’ingegno in manera che insignarestivo l’abaco a’ granchi: qual altro uomo avesse saputo trovare tante cose e cossì presto? E imperò, ponitivi in ordene, ché questa notte venerò per vui.

          E da lui partitose, ordenò con Loisi che, quando ora gli parea, al luoco tra loro ordenato gli aspettasse. E como notte fu, lui se n’andò in casa de Iacomo, e gli disse:

          — Volemo andare, ché è già ora?

          — Messer sì — respuose egli.

          E cossì messer Angelo fattase dare la omicida spata, e a lui acconcio il castrono in spalla e un paro de caponi per braccio, se condussero tra certi casalini ruinati, a uno de’ quali si era Loisi con alcun’altri gentiluomini, per non avere tanta festa sulo, occultato. Dove iunto, messer Angelo, a Iacomo revolto, disse:

          — Vidìti, parenti, nui siamo a luoco tale arrivati che senza nostro grieve periculo non poteriamo indietro retornare, e però stati de buono animo. Tuttavolta non resto de dirve che, per cosa vedati o sentiti, per spaventevole che sia, non vi venesse nominato Idio o la Matre né meno vi signassivo de croce, ché tutti seriamo bottati in gola de Lucifero; ma se pur aveti qualche dottanza, como in simili casi sòle avvenire, raccomandativi al carriaggio che portò l’asina in Egitto, ché vi fu la Matre e ’l Figliolo, e cossì inganneremo quello maleditto da Dio.

          Lui disse de farlo multo bene.

          — Or via, — disse il nigromante — voi diriti como udiriti dire a me; e quando averemo scungiurato Barabas, e lui griderà: “Damme i coduti”, subito gli bottati i caponi; e ’l simele fati del castrono, quando cercherà il cornuto.

          Lui anco disse de farlo multo volentieri. E dati quisti ordeni, cavò fuori la spata, e con quella fe’ un gran circulo in terra, e disignative dentro alcune carattule; e col fuoco che seco avea portato, con certi buscioli de cose fetide fe’ uno orribile profume, e fingendo de dire suoi incantesimi con strani atti de testa e de bocca, de mano e de piedi, disse a Iacomo:

          — Ponìti il piede senestro dentro ’l circulo, e diteme che vi è più caro, vederlo qui dinanzi con la sua orrebilità, o vero sentirlo parlare da quisto casalino che ’nce sta de rimpetto.

          Il poveretto giovene, che amore e la sua simplicità con grandi animosità ivi lo aveano condutto, vedendo il principio del giuoco essere multo spaventevole, cominciò ad aver paura, e al maestro respuose che lui bastava davanzo a sentirlo parlare; e pur intrò con un piede al circulo, e tremando tutto, non recordandose de l’asina de Ierusalem, non vi lassò santo in cielo a chiamare in suo soccorso. Il maestro, accorgendosi che a colui esser gli parea in altro mundo, gli disse:

          — Chiama tre voci Barabas.

          Lui, temendo del peggio, chiamò la prima. Loisi, che in diavolo era travestito, bottò un fùlgoro con un rumore de scoppetto, che dadovero arìa dato paura a qualsevoglia cuore umano. Se Iacomo allora avesse voluto essere in casa, non dimandarne; e confortato dal maestro, chiamò la secunda voce, e ’l diavolo ne bottò un altro maiore, e maiormente il spaventò. Il maestro, che ben si accorgeva che ’l bestiolo era mezzo morto, non finando de confortarlo e dirli: “Non temere, parenti, nui lo abbiamo ligato in manera che non ce pò noiare; però chiamati la terza voce”, esso, pur per ubedire, male volentieri il fece, e sì piano e tremando, che con difficultà se intese.

          Loisi, bottato il terzo fùlgore, mèsse un crido sì orribile, che poco vi mancò a farlo quivi cascar morto.

          Disse il maestro:

          — Stati securo, e non dubitati, ch’egli è nostro pregione; pur sappi che per vui se ha da scungiurare, e però diriti con alta voce quanto vi dirò piano.

          E avendo composta una sua scungiura, lo confortava e speronava a dirla; de che Iacomo, volendo aprir la bocca, gli venne uno battimento de denti e de gambe, che non se possea in pede tenere; per la cui accagione dadovero messer Angelo dubitò de la sua vita, e gli parve per quella volta averne fatto assai, e lui medesmo cominciò a scungiurare Barabas.

          Loisi, che con suoi compagni erano del gran riso quasi indebiliti, vedendo che ’l priso ordene a compimento non sequia, per lui non esser de l’ingannati, gridando disse:

          — Dammi gli coduti e ’l cornuto.

          Disse il maestro:

          — Bòtta ogne cosa a lui, e fuggi via prestissimo, e non te volgere indietro, per quanto non vòi morire.

          Iacomo che esser gli parea dadovero ne l’inferno, summamente gli piacque, e bottati gli caponi e ’l castrono dentro ’l casalino, diede in gambe, che non lo avrebbono iunto gli barbarischi che vencono il palio. E iunto a casa, poco appresso vi venne il maestro, e disse:

          — Che vi pare, parenti, de mia nigromancia? Stati de buon core, ché a l’altra volta aremo nostra intenzione.

          Respuose Iacomo:

          — Vi venga cui male me vole, ché io non vi tornarei per guadagnare l’imperio; e però, parenti mio, vidi de travagliarte per altra manera, ch’io te resterò in eterno obligato.

          Disse il maestro:

          — Sia col nome de Dio! Io tornerò a studiare per vostro amore, che in ogne modo seriti satisfatto.

          E dopo multi altri ingannivoli ragionamenti, se ne andò a casa sua.

          Loisi, fatti pigliar gli animali de la fatta oblazione, licenziati gli compagni, se ne andò a dormire; e venuto il novo giorno, diede ordene, con quelli e altre buone robe, a fare uno onorevole disnare e a Iacomo e a multi altri del fatto consapevoli; e cossì prestissimo fece. Ed essendono in sul disnare, parea che a niuno fusse concesso de ridere se possere continere, e ultre ciò cominciorno a chiamare Barabas, e a dirne tanti altri mutti, in manera che Iacomo se accorgì essere da tutti in quel disnare beffato. De che Loisi avvedendosene, gli parve già tempo che ’l suo primo e anteveduto pensiero fusse ad esecuzione mandato, cioè che l’ingannatore fusse de’ vecchi peccati da l’ingannato novamente punito; e, fornito il disnare, chiamò Iacomo, e amichevolmente gli racontò dinanci a multi de loro brigata quanto messer Angelo, per ingannarlo, avea adoperato. Iacomo, recordandosi de le prime parole del suo Loisi, lo ebbe per certissimo, e con fellone animo da lui partitose, se n’andò rattissimo a trovare il ficto nigromante, e senz’altramente fargli mutto, il prise per gli capilli, e bottatolo a terra, lo cominciò fieramente a percotere con tanti pugni e calci, che mirabile cosa fuorno a l’offeso supportare; ed essendo in sul fatto rescaldato, prise un sasso, che si da multi con generale piacere e gran fatiga non gli era strappato de mano, quello serìa stato il suo ultimo fatto inganno. E del priso furore in sé tornato, e, con tutta sua dipocagine, cognosciuta la condizione del fatto, fu da tanta vergogna vinto, che non gli dava il cuore più da casa uscire, e per quello se diliberò del tutto da la cità assentarse. Venduto un piccolo podere, ché più non gli era remasto, e del retratto comparatose cavalli e arme, fuori reame, ov’era la guerra, se condusse; ove aitato da la fortuna, insiemi col suo vigorusamente adoperarse, non dopo gran tempo devenne ricco e famoso armigero, e discreto a maraveglia. E de tutto essendo stato Amore e messer Angelo accagione, me pare che l’uno essendone da Iacomo stato guidardonato, sulo ne reste con le prime parole confirmarence: mirabile, incomprensibile e miraculoso se pò dire il potere del faretrato Idio; e quanto felici coloro che con lieto vulto sono da lui e da fortuna reguardati!

 

MASUCCIO

 

          Da multi ho multe volte sentito ragionare che quando ad alcuno vien meno l’ingegno, e per quello d’altrui receve inganno, se sòle adattare, per posserse de l’inganno e de l’ingannatore insiemi vindicare, senza alcuno ordene adoperare la forza a dannificare il compagno; e como che l’ingannato reste pur con le beffe, me persuado che l’ingannatore con più acerba noia tollere gli recevuti danni. E che ciò sia vero, una parte de la passata novella nel demostra, per accagione che messer Angelo, cognoscendo il poco senno del ferventissimo amante, se ingegnò con tanta arte ingannarlo; il quale, essendo fatto accorto de l’inganno, non bastando a tanto il suo consentimento con simile o maiore beffa vindicarse, cercò con la forza menare le mano, como già fece, e in manera che, se ’l soccorso fusse stato più tardo, dadovero il mandava a tenere compagnia a Barabas. E perché de li casi e potenzie d’Amore, e d’alcune piacevole e singulare beffe, e d’altri novi e strani avvenimenti nel discorso de la passata secunda parte ne è pur assai ragionato, iudico sia devuta cosa dovere omai la mia penna altrove volgere; e travagliando col pensiere in quale versaglio dovesse i miei teli drizzare, me si è redutto a memoria, quando contra i defetti de’ religiosi a scrivere cominciai, fui fieramente da certe donne legiste sputasenno de mormorìti e biasteme crociato; e ancora che a loro bestiagine a bastanza avesse resposto, pur per mia promissa loro me fe’ debitore de prima che a la mia opera desse ultimo fine, de loro defettivo e imperfettissimo sesso, con le innate miserie, tradimenti e gattività de la maior parte de loro, alcuna commemorazione farne. E volendo già da tale debito disubligarme, me si sono parute dinanzi tante e tale inaudite sceleranze, e diabolici più che umani gesti de la sfrenata multitudine de malvage femine, che dal mio prepostato camino me aveano quasi retratto; nondemeno, più da la ragione forzato che dal fastidioso e molesto dire raffrenato, pur con alquanto rencriscimento a scrivere alcuni loro naturali mancamenti me conduco.

 

INTRODUZIONE PARTE TERZA

 

FINITA LA SECUNDA PARTE DEL NOVELLINO DE PIACEVOLI RAGIONAMENTI ACCOMPAGNATA, FELICEMENTE COMENCIA LA TERZA, NE LA QUALE IL DEFETTIVO MULIEBRE SESSO SERÀ IN PARTE CROCIATO; E PRIMO LO GENERALE ESORDIO E FENZIONE DE L’AUTORE, E DOPO LE NOVELLE PER LORO ORDENE POSTE.

 

          Finito il mio maritimo viaggio de vezzosi e piacivoli ragionamenti accompagnato, il nautile ligno a terra subdutto, e le sue vele piecate e i sartî racolti, remi e temone reposti in assetto e ad Eulo e a Nettuno quelle debite gracie rendute che de esprimere me sono state concesse, lassati del tutto gli delettivoli liti, me pare omai assai devuta cosa la mia longa diliberazione in parte ad effetto mandare, e caminando per aspri e ombrosi sentieri, questa terza parte del mio Novellino, con meno fiero e acerbo parlare che la prima, infino a la fine continuare. E in quello con disiderio non piccolo i miei veloci passi drizzando, la battuta strata medesma me condusse a lo ’ntrare de un fulto e orrido bosco, difeso da nodosi tronchi e pongenti spine, quivi da loro naturalità produtti; l’intrata del quale quanto a me, che sulo e inerme me vedea, fusse spaventevole e dura, ciascuno sel pò considerare. E certo dal timore quasi perterrito, il mio fervente disio se cominciò ad intepedire, e più volte a volgere gli mei passi indietro fui vicino. E cossì confuso stando, me apparve dinanzi un vecchio con prolissa barba de canuto pelo ornata, il quale nel primo aspetto de gran presenzia e de veneranda autorità il iudicai, la forma e abito del quale non parea umana, ma più presto a deità celeste sembiata. E io che me recordava in marmorea scultura averlo de sua naturale forma veduto retratto, cognobbi del tutto lui esser Mercurio, eloquentissimo Dio; per la cui apparenza il mio timore fatto maiore, non sulo non ardea de appressarmegli, ma anco in vulto guardarlo dubitava.

          De che da lui cognosciuto il mio dottare, da se medesmo con piacivole vista rassecoratome, e con sue suave parole chiamandome per nome, datame non piccola baldanza, me disse:

          — Masuccio mio, como tu a te medesmo pòi rendere ragione, da li teneri anni te ho cognosciuto multo più de ingegno che de littere da la natura dotato; e al presente vedendote sì de pensieri carrico e confuso stare, per intrare in questo devio e ombroso bosco, e con la venente parte de tua operetta, remordendo le malegnità e infinite sceleragine de inique femene, volere quelle mordere e crociare, sono costretto ad aver da te compassione. Darotte dunque manera, ancora che tanto difficultuoso te pare il caminare, como facelmente possi in tale travagliato laberinto intrare, e da quello uscire con vittoria. E però intra ne l’inculto bosco, nel quale non multo arai caminato, che troverai a man sinistra una usitata strata, ove, ben mirando, cognoscerai gli lassati vestigii del vetusto satiro Iovenale e del famoso commendato poeta Boccaccio, l’ornatissimo idioma e stile del quale te hai sempre ingegnato de imitare. Sequi dunque de costoro l’orme, ché de certo largo e amplissimo campo arai da caminare; e caminando, in ogne parte te scontraranno cose nove e ammirande, che de novo stupore de continuo te daranno accagione, e in manera che a la tua faticata penna non serà concesso un sulo ponto in ocio dimorare. Però che de questo putrido, villano e imperfettissimo muliebre sesso niuna esquisita eloquenzia serìa sufficiente a bastanza posserne parlare; a li tradimenti e prave operazione de quale non che gli umani sentimenti ma degli immortali dèi non bastaro mai a repararce. E taceromme degli infiniti inganni fatti per tale perversa generazione e al summo nostro patre Iove e al radiante Apollo, a nui e agli altri dèi, a’ quali le cose dubie son chiare, e le future li se fanno presente. Ma gli celesti numi lassando, per non diviarte dal tuo distinato camino, te conforto a continuare de l’infido e variabile femineo ceto il novellare, ché la loro strata da passo in passo d’ogne lascività troverai repiena. Però sei provisto che nel mezzo e più fulto del bosco vederai multo discosto e longe dal camino uno delettevole e specioso giardino, da marmoree mure difeso, e le porte d’alabastro de mirifice sculture ornate: quanto e quale sia de verdi lauri e de fresche olive e d’altri varii ed eletti arboscelli, de suavi frutti e odoriferi fiori repieno, avendolo tu a vedere, soverchio serìa a nui il racontare. Questo è chiamato il sacrario de la pudicizia, quale da tutta la deità celeste è stato consecrato ed eletto per proprio e comunemente de la nostra Ippolita Maria de’ Visconti, de la quale tu hai tante carte repiene, e ’l suo nome de continuo e meritamente con somme lode onori, celebri ed esalti. Nel quale insiemi con essa le illustre infante donna Elionora e Beatrice d’Aragona, sue cognate, piene de onestà, modestia e ligiadria, con candidissimi armillini in grembo triunfano, e che, con le proprie vertù soperando la natura, se haveno de gemme orientale ornate le loro regale tempie, e con li indorati porpurei manti avvolte, se son fatte esente da la feminea plebe e consorzio. Nel colmo de quale vederai una bandera con un bianchissimo animaletto nel verde campo figurato, supra de sé stando, col piede alzato per non passare il fango; da la bocca de quale esce un mutto de indorate littere che dicono: “Malo mori quam foedari”. E ultre ciò, raffigurarai le bande de giardino de ricchissimi drappi azzurri ornate, semenati a gorgioli, de verghe d’oro repieni, in mezzo de le calenti fiamme dimorare, raffinando la integrità e perfezione de l’oro: questa tale notevole insegna tu sai che essa diva madonna fa per sua conveniente impresa. Vederai ancora tutto ’l sacro luoco essere circundato da ferocissimi alicorni, umili e mansueti devenuti ad odore de le pudiche donne e donzellette che dentro vi dimorano. Guàrdate dunque, per quanto non vòli incorrere la ira e indignazione nostra, che de le già ditte vertuosissime madonne, né con pensieri, né con ragionare, né con penna, nel tuo cominciato viaggio te dibbi né multo né poco intromettere né impacciare. Anzi volendo tu in altre parte de loro santimonie trattare, de continuo con la nostra deità le dibbi ascrivere e connomerare; e non te esca de menti, quando de loro scrivere vorrai, de con approbata verità affermare che a loro sulo il sesso da la natura datoli è remasto. Però al presente sulo il presto e de longi mirare del mirabile luoco te baste, e la già da nui mostrata pista sequi, ché de continuo ne averai teco per tuo governo e guida.

          E posto fine al suo parlare, subito dinanzi me sparve. E sì como le longhe miserie sono da sopragionte e improviste prosperità termenate, cossì il mio spavento e avuto timore dagli ornati e piacivoli ragionamenti de l’Idio in estrema allegrezza fuorno convertiti; e da’ suoi presenti conforti e a me dati ordeni rasiguratome, e per le future promisse senz’altra dottanza nel bosco intrato, e con frettolusi passi caminando, me retrovai tra ’l verde e vago pratello, in mezzo de quale era il discritto giardino edificato. L’autorità de quale non me permetteva più ultre andare; pur da suavissima armonia de diversi istromenti, che dentro il giardino faceano accordante melodie, raconfortato, quanto de vederlo la vista me bastava [firmatomi, e] a’ piedi d’un selvano arboro la venente novella a scrivere con piacere cominciai.

 

NOVELLA XXI

 

argomento

 

          Messer Bertramo d’Aquino ama e non è amato; il marito de la donna amata a la similitudine d’un falcone dà multe lode a l’amante, per le quale la muglie se induce a donargli il suo amore; sono insiemi; messer Bertramo la dimanda de l’accagione che s’era condutta; il cavaliero usa gratitudine, e, senza toccarla, la lassa schernita.

 

A LA ECCELLENTE MADONNA ANTONELLA D’AQUINO

CONTESSA CAMBERLINGA.

 

ESORDIO

 

          Volendo a la mia diliberazione, eccellentissima contessa, dare principio, e con diece altre novelle la prava natura, gli scelesti vicii e dolose arte de malvage donne mordere, me pare utile e necessario alcuna cosellina ne la sequente novella a te intitulata trattarne, a tale che tu, de la vertuosa scola e insegna sequace, de te medesma gloriandote, che con le proprie vertù hai del femineo sesso soperata e vinta la natura, possi vero e perfetto iudicio donare, quanto e quale è differenziata la qualità e costume de le donne da quella degli uomini, sì como la singulare vertù e magnificencia, usata per uno eccellente cavaliero de tua generosa stirpe, presso la fine te ne renderà testimonio manifesto. Vale.

 

narrazione

 

          Non sono egli multi dì passati, che da un notivole cavaliero me fu per verissimo racontato come nel tempo che fu debellato e morto Manfredo da Carlo primo, e per lui occupato e vinto tutto ’l reamo, con la ditta conquesta fu un valeruso e strenuo cavaliero, il cui nome fu messer Bertramo d’Aquino, vigoruso ne l’arme e nominato capitano, e ultra ciò, savio, proveduto e galiardo più che cavaliero che ne l’esercito de ditto re Carlo ne’ suoi tempi se retrovasse; sì como ogne dì agli amici facea con piacere vedere, e agli inimici con rencrescimento gostare la sua prodezza. Ove dopo l’acquisto del regno il re con suoi baroni e cortesani conduttose in Napoli per li delettivoli e suavi frutti che rende la pace a’ vincitori, cominciorno ad attendere in giostre, in balli e in altre triunfose feste; e tra gli altri che più a sì fatti piaceri attendeva, e fuorsi per recompense degli affanni negli bellicosi esercicii recevuti, si era messer Bertramo. Al quale avvenne che, vedendo un dì ad un ballo madonna Fiola Tortella, per sì fatta manera de lei se innamoroe, che in niuna altra parte possea i suoi pensieri drizzare: e nonostante che messer Corrado suo marito a lui fusse singulare amico e ne la espedizione de la guerra con esso avesse vigorusamente militato, pur, priso e ligato da colui ch’al suo vigore niuna forza puote o vale, del tutto se dispuose con buono animo sequire la cominciata impresa; e per lei cominciò a giostrare e a fare de multe magnificenzie; ed in diversi modi spendendo e donando del suo, de continuo gli facea intendere lei più che se medesmo amare. La donna, o che onestissima fusse, o vero per lo soverchio amore che al marito portava, del cavaliero e de’ suoi vaghiggiamenti fandose beffe e ogne suo operare avendo a nulla, ogne dì più rigida e fiera gli si demostrava; e como che de tale impresa a lui del tutto fusse fuggita la speranza, nondemeno, como è de costume de cui ferventemente ama, de continuo il disiderio in maiore fiamme crescendo augmentava.

          E in tale reo stato dimorando, senza mai una sula guardatura con piacevolezza essergli concessa, avvenne che un dì messer Corrado e la muglie andando a caccia de sparaveri con altri cavalieri e donne, e impensatamente se levorno una brigata de starne, dietro a le quale védero un salvaggio falcone, che in quello istante tutte le disbarattò, e in manera che a niuna fu concesso con l’altre insiemi unirse. De che coloro ne fereno gran festa, e tra gli altri messer Corrado con allegro volto disse che gli parea aver visto a la similitudine del falcone messer Bertramo suo capitano ne la battaglia cacciando ed effugando gli nimici, e per modo tale che, ove lui apparea con la lanza o con la spata, niuno de’ suoi avversarii ardeva d’aspettarlo; aggiungendo che non sulo como ’l visto falcone sequendo le fuggite starne, ma como un fiero leone fra vilissime pecore tra ’l fatto d’arme de continuo se demostrava. E ultra de quello, supra de ciò in ragionare, non sapendo che ’l cavalieri de cui sì largo parlava, de la muglie fusse in alcun modo invaghito, racontò tante altre digne parte de sue vertù, piacevolezze e magnificenzie, che ivi non restò persona alcuna, che non gli dovenisse assai più partesana che non era lui. E tra gli altri madonna Fiola, che già mai né lui né sue vertù gli erano nel petto possute intrare, udendo tante lode dargli dal suo marito, a le parole del quale dava mirabile fede, gli fu accagione la passata durezza in summamente amarlo convertire; e retornata a casa ligata, unde sciolta ne era uscita, disiderava che ’l suo amante passasse, a ciò che, con piacivole vista mostrandoglisi, il facesse accorto essere de qualità e compressione motata. E como volse la lieta fortuna de tutti dui, che la donna, in questi pensieri stando, vide venire il cavaliero, più polito e bello parendoli che l’usato assai; a la quale, senza speranza de resposta, al modo solito fece una amorosa inclinata; quale da la donna vista, como già preposto avea, con piacevolezza grande gli rendì il saluto debito. De che il cavaliero ultre modo contento e maravegliato se partì, e a casa retornato, comenzò a pensare e con seco medesmo a travagliarse de tale novità; e cognoscendo lui non avere niuna cosa nova o strana adoperata, che a tanto graciosa mostrarsegli l’avesse indutta, né sapendo de ciò vero iudicio dare, cossì confuso dimorando, mandò per uno suo privatissimo amico, consapevole d’ogne suo secreto, al quale il novo accidenti e tutti i suoi maravegliosi pensieri pontalmente racontoe.

          L’amico che prodente era multo e fuori d’ogne amorosa passione, de lui e suoi pensieri fandosi beffe, cossì gli respuose:

          — Io non me maraveglio del tuo poco cognoscimento, per averte Amore abbagliato l’intelletto de non farte cognoscer la qualità e costume de le femene, e quello a che loro defettiva natura le ha produtte. Pensi tu che in niuna de loro, per savia che sia tenuta, se trove fermezza o stabilità alcuna? Certo le più de loro sono incontinenti, senza fede, retrose, vendicatrice, e piene de sospetto, con poco amore, e vòte d’ogne carità. La invidia, como a propria passione, tene il sommo luoco nel centro de loro core; in esse non è ragione, né con veruna temperata manera se moveno; già mai ne le cause loro alcuno ordene iudiciario se serva, se non a la scapistrata eligendo sempre il peggio, secundo da loro lievo cervello son tirate. E che ciò sia vero, quante volte avemo visto agli dì nostri una donna essere amata e vaghizzata da più e diversi valerusi e de vertù ornati amanti, ed essa, togliendo esemplo da la libidinosa lupa, schernendoli tutti, se è data ad uno vile ribaldo, de ogne sceleragine repieno? Dunque cridi tu che costei al mostrarte tanta salvatichezza, per la quale se’ stato più volte vicino a la morte, abbia in ciò servato ordene o ragione, si non gloriandose de avere un longo tempo ucellato un cossì fatto amante como tu sei, e con colore de onestà se è goduta de vederte stentare, e con questo augmentare la fama de sue bellezze? E cossì anco te pòi rendere securo che senza ordene, o tu avernele data de novo accagione, per non diviare da loro reprobata natura, te è mostratase tanto graciosa. Però non dubito che tu, sequendo la pista, ante che ’l pianeto, che adesso regna, tramute, ottenerai la vittoria de tua longa impresa; e però, senza più indugiare, li scrivi in buona manera, e cerca de posserle parlare battendo il ferro ne la sua caldezza, ché de certo il disigno reuscirà al tuo ottato fine.

          E con queste e assai [l’altre simile] parole li fe’ intendere la qualità e natura de femine, confortandolo che de niuna loro buona gracia multo se allegrasse, né del contrario soverchiamente se attristasse, però che né de l’uno né de l’altro era da fare multo caso, sì como de cose non durivole e senza fermezza alcuna; anzi de loro cogliere il frutto secundo il dì e la stagione, non pensando mai al passato, né al futuro porre alcuna speranza; e, ciò adoperando, e questa e ognuna de l’altre se troveranno de continuo beffate, e poco o niente goderanno de loro innata malicia e gattività. Il cavaliero, da le parole del vero amico tutto raconfortato, subito, con gran piacere de la nova speranza, la carta prise, e a l’amata donna con gran passione scrisse, e dopo lo narrarle il suo ferventissimo amore, de la sua soverchia bellezza causato, e il novo offerirse, insiemi con alcun’altre ornate e effettuose parole, concludea se dignasse donargli tempo e luoco de compita udienza, a ciò che tanti longhissimi affanni de una sola volta parlarli fussero restorati. E quella cautamente mandatali, e da lei con festa recevuta e letta, notando tutte le sue parte, per sì fatta manera l’introrno al suo de novo contaminato core, che non sulo de prestarli compita udienza, ma senza alcun retegno donargli il suo amore del tutto se dispuose; e subito con assai acconcia manera gli respuose che la sequente sera al suo giardino a piede de cotal arboro se conducesse e l’attendesse; ché, adormito fusse il suo marito, e ’l resto de le brigate poste in assetto, a lui andarebbe più che volentieri.

          Il cavaliero letissimo, como ciascuno pò pensare, parendoli che ’l consiglio de l’amico procedesse, como notte fu, accompagnato da’ suoi famegli, quando ora gli parve, al signato luoco, aspettando la sua donna, se condusse; la quale, non dopo multo aspettare, sentendo che ’l cavaliero era venuto, chetamente aperto l’uschio ch’al giardino usciva, con menuti passi a lui se ne venne; qual, fattoglisi incontro con le bracce aperte, graciosamente la recevette, dicendo:

          — Ben venga l’anima mia, per la quale tanti affanni ho già sustenuti!

          E dopo milli dulcissimi basci e dati e recevuti, appartati da’ famegli, sotto un odorifero pomo arangio se posero a sedere, aspettando il segno de una fida fante che ad una camera terrena le conducesse, ove un letticino con dilicatura e ben profumato per loro avea acconciato. E qui per mano tenendosi, sollazzando e basciandosi como negli aspettati ultimi termeni d’amore se rechiede, venne nel disio al cavaliero de domandarla de l’accagione de tanta fiera rigidezza per sì longo tempo demostratali, e como cossì de subito fuori d’ogne speranza tanto graciosa e benigna gli era dinanzi apparuta, e fattoli consequire il digno effetto qual pur vedendolo appena credere il possea.

          La donna, senza perder tempo a la resposta, gli disse:

          — Caro e dulcissimo signore de la vita mia, a la tua piacevole dimanda satisfacendo, per quello più breve modo che posso responderò. Egli è vero che tanto tempo cruda e fiera mostrata me te sono, e fuorsi più assai che a la tua nobilità e vertù non se rechiedeva; e certo tale rigidezza non è stata d’altro causata, ultra la conservazione del mio onore, che dal ferventissimo amore quale porto e ho portato al mio marito, al quale, per niuno accidente per grande che stato fusse, io non averìa, non che fatta, ma pur pensata cosa alcuna, che in disonore li retornasse; e questo medesmo amore, che a lui porto, è stato de tale natura e ha avuto in sé tanta forza, da condurme ne le tue amorose bracce; e dirovve il como. L’altro eri, andando a caccia con mio marito e con alcun’altre de le donne nostre, vedemmo un falcone sequendo certe starne, quale, como è de loro costume, subito tutte le disperse. De che mio marito disse che ’l parve vedere messer Bertramo a la battaglia cacciando gli inimici; e ultre ciò, continuando supra de te il suo ragionare, racontò tant’altre mirabili vertù e summe lode de’ fatti tuoi, che non sulo io, che d’amarte de ragione era costretta, ma quante ivi ne eravamo, ognuna pregava Idio per lo tuo felice stato, e tutte devenemmo disiderose de compiacerte. E più, disse che a lui pareva per debito de tue vertù esser obligato amare cui te amava, e gli contrarii avere per capitali inimici; de che io, che a lui sono tutta ossequiosa, cognoscendo essergli summamente caro che ognuno te amasse, comprisi che maiormente gli era piacere che le cose sue cordialmente te amassero. E cossì, a non partire da quindi, sentiva in me esser rotte e spezzate tutte catene e repari, che al mio duro core, per non amarte, avea già fatti; e assalita da una nova calente fiamma, tutta me struggeva d’essere dove al tuo piacere sono pur, e intendo d’essere fin che ’l vivere me serà concesso.

          Messer Bertramo, che de usare magnificencie e liberalità grandissime da li teneri anni era accostumato, odendo che ’l marito de colei, per sì eccessivamente lodarlo e amarlo, la gracia de la muglie avea acquistata, mosso da una vertù de vero e buon cavaliero, fra sé, pensando, disse:

          “Deh! messer Bertramo, serai mai tu villano cavaliero per sì vile e minima cosa, como è l’usare con una donna, ancora che tanti anni l’abbi disiderata? E posto che questa fusse la maiore e più cara cosa che donare potissi, non serà tanto più lodata la tua usata vertù? Le magnificencie non consisteno a demostrarsi a le cose de poca qualità, si non a le alte, e quando a se medesmo dispiaceno. Tu non trovasti al tuo vivente uomo alcuno, che de usar cortesie e liberalità te avantaggiasse mai; e in che atto potrai mostrare la integrità de tue vertù più che in questo, e massimamente avendola in tua balìa, e credendo con lei longo tempo con felicità godere, e con la vertù e ragione vincendo te medesmo, del tuo tanto aspettato disiderio te privi? E ultra ciò, se ’l marito de costei te fusse capitale inimico, e de continuo avesse cercato de abbattere la tua fama e gloria, che peggiore e più odiosa vendetta potresti de lui pigliare, che vituperarlo in eterno? Dunque, quale ragione e quale onestà il vole, che se debbiano gli amici como gli inimici trattare? E che questo te sia perfettissimo amico, ultre ogne altra passata esperienzia, tu lo hai da lei medesma sentito apertamente, ché, non per altro che per amore che suo marito te porta, si è qui condutta a donarte il suo amore. Tu pigliandolo, che digno merito averà del suo verso de te ben volere, e del summamente lodarte in assenzia, como negli veri amici se rechiede? Or non piazza a Dio che in cavaliero d’Aquino tal villania casche già mai!”.

          E cossì, senza più de l’amore o de le bellezze de la donna recordarse, a lei revolto, disse:

          — Cara madonna, toglialo Dio che l’amore che me porta il tuo vertuoso marito, con lo soverchiamente lodarme, insiemi con tant’altre cose per lui ditte e operate verso de me, recevano tale vicioso guidardone, de farme in alcuno atto procedere contra le più sue care cose, che in disonore le possano né poco né multo retornare; anzi sempre da qui davanti ponerò per lui la persona e la facultà, como per proprio fratello e lialissimo amico se deveno ponere, e te averò de continuo per sorella, offerendome de quanto che me sia e vaglia, con lo avere e le corporale forze insiemi, per lo conservare del tuo onore e buona fama.

          E sciolte da un fazzoletto certe ricche gioie, che per donarglile avea portate, gli le bottò in gremio, dicendo:

          — Porterai questo per mio amore; e recordandote del mio presente adoperare, pensa d’esser più liale a tuo marito che stata non se’.

          E teneramente in fronte basciatala, e multe gracie rendutele de sua liberale venuta, da lei se partì. Si la donna restasse confusa e schernita facilmente se pò considerare; pur, tirata da loro innata avaricia, strengendo a sé le carissime gioie, a casa se ne retornò. La novella dopo alcun tempo fu resaputa; dove fu dato avanto a messer Bertramo, como era soprano ne l’arme, animuso, discreto e proveduto, cossì de magnificencie, liberalità e somme vertù avanzare ogne altro cavaliero, che dentro e fuori Italia ne la sua età fusse stato già mai.

 

MASUCCIO

 

          Però che non se porrìa tanto eccessivamente commendare la racontata vertù de messer Bertramo verso il suo amico demostrata, quanto li meriti suoi lo recercano maiore, lo lasso a iudicare a coloro che haveno ferventemente amato e amano, ché ciascuno, a sé pensando, li done quelle digne lode, ch’io, per non bastare a tanto, de narrarle ne remango. Nondemeno, recordandome del notevole consiglio del suo amico, e quanto nel suo vero e commendevole trascorso dechiarò la qualità, natura e costumi de femene, per volerme col suo iudicio confirmare, mostrerò in questa altra prossima novella quello che una scelerata ribalda adoperasse, per saciare in parte la sua sfrenata libidine, como da cui legge e ascolta serà con ammirazione non piccola cognosciuto.

 

NOVELLA XXII

 

argomento

 

          Una donna trapanise se innamora d’un moro, e da lui se fa carnalmente cognoscere; roba il marito, e col moro e una turca se ne fugeno in Barbaria; il marito, per vindicarse, va travestito, ammazza il moro e la muglia, e con la turca se ne retorna a Trapani, e sposala per muglie, e con lei gode gran tempo felicemente.

 

AL MAGNIFICO SIGNORE GALEAZZO SANSOVERINO.

 

ESORDIO

 

          Non bastando a tanto lavore la mia stracca e non sacia penna de, scrivendo, racontare le più mostruose che umane operazione del pravo e vilissimo femineo sesso, de lassare intendo quello che intrinsicamente ho dagli teneri anni conosciuto e con la presente senettù cognosco de’ fatti loro; nondemeno, per pur fornire il cominciato camino, non resterò de scrivere certe sceleragine venute in publica voce de vulgo de tale perverse generazione, e de quelle dare avviso a coloro che de ornate vertù e costumi sono repieni; e fra gli altri a te, che vertuosissimo te cognosco, non userò taciturnità de uno strano e libidinoso appetito venuto ad una trapanise, per lo quale non dubito, se qualche fede d’alcuna de loro te fusse remasta, con la passione insieme del tutto da te se fuggerà via, e tu libero e sciolto goderai la tua fiorita gioventù. Vale.

 

narrazione

 

          Trapani, cità nobile de Scicilia, como multi sanno, è posta ne le postreme parte de l’isola, e quasi più vicina in Affrica che altra terra de’ cristiani; per la cui accagione i trapanisi multo spesso con loro ligni armati corsiggiando discorreno le spiagge e rivere de’ mori, fandove de continuo grandissime prede, e anco loro sono a le volte da’ mori depredati; de che spesse volte avviene che, per contrattare gli recatti de’ pregioni, da parte in parte vi fanno le tregue, e portano le mercanzie, e comparano, e vendono, e con gran facilità pratticano insiemi; per le quale ragione pochi trapanisi sono, che non sappiano le circustanzie de’ paesi de’ mori como sanno le loro medesme. Ora avvenne, non è gran tempo, che un gentiluomo trapanise, chiamato Nicolao d’Aguito, ne’ dì suoi famosissimo corsali, avendo più volte costiggiata la Barbaria, e un tempo reduttosi a casa, e tolta muglie giovene e assai bella, e de quella auti figliuoli, onorevolmente ducea la sua vita. E tra gli altri famegli e servi che tenea, era un moro de Tripuli de Barbaria, nominato Elia, giovene e forte e assai robusto, ma bruttissimo ultra mesura; de che la muglia de Nicolao, da sfrenata e focosa libidine assalita e vinta, non volendo avere reguardo al rompere del matrimonio, del quale sacramento de raro è fatto multo caso quando attitudine non le impedisse, né punto considerando colui essere servo e lei libera, essa bella e lui bruttissimo, lei cristiana ed esso moro, per lo quale atto venea senza alcuno mezzo ad un tratto ad offendere Idio, la legge e lo onore, ma sulo estimandolo giovene e posserla meglio che ’l marito satisfare, del tutto se dispuose volere provare se ’l moro se sapea cossì sotto l’arme adoperare, como a lo portare de’ soverchi pisi in spalla facea; e provato e reprovatolo, e cognosciuto che ’l suo iudicio non l’avea ingannata, se diliberò in quello continuare, fin che la sua vita e le facultà del marito gli bastavano.

          E quantunque al moro paresse stare bene ed essere de tale gioco per più respetti letissimo, nondemeno, essendo de natura de ucelli de rapina, quali, essendo in potere de’ cacciatori, ancora che ogne dì siano de ottimi e dilicati pasti pasciuti, e che con la libertà rade volte e con difficultà loro è concessa la preda, pur cercano repatriarse agli lassati nidi, cossì il moro con tutte le losenghe, gli doni e lo carnalmente cognoscere de la bella sua patrona, de continuo tutt’i suoi pensieri erano de retornarse a casa; e, como astuto e gattivo, se cominciò a demostrare malanconico e tristo a la donna, e quando avesse voluto pigliar piacere, poche volte gli concedeva. De che lei pissima contenta, de continuo lo stimolava che gli dicesse l’accagione de sua malanconia, ché essa, per remediarce, non averìa cosa alcuna lassata a fare; a la quale il moro disse chiaramente che lui non era mai contento, fin che non fusse a casa sua. Quale parole da la donna con rencrescimento mai semele gostato intese, se ingegnò con multe evidente ragione persuaderle lo restare a tale stato contento; e ultra ciò, se pur gli piacea, lei se diliberava avvenenare il marito, e con lui insiemi de le sue facultà goderse; e cognoscendo che ’l moro con grandissima arte pur stava a la sua diliberazione firmo, prise per ultimo partito de lei con esso insiemi in Barbaria fuggire. E al moro dittolo, e da lui con mirabile piacere ascoltato, per non dare più indugio al fatto, aspettato il tempo che fresca e continuata tramontana menava, e che Nicolao era andato per suoi bisogni a Mazara, una notte con certi altri scavi prisero un ligno de’ necessarii argomenti marinareschi guarnito, pigliata la donna e con essa una turca assai giovene e bella, e, con certe altre robbe sottile che la pressa loro concesse, uscita la cità, se imbarcarno; e, drizzati al loro camino, da la fortuna fuoro in tale manera faoriti, che ’l dì sequente se retrovorno a li loro morischi liti.

          E ognuno de’ compagni andato via a’ paisi loro, Elia con la donna e la turca se condusse a Tripuli, e da le sue brigate con gran festa recevuto, e stato alquanti dì in casa con la fatta preda, o che la iusticia de Dio, che non lassa niuno male impunito, lo avesse spinto, o che da sua considerazione medesma fusse processo, cognoscendo colei, da insaciabile libidine assalita, avere tradito il marito che quanto la propria vita l’amava, abandonati i figlioli, che non poco era da maravegliare, lassata la patria e la legge del suo Dio, e più altre cose de tal malvagia femena esaminando, estimò del certo lui a quella non devere né possere alcuna fede, amore o speranza porre, per li cui respetti gli cominciò fra pochi dì a venire in tanto fiero odio e fastidio, che non sulo non gli facea le solite carizze, ma con difficultà gli parlava, né ardeva guardare dove stava, e ultra ciò, per ogne piccola accagione le bastonate andavano da comito de galea. De che la buona donna in sì malvagio stato dimorando, tardo pentita, piangeva tale misera vita con la sua pravissima operazione insiemi, e per suo unico restoro la morte più che tale vivere disiderava, e con grandissimo piacere l’averìa receputa.

          Tornato il dolente Nicolao da Mazara e trovata la pessima e tanto vituperevole novella, quanto fusse il suo dolore pianto e ramaricato, ciascuno sel può pensare: egli fu sì fiero, che più volte fu vicino a passarse d’un cortello per mezzo ’l petto, cognoscendo che ’l vivere con tal carico peggio che morte li serìa stato. Nondemeno, dando alcuno luoco al dolore, considerò che a la sua ottima fama serìa gran mancamento che lui medesmo per viltà se avesse occiso, e se diliberò del tutto andare virilmente a perdere la vita là dove lo onore con le facultà insiemi avea già perdute; e con lo suo grande animo, da la iusta impresa fatto maiore, senza aspettare d’amico o da parente consiglio, requesti occultamente circa dieci gagliardi gioveni, e de notte armato un lignetto da corsiggiare, con suoi cari compagni verso Barbaria drizzò il suo camino.

          E fra pochi dì iunto al prepostato luoco, tirato il ligno a terra in una spiaggia circa dieci miglia de longi a Tripuli, e covertolo d’alache marine, de quale lo paese è abundevole multo; e ditto a’ compagni che se nascondessero dentro de loro fusta, senza mai discoprirnesi, in tanto loro avesse venuto il destro de fare gran preda, e che ’l dovessero otto dì e non più aspettare, e che se fra ’l ditto termene non tornava, tenessero per firmo lui esser morto o priso; avendosi fatta da prima crescere la barba, e tutto de vestimenti morischi travestitose, sapendo ottimamente la lingua, con li dati ordeni e con animosità grande de crudele vindetta, raccomandandose a Dio, da’ suoi compagni se departì. E como colui che troppo bene sapeva il paese con le circustanzie de la terra insiemi, se ne andò ad un fiumicello assai presso la cità, dove de multe femene imbiancheggiavano le tele, estimando che la turca, da la quale credea essere amato, per acqua o per altre oportunità de casa fusse lì recapitata; e como volse la sua ventura, che la vindetta con la emenda de’ recevuti danni insiemi li avea apparicchiata, che in quel punto che lui gionse, la vide con vaso d’acqua che se ne retornava a casa.

          De che affrettando ’l passo, la gionse, e, lacrimando, disse:

          — Deh! Lucia, può egli essere che ’l grande amore da tanti anni portatoti, e allevatate como propria figliola, non abbia trovato in te luoco de non farme anco da te ingannare?

          Lucia revolta, e a la favella e al vulto cognosciuto il suo messere, da lei unicamente e con ragione amato, vinta da grandissima compassione, lacrimando corse ad abbracciarlo, chiedendole mercè, ché la sua donna sotto grandissima inganno ivi l’avea condutta. E volendo procedere a più non necessarie parole, parve a Nicolao che da la incomodità del luoco fusse tirato di non perdere tempo de mandare ad effetto il suo fiero proponimento; e pensato, como astuto, de la prima ingannata essere la missaggera, e avendo da lei brevemente saputo la miserissima vita de la muglie, la pregò caramente che a lei il recomandasse, e che li piacesse recordasse de lui, che tanto l’avea amata e amava, e de l’amore degli figlioli e de lo onore suo medesmo; e che esso, avendo saputo insino a Trapani la sua infelicità e miseria, era venuto a ponere la vita sua in piriglio per liberarla, e non tanto li perdonare il commisso errore, ma l’avere de continuo e più che mai per donna de la vita e de le facultà sue; e simile cose assai, tutte attrattive e piene de losenghe, che dadovero un cuore de marmo averìano mosso a pietà. L’amorevole serva da le parole del caro patrone speronata e da pietà vinta, non gli occorse fare altra resposta, si non che ’l dì sequente a quel luoco retrovar se facesse, e del remanente lassasse il pensiero a lei. E da esso partitase, e iunta in casa, con amare lacrime a sua patrona disse como e per quale ragione il suo marito ivi era venuto, e quanto gli avea detto particularmente gli racontò, aggiongendo che, se a tale fatto volesse il conseglio de sua povera serva sequire, gli parea che ancora che ’l marito la dovesse ingannare, de più presto morire una volta per mano d’un cristiano, suo marito e signore, che de quivi ogne dì recevere cento morte da un moro, stato suo fante e scavo. E con tant’altre effettuose parole la confortò, che lei, senza prendere tempo a la resposta, como lievemente e senza ragione, sulo da la libidine si era lassata trascorrere a fare tanto enormissimo eccesso, cossì, senz’altra considerazione quanto de punizione era meritevole, a la serva respuose ad ogne volere del marito lei essere apparicchiata; e trattati insiemi più e diversi modi feminili, propuosero de la venente notte per cauta via fare in casa Nicolao venire, e quello esequire che a lui parrà.

          Il sequente dì al dato termene Lucia andò per acqua, e al signato luoco trovò il suo patrone; e tutta godente gli disse:

          — Tua muglia è acconcia de fare ogne tuo volere, e como e quando te piace vinirsene teco; però a lei e a me pare che a tale che niuno non te venesse cognosciuto, che in casa te ne venghi presso de me, ché te poneremo in luoco cauto, e staremo in su la mira, e quando tempo ne parerà, porremo mandare ad effetto il tuo e nostro volere.

          Nicolao, dando fede grandissima a le parole de la Lucia, e ultre ciò, cognoscendo che altra via non v’era da posserle reuscire il suo disigno, dietro a lei a la longa se avviò; e in casa del moro intrato, senza essere d’alcun sentito o visto, fu da Lucia occultato in uno luoco oscuro da ponervi ligne, che niun’altra se non lei v’andava; e quivi il retennero circa sei dì, per non possersene altro fare, per accagione che, fando li mori una certa loro cerimonia, Elia ogne notte con multi compagni avea fatta gran festa a casa sua; però ad ogne ora era stato Nicolao in quella oscurità, quando da la muglie e quando da Lucia visitato e pasciuto.

          Fornite le feste, ed Elia essendo in casa senz’altro uomo in compagnia, e dopo cena adormitose, in manera che gli troni non lo averìano isvigliato, non sapendo la donna quello che ’l marito intendea de fare, si non de menarne lei e la fante, il fe’ condurre in camera, ove il moro sì forte dormea. Il quale, vedendo la cosa acconcia a suo modo, e che la necessità il tirava a non perdere più tempo, disse a la muglie che spacciatamente pigliasse e dinari e gioie possibile a portare, ché in quello punto volea già partire. De che lei, alquanto smarrita, ora una cassa e ora un’altra aprendo, fra questo Nicolao, priso tempo, se accostò piano ove il moro iacea, e ammanitose un cortello, che seco per ciò avea portato, e destramente, senza alcuno strepito, gli secò le vene de la gola; e quivi morto lasciatolo, n’andò verso la muglie, che in buccuni stava a l’urlo d’una cassa aperta, cercando certe gioie ch’al moro avea vedute; de che lui pigliato il goverchio con tutte due le mano, e supra ’l collo de la muglie lasciatolo cascare, ed esso premendovi forte adosso, in manera che, senza lei possere dire omei, lui la fe’ morta remanere. E ciò fornito, prisi certi sacchetti de doble, e altre ricche gioie e dilicate coselline avviluppate e postele in grembo de Lucia, quale, per li dui visti omicidii territa, de la sua vita impaurita stava, gli disse:

          — Figliola mia, io ho già il mio disiderio fornito, né altro me resta a fare che condurme a’ mei compagni, quali questa notte fornisse il tempo che aspettare me debeno, e ultre ciò, menarte meco, cossì per mia contentezza, como per guidardonarte del gran beneficio da te recevuto; quale serà tale, che tu medesma iudicarai non essere da vicio de ingratitudine assalito.

          Lucia, odendo le parole tutte per contrario a’ suoi dubiosi novi pensieri, fo lieta a maraveglia, e ad ogne suo volere se offerse paratissima. E cossì chietamente usciti de casa, e pervenuti a la porta de la terra, e quella con certi ferretti, che seco per tal bisogno già portava, uperta, diero in gambe più de un trotto serrato che con lento passo, e arrivorno dove avea i suoi compagni lassati, e in quello punto medesmo che, già desperati del suo retorno, aveano bottato loro ligno in acqua, e si acconciavano per partire. Quali fattono insiemi gran festa, senz’altra dimora tutti imbarcati, con prospero mare e vento fra brevissimo termene litissimi gionsero a Trapani. La venuta de’ quale sentuta, e saputo quanto Nicolao avea per vindetta del moro e castigo de la muglie adoperato, ultre il generale piacere, ognuno de perpetue lode il comendava; ove lui, per non parere ingrato de’ recevuti beneficii da Lucia, se la prise per muglie, e sempre l’ebbe carissima, e, fin che visse, onorevolmente la tenne.

 

MASUCCIO

 

          Grande e orrebele la sceleranza de la trapanise se può dire, non tanto d’esserse sottoposta ad un sì vile servo, quanto de fuggirsi con lui in Barbaria; però multo mirabile se può iudicare la vertù del marito, quale senz’alcun ritegno volse lo onore a la propria vita preponere, e ancor che la fortuna ogne suo favore le avesse prestato, pur non se negarà che l’animosità sua non avesse ogne altra umana avanzata. Ma che diremo de la sua liberalità e gratitudine usata a la Lucia, de non sulo de serva farla libera, ma per matrimoniali commistione con lui accompagnarla? E certo se lei li avea donato con la vita insiemi lo onore e le facultà, e fattolo vittorioso de la ottata impresa, niuno gran guidardone a ciò bastevole serebbe stato, si non darle se medesmo, como già fece. E imperò me pare che de ogne altra lode che gli si deve, e meritamente, dare, che l’ultima ottenga il principato; però che como la ingratitudine avanza ogne vicio, cossì lo esser grato de’ recevuti beneficii passa ogne altra vertù. Ma de lui lassando il ragionare, e da la Scicilia non partendome, dirò de un altro crodelissimo e quasi mai non udito caso, novamente in Palermo successo ad una impia anzi diabolica matre, la narrazione de la quale appena da la onestà me è concessa.

 

 

NOVELLA XXIII

 

argomento

 

          Una donna vidua se innamora del figliolo, e sotto grandissimo inganno se fa da lui carnalmente cognoscere; dopo, ingravidata, con arte scuopre la verità a lo figliolo, quale, sdignatosi del fatto, se ne va in esilio; il fatto se divulga, e la matre dopo il parto è dal potestà brusciata.

 

AL MAGNIFICO MARINO BRANCAZZO.

 

ESORDIO

 

          Se da le leggi, da la natura e da’ laudevoli costumi sono le nefande umane operazione condannate, non dubito che tu, nobile e strenuo partenopeo, como a vertuosissimo, per approbato dannarai un detestando e più diabolico che umano appetito, adimpito per una impia ribalda matre ne lo ingannare l’innocente figliolo. Leggerailo adunque con la solita prodenzia, per il che me persuado che, tale abominazione per la mente revolgendote, niuna loro strana sceleragine da te per lo inanzi ascoltata per impossibile la iudicarai, sì como ne lo sequente trascorso da isdegno e confusione serai compagnato. Vale.

 

narrazione

 

          Tornando in quisti dì da Palermo un nobile citadino digno de fede, a me e più altri per verissimo racontò, che nel prossimo passato anno de naturale corso fu la vita de un gentiluomo panormitano termenata, del quale essendo uno suo figliolo remasto, chiamato Pino, de circa ventitré anni, ricchissimo, bello, accostumato quanto una doncella; de che la matre, ancora che assai giovene fusse remasta, con multa dota e bella a maraveglia, per lo grandissimo amore che gli portava, prepuose e disse de più non volerse remaritare, se dal figliolo era ben e con obedienza trattata. Il che da multi ne fo commendata, e al figliolo fu carissima tale diliberazione; e per non darli del contrario operare accagione, ossequioso, amorevole e obediente, quanto mai figliolo a matre, de continuo gli si demostrava; ove la matre, ultre modo contenta, ogne dì il suo amore verso lui facea maiore.

          Ed essendo in tale termeni la cosa, avvenne che costei, che considerava la vertù, l’onestà con le bellezze insiemi del figliolo, da fuocosa lussuria assalita e vinta, de lui sì sfrenatamente se innamoroe, per essere da isso carnalmente cognosciuta, che niuna vera ragione, che lei medesma in contrario se persuadeva, possendoce valere operare, de continuo col pensieri travagliava, como il suo nefando volere potesse ad effetto mandare. E tenendo per fermo che mai per voluntà de lo figliolo gli serìa reuscito tale disigno, gli occorse sotto artato inganno pigliarlo tra’ suoi venenosi lazzi; e avendo per cauta via sentito che ’l figliolo, ancora che onestissimo fusse, era fieramente innamorato de una giovenetta sua vicina, figliola de una vidua de bascia sorte e assai povera ma grandissima amica, pensò per tale camino possere arrivare al suo ottato fine; e un dì chiamatasi la buona femena, gli disse:

          — Garita mia, essendo tu matre, facelmente pòi cognoscere quanto è l’amore che le matre deveno a’ loro figlioli portare, e massimamente a coloro che con le proprie vertù fanno il vertuosissimo naturale amore accrescere e augmentare, sì como il mio vertuosissimo figliolo, li meriti de li ornati e laudevoli costumi del quale me costrengono a più che la propria vita amarlo. Il quale, per quello che secretamente ho sentito, è de tua figliola sì forte invaghito, ch’io temo che la onestà de quella col suo soverchio amore insiemi nol recheno a partito, che un dì nol venga a perdere; e d’altro canto, essendo tu tanto mia cordialissima amica, e cognoscendote de continuo avere conservato il tuo onore e buona fama, io non ardirei in manera alcuna chiederete de cosa che in disonore te potesse retornare; anzi, per conservazione de quello, sentendote bisognosa, voglio porre non sulo ogne mio pensiero, ma anco de le mie facultà farte parte; tale che tu cognoscerai non essere altramente che propria matre da me trattata. Nondemeno, a me è occorso un pensiero, per lo quale ad una ora aremo al mio caro figliolo satisfatto, e a lo onore de tua figliola e tuo né multo né poco offeso: il modo è, ch’io vorrei che con acconcia manera intrassi in trame con mio figliolo de volerli per precio concederli la virginità de tua figliola; e quando fussivo in sul partito, io medesma venerìa a casa tua con la mia fante, quale, como tu sai, pare con tua figliola e de età e de bellezza assai conforme, e al buio la poneremo in una camera, che in letto receva il mio Pino, e a lui serà tanto quanto avere avuto tua propria figliola. E de ciò non dubitare che mai se sappia, atteso che lui d’essere secreto e onesto avanza ogne altro giovene de questa cità; ma posto che per altro possibile accidente se venesse a sentire, io te prometto de subito palesare come de vero il fatto è passato. E cossì io non portarò periculo de perdere per soverchio amore il mio figliolo, e tu averai guadagnata la dota de la giovene, quale da ora voglio consignare in tuo potere, e non maculata in cosa alcuna la sua intiera fama; e teneremo in tale pastura Pino, fine a tanto che a la giovene troverimo un bel marito, o lui toglierà muglie, e allora, manifestatogli l’inganno, tutti insiemi ne farimo mirabel festa.

          La Garita, dando indubitata fede a le parole de la donna con tante simolate ragione posteli davanti, e ultre ciò, cognoscendo la utilità non piccola gli sequea senza contaminarse la vertù de la figliola, e pur da la estrema povertà in ciò faorita, e dal piacere de la cara amica confortata, se diliberò del tutto volerla de tale disiderio satisfare, e con lieto vulto gli respuose con le condizione anteditte mandarlo ad effetto. E da lei partita, il sequente dì videndo Pino che onestamente se andava trastullando per vedere la figliola, con grandi arte intrò con lui in parole, e dopo più varii e diversi ragionamenti avendoli tratto de bocca la sua occulta e fiera passione, venne a contrattamento, e remasero d’accordo che Pino gli donasse duocento ducati per la dota de sua figliola, e lui cogliesse il primo fiore de la sua virginità; e per non tenere il fatto in longhe trame, per la doppia utilità ne consequea, a non partire conclusero de la prossima venente notte essere l’amorosa battaglia del tutto consumata; e con discreto ordene, como e quale avesse devuto a sua casa condurse, se parterno. E la Garita a la donna lietamente andata, gli disse quanto per servirla avea col figliolo concluso e ordenato; il che la donna, contenta a maraveglia, l’abbracciò e basciò cento volte, e refermato tra loro il modo che aveano a tenere per compimento de l’opera, per farla partire contenta gli impìo la mano de moneta; de che Garita con gran piacere se ne retornò a casa sua. E venuta la ora tra loro ordenata, la donna e la fante se ne andorno per occulta via in casa de Garita, la quale in una camera per ciò acconcia le condusse e lasciò.

          La donna, fatta la fante in un’altra camera occultare, e lei a letto postase, il proprio figliolo a l’amorosa battaglia con sfrenato disiderio aspettava. Ah crodele ribalda! ah lussuriosissima porca! ah inumana e rapacissima fiera! Quale altro diabolico femineo spirito, qual’altra pazza temeraria, si non costei, avesse, non che fatto, ma puro presumito de pensare tanto e tale detestando ed enormissimo incesto? Ah! divina iusticia, non aspettare che da mondani ministri sia ponito sì fiero ed esacrabile eccesso: quando la malvagia femena de fare se appresta, mandale subito il tuo più che iusto furore adosso, e fa che la terra viva la trangottisca! Pino, quando ora gli parve, senza sospetto alcuno in casa de la Garita intrato, e da lei benignamente recevuto, a modo de cieco al buio ne la camera per ciò ordenata il condusse; il quale, tenendo per firmo trovare la giovene da lui amata, che nel letto sentea dimorare, dispogliatosi e postoglise da lato, incomenciò dolcemente a basciare; e volendo procedere più ultra, lei con grandissima arte debolemente gli contradicea; e mostrandose de farse sforzare, gli fe’ credere che dadovero lui avesse la virginità rapita a colei che la sua se avea devorata, però che con maestrevole polveri, fomigii e lavacri avea la battuta strata in manera reserrata, che non che il garzonastro, ma pochi ne l’arte dotti l’avrebbono per usitata cognosciuta. Il giovene ancora che in sì fatte notturne battaglie mai esercitato si fusse, se pò presumere che credendose non il suo ma l’altrui terreno coltivare, che, da tale piacere vinto, non gli fu concesso un sulo punto indarno dimorare. Venuta adunque l’alba, la Garita, como preposto avea, con colorata accagione de requeto cavò Pino de casa; e da l’altra parte la donna e la fante per occulta via anco se ne uscerono.

          E per non fare che questa volta fusse ultima e prima insiemi, quasi ogne notte con nove arte se continuava tale camino, senza già mai la Garita accorgesse che altro che fante da colui fusse cognosciuta. E de tale amoroso ioco essendo ciascuno ma per diversi respetti, contento, avvenne che la rea femena se ingravidò; de che ne fo ultre modo dolente, e tenuti de infiniti modi de non fare venire il parto a compimento, e niuno valendone, e cognoscendo il fatto esser venuto a termene che per lei occultare al figliolo non si possea, quanto e quale fusse la sua misera vita, li travagliosi pinsieri e inquiete de animo con dolore insiemi, soverchio serìa il racontare. Nondemeno, aitata da la sua grande temerità, e presumendo tanto de sé e del suo ben dire, che averìa indutto il figliolo a voluntariamente fare quello che con tanto inganno avea già fatto, prepuose del tutto lei medesma palesarglilo; e un dì in camera chiamatolo secreto, in tale modo gli cominciò piano a dire:

          — Caro figliolo, como tu a te medesmo pòi rendere testimonio, se mai matre amò unicamente suo figliolo, io sono stata quella, che ho amato e amo te assai più che la propria vita; e questo è stato de tale natura, e have avuta tanta forza, che ha reparato a me, che giovene e ricca sono, de non remaritarme, e de non fare la mia persona con la tua facultà insiemi a strane mano pervenire. E ancora che, como a femena, da naturale libidine sia stata stimolata, non ho voluto occultamente, como multe fanno, a quello providere, sulo per lo conservare de tuo e mio onore; e ultre ciò, sentendo tu essere fieramente priso de l’amore de questa giovenetta nostra vicina, e la matre disposta de prima morire che lo onore de la figliola maculare, e io sapendo a quante infelicità e miserie soglino tali disperazione gli amanti condurre, como a matre tenerissima de la vita tua, diliberai con una medesma operazione a tutt’i supraditti mancamenti satisfare, e sulo offendendo a le umane lege, da’ passati ministri più con arte e suprastizione che con ragione fabricate, volere la tua e mia fiorita gioventù occultamente godere; e quella giovene, con la quale ne la camera de la nostra Garita hai avuto tanto piacere, sono stata io, ed è in manera tale andata la cosa, che io ne son gravida.

          E volendo procedere a più caldi ragionamenti, per continuare il suo scelerato appetito, il vertuoso figliolo da la abominazione del fatto isdignato e turbato ultra misura, parve che ’l cielo gli cascasse in testa e ’l terreno gli fusse da’ piedi rapito, e da ira e dolore mai semele gostato vinto, fu vicino a passarle un cortello per mezzo ’l core; ma pur alquanto frenatosi, per non volere essere voluntario matricida e de la non colpevole prole dentro la infetta carcere serrata uccisore, diliberò lassare tale vindetta a cui fare la dovea, e con quelle orrende e vituperabile parole che a tanta iusta roina gli fuorono lassate dire, mordendo e lacerando la iniquissima matre, da lei se partì. E subito radunati suoi dinari e gioie, e altri suoi fatti rasettati il meno male che possette, aspettate le galee che quivi per Fiandra toccare doveano, quale fra brevi dì venute, in esse se imbarcò. La novella con la sua orribilità se cominciò a spargere per la cità; de che a le orecchie del potestà pervenuta, fe’ la malvagia femena pigliare, quale, senza multi tormenti recevere, confessato il fatto integramente como era sequito, la fe’ in uno monasterio de donne, fin che parturiva, cautamente guardare; e al debito termene venuta, parturito un figlio masculo, fu in su la piazza, como gli se convenne, con gran vituperio brusciata.

 

MASUCCIO

 

          Se per alcun tempo tra’ letturi o ascoltanti de la racontata novella vi fusse alcuno, al quale paresse strano o tenesse per impossibele, ove io ho ditto che la rotta strata per le continue piogge la rea femena l’avesse al figliolo con arte per non usitata fatta cognoscere, sappia de certo che lui se abbecca il cervello; però che quando le venenose fere da tale necessità sono astrette, vi sanno usare e usano de infiniti modi, e con lavatorii, e con fomigii, e con tante e tali composizione de diverse pulvere, che non che tali loro rabiose labie, ma la gola d’un gran leone ottorarebbono. Ma producendo in ciò un approbato testimonio, dico: “O vidua artista maistra de scola, io te prego che me non lassi mentire, se nol merito: andasti mai con l’ampolletta appiccata a lato con la sanguesuca dentro ne le camere de le novelle spose, per averla ammanita al bisogno? Tu me intendi multo bene, ministra del gran diavolo! Te scongiuro, se non in publico, almeno con teco medesma confessa che, ancora ch’io dica e scriva male, posso dire e dico la verità”. Ma perché me vado rompendo la fantasia a scrivere le loro infinite miserie, tradimenti e gattività? Egli serebbe più facile a nomerare le stelle del cielo. Cui avesse mai creduta o iudicata per altro che spirituale e vertuosa la nominata vidua, quale essendo remasta giovene, bella e ricca, e mostrare de avere dispregiata ogne mondana sensualità, e non volerse remaritare per amore che al figliolo portava, cui avesse possuto cognoscere quanta pravità era ascosta sotto tale dolosa apparenza? Ma perché lei ne ebbe digno merito per tanto lavore, lassando d’essa il ragionare, dico: Quante sono de le altre sputabalsamo, che con simili e maiori demostrazione ingannarebbono un altro Salamone? E tra l’altre de colloro che fengono esserne date tutte al spirito, e le loro conversazione sono continuo con li religiosi, li loro ragionamenti non sono si non de la beatitudine de vita eterna, e con più altri modi pieni de ipocrisia e suprastizione, da vinirne fastidio a Dio e agli uomini, ingannano ciascuno che a loro falsità crede. Non dico nulla, quando vanno per la strata con li passi gravi e pontati, e con tanta onesta guardatura, e supra tanto contegno, che pare a loro puzza il terreno; e con le già ditte ceremonie son reputate dagli sciocchi modeste e piene de santimonie, e con questo dannano la prontezza de le altre, attestando in loro faore quello proverbio che si dice: “Amo donna pronta, ma non de casa mia”.

          A la quale autorità io con facilità respondo con distinzione che è ben vero che le donne, in ciò che stato che sono, non deveno usare prontitudine dove non èi de bisogno né con cui non è necessario, per non incorrere, ultra a periculo del fatto, eterna infamia; ma parlare publicamente e con buona audacia de cosa, che la necessità il requede, o casualmente accadendo, niuno mancamento o dispregio serà a la loro fama e onore, e massime a coloro che hanno con la integrità de loro vertù la mente netta, che non ponno né pensare né temere che, parlando con alcuno uomo, per digna, bella e giovene che sia, possa la sua integrità ledere o maculare; per ciò che raro o non mai de publica prattica ne sequio occulto male, ma de secreti ragionamenti e de remote conversazione de continuo ne nascono manifesti scandali. Guardamene Dio de coloro che non parlano, o per non saperono, o per fare de l’ipocrito, che con diece brocche de mèle non gli se apererìa la bocca; e se niuno le saluta o fa de baretta, o non respondeno, o, se apreno la bocca, pare che la vogliano fare disdignosa. E se qualche valeroso giovene e de vertù ornato ne vaghiggiasse alcuna de queste santisse, se lassarebbe prima morire, che mai venesse a conclusione de satisfarlo; né però meno lo dispera de la gracia sua, ma il tiene in pastura, e con li tempi lo pasce de vana speranza; e de ciò la causa è che quello tale sia preconizzatore e araldo de sua onestà, e che l’altri dintorno, che ciò sanno, siano a la fama de quella approbatissimi testimonii de non fare credere a niuno che lei possa pensare de commettere alcuno errore; e con questo ne deventa maistra de sentenzie, che pare che niuno li possa o vaglia vivere dinanzi. E d’altra parte, essendo in casa, se haveno alcuno parente che gli piaccia, e massimamente de coloro che de prime lanugine le guance comenciano a fiorire, teneno tanti modi e arti, che gli fanno scavizzare il collo a confirmare il parentato. Io lasso stare degli sacerdoti servituri de casa, che se fanno compari, e dopo tradiscono Idio, e fanno a le loro libidinose voglie mezzano san Ioanni. E se ciò loro fusse interditto, se bottano a quello che possono, e assalite da loro innata rabia, vedeno se in casa è alcuno ragazzonazzo forte da lavorare, sel tirano con grande lascività adosso, e como il conciano, Dio tel dica per me; e, si non quello, puro il moletteri o pur il nero etiopio non manca. E cui credesse ch’io non dica il vero, spècchiase ne l’approbatissimo processo de la venente novella, ché le venerà voglia de, una insiemi con meco, dire che avesse piaciuto a Dio o la natura che le querce ne avessero parturiti, o vero produtti de acqua e luto, como se causano le ranocchie con le vaporose piogge de state, più presto che nascere de sì vile, putrido e imperfettissimo sesso. E io lassandole con la loro mala ventura, con gran piacere sequerò il mio novellare.

 

NOVELLA XXIV

 

argomento

 

          Un giovene ama una donna e da lei non è amato; occultasigli in casa; uno moro nero cognosce carnalmente la donna dove l’amante era occultato; descuoprese, e con multe iniurie remorde la malignità de la donna, e l’amore in odio se converte.

 

A LO ECCELLENTE CONTE DE ALTAVILLA.

 

ESORDIO

 

          Per non volgere la mia penna con nero colore [contra colloro] che non me ne hanno data accagione, volendo a te, eccellente signore, la presente novella intitulare, ho diliberato in essa non sulo gli nomi cossì de la donna como de l’uomo tacere, ma anco la cità, ove il fatto intervenne, de nominarla me restare; per la quale intenderai uno strano e durissimo caso travenuto ad uno infelicissimo amante, condutto a termene che gli convenne in pronto pigliar partito de quello che ad ogne alto intelletto con longhi pensieri difficultuoso stato serebbe. Supplicote dunque, quando nel leggere de tale accidente serai calente, se d’amorose fiamme fusti per alcun tempo rescaldato, doni, iusto al tuo piacere, iudicio, quello che ’l misero amante fare debbe, e se, de quello che se ne seque, debbe essere comendato. Vale.

 

narrazione

 

          In una famosa cità de Italia non è gran tempo che fu uno giovene de autorità non piccola, formoso de viso e de corpo, costumato e de ogne vertù pieno, al quale, quello che a’ giovani sòle spesso, intervenne: ciò che è, lui se innamorò de una ligiadra e bella donna, muglie de uno de’ primi cavalieri de la cità. Del quale la donna accorgendose, e vedendolo ogne dì andar travagliando per possergli in gracia intrare, se diliberò, como è già de loro innato costume, de a la prima scontrata con tutti suoi ingegni e arti d’avvolupparlo tra la sua ingannevole rete. E ciò con gran facilità fatto, cognobbe lui essere in manera priso, che retrarse non se arìa possuto de legiero indreto; e per non farlo stare del suo amore multo tempo contente, fra brevissimi dì lo cominciò da passo in passo a disfaorire, e de continuo gli demostrava avere a niente e lui e tutte sue operazione. De che il poveretto amante pessimo contento, con insupportabile noia ciò tollerava; e vedendo che ’l giostrare, e largo spendere, e altre notivole cose, che per respetto de lei de continuo facea, nulla gli giovavano, anzi gli parea che de novo isdigno gli fussero accagione, più volte fe’ prova remanerse da la cominciata impresa, per volere, se possea, in altre parte li suoi pensieri dirizzare. E supra de ciò con ogne studio attendendo, como la donna il vedea del suo fervore alquanto intepedire, con nova manera de inganno alcuna buona gracia demostrandole, il facea al pristino trastullo retornare; e quando lo cognoscea a suo modo adescato, con contrarii venti navigando, il reducea al solito suo misero stato; e ciò con grande arte da maistra adoperava, sì per gloriarse essere tra ’l numero de le oneste e belle, per avere tenuto in tempo un sì fatto amante, e sì che collui fusse testimonio de sua simolata vertù, de non fare credere de lei niuna sceleranza, in tanto in publico fusse venuta.

          Stando dunque l’infelice giovene in tanto reo e malvagio tormento più e più anni, senza essergli una sula volta concessa resposta de vera speranza, se diliberò, se morte ne dovesse recevere, intrare de requeto in casa de la donna, e, secundo la fortuna gli concedea, adoperare. E cattato il tempo che ’l cavaliero, marito de la donna, era andato per suoi bisogni per alcuni dì fuora la cità, una sera al tardi per cauta via gli intrò in casa, e occultatose in uno magazzeno, che nel cortile era per respetto e reposto de biada adoperato, dietro a certe bótte vacue se puose a stare tutta la notte, con speranza che, la donna la matina andando a la chiesa, a lui venesse fatto de posserle in camera intrare, e asconderse sotto il suo letto, per postea la notte provare sua ultima ventura. E como volse la sua sorte, che sempre da male in peggio l’avea persecutato, che la donna per supravenutale necessità quella matina non si partì de casa; de che lui, che infino a nona avea indarno aspettato con la solita pena e pacienzia, prepuose ivi infimo a l’altra matina dimorare, e pasciutose de alcune confezione, che seco per tal respetto avea portate, con assai rincrescimento e poca speranza queto a ditto luoco se stava. Ed essendo omai la maiore parte del dì passata, sentì venire uno moro nero, molettèri de casa, con due some de ligne; quale discarcate dentro ’l cortile, la donna al rumore de quelle se fe’ ad una fenestra, e con acerbette parole cominciò a mordere il moro, che avea multo dimorato e poche e triste ligne recate. Il moro, poco o niente respondendo, attendeva adagiare li muli e rasettare l’imbasti; e intrando in quello luoco, dove il giovene stava ascosto, per pigliare la biada, ecco venire la donna, e intrare appresso a lo moro, e con le solite parole muttiggiandolo, gli cominciò lievemente a giucare de mano; e da una cosa in un’altra procedendo, il miserrimo amante, che mirando stava, e per sua unica sorte averìa disiderato essere peggio che moro, pur che gli fusse stato concesso quello ch’al moro senza alcuna sua industria era conceduto, vide la donna serrare la porta, e senza altro contrasto sentarse supra l’imbasti de’ muli, e tirarse l’orribilissimo moro addosso, il quale, non aspettando altri inviti, posto mano a’ ferri, la cominciò a la canina a martellare.

          Deh! vaghi gioveni, deh! liali e perfettissimi amante, che ad ogne ora ponìti lo onore e le facultà con la vita insiemi in periglio per lo infido e fetido femineo sesso, fativi a questo ponto avanti, e ognuno, a sé pensando, done, iusto il suo potere, iudicio, quello che ’l disaventurato giovene a tal partito estremo adoperare dovesse, ché certo, secundo ch’è il mio bascio vedere, ogne taglio intorno tale fatto era scarsissimo. Pur per fornire la istoria, dirò de vero quello che ’l poveretto amante, da subito conseglio mosso, già fece. Lui como è ditto, ciò vedendo, e non possendolo per alcun modo patere, essendo il suo ferventissimo amore in fiero odio convertito, uscì d’aguato con la spata ignuda in mano, con fellone animo de volere con un medesmo colpo tutti dui de vita privare; puro, tra quello breve spacio d’alcuna ragione raffrenatose pensò che villanamente averìa adoperato a contaminare la sua spata con la morte d’un mastino e de una sì vile ribalda, como vedea essere colei, che vertuosissima infino allora avea reputata; e ionto a loro, con uno spaventivole grido disse:

          — Ahi misera e infelice la vita mia! A quanta orribilità e mostruosa operazione vedere me have la mia prava fortuna arrecato!

          E al moro revolto, e’ disse:

          — A te, fiero cane, non so altro che dire me debbia, si non, comendando il tuo providimento, te restare obligato in eterno, per lo averme liberato da le mano de questa fiera silvana, devoratrice de ogne mia contentezza e bene.

          La donna, veduto l’amante, como remanesse ismorta, e quali fussero stati i suoi pinsieri, ciascuno da se medesmo il può iudicare: essa, che la morte con assai meno noia averìa, e con ragione, tollerata, per rabia e per dolore grandissimo fra quello mezzo gli si era a li piedi bottata, non dimandandoli mercè, ma supplicando che la meritata morte senz’altro intervallo donare gli dovesse.

          De che lui, che la resposta avea già apprestata, gli disse:

          — O scelerata e libidinosissima lupa, o vituperio ed eterna infamia del resto de le femene, da quale fuoco, da quale foia te si’ lassata vencere a sottoponere ad uno nero veltro, ad uno irrazionale animale, o, per più propriamente parlare, ad uno mostro terreno, como è questo mordace cane, al quale hai dato in pasto la tua infetta e putrida carne? E se dignamente te parea adoperare, de distraciarme tanti e tanti anni per custui, non devisti avere almeno riguardo a la dignità tua, a lo onore del mundo, a lo amore che porta a te tuo marito e a quello che tu meritamente [a lui] portare devivi, quale senza dubio me pare il più ligiadro, vertuoso e acconzo cavaliero che ne la nostra patria sia? Certo non so altro che dire me sappia, se non che le più de vui, sfrenata multitudine de femene, in quelle cose che a lussuria appertengono, né da timore né da vergogna né da coscienza sèti raffrenate a fare distinzione alcuna dal signore al servo, dal nobile al villano, e dal bello al brutto, puro che secundo il vostro imperfetto iudicio se possa o sappia meglio nel battere de lana esercitare. La morte, che con tanta istanzia a darte me inviti, non me pare necessario che tu, avendola, la debbi con tanto disiderio adimandare, e però che, essendo sì denigrato, diffamato e oscurato il nome tuo, assai peio che morta te poterai per lo inanzi meritamente tenere e iudicare; anzi voglio che vivi al mundo, per rendere a te medesma testimonio de la tua nefandissima sceleragine, e che quante volte tu me viderai, remembrandote de tua miseria e preterita vita, tante morte de novo recurrerai. Ora remànete con la tua mala ventura, ché gli è tanta la canina puzza, che da tua contaminata carne esce, che quivi dimorare non posso.

          Ed essendo omai l’ora tarda, senza essere d’alcuno viduto, se ne uscì fuora, e retornossi a casa sua; e la donna, che ad una sola parola non avea resposto, dolente, lacrimevole e trista in camera se ne tornò. Il iovene, lassata la sua insigna, che iostrando e armiggiando portare solea, fe’ un nero e fiero veltro, che tra’ piedi e’ denti tenea devorando una ignuda e bellissima donna; quale da lei vista, ogne volta se sentea passare uno freddo cortello per mezzo il core; e cossì la malvagia femena, da tale castigo de continuo vessata, era ogne dì morsa e lacerata.

 

MASUCCIO

 

          Da la enormità del racontato caso me se muove un dubio, cui se deve più o l’amante comendare, che fe’ quello che a nobile spirto s’appertenea de fare, o la ribalda femena sia da biasimare, atteso che semelmente adoperò quello che quasi tutte assai peggio adoperano, quando la comodità loro non è interditta; però che indubitato potemo tenere che rare sono de quelle che, avendo il destro, non vadano in curso a la robba de ogne uomo, sì como ogne dì se ne vede aperto testimonio, e como anco la venente novella in su tale credere ne confirmarà, ne la quale essendo la iovene, che de scrivere intendo, unica al patre, cossì volse essere unica ne lo eleggere il peggio de quanti amanti la vaghiggiavano.

 

NOVELLA XXV

 

argomento

 

          Una iovenetta è amata da multi, e, ucellandoli, tutti li tiene in pastura; uno più che l’altri seque la pista; uno sclavo da la iovene la cognosce carnalmente, e al fervente amante il fa vedere; la iovene per dolore ne more, e l’amante compera lo sclavo e ponelo in libertà.

 

A LO ILLUSTRE SIGNORE MESSER

IULIO DE ACQUAVIVA DUCA D’ATRI.

 

ESORDIO

 

          Per averete tante volte cognosciuto, illustro e vertuoso signore, pigliare piacere non piccolo de mei rude novelle, e quelle con tante lode commendare, non ho voluto restare de tali frutti, che te delettano, fartene alcuna parte. E avendo gli mei teli a versaglio de donne in questa parte dirizzati, me è piaciuto una de esse a vero cognoscitore de tale perversa generazione intitulare; a tale che, con le altre sceleragine de loro sentite accompagnandola, possi, e meritamente, la mia iusta querela, dove bisogna, pigliare, e la mia obligazione ogne dì verso de te se farà maiore.

 

narrazione

 

          Per quello che da un mercante ho già inteso, non è già gran tempo che in Ancona fu un ricchissimo mercante multo cognosciuto per Italia, il quale avendo una figliola, per nome ditta Ieronima, assai iovene e bella ma vana ultra mesura, costei, che fuori de modo se gloriava de sua bellezza, se persuadea che quanti amanti ogne dì de novo acquistasse, tanto maiore pregio accrescesse la fama de sue bellezze; per la cui accagione non sulo l’acquistati se conservava, ma de pigliare de altri con nove arti erano tutt’i suoi pinsieri, e senza venire con niuno a gustare l’ultimi frutti, cui pascea de vento e cui de foglie e fiori, e immai da lei niuno vacuo d’alcuna speranza se partea. E con seco medesma gloriandose de tale ioco de bagattelle, avvenne che uno nobilissimo iovene, de ogne vertù e ligiadria repieno, con assai più passione de li altri sequè la impresa de questa nova artista, e tanto fuori il pelago d’amore si era lassato trascorrere, che, ancora che difformità e dispario fusse tra loro condicione, se l’averebbe prisa per muglie, se non che lui, essendo povero, estimava che altri lo averebbono possuto biasemare, che per vilità de animo o per vaghezza de robba avesse venduta la sua antiqua nobilitate. Nondemeno lui era continuo dal patre de la iovene con grandi e avantaggiati partiti de tale parentela molestato; il quale, ancora che niuno ne accettasse, puro con grande arte tenea il fatto in tempo, per vedere se gli potesse in tale trame il suo pensiero reuscire.

          E ingegnandose de avere alcuna prattica con alcuno de casa de la iovene, non possendo con altro suo domestico, la pigliò con uno moro nero del patre, chiamato Alfonso, iovene e, como a nero, assai de buono aspetto, quale con una gran catena serveva a portare in spalla per prezzo a ciascuno che del suo servicio bisognava; e più volte, con colorata accagione del suo mistieri, a casa lo conducea, fandoli de multe carizze, e dandogli ben da mangiare e alcuno dinaro da godere, e in manera tale adescandolo, che Alfonso era deventato assai più suo che del patrone. Il che parendo al iovene possere pigliare de colui ogne secortà, gli comenciò a dire che a la sua madonna il recomandasse; e, in quello continuando, gli disse un dì:

          — Alfonso mio, io non son costritto ad avere invidia d’altro che de te, per averte la fortuna concieso, ad ogne tuo piacere, e vedere e parlare a la tua madonna.

          E con semele e altre assai appassionate parole l’andava de continuo tentando, per indurlo a servirlo del suo disiderio. De che il moro, che alquanto prodente era, e già in casa avea sentito ragionare de la parentela che ’l suo patrone con tale giovene cercava de fare, parendoli un gran mancamento che un tanto vertuoso e costumato gentiluomo sotto nome de matrimonio fusse in tale ingannevole rete avviluppato, un dì col suo male limato idiome gli disse che de tale amore del tutto se restasse, però che Ieronima era malissima femena, e che lui, più forzato che voluntario, l’avea infinite volte carnalmente cognosciuta.

          Quando il poveretto amante senté tale enormissima novella, gli parve che in quello punto gli dovesse l’anima dal corpo uscire; pure in sé tornando, e con più stritte particularità esaminandolo, ad ogne ora trovava la cosa da tenerla per indubitata, e tanto più che ’l moro gli offereva fareglila e vedere e con mano toccare. Il che al iovene fo carissima tale offerta, e per dare a ciò intiero effetto, senza menare più il fatto in longo, de secreto spacciatamente se fe’ fare una catena a quella del moro simigliante, con certo ingegno de posserla togliere e ponere a suo modo como tra loro ordenato aveano; e quella sera che lui andare dovea a vedere tale mostruosa operazione, se fe’ ad un pintore suo amico tutto al negro depintare, e tolti certi strazze del moro, e in manera e de catene e d’ogne altra cosa oportuna trasformatosi, che non per altro che per vero bastasio sarebbe stato iudicato, e da Alfonso, como notte fo, non sulo in casa del mercante fu condotto, ma ne lo suo vile e fetido letto posto a giacere; e degli soliti gesti de la scelerata iovene pianamente informatolo, se nde andò a la stalla a dormire. E non avendo il iovene multo spacio aspettato, che sentì chetamente aprire l’uschio dove lui era; quale aperto, vide e cognobbe la da lui supra ogne altra cosa amata Ieronima, con un piccolo lume tra le mano, andare guatando in ogne lato se altro fusse per aventura lì recapitato; e videndo che persona non v’era, secundo il suo credere, altro che ’l suo Alfonso, se accostò a lo letto, e vedendo colui che era nero, né sospettando d’altra cosa, ammortato il lume, gli si corcò da lato e lei medesma, como già usata era, cominciò a svigliare l’adormita bestia. Il misero amante, videndosi a sì fatti termeni, che gli dolea insino a lo core usare quello che unicamente avea disiderato, e cognoscendo che l’angosa de la mente gli avea sì le corporale forze indebilite, che con difficultà grandissima l’aspettato fine averìa possuto ad effetto mandare, fu più volte vicino de palesarse, e con infinite iniurie tale sua inaudita sceleragine [remordere]; dopo, più tritamente pensando, estimò che niuna satisfazione gli sarebbe stata a non dare a tal fatto con opera compimento, e poscia lassarla schernita, dolente e trista, e diliberò del tutto forzare la sua dal dolore e sdegno infreddata natura, e con tale nova manera de castigo vindicare non sulo sé, ma quanti da lei erano per aretro stati ucellati e beffati; e cossì con difficultà non piccola, ancora che più volte avesse la lancia perduta, formò la prima e ultima carrera.

          Quale fornita, senza suo fiero sdegno essere scemato, in tale modo li cominciò a dire:

          — Deh! pazza, insensata, ribalda, temeraria e presuntuosa bestia, ove sono le tue tante apparicchiate bellezze? ove sono gli tuoi contegni, credendote essere supra ogne altra bella, e con la ricchezza insiemi insuperbita, che te parea con la cresta toccar il cielo? ove sono le infestante caterve degli tuoi amanti, quali ogne dì schernendo pascivi de folle speranze? ove è la tua matta presunzione, con la quale cercavi d’averme per isposo? quali carne me volivi dare a godere, quelle che avevi date per conveniente pasto al nero corbacchione, al fetido bastasio, al fiero mastino, tra sì vile strazze avvolto e de catene carico? Certo, como tu pòi savere, io ho de continuo apposte tutte mei arte in adobarme e con diverse vestimente e suavi odori ornarme, sulo per farmete vedere in manera che te avesse piaciuto; e niuna essendo a ciò bastevole, ebbi recurso a questo servile e vilissimo abito, nel quale me hai visto e, per rassecurartene, con lume primo guatato, avendo de novo e per vero saputo che tanto te piacea; con lo quale, como tu medesma hai cognosciuto, con gran fatica ho lavorato sopra lo etiopio terreno. Io non dubito che tu me hai a la favella cognosciuto essere colui che tanti anni hai beffato, e con losenghevole apparenza nutrito de vento. Doleme che tu, sotto tale servitoro ingannandote, pòi dir hai in centomilia duppii avantaggiata la tua condizione, ancora che per la tua ultima sorte ascrivere lo possi, atteso che me lassarei prima squartare, che per lo innanzi de’ mei congiongimenti te facesse digna. Né meno credere che più te sia concesso col tuo caro moro la tua foiosa rabia sfocare: po’ che lui have sciolto me da li tuoi ingannevole ligami, per recompensa de tanto da lui recevuto beneficio lo farò libero dal debito servigio de tuo patre. E che tu presumesse de più ucellare e tener in pastura tanti valerusi ioveni, quanti per lo passato hai fatto, o che pur de novi ne volisse beffare, vidi che ’l pensiero te è fallito, perché questa tua tale abominevole sceleragine la farò venire prestissimo in publica voce e fama de tutta la nostra cità, e con tuo eterno vituperio te farò devenire favola del vulgo. Io non me vederìa mai sacio de increparte de questa sì vile e sceleste da te usata ribaldaria, ma egli puzzano sì forte questi panni ch’io porto adosso e che son in questo letto, quali a te sono stati insino a qui sì cordiali, odorivoli e suavi, che me costrengono a fuggirme via; e però tòiti presto da qui, e chiama il tuo digno amante, che ne le stalla dimora; e occulta[mente famme uscire] da questa tenebrosa carcere, ché più dimorarevi non posso.

          L’afflitta e miserissima Ieronima, che a la prima parola lo avea ottimamente cognosciuto, se avesse auto un cortello, si averebbe voluntarie de vita privata; pur, mentre che colui avea parlato, lei, senza respondere ad una sula parola, non era mai remasta de amaramente piangere. A la fine, per fare il suo volere, dal letto toltase e chietamente chiamato il moro, e como il iovene volse, tutti lui puose fuora de casa; e serrato l’uschio, dolente a morte, e con tante lacrime che una fonte ne averìa remasta vòta, a la sua camera se ne retornò, ove con colorate accagione de continuo dimorando, o che dolore o veneno lo avesse causato, in breve dì morì. Il nobile iovene, avendo il fatto divulgato, e del castigo e de la morte avuto mirabile piacere, recomparato il moro e posto in libertà, lui anco libero e sciolto d’amore, gran tempo con felicità visse, godendo la sua fiorita gioventù.

 

MASUCCIO

 

          Cui dunque serà omai incredolo ascoltando quale si voglia coronata ribaldaria de femene, le racontate per la mente revolgendose, che non gli parrà con gli occhi averla veduta? Io, da la vergogna de me medesmo raffrenato, che pur como gli altri da femena sono uscito, me remango de dire quando loro, assalite da la gran foia e sfrenata rabia, per meno errare, secundo il loro credere, adoperano lo salvo7onore. Se tu che leggi me intendi, non te bisogna ghiosa, e, se ne dubiti, trova un altro che dechiara tali occulti termini; però ch’io, con questo, ancora me resto de scrivere de multe altre, più da focosa lussuria acecate, quale, temendo de esserne palesate, o per non avvilirenosi a uomini de bascia sorte, se sottopongono agli animali bruti, sì como per verissimo ho sentito e con più esperienzie toccato con mano; e tale nefando operare le più de le volte è mandato ad effetto da coloro che sono, o se tengono, più che l’altre savie. Da le cui ragione [fu] mossa una sagace donna, che appresso racontare intendo, quale, essendo a l’improvista fieramente prisa de uno ligiadro giovene, seppe tanto se medesma raffrenare, che, ancora suo disiderio satisfacesse, mai al iovene fo concesso cognoscerla; de che se l’altre da costei togliessero esempio, poche ne sarebbono dagli uomini vintilate.

 

NOVELLA XXVI

 

argomento

 

          Una donna, de un ligiadro giovene innamorata, per un suo privato travestito sel fa velato in camera condurre; gode con lui una notte; dàgli il modo como e quando ha da lei a retornare; il giovene se ne fida ad uno suo amico; la donna il sente e mai più remanda per lui.

 

A LA MAGNIFICA FRANCISCHELLA DE MORISCO.

 

ESORDIO

 

          Più volte ragionando teco, magnifica e colendissima mia commare, me ricordo averne trascorso che, quantunche rarissime femene se possano de prodenzia commendare, pensando con quanti mancamenti le have la natura produtte, pur se ne trovano alcune, quale, como a meno non prodenti de l’altre, non possendone a la libidine reparare, e per quello cercare con arte nova e cautela a loro disiderii satisfare, se posseno meno che l’altre biasmare, quale sulo con l’offendere le leggi, e non violentare la debile loro natura, occultamente saciano il loro appetito; sì como da la sequente novella seremo parimente in sul nostro credere confirmati, a ciò che, con l’ascoltate insiemi mescolandola, possi con teco medesma vero iudicio dar, se, ultra il peccato, la donna ne deve essere in parte alcuna commendata, o se al numero de le altre scelerate la possamo, e meritamente, accompagnare. Vale.

 

narrazione

 

          Nel tempo che ’l Pistolese trascorrendo per lo nostro regno tanti miraculi facea, ne la cità de Napoli il sottoscritto strano caso de vero intervenne. Il qual fu che un sabato da sera nel mese de marzo, che le brigate andavano a lo Carmine, una squatretta de ligiadre donne avendo, secundo loro credere, la perdonanza guadagnata, loro venne nel disio de retornarse a casa per fuori la cità; ed essendo a quella strata che va traverso a le Padule, se abbatterono in una brigata de gioveni, non meno de bellezza che de nobilità clari, che per loro piacevole esercicio iocavano a la palla del maglio. Ove accadde che una de le ditte donne, de gran bellezza e de senno maiore, posti gli occhi adosso ad uno de li ditti gioveni, che in iupparello de damasco verde stava, e in manera piaciutoli che tutta se sentea venir meno, pur con la prodenzia vinta in parte la sensualità, senza mostrarne alcuno signo, con l’altre insiemi, con grandissima passione del piaciuto giovene, a casa se ne retornò. E intorno a tale amore, como avesse possuto avere intiero effetto, cominciò multe e diverse vie a trascorrere; e quantunche amore avesse ottenuto il sommo luoco del suo core, pur non era tanto fora de sé uscita, che non cognoscesse che poche volte, volendo a l’amorosa passione satisfare, in tanto secreto sia la tela tramata, non se pò per longo spacio occulto tenere; però che non è niuno al mundo, che non abbia un perfetto amico, con lo quale se comunica tutti i suoi e buoni e rei avvenimenti, e quello tale ne averà un altro, a lo quale niuno suo né d’altrui secreto tenerà occultato; e cossì da uno in altro sono multo spesso le corte felicità degli amanti con longhe miserie termenate. E per quello se deve credere che lei pigliasse per ultimo partito, o tale amore con un mirabile e strano pensiero avere compimento, o remanersene del tutto, in tanto fusse dal disio vinta e a morte recata. E per dare al fatto con la celerità espedimento, avendo uno suo parente del quale fidare se possea, e a lui discoperta la sua passione, in breve parole gli ordenò a fare ciò che avea.

          Colui, che ossequioso gli era, andò spacciatamente, e vistitose d’un sacco de quei de’ disciplinanti de confratarie, e andò a cercare il giovene per cui era mandato, e trovandolo da’ compagni seperato, il tirò da parte, e, con un bucciolo de canna in bocca, gli disse:

          — Fratello, per tua grandissima comodità questa sera tra la prima e secunda ora me te fa trovare a San Iohanne Maiore.

          E tirò via al suo camino. Il giovene remase de tale requesta multo confuso, e supra de ciò diverse novità pensando, pur a la fine estimava tale cosa non essere meno che de gran importanza; e confidandose in lui, che giovene animoso e galiardo era, e ultra ciò non avea de cui sospettare che in tal luoco gli volesse offendere, diliberò del tutto, senza requedere alcuno amico suo, volere andare a provare la sua ventura. E quando ora gli parve, guarnito de buone arme, con animosità grandissima, al prepostato luoco se n’andò; ove gionto, se vide venire incontro il giovene privato de la donna; e, travestito in altra manera che de sacco, che da niuno sarebbe stato cognosciuto, gratamente il recevette, e piano parlando, a guisa che a la favella non iscorgesse cui era, gli disse:

          — Amico mio, a me pare che la tua benigna fortuna con grandissimo faore se te pare dinanzi per tua eterna comodità e presente e futura contentezza, se tu si’ savio a lietamente receverla. Il modo è che una donna, giovene, bella e ricca ultra modo, è sì forte de te invaghita, che tutta se ne strugge e consuma, e [ha] priso per ultimo partito, che tu sulo innanzi de ogne altro uomo te debbi de la [sua] persona con la facultà insiemi godere; nondemeno lei vole, per vedere alcuni dì de te esperienzia, como te saperai intorno a tale fatto con taciturnità governare, che tu venghi da essa con meco in manera velato, che tu non possi non sulo lei ma anco né la casa né la contrata, dove dimora, cognoscere; e se ciò far vorrai, intriamo adesso in camino. E se per aventura non te piacesse tanto bene a quanto gli fati senza alcuna tua industria te chiamano, te ne porrai retornare col nome de Dio, però ch’io ho ordenazione non in altra manera che ne la ragionata condurte.

          Il giovene, udendo lo effetto del parlare de colui, ancora che duro gli paresse e strano lo esser in tale manera e quasi a modo de becco al macello menato, pur fra se medesmo revolgendo che de periculi de persona da dubitare non era, atteso che colui ponea in sua libertà l’andare e lo stare, e ultra ciò estimando che non meno che gran profitto gli ne poterebbe sequire, senza più ultra pensarvi, diliberò prendere il partito, e gli respuose essere parato andare como dove e quale gli piacea. De che colui priso un velo ben profumato, e velatigli gli occhi, e calcategli la baretta, e prisolo per braccio, introrno in camino; e volgendolo da una strata ad una altra, e da più casi intrando e uscendo, quando tempo gli parve, il condusse in casa de la donna, e fattolo per diverse scale scendere e salire, a la fine postolo in camera, dove con gran disio era aspettato, e toltogli il velo dal volto, gli serrò adosso. Lui, aperti gli occhi, cognobbe essere in una camera oscura, che cosa alcuna raffigurare vi si possea, ma ciò che vi era, sentea de suavissimi odori; e in quisti termeni alquanto ammirato stando, se sentì da una donna lietamente in braccia recevere, e piano gli disse:

          — Ben venga il sulo presidio de la vita mia!

          E senza fargli altramente mutto, gli segnò che se dispogliasse, e lui fattolo volentieri, e lei anco spogliatase, in letto se ne introrno; e non avendone a tale congiunzione luoco de parole, adoperarno in manera li fatti, che a niuno de loro fu concesso un sulo punto in ocio dimorare. E appressandosi l’ora che a la donna parea doverlo da casa cavare, prise una bursa colma de fiorini d’oro, che per ciò ammanita se avea, e basciandolo tenerissimamente, con sommissa voce, in manera che cui fusse cognoscere non potesse, gli disse:

          — Anima mia dolci, togli questi pochi dinari, sulo per repararte a’ tuoi presenti bisogni, e de li futuri lassa il pensiero a colei che tu tieni in braccio; e fa che sei savio, e che la lingua tua, credendo offendere al mio onore, non danneggia tua eterna contentezza, però che, quando meno te pensi, te farò pascere gli occhi de non piccola suavità; e fra questo mezzo non te sia grieve al cominciato modo qui condurte, ché, qualora serò io concia per receverte, a l’usata manera manderò per te.

          E tornatolo a basciare, e da lui anco infinite volte basciata, il fe’ revestire, e chiamato il suo caro privato, e velatolo al modo usato, per più diverse strate il retornò unde la passata sera tolto lo avea; e quivi lasciatolo, se ne tornò a casa. Il giovene, toltose il velo, litissimo e maravegliato a casa sua se n’andò; e stando quasi per infrenitichire cui fusse la donna, e niuna cosa invistigare possendone, prepuose tale felicità col pinsiero insiemi non doverse occultare ad un suo unico e perfettissimo amico e compagno; e per lui mandato, il fe’ senza altra considerazione capace d’ogne suo passato accidente; il quale con lui insiemi supra tale novità travagliando e a niuno modo possendo giongere al versaglio, diliberarno tale fatto lassarlo dal providimento de la donna gubernare. L’amico, che cortesano era, trovandosi un dì tra multi curiali, da uno ragionamento ad un altro trascorrendo, per una strana e mirabel cosa racontò pontalmente como il fatto era passato, fingendo pur essere nel reame de Francia intervenuto; ove per aventura tra gli ascoltanti trovandosi il privato de la donna, che, como è ditto, de tutto lui era stato attore e consapevole, subito se ne andò a la donna, e con gran recriscimento gli disse ciò che da l’amico de suo amante avea inteso. De che lei dolente ultra mesura, tenendo per firmo che, se tale camino se continuasse, indubitatamente serìa il suo occulto amore con guastamento del suo onore e buona fama discoperto; per la cui accagione diliberò del tutto che l’amante se recevesse lo avuto primo piacere con la utilità insiemi per suo ultimo e finale pagamento; e cossì fra sé subito con incommutabile decreto [fu] fermato e stabilito. Il male provisto giovene, non sapendo niuna de queste cose, disideroso de retornare a la altura del fertile pratello, più volte indarno aspettò de’ iudei il non venturo Missia; de la venuta del quale né signo né effetto vedendone, tardi s’accorse che la sua lingua medesma d’ogne male gli era stata potissima accagione. E la donna ancora che restasse con grandissimo dolore, se pò presumere che con altra cauta manera seppe con altrui al suo disiderio, como savia, satisfare.

 

MASUCCIO

 

          Credo che ’l giovene serà d’alcun biasmato per non averse saputo in tanto bene con prodenzia gubernare; ma certamente, volendo considerare quello che ne la vera amicicia se rechiede, niuno il porrà meritamente condannare, per accagione che multo inumano se porrà iudicare colui che ad uno perfetto amico non discuopre ogne suo grandissimo secreto, dove andasse non che la facultà e la contentezza ma la propria vita, atteso che niuna iucundità senza fido compagno se pò né deve possedere. Dunque, se ’l giovene se fidò de un tanto amico, ancora che, per l’amico favolizzare, male gli ne avvenisse, non se toglie che lui non avesse ossequito a quello che gli vinculi de la vera amistà il costringeano. Ma perché lui per una lieta notte che diede a la donna, perfin che l’avuta moneta godendo se termenò, ne ebbe multi iucundissimi misi, lassando de ciò il ragionare, me pare che de grande animosità se pò ditto giovene commendare, per averse in tale manera lassato condurre. Ma essendo agli uomini la virilità innata e propria, non senza grandissima ammirazione mostrerò in questa altra novella de una animosità usata per una giovenetta, che a quale si voglia gagliardo uomo e de gran core serebbe stata bastevole, como, leggendosi, porrà essere iudicato.

 

NOVELLA XXVII

 

argomento

 

          Una donna abandonata dal suo amante se traveste in uomo e va per uccidere l’amante; è prisa da la fameglia de la corte; recerca il potestà, che a la vindetta la voglia accompagnare; lui, per vedere l’animosità de la donna, va con lei, e, cognosciuta la sua viriltà, con l’amante la repacifica, e usale grandissima cortesia, e lassali nel pristino amore reintegrati.

 

A LA ECCELLENTE CONTESSA DE BUCCHIANICO.

 

ESORDIO

 

          Non avendote tanto tempo né con littere né con persona, magnifica ed eccellente mia donna, visitata, son da tale mancamento de continuo stimulato de ’l commisso errore in alcuna parte raconciare. Mandote dunque la presente singulare novella, como a colei che singulare tra le donne te ho sempre iudicata. Recivila, te supplico, vertuosissima mia contessa, con quella tenerezza de core con la quale te la mando, però che, leggendo, intenderai che non che gli uomini, ma le donne, ancora che la natura in assai cose loro abbia mancato, possono essere de animosità grande armate. Vale.

 

narrazione

 

          L’altro eri fu al serenissimo mio signor principe per verissimo racontato, como in quisti dì fu in Napoli un giovene mercante, de buona e onorevole fameglia, costumato multo e degli beni, che la fortuna dà e toglie, convenevolmente dotato; il quale avendo un longo tempo con felicità grandissima goduto con una ligiadra e bellissima giovene, de la quale lui era unicamente amato, ed esso lei altresì summamente amava, ognuno de loro, da pari disio uniti, se tenea de tale amore ultra modo contento. E perché le cose che se possedeno senza impaccio e con abundanzia sogliono le più de le volte infastidire, avvenne, o che al giovene piacesse de cercare nova caccia, o che altro ne fusse stato accagione, lui, senza fare altramente mutto a l’amata giovene, se cominciò a retraere a reto, e non andare a lei, né mandare né poco né multo. De che la donna, de la novità maravegliandosi, e più volte mandato per esso, che a lei andasse o gli significasse l’accagione de suo corruccio, e non possendone avere alcuna né buona né rea resposta; e ultra che, esaminando se medesma e non trovando avere fatta cosa alcuna che de isdegno se avesse possuto gravare, estimò del certo de tale male non esserne altro che novello amore accagione. E per volerse de ciò rassecurare, gli puose de multi bracchi a la coda, i quali, non avendo gran tempo cercato, trovaro che la donna non avea falsamente pensato, però che lui era d’un’altra giovenetta invaghito, e a quella posto tutto ’l suo amore. De che lei, de ciò certificata, dopo lo suo amaramente piangere, in tanto fiero dolore cadde, che tutta se consumava; e de ira e isdegno tutta fremendo in sé, cognobbe essere il suo grande amore in pravissimo odio convertito, e volentieri, se avesse avuto il core del dislial amante tra’ denti, se lo averìa pasciuto. Pur da tale passione assalita e venta, fra se medesma cercava tutte vie possibile de farlo con ferro o con veneno morire, e niuna facele trovandone, con animosità assai più grande che a femena e giovene non se requedeva, diliberò del tutto lei medesma essere la omicida; e sapendo compitamente le particularità de la casa del giovene, e como lui dormea sulo in una camera vicino un giardinetto, de lato ad una loggetta non multo levata da la maestra strata, e che la notte stava lui de continuo con la porta, che a la loggia usciva, aperta, ché ’l fresco ve intrasse, però che de estate era, prepuose per ogne modo lei soletta andare a ponere lo onore e la vita in periglio, per vindicarse e con le proprie mano uccidere il crudele e falso amante.

          E senza altramente mutare consiglio, avendo una scala de corda, che l’amante in casa gli avea lassata, e sapendo acconciamente fare l’arte de l’incroccare e scalare, travestitase in uomo, e degli arnesi notturni da corsiggiare adobatasi, quando ora gli parve, con un cortello avvenenato intrò in camino; e andando de requeto per vie traverse, como se in tale arte se fusse da li teneri anni esercitata, como volse sua siagura, o ventura de l’amante che si fusse, che lei, essendo a lo uscire da una strata ad un’altra, se abbatté tra la fameglia de la Vicaria. De che lei estimò subito cui erano, e veggendose tramezzata in manera che ’l fuggire non gli era concesso, né a fare difesa possea le sue forze opponere, in pronto gli accorse de pigliare il meno reo partito che vi fusse; e revolta a coloro che stavano per ponerli le mano adosso, trasformando quanto possette la voce in uomo, dimandò dove il reggente fusse.

          Uno de essi respuose che era ivi da presso; a’ quali lei con animosità grandi disse:

          — Andiamo a trovarlo per una faccenda de grandissima importanza.

          E in quisti termini stando, arrivò fra loro il reggente; la giovene, fattaglisi contro, piano gli disse che facesse i famegli appartare, e lui ciò fatto volentieri, essa il prise per mano e cossì gli cominciò a dire:

          — Avendome la fama fatto cognoscere la integrità de tue vertù, e che niuna ambizione o sensualità porrìa quelle contaminare, e ultra a ciò, como a buon cavaliero, pigliare le iuste querele de le donne, io, che femena e giovene sono, non resterò de rechiederte che non sulo a la vindetta, che a fare son mossa, lassare me dibbi andare, ma anco per la vertù de tua milicia scongiurarte che una con meco de venire te disponi, e ’l tuo favore in ciò me presta, sì ch’io possa senz’altro impedimento il mio disio ad effetto mandare.

          E ciò ditto, ogne passato accidente tra lei e l’amante successo, con quello insiemi che a fare andava, senza resparagno alcuno pontalmente gli racontò. Ulzina reggente, ciò ascoltando, non sulo ammirato ma quasi fuori de sé remasto, iudicò multo mirabile essere la virilità de colei e da grandissimo isdegno causata; e quantunque cognoscesse la giovene, che singulare in bellezze tra l’altre partenopee l’avea sempre iudicata, e unicamente amata, nondemeno da la gran costanzia, vertù de buon cavaliero, raffrenato, e da la requesta e scongiura de la donna confortato, diliberò de, vincendo se medesmo, ogne lascivo pensiero cacciare via, e ad una ora a la giovene satisfare e l’amante da tale naufragio liberare. E dopo che lei tacere vidile, con multe ornate parole fe’ prova de reumiliarla, per farla dal crudele proponimento remanere; e cognoscendola pur ne la sua ostinazione firma, e de novo requederlo che, se ’l suo favore non gli volea prestare, non impedisse il suo camino; de che il reggente prise per partito de vedere l’ultima esperienzia de l’animo e ingegno de costei, e imposto a’ famegli che ivi l’attendessero, con essa insiemi verso la casa de l’amante se avviorno. E iunti a piè de la loggetta, lei, priso il perticone e innastatovi il rampiglione del ferro con la scala in quello appiccata, e destramente incroccato, legiera como uno gatto per essa su vi montò; il reggente, che de novo ammirarse ogne ora avea accagione, per vedere a che dovea il fatto reuscire, dietro a lei anco montò, e vedendola col cortello ammanito per fornire il fiero intendimento, e sentendo l’amante forte dormire, e che de ligieri le arebbe venuto fatto il suo avviso, non volse de ciò altra esperienzia vedere, e pigliata la giovene per mano, gli disse:

          — Cara sorella, io non arei mai creso, ancora che per verissimo me fusse stato racontato, che in feminili spirto tanta viriltà albergasse, se cogli occhi non lo avesse apertamente veduto; e chiaro cognosco che ’l tuo iustissimo isdegno ha causato già lo inducerte a dare con le proprie mano cruda morte a costui, che più che la vita hai avuto caro. Nondemeno, essendo io in questa cità, como tu sai, punitore de’ malefici, niuna onestà o ragione me concede ch’io al commettere de tale omicidio intervenga; e ultra, io non dubito, per averte in tale modo trovata e vederte del tutto diliberata, con impia e cruda mano costui dormendo volere de vita privare, che tu ottimamente cognosci che a morte recevere ogne ragione te condanna; e possendotela con iusticia donare, per onesto respetto te ho donata la vita. E digna e conveniente cosa è, cui receve gracie, de gracie fare. Non essere avara, te supplico, e per recompensa de tanto da me recevuto beneficio concedime la vita del tuo amante, quale tu medesma confessi che più che la tua amasti; però che, a non partire da qui, raconciarò questa cosa in manera, che non d’altro che da morte serà il vostro amore in alcuna parte seperato.

          La giovene donna ancora che ’l furore non potesse diporre, pur cognoscendo a la fine che nulla fare possea, e d’altra parte confortata da le vere ragione de collui, il quale iustamente la vita o almeno lo onore li arìa possuto togliere, gli parve quietarse a quello che ’l reggente dicea. Il quale, intrato in camera, dove il giovene senza sospetto dormea, e prisolo per li capelli, il svegliò; quale non senza pagura e maraveglia in sé tornando de tale strana novità, dal reggente gli fu imposto che ’l lume accendesse; il quale, tutto timido, prestissimo fece. E dopo che la donna li ebbe fatta cognoscere, e racontatale l’accagione de loro venuta, e con un fiume de acconce parole repriso il suo folle adoperare, gli comandò che con la corregia a la gola gli chiedesse mercè, e da qui avanti tenesse la vita in dono da lei, e gli promettesse, fin che ’l vivere gli fusse concesso, essere suo unico e fidelissimo amante. Il quale, cognosciuto il suo errore, subito fe’ quanto per lo reggente gli fu ordenato; e a lui rendute quelle debite gracie che per tanto recevuto beneficio se rechiedevano, como il reggente e la donna volsero, se revestì, e tutti de brigata fecero a la gentile giovene insino a la sua casa onorevole compagnia. Ove essendo, la donna, al reggente revolta, con ornato parlare rengraciatolo, gli si offerse in avere e in persona paratissima, quanto a perfetto amico e buon fratello essere se potesse, tenendo non che lo onore ma la vita da lui in accomando; e con altre assai dolcissime parole gli donò conviato. E l’amante con lei remasto, e revolta la dura guerra in dolce e lieta pace, al pristino amore retornando, senza mai de niuno passato accidente recordandosi, fin che vissero, godettero con felicità de loro amore.

 

MASUCCIO

 

          Non meno che mirabile se pò l’animosità de la innamorata giovene estimare, non so se da soverchio amore o disfrenata libidine causata; e perché la vertù dal reggente usata fu sì grande, che ogne parlare ne serebbe scarso, atteso che quello che adoperò processe da sua propria bontà, senza niuno avernele data accagione, mostrerò appresso de una virilità grandissima per mera vertù adoperata per una mora d’altrui serva, per tenerezza de lo onore del suo caro patrone, quale non che a vile serva ma ad ogne uomo de gran core più che bastevole serebbe stata.

 

NOVELLA XXVIII

 

argomento

 

          Un cavaliero provenzale ama soverchiamente la muglie, quale, da libidine assalita, si fa da uno nano carnalmente cognoscere; una mora de casa con una lancia tutti dui in sul fatto le occide; il marito le fa bottare per pasto de fere.

 

A LO ILLUSTRISSIMO DON FRANCISCO D’ARAGONA.

 

ESORDIO

 

          Ancora che tu, illustrissimo signor mio, da la adolescenzia a la fiorita età non si’ ancora pervenuto, cognoscendo il tuo grandi ingegno essere bastevole non che ad intendere le rude e mei materne littere, ma de le altrui ornate ed elegantissime dare ottimo e perfettissimo iudicio, non ho voluto restare de, la sequente novella mandandote, dare noticia d’alcuna sceleranza de imperfettissimo geno femineo, a tale che con la tua presente prodenzia al tempo debito te possi e sappi de loro insidie e tradimenti guardare. Vale.

 

narrazione

 

          In Marsiglia, cità nobilissima, non dopo multo l’incendio datoli per la felici recordazione del divo principe re don Alfonso d’Aragona, fu uno strenuo cavaliero, ricco e de vertù claro, giovene e bello a maraveglia, nominato messer Petro d’Orliens. Il quale essendo fieramente innamorato d’una bellissima giovene chiamata Ambrosia, figliola d’un gran barone suo compatriota, e, essendo per mezzo de comuni amici, tale amore in matrimonio fu convertito; de che il cavaliero condutta madonna Ambrosia in casa con gran cerimonie e suntuosa festa, e onorevolmente vestitala, parendoli assai più che l’usato bella, e gli suoi custume e gesti ultre modo piacendoli, in milli duple se multiplicò il suo amore verso de lei, in tanto che, qualora non era con la sua Ambrosia, ogne contentezza e piacere in summa tristicia se convertia. E ancora che de multe ricche e care gioie e d’altri ornamenti fusse stata più che ’l dovere fornita, e de multe brigate de servitori e maschi e femene accompagnata, nondemeno de quello che a le donne unicamente piaze, e che per onestà il taceno, lui fuori de modo ne la facea stare contenta.

          E in tale iocundissima vita la donna dimorando, senza avere mancamento de cosa alcuna, per minima o grandi che fusse, avvenne che tra l’altre brigate de casa, che ’l cavaliero per suo gran piacere tenea, si era uno nano de tanta orrebelità e trasformata apparenza, che a niuna umana forma se arebbe possuto assomigliare; del quale madonna Ambrosia ne pigliava de continuo mirabile diletto, e a le volte con le brigate de casa il faceano voltiggiare e fare de multi e diversi atti, como li nani sogliono fare, e in manera che tutti ponea in gioco e festa. E in tale travagliare, la donna si venne accorgendo che la mostruosa bestia de mirabile coda era fornita; de che la nostra Ambrosia ancora che avesse sì digno e bello marito e che più che se medesmo l’amava, e con tante altre notivole parti quante de supra ho ditte, e trattassela sì eccellentemente, puro lei avendo sulo considerazione che possono assai più dui che uno a satisfare, anzi ad infastidire la sua insaciabele libidine, gli venne un disio sì sfrenato e fiero de volere provare se ’l nano gli avesse saputo fare il salto scavonesco supra ’l suo morbido corpo como in sul duro terreno faceva, che tutta se ne struggeva. E perché rade volte de tale prava generazione sono sì fatte cose pensate, che, como prima possono, non le mandano ad effetto, la vile ribalda non lassò passare multe ore, che volse de tale nefando pasto la sua gulosa voragine satisfare; e como che a le volte la fiera bestia multo la noiasse, puro, da sfrenata rabia assalita, de retrovarsi ogne dì più fresca col nano a la cominziata battaglia erano tutt’i suoi pensieri. Continuando dunque costei in tale detestanda libidine, accadde che de ciò se venne accorgendo una mora nera antiqua, quale un longissimo tempo col patre del cavaliero e postea con lui era con grandi amore dimorata, a la quale ogne mancamento de onore e contentezza che ’l suo messere avesse recevuto, più che perdere la propria vita arebbe noiato. Sì diliberò, si vero fusse, prima morire che comportarlo; pur, como a vecchia e prattica, prepuose volersene prima del tutto certificare, e dopo al suo patrone il palesare.

          E uno dì che ’l cavaliero era andato fuori la cità per suo diporto a caccia de sproveri, e lei, estimando che la donna con tale destro averìa continuato al buon gioco, gli se occultò sotto al suo proprio letto; ove attenta stando, cognoscette che la donna con arte dava onesto conviato a le brigate de casa, la vide sula col nano intrarsene in camera, e serrata la porta, gli sentì, e fuorsi per non perdere tempo, senza altro contrasto salire supra letto e cominziare loro solito lavore. La vecchia mora uscita d’aguato, e videndogli a la scrapistrata fare un novo ballo de personaggio, e tale volta la donna cavalcare sopra lo rospo a la iannetta, fu da tanto insupportabele dolore afflitta e da fiera ira accesa, che, senza altra considerazione, vedendo ad un lato de la camera una lancia, che ’l cavaliero per gli porci salvaggi adoperava, con pesante ferro aguzza e tagliante, e quella prisa, e montata supra letto senza essere da coloro sentita, bottata con gran furia la lancia tra gli reni de la donna e supra quella premendose, non sulo lei ma anco il nano da canto in canto [trapassò] insino a li panni del letto; quali, senza possernosi da la lancia sviluppare, l’uno supra l’altro abbracciati in breve spacio se morerno.

          La mora dopo il fatto alquanto rafreddata, gli parve avere fatto men che bene a procedere a la vindetta, la quale a lei non se aspettava; puro, serrata la camera senza movergli como giacevano, mandò spacciatamente un fante al cavaliero, che, se volesse vedere la muglie viva, subito venesse, atteso che per un certo supravenutoli dolore supra core stava per morirse. Il fante trovato il cavaliero, e fatta la ambasciata, e da lui con rencrescimento non piccolo ascoltata, lasciato ogne altro affare, de contenente intrò in camino; e iunto a casa, l’amorevole e fedele serva fattaglisi incontro, senza altramenti fargli mutto in camera il condusse, e gli mostrò la aborrenda operazione de la sua supra ogne altra cosa amata muglie, e con grandissimo dolore da passo in passo gli racontò como il fatto era già processo, e como lei, da soverchia tenerezza del suo onore mossa, si era lassata trascorrere a committere il duppio omicidio.

          Il cavaliero vedendo il fatto, che de le parole de la cara serva gli rendeva evidente testimonio, quanto e quale fusse il suo interno dolore, travaglio e tristicia de mente, pensando ad un tempo avere perduto con lo onore e la eterna contentezza insiemi una sì bella e da lui tanto amata muglie, non bastando a ciò la mia penna, ciascuno che non è fora de intelletto, ne porrà fare iudicio. Lui, che ad ogne ora li parea che l’affannato core in più parte gli se volesse spezzare, dopo che con lacrime e ramarichi ebbe alquanto al dolore satisfatto, in sé tornando, e cognoscendo che in ciò remedio non avea luoco, pensò, como a prodente, almeno al suo onore reparare; e subito mandato per lo patre e fratelli de la donna, e fattigli in camera intrare, e fattagli de’ dui sì digni amanti la punizione col peccato insiemi cognoscere, affermò lui, da dolore e fiero isdegno vinto, essere stato lo omicida e punitore de tanto orrendo e quasi inumano eccesso. I quali, dopo lo avuto, e con ragione, dolore, vedendo como il fatto manifestamente apparea, non seppero si non con summe lode il cavaliero commendare; il quale, per demostrare una severa e rigida vindetta e gastigamento, de contenente fe’ i dui corpi morti pigliare cossì infilsati da la lancia como erano, e supra un sommare posti, ad uno eminente luoco fuori la cità per pasto de ucelli e d’altre rapace fere gli fe’ bottare, quale insino a le nude ossa fuorno devorati.

 

MASUCCIO

 

          Non se porrà con tanta lode la vecchia mora commendare, per avere il ruinato onore del suo caro messere con caritativo amore in parte pontellato e lo ultraggio vindicato, quanto, e meritamente, la giovene donna e cristiana porrà da ciascuno essere biastemata, atteso che con tanta vile operazione denigrò la sua ottima fama e lo onore de più e diversi parentati. Pur, avendone avuto per tanto piacere uno sulo condigno castigo, de più ultre morderla me remango; e negli deliciosi liti partenopei retornandome, ove tante e sì diverse mirabile palustre de continuo si fanno, diremo de una altra più industriosa che aventurata femena ne la iostra approbata, quale volse non che uno ma tre correturi in una medesma notte liberare.

 

NOVELLA XXIX

 

argomento

 

          La Viola promette a tre suoi amanti in una medesma notte satisfare; va il primo e dal secundo gli è la preda interditta; il terzo anda ed è dal secundo beffizzato e proibito l’intrare; lui s’accorge de l’inganno e vede [non aver luoco] la forza; adopera l’ingegno e de l’uno e de l’altro si vendica, e, con greve danno del primo e del secundo, resta de tale preda ultimo possessore.

 

A LO MAGNIFICO MESSER IACOMO AZZAIOLO

NOBELISSIMO FIORENTINO.

 

ESORDIO

 

          Improprio e non conviniente serìa il mio operare, magnifico e de vertù ornato messere Iacomo, cognoscendote de benigna e iocunda compressione da la natura dotato, se, scrivendote la presente novella, de materia fleumatica, malanconica e mesta fusse né poco né multo tramata o vero ordita. Recivila dunque con piacere, te supplico, ché del certo dal principio insino a fine tutta de iocose piacevolezze la troverai edificata, e in manera che a te e agli ascoltanti de soverchio e continuo riso seranno accagione.

 

narrazione

 

          Il prossimo passato iennaro fe’ uno anno che in Napoli fu un buono uomo lignaiolo, il maesterio del quale a niun’altra cosa se estendea che in fare zoccoli, quale tenea casa a pisone de costa la Sellaria, ad un larghetto posto dietro la Cecca Vecchia; e avendo una vaga e bellissima muglie, quale ancora che, como a giovene, non fusse punto schifa né sdignosa de’ vaghiggiamenti de’ suoi quasi infiniti amatori, puro tra la multa brigata tre ne erano da costei, che Viola avea nome, più che altri amati e faoriti: l’uno era un fabro suo vicino, l’altro un mercante genoese, e ’l terzo un frate, del nome e abito del quale como che non me ne recordo, puro so che era uno esperto e famoso corsale; a li quali tutti e tre, senza l’uno de l’altro [sapere], avea promesso, como il marito pernottava fuori de casa, satisfarli de loro disiderio.

          Ove accadde che non passaro multi dì, che ’l marito andò a Ponte a Selece, per condurre un sommare carrico de zoccoli smarrati, per poscia polirli in Napoli, como era già solito fare; per lo cui bisogno dovendovi insino al sequente dì dimorare, fo da tutti tre gli aspettanti tale partire e pernottare saputo. E como che ciascuno de loro da per sé se ponesse in ordene, puro il primo che se presentò a le battaglie a l’uscio de la nostra Viola, e fuorsi per essere più fervente amante, fu il genoese, e caramente la pregò che la notte l’aspettasse a cena e ad albergo, fandole de più large promisse, como in simili contratti fare se sogliono e devono; de che Viola, per non tenerlo in tempo, gli disse contentarse, ma che venisse tanto de notte che non fusse da le briate de la contrata veduto. Il genoese, letissimo, respuose: “Sia col nome de Dio!”; e da lei partito, se ne andò spacciatamente a la Loggia o talvolta al Pendino, e comparò dui avantaggiati capponi, grassi bianchi e longhi, e con pane fresco e de più manere de ottimi vini occultamente le mandò in casa de la iovene.

          Il frate, celebrati gli divini officii, disideroso che la fatta promissa gli fusse osservata, postose la via tra’ piedi, traversando de multe strate, como famelico lupo s’abbattesse in alcuna smarrita piecora da la gregge, pervenne ove era la Viola; e chiamatala, gli disse che lui intendea per ogne modo venire a stare la notte con lei. Viola, che per cosa alcuna il genoese arìa ingannato, né, per cognoscere il frate temerario e fastidioso multo, le arìa de contentarlo possuto negare, e cossì, confusa, non sapea che diliberare; puro, como a prodente, de subito gli occorse de con acconcia manera a tutto providere, e al frate con piacevolezze respuose essere al suo volere presta, ma che non venesse prima de le cinco ore, per accagione che un piccolo suo cognato venea a stare con lei, quale infino a tale ora non serìa adormito; e satisfatto che avesse il suo disiderio, se n’andasse subito con Dio. Il frate, vedendo che puro era recevuto, non corando del resto, disse de farlo e andò via.

          Il fabro, che in doana era stato insino al tardo occupato al traere de certo ferro, retornandosene verso casa, trovò Viola a la fenestra, e gli disse:

          — Puro questa notte che tuo marito non vi è, me potrai recevere in gracia, e ben per te se ’l fai; altramente tieni per firmo ogne tuo disigno da me te essere torbato.

          Viola, che multo l’amava e non poco lo temeva, pensando puro che tempo gli avanzava de la longa notte de tutti tre li aventoreri possere liberare, como a li dui avea trovata manera, cossì prepuose al terzo, ancora che ultimo fusse, dare recapito; e gli disse:

          — Mauro mio, tu sai como ne sono io male tollerata in questa contrata, e quanto tutte con iusta accagione cercarìano de cacciarmene, e sono de quelle che me fanno la guardia infino a mezza notte; e imperò, a tale che loro insidie non me abbiano ad offendere, dimora a vinire perfine a l’albi, a quell’ora che solito si’ levarte, e faraime segno, ch’io te aprerò, e staremo un pezzo insiemi per questa prima volta, ché col tempo provederemo per megliore camino.

          Il fabro, cognoscendo che lei con colorate ragione se movea, e lui puro arìa sua intenzione, senz’altra replica restò a tale ordene contento. Lo genoese, como notte fu, occultamente se ne intrò in casa de Viola; il quale, ancora che da lei fusse lietamente racolto, e più volte basciatisi, nondemeno da la sua infreddata natura non gli essendo concesso senza caldo de letto o d’altri argomenti li concupiscibili appetiti svigliare, se puose a cavallo e cominciò a fare sua salatuccia, fin che i capponi se pelavano ad arrostire. Dove o per male fuoco o che altro ne fusse stato accagione, ancora che la giovene tutta se andasse struggendo, dubitando non gli supravenesse la secunda vivanda avanti che avesse la prima assaggiata, puro erano già sonate tre ore, e loro cena non era cominciata.

          E in quisti termeni stando, sentero picchiare l’uscio. Il genoese, multo impaurito, disse:

          — Me pare che l’uscio nostro sia tocco.

          La iovene respuose:

          — Tu di’ vero, e certo io dubito che sia mio fratello, ma non timere, ch’io providerò che non te vederà; e però esci per questa fenestra, e pónite a sedere a questo arbaretto de erbecciole che è qui, ch’io vederò cui è, e quello che vuole dire, e ne lo manderò presto.

          Il genoese, più timido che caldo d’amore, como che una menuta pioggia facesse da freddissimo vento menata, che multi per neve l’avrebbon iudicata, puro fe’ quanto per Viola gli fu ordenato; quale, serratogli dietro, e, per estimare cui era colui che avea picchiato, occultata la cena, se ne venne a l’uscio, e certificata che era l’importuno frate, alquanto turbata gli disse:

          — Tu se’ multo presto venuto, e non hai servato l’ordene te donai. Trista me! ché, per non aspettare un poco de tempo, vorrai ch’io sia morta.

          E con queste e altre simile parole, puro gli uperse; quale intrato, senza cerimonie de basci, como il genoese fatto avea, rattissimamente, a non serrare l’uscio, gli donò per una volta plenaria remissione, non per autorità che ’l generale li avesse donata, ma da sua poterosa natura concesaglie. E credendo Viola che quello gli bastasse a farnelo contento retornare, il vidde che se montava in casa; de che lei, serrato l’uscio, sequendolo per le scale, gli dicea:

          — Vattene, per l’amore de Dio, ché mio cognato non è anco adormito, e del certo te senterà.

          Il frate, non corando del suo dire, salito su, e trovato ancora il fuoco calente, scalfatose un poco, appicciata un’altra volta la Viola, cominciò a sonare un novo ballo con più piacevole melodia che quella che ’l poveretto genoese col battere de’ denti per soverchio freddo già facea; quale per le fessure de la fenestra ogne cosa vedendo, quanto da tale dolore, dal timore d’essere sentito e dal gran freddo che sentea, fusse afflitto, ciascuno a sé pensando ne porrà fare iudicio. E più volte del saltare lui averìa il partito priso, si non che la scura era sì grandi, che non gli facea l’altezza scorgere, e anco che puro dimorava in speranza che ’l frate, per essere più che ’l dovere satisfatto, e da la giovene de continuo al partirse sollicitato, se n’andasse.

          Ma il frate, dal piacere de la bella iovene rescaldato, senza toglierse la Viola de braccio, avendo de più e diversi tratti de’ moderni balli non che a lei ma al genoese, che con poco piacere gli mirava, insignati, avea diliberato de mai partirse da là, fin che da la chiarezza del iorno non ne fusse cacciato.

          E cossì stando insino alle dieci ore, sentì il fabro che col priso signo inquietava l’uscio de Viola; il che lui, a la giovene revolto, disse:

          — Cui tocca il tuo uscio?

          Lei respuose:

          — Egli è il continuo stimolo de quisto fabro mio vicino, il quale né con buona né con rea resposta me l’ho possuto togliere dinanzi.

          Il frate che facetissimo era, subito gli occorse fare una nuova piacevolezza, e rattissimo se ne venne giù a l’uscio, e con summessa voce, como Viola fusse, disse:

          — Cui se’ tu?

          Lui respuose:

          — Sono io, non me cognosci tu? Aprimi, te prego, ché tutto me bagno.

          Esso disse:

          — Dolente me! ché io non posso, per questo uscio, che, aprendolo, fa tanto romore, che ne sequerìa scandalo.

          Lui, non avendo dove fuggire l’acqua, sollicitava che gli apresse, ché tutto se struggeva per amore suo. Il frate, che con gran piacere lo tenea in tempo, per farlo ben bagnare, gli disse:

          — Anima mia, basciame un tratto per questa fessura che è ben larga, perfin che vederò de piano uprire questa maledetta porta.

          Il fabro sel crese, e multo leto a basciarlo s’acconciò. Il frate, che fra quello mezzo se avea cavate le brache, gli porse la bocca per la quale se getta lo soverchio de la sentina; il fabro, credendose appicciare gli dolce labri de Viola, de contenente cognobbe e per tatto e per odore ciò che de vero già era, ed estimò quello essere altro cacciatore, quale, più sollicito de lui, le avea tolto il piazere, e dopo in tale manera il beffizzasse.

          Del che subito prepuose tale recevuto scorno non passare irremonerato; e fando vista de mordere e leccare, gli disse:

          — Viola mia, fra questo mezzo che tu viderai de uprirme, io anderò per lo mantello, ché non posso più durare l’acqua.

          Il frate respuose:

          — Va col nome de Dio e torna presto! — ridendo con la giovene in manera che non se possiano in piedi tenéri. Il fabro, intrato in bottega, fe’ spacciatamente una virga de ferro a modo de spido, e ben fucante lasciò stare, e disse al garzone:

          — Sta attento; e quando io sputo, e legiero te ne veni a me con questa virga.

          E ciò ditto, si retornò a tenere in trame de l’intrare, e, da una parola ad un’altra, il fabro disse:

          — Basciateme una altra volta.

          Il frate, che era più presto a tale volgimento che una simia, subito gli porgì la solita voragine; Mauro dato il signo al suo garzone, prestissimo gli presentò il fucante ferro; quale recatose in mano, e priso tempo, gli donò una stoccata presso valloscuro, che vi lo puose quasi un palmo dentro. Il frate, sentendo la fiera percossa, fu costretto a bottare un grido che toccò il cielo; e moiando de continuo como un torro ferito, tutti gli vicini, destatisi, con lumi in mano se faceano per le fenestre, e ognuno, torbato, dimandava de tale novità l’accagione.

          Il dolente genoese, che era in manera assiderato che poco più gli bisognava stare, che, convertito in giazzo, ivi se averìano gli suoi iorni termenati, udendo tale romore, e vedendo tanti lumi per la contrata e già appressare l’albi, per non essere quivi trovato e a modo de latro posto in vergogna, prise per ultimo partito de bottarse giù; e pigliato cuore, e recomandandose a Dio, cossì fece. E gli fu la fortuna sì favorebele, che al percuotere in terra trovò una pietra, supra la quale dato il piede e voltatosi in manera che se fraccò una gamba in più piezzi; quale, dal fiero dolore oppresso, non meno che ’l frate, fu costritto al gridare fortissimo gli suoi omei. Il fabro correndo al romore, e trovato e cognosciuto il genoese, e vista l’accagione del suo gridare, alquanto piatoso devenuto, con agiuto del suo garzone con difficultà non piccola il remorcorno in bottega; e saputo da lui tutto ’l fatto como era andato, e cui era il frate, si cavò fuori e puose silenzio al multo abbaiare de’ vicini, dicendo che erano stati dui suoi garzoni che se aveano feriti. Ed essendo ognuno quieto, como il frate volse, la Viola chiamò piano il fabro; quale in casa intratogli e trovato il frate mezzo morto, dopo multi e diversi debatti, col suo fante sel puosero in spalla e infino al suo convento nel condussero; e retornato, ne fece il genoese supra un sommaro portare a la sua stanza. E lui in casa de Viola reintrato, essendo omai dì, mangiatisi insiemi i capponi, e, ultre a ciò, satisfatto interamente il suo disiderio, litissimo se ne retornò a battere il martello. E cossì il maestro, como ad ultimo corretore, fe’ restare i compagni con beffe e danno e con dolore.

 

MASUCCIO

 

          De non piccola prodenzia porrà essere la nostra Viola, e meritamente, commendata, per avere a tutti tre gli amanti in una medesma notte con acconcia manera recapito donato; e como che gli dui con loro grandi interesse se ne retornassero a casa accompagnati, donde suli se ne erano partiti, puro lei, con la plenaria remissione più volte datale dal venerabile patre, restò ad insignare al fabro la nova manera de li balli, che ’l genoese, con poco piacere mirandoli, avea già imparati. Ma lassando Viola col maestro de l’apprestato disnare godere, e in altri più cupi pelaghi navigando, mostraremo appresso un’altra grandissima astucia e nova prattica per una gentile dammicella usata; a la quale essendo da sua defettiva natura la pudicicia e castità vetata, per non stare a beneficio de fortuna e perdere in parte il tempo de sua più fiorita gioventù, lei medesma volse essere la missaggiera a dare con celerità al suo disiderio intero effetto.

 

NOVELLA XXX

 

argomento

 

          Una dammicella, del signor principe de Salerno innamorata, manda per un suo cappellano, e gli mostra avere aute più littere dal ditto signore, che del suo amore la recercava; il cappellano intende il suo motivo, e con lei intra in trame, e conduce il fatto al votivo effetto.

 

A L’ILLUSTRISSIMO SIGNORE IERONIMO DE SANSOVERINO

PRINCIPE DE BISIGNANO.

 

ESORDIO

 

          Non meno per gratitudine degli recevuti da te beneficii, serenissimo principe, che per cognoscerte non che vago ma disideroso avere de mei rude novelle alcuna noticia, a scriverte la presente e al numero de l’altre aggregarla son tirato e astretto. Porraila, como a minimo dono, con lieta mente, benignissimo mio sgnore, e con buona gracia pigliare; a tale che, con l’altre insiemi leggendola, per esservi il tuo dignissimo nome con eterna memoria celebrato, possi per tale recompensa il fabricatore de quella al numero degli tuoi piccoli servituri ascrivere e accompagnare. Vale.

 

narrazione

 

          Tra le notivole palustre e mirabile cazie e suntuose feste in Napoli de continuo celebrate per lo gloriosissimo re nostro signore don Ferrando, un iorno fra gli altri avvenne che una doncelletta, quasi unica in bellezza e de prime nobile tra sue partenopee, avendo per adietro più volte considerata la formosità e ligiadria e del vulto e del corpo del mio serenissimo signor principe de Salerno, e da multi multe volte sentito mirabelemente commendare sue singulare vertù, e allora fuorsi più che mai piaciutole, in manera de lui se innamorò, che un sulo punto non possea né sapea si non supra del piaciutole signore pensare. E avendo col suo travagliato intelletto multe e diverse vie cercate, como avesse possuto con sua onestà la vittoria de tale digna impresa ottinere, e tutte difficile trovandole, più volte le andò per lo capo sequire il conseglio d’alcun’altre donne, quale, non possendone a le battaglie d’amore resistere, mandano a rechiedere gli iovini da loro amati a l’amoroso doello; ma puro lei avendo alquanto del prodente, estimò che grandi stimamento serìa de sé e de sua impresa, e gli occorse con uno strano e astuto modo lo indurre a cogliere gli primi frutti del suo non coltivato iardino.

          E cattato il tempo che ’l signore in altra regione a lo esercicio de la cazia vacava, se fe’ un preite multo domestico de casa sua venire, del quale ottimamente fidare se possea, e gli ordenò quello che a fare avea; il quale la matina sequente se n’andò al mirabile palagio che ditto signore fa ne la Reale Porta costruere, dove trovato un fra Paulo, cappellano e intimo servitore del signore, a lui de lui stesso con acconcia manera dimandò.

          Al quale egli respuose:

          — Io sono esso.

          Sequetò colui:

          — Una gintile donna domane a buona ora ne la cotale chiesa ve vorrìa parlare.

          Al quale il frate con piacevole viso disse d’andarvi al suo comando; e al priso tempo lietamente v’andò. Ove trovata la gentile madonna che l’aspettava, lassate le compagne, in una cappella col frate tiratase, cossì gli cominzò a dire:

          — Fra Paulo mio, essendo tu prodente e tanto privato del tuo signore, me pare che da debito de ragione me sia permesso per conservazione del suo e mio onore, e anco per rassicoramento de me medesma, ogne mio secreto te scoprire, non altramente facesse al mio patre spirituale. E prima che più ultre vada, io disidero sentire da te, e sì te scungiuro per l’amore e fede che tu porti al tuo signore, che con verità me servi, e dichi se certe littere che de mostrarete intendo, sono de mano de ditto tuo signore scritte. E ciò dico, per accagione che da un certo tempo in qua un giovene, che tenemo in casa per maestro de’ mei fratelli, me ha portate multe e diverse littere da parte del signor principe, le più passionate e condite d’amore che per ferventissimo amante a donna se scrivessero mai, e tutte se termenano che gli done e tempo e manera de compita udienza. Il che non meno l’imbasciatore che le imbasciate me haveno per modo tale l’intelletto travagliato, che non ne posso reposo alcuno pigliare, e me fanno de la vita mia non poco dubitare. Il dubio si è ch’io suspetto che ditto maestro sia stato d’alcuno de’ mei maiori fratelli contaminato, volendo fuorsi de me e de mia fermezza fare ultima prova; e ciò esistimo, ché una volta con loro e l’altra brigata de casa ragionando del valore e vertù d’alcuni gran maestri, e cui de loro proponea uno e cui un altro, de che io, aitata da la verità e puro da l’amore che naturalmente senz’altre accagione gli porto, in sul ragionare rescaldandome, dissi che lui era non sulo lo onore de la corte, ma il lume e specchio de la nostra Italia; a le quale parole uno de’ mei fratelli revolto, me impuose che tacesse, e d’allora in qua ià mai con buon vulto me ha guatata. Per la cui accagione supra tale pensare me confundo, in manera che ’l sonno e ’l cibo ne ho in gran parte perduto. D’altro canto talvolta dico: potrebbe mai egli essere che costui dicesse il vero, e che ’l signore, amandome per lo averlo alcuna volta più che ’l dovere guatato se avesse mosso a scriverme con tanta passione? Lo che quando cossì fusse, ancora che meno periculoso sia, puro me dolerìa insino al cuore, atteso che io vorrei che lui usasse da buon cavaliero, e che ’l suo amore se trovasse col mio conforme, quale ho in manera moderato, che non passa gli termeni de la onestà; però che non me sono tanto fuori de me lassata trascorrere, ch’io non cognosca lo onore doverse ad ogne sensualità anteporre.

          E con queste e altre assai simile parole con grandissima arte ordenate, le mostrò le ditte littere, con le quale gli si crese dare maiore fede de la sua ordita e ben composta favola. Fra Paulo, ancora che, como a prodente e in simili battaglie più volte con vittoria esercitato, avesse lo intrinseco volere de la donna inteso e cognosciuto, però de passo in passo de’ suoi ragionamenti era ammirato e confuso remasto, como in tanto giovenile e femineo spirito tanto artato savere e con tanta astucia fusse albergato; tuttavia, essendose più volte accorto che, quando lei nominava il signore, de più colori se cambiava in viso, comprese non meno che grandi e fiera essere la sua passione; per la cui accagione prepuose con suo medesmo vento se avere in tale abonazzato mare da navigare, e cossì gli respuose:

          — Donna mia, avendome per vostra umanità fatto digno de scoprirme vostri secreti, ve potete rendere secura che, non meno per conservazione del vostro onore che de quello del mio signore, questa cosa passarà tra me con tanta taciturnità, quanta vui e io estimamo la ponderosità del fatto lo recercare maiore. Li vostri dubii, supra fortissime ragione fabricati, sono da commendare, e da non dovergli senza maturo pensiero trapassare; puro, como che per impossebele non se possa tenere che i vostri fratelli a tale anteveduto fine tale fatto avessero tramato, io non me posso persuadere che loro, essendone pur prodenti, avessero voluto porre lo onore loro in mano d’un scolare de strana nazione, atteso che multi altri modi e multo più cauti a dovernosi de ciò rassicurare aveano. Ma lassando de questo il vero e ’l falso a benificio de natura, e a nui medesmi tornando, dico che tale littere non fuorono mai dal mio signore scritte, e quando ciò fusse, io me ne maravegliarei, per accagione che lui ha per usanza de mai ad alcuna donna de sua mano scrivere, in tanto fusse de lei fieramente priso, perfin che del suo amore non ha fatto esperienzia; e tutte littere e imbasciate nel principio de suo innamoramento son fatte e tramate per mezzo d’un suo privatissimo camerero; sì como del certo tengo queste esserene de mano de quello, però che me pare cognoscere tale scolaro, e visto l’ho più volte tenere stretta prattica con detto camerero. E a questo credere non senza ragione me induco, però che più volte col mio signore de belle donne ragionando, lui con alcuno sospiretto non con tutta la forza lassatose uscire dal petto, have preposta vui innanzi ad ogne altra; e ancora che le parole sue sieno rare e poco sentenziose, puro più volte secretamente ha detto vui sula site da lui unicamente amata. Pareme dunque, ancora che ’l vostro providimento non abbia del mio consiglio bisogno, che vui me donate licenzia, ch’io possa questa cosa con tutte vostre dubitazione insiemi al mio signore intimare, e ciò non per littere né per ambasciata, ma io medesmo essere il missaggiero; però che lui domane o l’altro deve arrivare in Salerno, e io per servire e vui e isso, non me serà grieve l’andarvi, e cavatone quello vero costrutto che cavare se ne pote, subito me ne retornerò; e trovando la cosa como non dubito trovare, allora potreti, con vui medesma consigliandovi, togliere quillo partito e dare tale indrizzo, che ’l vostro cognoscimento per lo megliore ve persuade. E a ciò che possate savere presto la resposta e non tenere il fatto in tempo, starete attenta, ché qualora io passarò de casa vostra e chiamerò il cotale giovene che ve sta de rimpetto, sappiate io essere retornato, e la matina sequente ne trovaremo in quisto loco.

          La donna, che tenea per firmo avere il frate ucellato, e parendoli che ’l suo avviso averìa intero effetto, fra se medesma godea sì forte, ch’esser gli parea del celo coronata; e da po’ la fatta conclusione del frate, gli disse:

          — Io te supplico che, como tu del mio dubbiare me hai in parte rassicorata, cossì del resto me fazzi certa, e de quanto de le parole del tuo unico e caro signore porrai traere me ne fa capace, a tale che ’l travagliato spirto se possa alquanto quietare.

          E partiti loro ragionamenti, ognuno lieto, ma per diversi respetti, se ne retornò a casa sua. Dove, como volse la fortuna, multo più favorevole negli comenzamenti de le imprese de ditto signore, che ne la fine conservarele illese, che ’l frate trovò novelle che ’l principe era in camino per retrovarse il venente prossimo dì in Napoli; al quale fra Paulo fattose incontro, con gran piacere gli racontò la istoria de l’astucia e partito priso da la innamorata giovene. Il signore, non meno con maraveglia che con piacevelezza ascoltandolo, como che tale giovene rade volte avesse vista, né meno de sue belliezze se recordasse, puro, parendole per debito amare cui l’amava, respuose che tramasse in manera, che, como prima se potesse, lo essere insiemi loro fusse concesso.

          Il frate, letissimo e pronto al servire, como prima fu ismontato, rattissimo se n’andò dinanzi la casa de colei, e dato il priso signo, de la quale con mirabili piacere inteso, la sequente matina a l’ordenato luoco se ne venne; ove trovato il frate, gli disse:

          — Il mio signore caro se te recommanda, quale al tuo piacere puro eri sera arrivò in Napoli; al quale racontato per longo quanti e quali furono nostri ragionamenti, non ho possuto da lui altra resposta traere, si non che ve prega e scongiura per lo intero amore che tanto tempo te ha portato e porta, e per quello che meritamente a lui portare deviti, vi piazza questa sera donarle modo de compita udienza, a tale che, senza fidarse de uomo che viva, vi possa lui medesmo scoprire quello che con forte serraglio ha tenuto e tene dentro ’l suo passionato core.

          La giovene, che con tanta gloria le parole ascoltava, che non gli parea capere tra la pelle, mille anni ogne ora parendole de venire a l’ultima conclusione de amore, dopo alcuno debole negare respuose contentarse; e, a non partire, priso tra loro descreto ordene, dove e como e in quale ora aveano da retrovarse a l’amorosa battaglia, al suo unico e carissimo signore, che la resposta aspettava, se retornò prestamente.

          Al quale ogne cosa per longo referito, quando ora loro parve, il signore con sue brigate al prepostato luoco se condusse; dove trovata la vaga dammicella de suavi oduri repiena, con le bracce aperte e con gran feste il recevette, e da poi infiniti basci e date e recevute al signore, montate in barca, reconciato il temone e fatta vela, ancora che ne l’arte marinaresca non fusse multo esperta, puro, quanto dal tempo loro fu concesso, per lo mare d’amore navigarno. E al debito termene al porto con piacere condutte, la donna al signore con le bracce teneramente avvinchiatole il collo, disse:

          — Dulcissimo signore mio, se io sula con lo mio providimento, insieme, sono stata accagione de qui per questa volta condurete, a me medesma rendere ne debbo gracie; de quanto per lo innanti farite con effetto demostrazione d’amarme, e a vui e ad Amore ne resterò obligata; e però altro non me resta a dire, si non che de continuo me te recommando.

          Lo illustrissimo principe con dulce e effettuose parole confortatala, con piacere e festa se divisero. Como e quale tale amore se continuasse, chi ’l vuole savere, ne fazza processo et cetera.

 

MASUCCIO

 

          Retrovandome uno de quisti dì tra una brigata de donne, fra le quale ve ne erano alcune che studiavano nel Maestro de le Sentenzie, con le quale ragionando de loro imperfettissime sceleragine, e innate malicie, astucie e gattivitate, quante ne le passate mei novelle se conteneno, tutte como cagne arrabiate me se voltaro incontro remproverando lo mio scrivere, dicendo che anco gli uomini, che se tengono e deveno essere de maiore perfezione e firmezza che le donne, se lassano de continuo da la sensualità vincere e trabocchevolemente cascare; e supra de ciò venendo con meco a tante inoneste e strette particularità, che, non che a modeste donne, ma a lascivi uomini sarebbeno state d’avanzo. De che Masuccio, che non avea lassata la lingua in pigno al iudeo, dopo che, con uno fiume de proprii e conveniente aiettive quasi in rima posti, loro ebbe declarata la scrittura, disse che, quando gli uomini cascassero in più detestande scelere (che serìa quasi impossibile) che le femene, offendarìano sulo le ligge e onore loro medesmo, e non se ne venerìa ad infettare e contaminare la massa de più parentate, privandoli non sulo de lo onore presente, ma in ciò facendo negra e oscura la fama de quilli con perpetuo nome ed eterna memoria de tutti gli descendenti, sì como nui videmo de continuo evenire quando una ribalda femena vol satisfare a sua sfrenata e temeraria voluntà. E che ciò sia vero, le ligge me ne rendeno aperto testimonio, quale permetteno a colui che trova la muglie o la figliola adulterare, la possa senza pena alcuna uccidere; quale privilegio videmo non essere a le femene concesso, quando a sì fatte casi se abbattessero. Il che loro, senza posserne a le mei vere ragione opponere, assai peggio che bestie, como de vero sono, remasero. Nondemeno, como che de’ fatti loro ne la passata terza parte non ne abbia a bastanza né quanto vorrei parlato, puro, volendo a la quarta pervenire, da loro cupo pelago del tutto il navigare lassando, d’altri e piatosi e anco piacivole ragionamenti, col volere del mio redentore Cristo Iesù, serà il mio novellare.

 

INTRODUZIONE PARTE QUARTA

 

FINISCE LA TERZA PARTE DEL NOVELLINO; COMENZA LA QUARTA, NE LA QUALE DE MATERIA LACRIMEVOLE E MESTA, E D’ALTRE PIACIVOLE E FACETE SE TRATTA; E PRIMO LO GENERALE ESORDIO, E [PO’] DE LA NOVELLA DE LI LAZARI SERÀ IL COMENCIARE.

 

PROLOGUS

 

          Ancora che nel comenciamento de la presente operetta avesse con meco medesmo diliberato in questa quarta parte non d’altro che de materie lacrimivole e appassionate trattare, nondemeno, da onesta accagione tirato, voglio de tale preposto l’ordene cambiare, e con alquante piacevole novelle le mestuose accompagnando trapassare; a ciò che, con le orrende e infelice le facete e iocunde mescolando, lo avuto dolore de cui legge e de cui ascolta se possa in allegrezza termenare; usando in ciò l’arte de’ prodenti fisici, quale, nel dare de loro acute e violente medele, con cose contrarie apposte correggono la malignità de quelle. Per la cui accagione, senza altramente pensarve, il sequente processo serà de diece altre novelle in manera tale ordenato, che l’una in lacrimare e merore le brigate lasse, e con la venente appresso con piacevolezza e festa se abbia a temperare. E cossì col nome de Dio, e ad onore e gloria de la celebrata illustra madonna, in ditto ordene anteponerò la novella de li lazari nominata, quale, como a singulare tra l’altre, a singularissima madonna fu per me mandata; la narrazione e fine de la quale è sì aspra e fiera, che, de quella sulo rammentandome, non che scrivendola, con difficultà non piccola posso le lacrime tenere. Tuttavia, senza altro intervallo, con un’altra appresso tutta piacevole e bella a tale rencrescimento darò condigna recompensa; e da tale camino li mei passi non diviando, si Ariete, mio celeste signo, me prestarà il suo favore, insino a la fine serà il mio continuare.

 

NOVELLA XXXI

 

argomento

 

          Una coppia de ligiadri amante se fuggono per loro amore in matrimonio convertire; da subita tempestate ismarrite se abbatteno tra uno spitale de lazari, e ivi da’ lazari occiso l’amante, la giovene supra ’l corpo de quello voluntaria se occide.

 

A LA ILLUSTRISSIMA INFANTE DONNA ELIONORA D’ARAGONA.

 

ESORDIO

 

          Se de le cose prospere e ioconde, ornate de facecie e de iocose piacevelizze, la natura se ne rallegra, e ne l’ascoltare ne rende graciose e benigne, non altramente me pare, illustrissima madonna, che, leggendo o ascoltando de l’altrui li infelici, avversi e orribili casi, da umanità siamo costretti a dovergli con le nostre più amare lacrime ne le loro miserie piangendo accompagnare. Il che essendome venuto a noticia un fiero, disaventorato e lacrimevole accidente de dui infelicissimi amante, da loro prava fortuna menati e condutti a supplicio de crodelissima morte, ho diliberato a te, più ch’altra madonna de umanità e compassionevole carità vestita, de tale orrendo e mestuoso avvenimento dare particulare avviso, a ciò che tu leggendo, e altre ascoltando, da compassione vinte, alcuna piatosa lacrimetta spargendo, me persuado che non piccolo refrigerio ne senteranno de’ dui giovenette amante le misere anime, qual penso che ne le eterne fiamme siano crociate. Vale.

 

narrazione

 

          Avendome la fama, verissima reportatrice de’ vetusti fatti, manifestato como al tempo che nel reame de Francia suscitò la Pocella, ne la cità de Nanzì, prima e nobilissima tra l’altre del ducato de Loreno, fuorono dui multo generosi e strenui cavalieri, ognuno de issi antiquissimo barone de certe castelle e ville poste de torno de ditta cità, de’ quale l’uno era chiamato il signore de Cundì, e l’altro messere Jannes de Bruscie. E como la fortuna avea conceso al signore de Cundì una sula figliola nominata Martina, secundo la sua tenera età de vertù singulare e de laudivoli costume repiena, formosa de corpo e de viso ultra a tutto ’l resto del suo paese, cossì anco a messere Jannes, de po’ multi avuti figlioli, un sulo gli n’era remasto, per nome ditto Loisi, quasi de una medesma età con la Martina, assai bello, de gran core e de ogne vertù copioso. E quantunque tra ditti baroni fusse certa larga parentela, nondemeno era tra loro antiqui avuli, da mano in mano augmentando, contratta una amistà e domestechezza sì grande, che, ultre il continuo visitarese che l’uno in casa de l’altro facea, parea che i vasalli e l’altri beni avessero in manera comonicati, che appena divisione alcuna tra loro se cognoscea.

          Ed essendo omai Loisi in de la età virile, avvenne che per lo continuo vederse con la Martina, e per la multa prattica che insiemi aveano, trovarose, senza sospetto o guardia d’alcuno, parimente innamorate forte e dentro le fiamme d’amore accesi, che niuno possea o sapea reposo alcuno pigliare, si non quando erano insiemi ragionando e solazzando, secundo d’amore e da loro fiorita età erano tirati. E in tale ameroso gioco più anni con felicità menaro loro gioventù, senza puro esserne ad alcuno atto illicito processi. E como che da ciascuna de le parte summamente fusse disiderato gostare d’amore l’ultimi e più suavi frutti, nondemeno Loisi, che alquanto più temperatamente era priso, schifando il biasemo de la giovene e del suo parentato, con seco medesmo preposto avea de mai con lei avere carnale coniuncione, se per matrimoniale legge non gli fusse stato concesso; e tale vertuosa e incommutabele intenzione più volte a la sua Martina fe’ palese; a la quale multo piacendo, de continuo il confortava che per alcuno fido messo a li loro patri tale parentela fusse posta avanti. Il che Loisi, che ciò unicamente disiderava, dal suo patre medesmo con assai acconcia manera al signore de Cundì fe’ fare tale requesta; il quale, de po’ che con multe vere ragione ebbe tale parentela del tutto denegata, con onesto e temperato modo a messere Jannes ordenò che per conservazione del comune onore da qui avante la prattica de’ loro figlioli fusse in manera moderata, che non per altro che per orgentissimo bisogno ne la sua casa Loisi ito fusse. De che da tutte per diverse vie fu non sulo negata la parentela, ma interditta la prattica.

          [La qual cosa] sentita, quanti e quali fussero de’ dui amante gli amerose piante, gli amari ramarichi e interni e focose suspire, longo e soverchio serìa il recontare; e la pena che maiormente il povero Loisi affliggeva, si era lo pensare che, per usare summa vertù, gli n’era sì male avvenuto, che lui medesmo non sapea da quale catene gli fusse l’anima nel misero corpo retenuta; puro prepuose per uno loro fido missaggiero per littere la sua Martina visitare, e caramente pregarela, se alcuno modo a la loro salute cognosciuto avesse, gli ne donasse avviso; e scritta la littera, con assai discreta manera a lei la mandò.

          La giovene, da po’ che con tanto intollerabile dolore con seco medesma diliberato avesse de mostrare la grandezza de l’animo suo, como il misso vidde, con lacrimevole viso la littera prise, e quella letta, impedita dal dolore e da incomodità de non possere per littere respondere, al privato latore disse:

          — O sulo consapevole de la nostra occulta e fiera passione, recomandame a cului che a me te manda, e digli che o lui serà mio marito e unico signore de la vita mia, o vero con fierro o con veneno io medesma verrò volunterosa ad iscacciareme l’anima da l’afflitto corpo. E quantunque lui con la soverchia vertù, e con lo cercare più lo onore de mio patre che amore e la nostra gioventù ce spronava, ha convertiti gli nostri maiori diletti in non posserence né parlare né vedere, nondemeno, se a lui dà il cuore venire, d’alcuno de’ suoi accompagnato, de sotto de quisto nostro castello appiè de la finestra de la camera mia, con scala de corda e ogne altra cosa oportuna da possereme a lui calare, io subito me ne verrò, e anderemo a qualeche castello d’alcuno comone parente, e ivi contraeremo il nostro matrimonio. E saputo il fatto, se a mio patre piacerà, starà bene; e quando non, la cosa serà puro fatta, e gli converrà usare del savio, convertendo il non potere più in vertuosa liberalità. E se puro in ciò se despone, questa venente notte ne la ragionata manera, senza più indugiare, a me se ne venga.

          Il fido fameglio con la bene ascoltata imbassata, e con un certo priso signo, ché per iscambio non recevessero inganno, da lei se partì, e giunto al suo signore, pontalmente il fatto gli recontò. Al quale non multi conforte a ciò sequire bisognarno; ma spazzatamente requesti circa vinti gagliarde e animosi gioveni, suoi domestici e fidati vasalli, e ogne cosa che in ciò se requedeva posta in ordene, como notte fu, per lo camino che non era multo de longi, chieti e senza striepito, in poco ore se retrovò co’ suoi compagni de sotto la signata finestra de la sua donna. E dato il priso signo, e da lei, che con sollicitudine aspettava, inteso e cognosciuto, subito bottò un forte filo giù, con lo quale esso la scala ligata, e lei a sé tiratala, e appicciati multo bene li rampiglioni del ferro a l’urlo de la finestra, senza niuna dottanza, como se quella arte più volte avesse usata, per quella se ne venne giù; e dal suo Loisi in brazia racolta, da po’ gl’infinite basci, se condussero a la strada, e a dui portante roncine per ciò menate cavalcorno, [ordenando] ad una loro guida in quale parte condurre gli dovea; e gli fante, quali avante e quali dietro, con gran piacere sequeano il priso camino.

          Ma i loro contrarii fati avendono fuorse altramente diliberato, ad un acerbo, e credo mai udito sì orrebele, fine le condusse; però che non avendo appena un miglio caminato, che loro discarricò una pioggia adosso, sì grande e continua, con tanta contrarietà de venti e folta grandina, de spaventevoli troni e fùlgore, che parea che la machina mundiale tutta insieme ne volesse venire giù. La oscurità era sì granda e la tempesta sì noiosa, che non sulo coloro che erano appiede, e la maiore parte in iopparello, con la guida insiemi se ismarrerono, cui in qua e cui in là fuggendo, ove meglio scampare credeano, ma con difficultà i dui amante, prisi e ligati per mano, l’uno l’altro vedere se posseano; e tutti territi e impauriti, non tale subita demostrazione fusse flagello de Dio per loro rapina mandato, non sapendo ove se fussero né quale camino togliere, non sentendo niuno de’ loro compagne, né per multo e con alte voce chiamarele respondendo, recomandandose a Dio, data la briglia ai cavalli, commesero il camino con la loro vita insiemi ad arbitrio de quilli e de la fortuna.

          E avendo più miglie or qua or là, como nave senza nauchero, caminati, [chiamati] da la cruda morte a l’ultimo supplicio, videro de longi un piccolo lume, e da quello alcuna spiranza prisa, verso ditto lume i cavalli dirizzorno, senza però la malignità del tempo un punto mancargli. E de po’ de loro multo caminare al luoco del visto lume iunti, picchiato a l’uscio, ed essendo loro e resposto ed aperto, trovoro quello essere uno spitale de lazare; ove certe de ditte guaste brigate loro fattese incontro, con poca carità le demandorno cui le avea in tal ora ivi condutti. Gli dui giovenetti ch’erano sì assiderate e indebiliti che con difficultà posseano parlare, per quello più breve modo che possette Loisi respuose che la perversità del tempo e loro crocciosa fortuna n’era stata accagione; appresso le pregò che per amore de Dio d’alquanto fuoco e d’alcuno rigetto per loro fatigati cavalli li fussero liberali. Coloro, ancora che in specie de dannati, como a destituti de speranza de salute, assomigliare se possono, ché in essi non regna umanità o carità alcuna, puro, mossi da debile compassione, le agiutorno a dismontare, e collocati i cavalli con l’asini loro, le condussero a la loro cocina dintorno ad un gran fuoco, e con essi loro se puosero a sedere; e como che la natura de’ dui giovenetti alquanto aborresse la prattica de tale contaminate e guaste gente, puro, non possendono più ultre, se ingegnavano daresene pace.

          Erano a Loisi e a Martina per la vertù del fuoco sì le fuggite bellizze retornate, che parea che a Diana e a Narciso avessero la forma rapita: questo dunque fu accagione ad uno impio ribaldo de ditti guaste, che la passata guerra era stato al soldo, e più de l’altre deturpato e marcio, de fargli nel sfrenato disiderio venire, de volere la bella giovenetta carnalmente cognoscere; e da fiera libidine assalito, se despuose del tutto con la morte del giovene amante volerese de tanto digna preda godere. E senza motare altramente conseglio, fidandose d’un suo compagno non meno ribaldo e inumano de lui, se ne andorno a la stalla, e l’uno scapolati i cavalli e fando gran rumore, e chiamando:

          — O gentile uomo, viene e acconcia li tuoi cavalli, ché non impacciano gli asini nostri — e l’altro posto dietro la porta con una gran secura in mano, aspettava de fare l’orrebile omicidio.

          Deh! ribalda Fortuna, volubele e non contenta de niuna longa felicità de alcuno tuo subietto, e con che losenghevole speranza hai condutte le dui innocente columbe a l’ultima rete de loro più cruda morte! E si a grato non te era che li miseri amante avessero per tuoi tranquilli e abonazzati mari con prosperità navigato, non avive tu infinite altre modi, e in vita e in morte, de seperarigli? Dunque questa sula via como a più crodele te reserbaste? Certo io non so altro che dintorno a tue detestande opere dire me sappia, se non misero colui che in te pone sua fede e speranza!

          Loisi, sentendosi chiamare, ancora che duro gli fusse l’andare e ’l partirse dal fuoco, puro, per adagiare i suoi cavalli, con debile passo verso la stalla se avviò, lassando la donna con altri assai, e maschi e femene, de ditti lazari in compagnia; e né prima fo giunto, che ’l fiero ribaldo gli diede una percossa tale con la ditta secura in testa, che, senza possere dire omei, il bottò morto a terra; e ancora che cognoscesse lui veramente essere morto, con più altri dispiatate colpi li andò la testa percotendo. E quivi lasciatolo, ove era la infelice giovene se ne vennero, ed essendo costoro fra gli altri como maiori, al resto de le brigate impuosero che ciascuno al suo luoco s’andasse a posare; e subito cossì fu fatto.

          La misera Martina remasta sula, e pur del suo Loisi dimandando, e non gli essendo resposto, a la fine lo omicida, fattose avante, con sua guasta e rauca voce gli disse:

          — Figliola mia, a te conviene avere paciencia, però che in quisto punto abbiamo occiso il tuo uomo, e imperciò in lui non più sperare, ch’io intendo de tua gentile persona, fin che serò vivo, goderme.

          O pietose e lacrimivole donne, che ne la mia denegrata novella il crodelissimo e mai non udito caso vi sète degnate de leggere e d’ascoltare, se niuna de vui mai unicamente amò suo marito o d’altro amante fusse fieramente prisa, e vui, giovene innamorate, che nel colmo de vostra fiorita età già sète, se amore per alcun tempo i vostri petti de pare fiamme rescaldò, deh! io ve prego, se umanità alcuna in vui regni, con le vostre più mestuose lacrime accompagnate a piangere la mia penna, che scrivere non sa né vale l’acerbo e intollerabele dolore, che la giovene, disaventurata più ch’altra femena, in quel punto sentì. Però ch’io volendone alcuna cosa narrare, me se representano le spaventivole imagine de quei lazari che dintorno a la miserrima giovene stavano, con gli occhi arrobinate e pelate ceglie, li nasi rusi, le guance tumidose e de’ più varie colure depente, gli labre revolte e marce, le mane fedate paralitiche e attratte, che, como nui viggiamo, più a diabolica che ad umana forma sono assomigliate, quali sono de tanta forza, che impediscono la mia tremante mano, che scrivere più ultre non gli è concesso.

          Vui dunque che con pietà ascoltate, considerate quali pensieri fuorno gli suoi, e de quanto spavento, ultre il cordoglio, gli era accagione il vederse tra dui ferocissimi cani, ch’erano sì infiammate, che parea che ognuno de essi volesse essere il primo corretore. Lei, ultre li immensi gridi e ’l percuoterse de continuo la testa al muro, più volte tramortita e in sé retornata, con lo suo dilicato vulto tutto graffiato e sanguinoso, cognoscendo che niuno reparo o succurso a la sua salute non v’era, diliberò senza alcuna pagura, como a la vita avea il suo Loisi accompagnato, cossì a la morte il volere sequire e accompagnare; e, revolta a quelle rapace fere, disse:

          — O dispiatate e inumane spiriti, per lo sulo Idio ve prego che da po’ che de l’unico tesoro de la vita mia privata me havite, prima che ad altro atto de mia persona procedate, de singulare gracia me sia concesso che ’l corpo morto del mio misero signore possa un poco vedere, e satisfare alquanto de con le mei amare lacrime il sanguinuso vulto lavare.

          Essi, li cui pinsieri da quello che la donna operare volea erano multo lontani, e anco per compiacerle, li volsero de tale demanda essere cortese, e la condussero al luoco ove il disaventurato Loisi morto giacea. Quale da lei visto, fatta furiosa a guisa de matta, con un grido che toccò il cielo, senza alcun retegno gli si bottò addosso; e dopo che quanto gli parve e de lacrimare e de basciarlo se ebbe saciata, ancora che un cortellino ammanito se avesse per fornire il suo fiero proponimento, nondemeno, guardando de lato al suo amante, e vidigli la daga da coloro anco lasciatale, pensò quella essere più corta ed espedita via a reuscigli il suo designo; e nascosamente toltala, e fra sé e ’l corpo morto occultatala, disse:

          — Ante che ’l preparato ferro il core transfiga, chiamo a te, gracioso spirito del mio signore, quale poco avante violente si’ uscito da quisto afflitto corpo; pregote che non te sia noioso aspettare il mio, quale voluntario con teco se coniungerà; tegnavi coniunti astretti lo eterno amore acceso da pare fiamme; e si a li nostri corrottivele corpe nel loro costituito termene non fu conceso, vivendo insiemi, godere in quisto seculo, e lo unico amore demostrarence, voglio che perpetui siate, e sulo d’essere insiemi annodati ve godate, e quale se vuole luoco, che a vui serrà sortito, quello eternalmente possedate. E tu, o nobele e multo amato corpo, prenderai per sacrificio e parentela il mio, che con tanta liberalità s’affretta sequirete ove anderai: non in piacere ma per vittima te era reservato; e gli funebri censi, quale a compite esequie donare se soglino, siano gli nostri sangue insieme commisti e ammarciti in questo vile luoco, insiemi con le lacrime de’ nostri crudi patri.

          E ciò ditto, benché de più longo piangere e ramaricarse avesse nel disio, e altre pietose parole a dire gli restassero, puro, pensando al fornire del suo ultimo e prepostato curso, destramente acconciato il pomo de detta daga al petto del morto corpo e l’agutissima ponta al dritto del suo cuore, senza alcuno resparagno o timore supra de quella premendose, se lassò dal freddo ferro passare, dicendo: “Ah! dispiatati cani, toglìti la preda da vui cotanto disiata”; e strittamente col morto amante abbracciatase, da questa dolente vita se departì. Coloro ebbeno appena l’ultime parole sentite, che veddero più d’un palmo del ferro essergli fuore le spalle avanzato. Fuoro de ciò presso che morti de dolore; e timendo de loro vita, subito fatta una gran fossa ne la stalla, senza movergli como giaceano, li sotterrarno.

          Tale dunque doloruso e crodelissimo fine ebbe la innamorata coppia, quale con la mia lacrimevole penna ho già racontato. Il che dopo le multe avute fiere e mortale guerre tra loro patre, e le grandissime occisaglie tra loro gente soccesse, dove la iusticia de Dio nolente tanto enormissimo delitto fare andare senza vendetta ma fàrende sequire punizione a li omicidi, per inimicicia che tra’ lazari in processo de tempo sequio, per uno lazaro de ditto spitale fu como era stato il fatto dadovero manifestato. Qual da ditti barone sentito, de pare consentimento al signato luoco de quello spitale fu mandato; e discavata la fossa, trovorono i corpi degli nobili e male avventorate amante, quali ancora che fussero tutti guasti e corrutti, la daga rendea testimonio de loro cruda e dispiatata morte. E dal vile luoco racolti, e ad un’arca de ligno posti, e cavati fuori, serrate le porte, e postovi fuoco dentro e de intorno, quanti vi n’erano, con le robbe, le casi, con la chiesa insiemi, in poche ore ogne cosa fo in cenere convertito. E portati i corpe morte ne la cità de Nanzì, con generale dolore, piante e lugubre veste non sulo de’ parente, amice e citadini, ma d’ogne forestiero, fuorno in un medesmo sepulcro con pio e solenne officio sepellite, e in quello con digno epigramme de antique littere le sequente parole fuorno scritte in memoria de’ dui miseri amante: “Invida sorte e inico fato a cruda morte condusse i dui qui sepellite amante Loisi e Martina, in acerbo disio finiti: porgi lacrime, porgi piante, tu che legge”.

 

MASUCCIO

 

          Non meno orrendo e fiero che lacrimevole e pietuso se può il racontato caso considerare, la qualità del quale non so se ad altri donerà quillo che a me ha donato; e ciò si è che quante volte alcuno lazaro vedo, o che de tale fatto me rammento, tante volte me se representano dinanzi a li occhi gli dui miseri giovenetti in quella stalla insiemi abbracciati stritti, e morti, tra luti avolti, e de loro sangue medesmo amacchiati. De che non sulo da me si è fuggita ogne compassionevole carità, che de tale guasta gente avere solea, ma me ne è già remasta una odiosità sì grande, che pare che da la natura me sia concesso a procedere contra ciascuno de loro a la vendetta de dui infilici amanti. E perché me recordo de supra avere promisso de con nova piacevelezza l’avuto dolore occultare, da le ditte miserie per adesso la penna retraendo, e lassando li poveri amante in pace, sequerò appresso con un altro caso tanto difforme dal racontato, quanto l’uno sempre lacrimando se deve leggere, e l’altro con continue rise serà insino a la fine da trapassare.

 

NOVELLA XXXII

 

argomento

 

          Una vineciana tra la multa brigata è amata da un fiorentino; mandali la sua serva e da parte de l’abbatissa de Santa Chiara la invita; il marito e lei il credeno, e sotto sottilissimo inganno è condutta in casa del fiorentino, ne la quale la notte se abbatte il fuoco; lo signore de notte va per reparare, trova la donna che lui anco amava, fàlla incarcerare; la serva del fiorentino con un bello tratto la libera, e lei resta pregione; la matina è la vecchia per scambio de la giovene denanzi la signoria menata; il signore de notte resta schernito, e la donna a lo marito senza infamia se torna.

 

AL MAGNIFICO MESSER ZACCARIA BARBARO.

 

ESORDIO

 

          Se degli suavi e dulci frutti de tua gloriosissima patria, magnifico e generosissimo messer Zaccaria, il gostare da cui può te è per alcun tempo interditto, non dubito che l’odorare de’ vaghi fiore de quella summamente te piace; per la cui accagione, e per remembranza de nostra continuata amicicia, ho voluto per la presente farte parte de ditti vostri piacevoli vineciani fiori, quali ancora che da fiorentina mano fuossero stati colti, puro, per la condizione del fatto, ne senterai alcun piacere, sì como de simile facecie se suole per gli prodenti e savii a tempo degli ocii pigliare. Vale.

 

narrazione

 

          Si bene me recordo, l’altro eri in tua presenzia e da tuoi vineciani medesmi tra’ nostri piacevole ragionamenti fu per verissimo racontato, como non so’ anco egli dui anni passate, che in Vinecia fu un maestro da battere oro da racamare, chiamato Iuliano Sulco, al quale la fortuna, con l’altri temporali beni insiemi, avea concessa una muglie secundo la comone estimazione la più bella e la più ligiadra giovene che in Vinecia allora se retrovasse. Quale, ultra la sua grande onestà, como a femena, era de multe vertù accompagnata; ed essendo tra l’altre parte singularissima maestra aracamatrice, con l’arte del marito insiemi guadagnavano in manera che erano arriccati de un gran brigata de centenara de fiorini. La fama de le bellizze de costei era già per tutta Vinecia sparsa, per la cui accagione multi e diversi giovene, e nobele e de populo, cossì citatini como forestieri, erano de costei, che Iustina avea nome, ardentissimamente innamorati; de che lei essendo, como è ditto, non meno fornita de onestà che de bellezza, parea che la vertù sula gli avesse fatto un durissimo giazzo dentro ’l suo giovenil core, che niuno calente telo d’Amore vi avrebbe possuto intrare, avendo a nulla tutt’i suoi amature con le loro operazione e vaghiggiamenti insiemi, quali, per nobeli e belli, ricchi e giovene che fussero, peio che vile servi li reputava. Questo dunque dal marito inteso e cognosciuto, gli fo accagione d’ogne avuta gilosia, per suverchiamente amarla causata, non sulo da sé de tutto partirese, ma de, raduppiandole l’amore, a lei de lei medesma e del comone onore la guida, il carrico e ’l governo donare; quale de tale libertà, como a savia, non insoperbita ma con laudevol fama la sua vertù crescendo augmentava.

          Dove avvenne che tra la multa e infestante brigata, che de la nostra Iustina invano sequeano la pista, era un giovenetto fiorentino, non meno astuto e prattico che piacevole e bello, quale in Vinecia, o per sé o per altri, grandissimi trafiche facea; e avendo visto e per tanti manifesti signi cognosciuto la integrità de la giovene, che né cupidità de robba né vaghezza de quale se voglia amante a niuna lascivia l’averebbono possuta indurre, pensò sotto artato inganno la avviluppare; e avendo in casa una vecchia scavona multo scozzonata, prattica e intendente, quella compitamente informò de quanto a fare avea. Quale subito avute certe delicate erbecciole, e ne composta una bella insalatuccia, se nde andò in casa de Iuliano, e con allegro vulto salutatolo, gli disse:

          — L’abbatissa de Santa Chiara vi manda de le erbucce del nostro orto, e vi prega che sia ottimamente da vui servita de una libra d’oro per prova, per certi racami hanno già prisi a fare le sue monachette, però che, agratandolo como crede, ve ne farà ismaltire paricchie libre il mese.

          Il maestro, litissimo, rengraciò l’abbatissa del presento, e spacciatamente capata una libra d’oro del megliore, e significatogli il prezzo, gli disse che de tale sorte la averìa de continuo servita. De che la missaggiera contenta al suo messere se retornò; col quale dato ordene al resto, non de po’ multo, lei, con un cestellino de singulari frutti, tutta festiggevole al maestro ne venne, e gli disse:

          — Madonna vi saluta e conforta, e dice lo oro gli mandasti fue avantaggiato buono, e ne vuole diece altre libre per adesso, e a la giornata trovarite de sua nova prattica traere non piccolo profitto. Lei manda quisti poco frutti del giardino del monasterio per divozione a la donna vostra, e dice che per ogne modo la vuole cognoscere, cossì per fama de sue vertù e onestà, como per lo sentire lei essere unica aracamatrice ne la nostra cità, a tale che le sue doncelle possano alcuna dilicatura da lei imparare; e però vi prega e strenge che, non vi essendo grave, il dì avante la festa de la nostra santa Chiara, quale assai de curto serà ne la mandate con sue nevute e cognate, che vi staranno dui o tre dì con gran piacere, e lei ordenerà a ditte gentile donne, ancora che siano de principale de la cità, che passeno rente da qui, e la conducano con loro onorevolmente; e cossì ne la retorneranno.

          Il maestro, sapendo che usanza de donne vineciane era de, in tale dì, andarene a stanciare e pernottare alcune dì al monasterio, secundo haveno lì entro amistà o parentela, atteso che d’ogne altro tempo lo ’ntrarce a ciascuno era interditto, non puose né poco né multo cura a l’inganno, e tanto più che lui tenea per indubitato tale invito e compera d’oro da l’abbatissa procedere; e ultre ciò, avendo, como supra dissemo, grandissima fede a la provata vertù de la muglie, senz’altramente pensarvi, respuose contentarese mandarla quando e como gli piacea; e che qualora le ditte madonne se dignassero passare da casa sua, lui l’averìa volentiere con esse accompagnata. E dato il chiesto oro a la vecchia, e ben pagatose, restò con la muglie contente a maraveglia de la prisa prattica de tale madonna, mill’anne a lui, e multo più a la muglie parendole che ditta festa venesse, non tanto per raffirmare l’amicicia con l’abbatissa per la presente e futura comodità, quanto per recognoscere e fistiggiarse con quelle giovene monache del monasterio, sì como de donne seculare è de costume. La vecchia al patrone retornata, féro gran festa per il fatto che procedea secundo il priso avviso; e venendo l’aspettato dì, il fiorentino, como ordenato avea, fattose venire cautamente in casa circa otto donne dal publico guadagno, parte vidue, e l’altre per mostra quale maritate e quale doncelle, ben vestite e suntuosamente ornate, como se dadovero fussero state le prime madonne de Vinecia, e acconciate in una barca coperta a la vineciana, con più loro scave e fantesche e con la vecchia missaggiera, piano con un remo data una longa volta per altri canali, vennero verso il piano de Santa Croce, dove il maestro Iuliano abitava.

          E ivi subito la vecchia ismontata, tutta godente chiamò Iustina, e gli disse:

          — Le parenti de madonna son qui, per receverve in barca e menarve con loro al monasterio.

          De che lei, como col marito preposto avea, ornatase da prima riccamente, in barca se ne intrò, e da le care madonne lietamente recevuta, il marito, videndo le donne, che la presencia da multo le iudicava, remase contentissimo; e la barca drizzata la proda verso Santo Apostolo, dove il fiorentino tenea casa, e in quella prestissimo ionsero.

          Ove essendo, una de ditte donne disse:

          — Como non chiamerimo nui madonna Teodora, ché lei fu de prime convitate?

          E altre resposto del sì, la chiamareno. Dove una nera, fattase a la finestra, disse:

          — Madonna vi prega che, non essendove grieve l’aspettare, montate un poco su, fin che fornerà del tutto adobarse.

          Colloro, senza aspettare altri inviti, tutte saltate in terra, e prisa Iustina per mano, con gran festa montorno in casa. Ed essendo su, l’una intrata in una camera e l’altra in una altra, e cui usceva e quale intrava, a la fine Iustina se retrovò in una camera sula; a la quale il fiorentino intratosene, con le bracce aperte avvinchiatole il collo, e dopo che con breve parole la ebbe de l’inganno fatta certa, la supplicò, per lo longo e ferventissimo amore che gli avea portato e portava, o per conservazione del suo onore medesmo, senz’altro contrasto se contentasse donarle quello che negare, volendo, non averìa possuto.

          La onestissima giovene, che lo onore se avea insino a qui con diligenzia guardato, videndose a tale estremi termeni, o che usasse del savio e facesse de la necessità vertù, o che invano opponesse sue forze, lo lasso considerare a quelle donne, che in simili casi se abbattessero, quello ne credano che loro per la megliore parte ne avessero eletto. So bene io che la giovene avendo la sera col fiorentino lietamente cenato, senza vider più niuna de le madonne che l’aveano ivi condutta, avvenne che o per lo suntuoso apparecchio, o che altro ne fusse stato accagione, che tra la secunda e terza ora de notte in casa se puose fuoco; e fatto il romore grandi, como in sì fatto accidente in Vinecia se suole fare, accadde che uno de’ signori de notte, che de Iustina era uno de’ primi amature, e de’ più fervente a sequire la impresa, andando per la contrata e sentendo gridare: “Fuoco! Fuoco!”, lui, secundo s’aspettava al suo officio, bottate le porte per terra, rattissimo montò in casa, e imposto a le bregate che reparassero al fuoco, lui, per servare il consueto ordene, se puose dinanzi la camera del patrone de la casa, a tale che le brigate che intravano, non avessero le sue robbe involate. E né prima fu giunto, che vide il fiorentino con la Iustina per mano tutti storditi e territi per fuggire il fuoco; quale, per li multi lumi che ’l signore portava, fu subitamente da lui cognosciuta; e da dolore e ammirazione confuso, fu subito il suo fervente amore in fiero odio convertito, e volentere, se da l’autorità del suo officio non gli fusse stato vetato, l’averìa con la spata da canto in canto passata, sulo per lo pensare che colei che per unica al mundo de pudicicia e de onestà la aveva sempre tenuta, e mai da lei d’un sulo reguardo essere satisfatto, la videre a guisa de bagascia publica in casa de un mercante forestiero, e fuorsi garzone d’altri, condutta.

          Nondemeno, sentendo il fuoco essere già ammortato, raffrenatosi alquanto, diliberò senza altro riguardo la venente matina farla col tamborro al bordello accompagnare, como de portare le femene prise in publico adulterio è loro permisso; e con gran furia toltala de mano al poveretto fiorentino, con sue brigate uscito de casa, la menò in una cavostrata dov’era la pregiona, e quivi a modo de vile serva carceratala, impuose a’ pregionieri la dovessero insino a lo matino con diligenzia guardare; e ciò fatto, se n’andò descorrendo per lo suo quartieri, secundo l’ordene de l’officio recercava. Il fiorentino che con dolore inestimabile era, e con ragione, remasto, da po’ che ’l suo travagliato cervello ebbe alcuno luoco de reposo trovato, d’amore e dal suo medesmo senno aitato, gli occorse de reavere la preda con tanta industria guadagnata, e in sì breve tempo con tale infortunio perduta. E sapendo ottimamente ov’era la pregiona e la qualità de’ pregioneri che la giovene guardavano, informata la vecchia, pieno un cesto con caponi e pane e dui fiasche de buon vino, rattissima con la barca e ’l fante lì se n’andò; e trovati i pregioneri, gli pregò caramente per Dio gli concedessero il dare da mangiare a quella poveretta fantesca de suo messere, che a torto e a peccato era dal signore de notte stata prisa, atteso che degiuna, lacrimevole e trista, da casa era partita; e per farigli benivole e grate a la sua domanda, loro donò la maiore parte de la cena, che seco per ciò avea portato; quali, como golusi e de poco sorte, de ligiero vennerno piatosi, e gli dissero che intrasse dentro a suo piacere. La vecchia intrata, e spacciatamente dato il suo manto a la giovene, gli disse che presto se ne uscisse, e montasse in barca dove il fante l’aspettava; quale letissima ciò fatto, senza essergli de’ pregioneri fatto mutto, saltata in barca, fu dal fante subito donde poco avante violente n’era uscita con grandissimo piacere retornata.

          Venuta la matina, il signore de notte, quantunque il suo sdigno ogne ora se facesse maiore, e più ne lo crodele e diliberato castigo se raccendesse, puro prepuose non senza consulta de’ compagni in ciò procedere; con li quali insiemi radunatose, con non poco piacere loro racontò il fiero caso e quello che de fare intendea per ultimo supplicio de tale ribalda; dove, dopo le avute rise e piacivoli mutti, parve a tutti che a la signoria se ne fecesse sentimento. E cossì de brigata al palagio andati, e al doce e agli altri il fatto con sue circustancie racontato, ordinarno che la giovene occultamente dinanzi a loro fusse menata, per saverene più, ultre la devuta punicione, como e per quale accagione e cui avesse la bella giovene in casa del fiorentino condutta; e de contenente fu imposto a quattro che da la pregiona cautamente la giovene, e avvolta de’ suoi panni, in manera che da niuno fosse cognosciuta, ivi la conducessero. Coloro andati, e prisa la sagace vecchia, e ben ligatala, la menorno dinanzi la maiore parte de la signoria; la quale, como in tanto spittaculo se vide, con alte voci comenzò a gridare:

          — Iusticia, per amor de Dio, de quisto gliottoncello vostro signore de notte, quale eri sera abbattendosi il fuoco a casa de mio patrone, v’intrò con sue brigate, e senz’altra accagione me prise e diede in mano de’ suoi sbirretti, e carcerata me tene, in manera che ho abuta la peggiore notte che mai avesse alcuna femena, e adesso fattame condurre qui dinanzi a vui ligata, como se avesse il tesoro de Santo Marco dirobato, ch’io non vedo, né vui altri potiti cognoscere, che offesa abbia a lui possuta fare una povera vecchia e d’altrui serva, como sono io.

          Il signore de notte, ancora che prodente fusse, ciò udendo e videndo, como remanesse abbagliato, fuore de sé e maravegliato, ciascuno ne può fare iudicio: egli devenne non sulo mutolo, ma sì nel viso cambiato, che al doce e a tutta la signoria diede manifesto signo lui avere gravissimo errore commisso; dove parve a tutti che la vecchia fusse subito in libertà posta e a sua casa remandatane; e cossì fo fatto. Il che de poi, cui de loro da vero e cui mottiggiando, il signore de notte dimandavano se vigliando o puro dormendo o per quale accidente avea la povera vecchia prisa; e in manera lui era confuso, che non sapea né possea, como era la cosa de vero passata, la resposta firmare. Dove con gran piacevelezza tra tutti fue concluso e sentencia data, che la fiera passione e gran fantasia, che lui de la muglie de maestro Iuliano avea, le avesse tale travisione nel cerebro causata, da fareglie una brottissima vecchia tanto ligiadra giovene parere; e cossì, schernito, maravegliato e poco contente, se nde retornò a casa. Il sagacissimo fiorentino, che con tanta arte e strani casi avea l’amata donna acquistata, perduta e recoverata, ne la cauta manera che da casa sua l’avea tratta, ne la fe’ senza scandalo o sentimento del marito retornare.

 

MASUCCIO

 

          Somme lode se possono, e meritamente, a la sagacità e ingegno del fiorentino attribuire, atteso che ne l’altrui regione gli fue concesso, tra tanti singulare correture, il palio guadagnare, e, dopo de l’avuto infortunio, con la ditta astucia a sì lieto fine reuscire. E perché degli variamenti e casi de fortuna non se ne può tanto ragionare, che più con ammirazione non ne reste a dire, in quest’altra [novella] se mostreranno de più strani, diversi e dispiatati accidenti a dui poverette e nobile amante per soverchio amore travenute, con tanta disgualanza dagli racontati, quanto con sanguinose lacrime e violente morte fuorno termenate.

 

NOVELLA XXXIII

 

argomento

 

          Mariotto senese, innamorato de Ganozza, como ad omicida se fugge in Alissandria; Ganozza se fenge morta, e, da sepultura tolta, va a trovare l’amante; dal quale sentita la sua morte, per morire anco lui retorna a Siena, e, cognosciuto, è priso, e tagliatole la testa; la donna nol trova in Alissandria, retorna a Siena, e trova l’amante decollato, e lei supra ’l suo corpo per dolore se more.

 

A LO ILLUSTRISSIMO SIGNORE DUCA D’AMALFI.

 

ESORDIO

 

          Quanto sono più avverse e infilice le varietati de casi d’amore, tanto più a’ passionati e savii amante se deve de quilli, scrivendo, dare noticia; e perché ha gran tempo che ho cognosciuto te, illustrissimo mio signore, non sulo negli amorusi lacce avvolto, ma massimamente amando prodentissimo, m’è già piaciuto de uno piatosissimo accidente de dui miseri innamorati donarete pieno avviso, a ciò che con la tua accostumata prodencia e accomolatissime vertù doni, iusta al tuo parere, sentencia, quale de essi, ogne loro effetto considerato, più ferventemente amasse.

 

narrazione

 

          In quisti dì da un tuo senese de autorità non piccola fu tra certe ligiadre madonne racontato, che non è già gran tempo che in Siena fu un giovene de buona fameglia, custumato e bello, Mariotto Mignanelli nominato, il quale, essendo fieramente innamorato d’una ligiadra giovenetta chiamata Ganozza, figliola d’un notevole e multo estimato citatino, e fuorsi de casa Saraceni, in processo de tempo ottenne d’essere da lei altresì ardentissimamente amato. E avendo più tempo passiuti gli occhi de li suavi fiure de amore, disiderandosi per ciascuno gostare gli suoi dulcissimi frutti, e cercate più e diverse vie, e niuna cauta trovandone, la giovene, che non era meno prodente che bella, diliberò occultamente sel togliere per marito, a tale che se per contrarietà de’ fati il godere loro fusse interditto, avessero avuto scuto da coperire il commisso errore. E per dare al fatto con opera compimento, corrutto per dinare un frate augustinese, per mezzo del quale occultamente contrasse ditto matrimonio, e appresso, da sì fatta colorata accagione pigliata secortà, con non meno piacere de l’uno che de l’altro, interamente adimpiero loro bramose voglie. E avendo de tal furtivo e licito in parte amore alquanto con filicità godute avvenne che loro prava e inimica fortuna per contrario tutti gli loro e presente e aspettate disiderii revolse; e ciò fu che Mariotto un dì venendo a parole con uno altro onorevole citatino e da parole a fatti, in tanto andò la cosa che Mariotto ferì colui d’un bastone in testa, de la quale ferita fra brievi dì se morì; per il quale Mariotto occultatose, e da la corte con diligenzia cercato e non trovatose, da’ signore e dal potestà non sulo fo a perpetuo esilio condannato, ma gli fo dato bando de ribello.

          Quanti e quali fussero de’ dui infelicissime amante, occulti novelli sposi, il soppremo dolore e lo amaro lacrimare per sì longa e, per loro credere, perpetua separazione, cui fusse da sì fatte punture stato trafitto, sulo ne porrà vero iudicio donare: egli fu sì fiero e acerbo, che a l’ultima dipartenza più volte l’uno in braccio de l’altro fu per gran spacio per morto iodicato. Puro, dando alcuno luoco al dolore, sperando col tempo per alcuno possebele accidente lo repatriare gli serìa conceso, de pari volere diliberò non che da Toscana ma da Italia se assentare, e in Alissandria andaresene, ove un suo cio avea, chiamato ser Nicolò Mignanelli, uomo de gran trafico e multo cognosciuto mercatante; e con assai moderati ordeni, como se avessero in tanta distancia con littere possuti visitare, con infinte lacrime la innamorata coppia se divise. Il misero Mariotto partito, e d’ogne suo secreto un suo fratello fatto consapevole, supra ogne altra cosa caramente il pregò che d’ogne accidente de la sua Ganozza particulare e continuo il facesse avvisato; e con li dati ordeni intrato in camino, verso Alissandria se avviò. Ove a convenevole tempo giunto, e trovato il cio e da lui liete e amorevolmente recevuto, d’ogne suo passato affare il fe’ capace; il quale, como a prodentissimo, con rencrescimento ascoltando non tanto il caso del commisso omicidio quanto de l’avere a tanto parentato offeso, e cognoscendo che ’l reprendere de le cose passate poco più che nulla giovava, se ingegnò con lui insiemi daresene pace, e pensarene col tempo d’alcuno oportuno remedio providere; e postogli de suoi trafiche tra le mano, più e più tempo appresso de sé con gran passione e quasi continuo lacrimare il sostenne. Però non era veruno mese, che con più littere non fusse e da la sua Ganozza e dal fratello visitato; il che a sì fiero caso e tanta assenzia era a ciascuna de le parte mirabele satisfazione.

          E in tali termeni stando la cosa, avvenne che essendo il patre de Ganozza da multi multo requesto e infestato de maritarla, e lei con diverse colorate accagione niuno accettatone, a la fine essendo dal patre astretta a pigliare marito, tale che ’l negare non averìa avuto luoco, era da sì fiera battaglia la sua afflitta mente de continuo inquietata, e in manera che la morte, più che tale vivere, gli serìa stata carissima. E ultre ciò, avendo ogne speranza del retornare de suo caro e occulto marito trovata vana, e che ’l palesare al patre la verità del fatto nulla arìa giovato, anzi de maiore sdegno gli serìa stata accagione, prepuose con un modo non che strano ma periculoso e crodele, e fuorsi mai udito racontare, ponendo lo onore e la vita in piriglio, a tanti mancamenti satisfare. E d’animosità grande aitata, avendo al patre respuosto contentarse d’ogne suo piacere, subito mandò per il religioso, primo tramatore del fatto, al quale con gran cautela discoperto ciò che de fare intendeva, il rechese che del suo agiuto gli fusse favorevole. Il quale sentito, como è già de loro costume, alquanto ammirato, timido e lento mostrandosi, lei, con la vertù e incantesemo de messere san Ioanni Boccadoro, il fe’ ardito e gagliardo divinire a volere con virilità la ’mpresa sequire; e per la pressa che gli cacciava, il frate andò prestissimo, e lui medesmo, como ad esperto nel mestiero, compuose una certa acqua con certa composizione de diverse pulvere, termenata in manera che, bevuta, la arebbe non sulo per tre dì fatta dormire, ma de essere da ciascuno per vera morta iodicata. E a la donna mandata, la quale, avendo prima per un correro apposta il suo Mariotto de quanto fare intendea pienamente informato, e dal frate l’ordene de ciò se avea da fare inteso, con gran piacere quella acqua se bebbe.

          E non dopo multo spacio che gli venne un stupore sì grande, che per morta cascò in terra; de che le sue fante con grandissimi gridi féro il vecchio patre con altre assai brigate al romore correre, e trovata la sua unica e da lui tanto amata figliola già morta, con dolore mai simele gostato fatti vinire prestissimo medici con ogne argomento da revocarla in vita, e niuno valendole, fu da tutti tenuto per fermo lei da supravenutale gocciola fusse morta. Per che tenutala tutto ’l dì e la sequente notte in casa, e con diligenzia guardatala, e niuno signo si non de morta cognoscendone, con infinito dolore de l’afflitto patre, pianti e ramarichi de parenti e de amici e generalmente de tutt’i senise, con pompose esequie in uno onorevole sepulcro in Santo Augustino fo il dì sequente sepellita. Quale in su la mezza notte fo dal venerabele frate con l’agiuto d’un suo compagno, secondo il priso ordene, de la sepoltura tratta, e a la sua camera condutta; e appressandose già l’ora che ’l termenato beveraggio avea il suo curso consumato, con fuoco e altri necessarii providimenti con grandissima difficultà in vita la redussero. E nel pristino sentimento retornata, ivi a poco dì, travestita in frate, con lo buono religioso a Porto Pisano se condussero, dove le galee d’Acquamorta, in Alissandria passando, doveano già toccare; e trovato ditto passaggio in ordene, in quelle se imbarcaro. E perché gli maritimi viaggi soglino essere, o per contrarietà de’ tempi o per nove occorrencie de’ mercante, multo più longi che non vorrebbono gli vianti, avvenne che le galee per diverse accagione ultre il devuto termene più misi stettero ad arrivare.

          Gargano, fratello de Mariotto, per continuare l’ordene dal caro fratello lasciatole, subito con più e diverse littere de mercanti con rencriscimento grandissimo avea il disaventorato Mariotto de la improvista morte de sua Ganozza particularmente informato, e dove e como era stata pianta e sepellita, e como non dopo multo il vecchio e amorevole patre per gran dolore era da questa vita passato; a’ quali avvisi essendo l’avversa e noiosa fortuna assai più favorevole che al messo de la dolente Ganoza non fu, e fuorsi per avere agli poveretti amanti l’acerba e sanguinosa morte che li supragionse apparicchiata, per modo tale che ’l messo de Ganozza fu su una caraveglia, che con frumento in Alissandria andava, priso da’ corsali e morto. De che Mariotto non avendo altro avviso che quilli del suo fratello, e per certissimi tenendoli, quanto de tale acerbissima nova fusse, e con ragione, dolente e afflitto, pensalo, lettore, se pietà alcuna in te regna. Il suo cordoglio fu de tale qualità e natura, che de non stare più in vita de tutto se dispuose; al quale né persuasioni né conforti del suo caro cio valendoli, dopo il suo longo e amaro pianto, de retornarsi a Siena per ultimo partito già prise, a tale che, se la fortuna in alcuno atto gli fusse stata benivola a non fare il suo retorno sentire, se porre travestito a piè del sepulcro, dove lui credea la sua Ganozza essere sepellita, e quivi tanto piangere, che se avessero li suoi giorni termenati; e se per disgracia fusse stato cognosciuto, iocundissimo reputava lo essere per omicida iusticiato, pensando essere già morta colei che più che se medesmo amava, e da lei era stato egualmente amato.

          E su in tale consiglio firmatose, aspettando lo partire de le galee de vineciani per ponente, senza alcuna parola al suo cio dirne, in quelle salitone, con grandissimo piacere correndo a la predestinata morte, in brevissimo tempo arrivò in Napoli, e da quindi per terra in Toscana conduttose quanto più presto puoté, travistito in pirigrino, a Siena, da niuno cognosciuto, se nde intrò. E ad uno non multo frequentato spitale reparatose, e senza dare de sé a le sue brigate alcuna noticia, a convenivole ore se ne andava a la chiesa dove la sua Ganozza fu sepellita, e dinanzi al suo sepulcro amaramente piangeva, e volentieri, se avesse possuto, serìa dentro la sepultura intrato, a tale che con quillo delicatissimo corpo, che vivendo non gli era stato concesso lo godere, morendo lo avesse col suo eternalmente accompagnato; e a quello mandare ad effetto, erano firme tutt’i suoi pensieri. E non restando de essere al solito dolerse e lacrimare continuo, avuti per cauta via certi ferri, e una sera al vespero occultatose dentro la chiesa, la venente notte tanto se affaticò, che avea il coverchio de la sepoltura sotto pontelle posto; e stando per intrare, avvenne che ’l sacristano, andando per sonare matutino, sentì certo romore, e andato a cercare quello che fusse, trovò custui a detto esercicio occupato; per che, credendolo latro che i corpi morti volesse dispogliare, gridando forte: “Al latro! Al latro!”, tutti gli frati vi corsero; e prisolo, e uperte le porte, e multi e diversi sicolari intrativi, e trovato il misero amante, il quale ancora che tra vilissimi strazzi fusse avvolto, fu subito cognosciuto essere Mariotto Mignanelli; e quivi detenuto, prima che dì fusse, ne fo tutta Siena repiena. E pervenuta la nova a li signore, comandarno al potestà che per lui andasse, e presto ne facesse quello che le legge e le loro costituzioni comandavano. E cossì lui priso e ligato, fu menato al palagio del potestà; al quale dato de la corda, senza volere multi tormenti recevere, confessò pontalmente l’accagione de sua desperata venuta. Il che, ancora che universalmente ognuno ne avesse grandissima compassione, e tra le donne amaramente se ne piangesse, iudicando colui essere unico al mundo perfetto amatore, e ciascuna col proprio sangue il recomparasse, nondemeno fo per lo primo dì de la iusticia a perdere la testa condannato; e cossì, al dato termene, senza posservisi da amici e da parenti reparare, fu mandato ad effetto.

          La infelicissima Ganozza, con la guida del ditto frate de po’ più misi con multi e diversi travagli gionta in Alissandria, in casa de ser Nicolò se condusse; a lo quale data cognoscenza, e dittoli cui era e per quale accagione venuta, e ogne altro suo passato accidente racontatoli, fu ad una ora e de meraveglia e de rencrescimento repieno; e dopo che onorevolmente la ebbe recevuta, e fattala como a donna revestire, e al frate dato ultimo conviato, a la disaventorata giovene disse como e per quale disperazione per la avuta nova il suo Mariotto, senz’alcuno fargline sentimento, s’era partito, e como per morto lui lo avea pianto, atteso che non per altro che per morire era andato. Se ’l presente dolore grande de Ganozza passò, e con ragione, tutti gli altri e suoi e de l’amante per adietro avute, ogne cosa considerata, pensalo cui pensare il sa e deve; però ch’al mio parere ogni parlare ne sarebbe scarso. Revenuta dunque in sé, e col suo novello patre consigliatase, de po’ più e diversi ragionamenti de calente lacrime bagnati, diliberorno ser Nicolò e lei rattissimamente vinirsene a Siena, e o morto o vivo che Mariotto trovassero, con quilli remedii, che da tale estrema necessità erano concesse, almeno a lo onore de la donna reparare. E raconciati i fatti suoi il meno male che possette, rivestita la donna in uomo, trovato buon passaggio, e con prospero vento navegato, in breve tempo a li toscani liti arrivando, a Piombino dismontorno, e da quinde occultamente ad un podere de ser Nicolò presso Siena se condussero, e, de novelle dimandando, trovorno il loro Mariotto tre dì avante essere stato dicollato.

          Quale acerbissima nova da loro sentita, quantunque sempre per firmo l’avessero tenuto, nondemeno, essendone fatti certissimi, quanto tutti dui insiemi e ognuno da per sé remanesse ismorto e afflitto, la qualità del fiero caso ne farà iudicio. Li pianti de Ganozza erano, col forte chiamare omei, sì ardenti, che un cuore de marmo arìano commosso a pietà; pur essendo da ser Nicolò de continuo confortata, dopo più savii e pieni de carità consigli, diliberarno de, a tanta perdita, sulo a lo onore de sì gran parentato providere, e fare che occultamente la poveretta giovene dentro un divotissimo monasterio se rechiudesse, e quivi avesse li suoi infortunii, la morte del caro amante con la sua miseria insiemi, fin che ’l vivere gli fosse concesso, amaramente a piangere. E cossì fu con grandissima cautezza fatto e mandato ad intero effetto; ove essendo, senza dare de sé si non a l’abbatissa alcuna noticia, con interno dolore e sanguinose lacrime, con poco cibo e niente dormire, il suo Mariotto de continuo chiamando, in brevissimo tempo finì gli suoi miserrimi giorni.

 

MASUCCIO

 

          Assai più da passionate donne che da uomini virili serà de tanti avversi casi avuta doppia compassione, e ultre ciò, unico e ferventissimo serà da quelle l’amore de Ganozza, e più che quello de l’amante, iudicato; ma se per aventura se troverà a tale discossione alcuno che saviamente amasse, con vere ragione proverà incomparabelemente essere stato più grande e calente quello del misero Mariotto, per accagione che, posto che la iovene, como a donna, adoperasse cose maravegliose ne l’andare a trovare l’amante, pur mossa dal credere vivo trovarlo, e con lui insiemi longamente godere, ma il disaventorato amante, sentendola morta, vuolse prontissimamente non per altro venire che per perdere la propria vita, como già fece. Ma ad altre tale piato lassando, raconterò appresso un facetissimo caso: como un gelosissimo oste, ancora che astuto fusse, condusse la muglie con la sua medesma cavalla, per cupidità de piccolo guadagno, insino a la nave del giovene che l’amava.

 

NOVELLA XXXIV

 

argomento

 

          Tubia ragoseo gode con la muglie de l’oste in Iovenazzo, e con sottile inganno induce il marito con la sua cavalla gli la menare in nave; [l’oste] torna in casa e non trova la muglie; dopo, longamente dolese de la corta fede de’ ragosei, retorna a remaritarse, e, senza recordarse la prima perduta, gode con la secunda acquistata.

 

AL MAGNIFICO BARONE DE PIRIGNANO.

 

ESORDIO

 

          Essendome da più e diverse incomodità vetato, e da niuno ocio o piacere concesso, cordialissimo mio barone, de la interlassata penna repigliare, sono insino a qui tardato al non scriverte la novella, de la quale e a te e a me parimente ne fo dato particulare avviso. Nondemeno gli dulci e suavi frutti per me colti de tua giocundissima amicicia hanno in me trovato sì fatto luoco, che, il travagliato intelletto quietato, a scriverte la presente pur con piacevelezza non piccola vengo; a tale che, del mio amore e del rescriverme a volte recordandote, serà accagione de farence con gli occhi de la mente de continuo vedere, però che, como già sai, la qualità del scrivere ha in sé tanta autorità, che fa gli amici assenti presenti parere e reputare.

 

narrazione

 

          L’altr’anno fu a Iovenazzo un buon uomo chiamato Tonto de Leo, il quale, fuorsi per volere con non multo corporale affanno e sé e sue brigate sostentare, si era posto a fare albergo in su la piazza de la cità; e avendo una bella e ligiadretta iovene per muglie, chiamata Lella, de continuo parea che denanzi al suo albergo vi fusse franca la fiera, per le multe e infestante brigate de giovene che la vaghiggiavano; de che l’oste, ancora che gelosissimo fusse, per demostrare, como a tavernaro novello, che gran concorso avea, quando con piacere e talevolta con rincrescimento, como è già de’ gelosi costume, lo tollerava. Ora avvenne che un gentil iovene, mercante ragoseo, nominato Tubia, pratticando per quilli luochi maritimi de Puglia, comprando grani per una nave che a Monopoli avea lassato, recapitò a Iovenazzo; ove non multo dimorando, gli fo d’alcuni suoi amici ditto de la bellezza e piacevolezza de la nominata osta, e che se lei avesse avuto tempo e attitudine, averìa cui avesse pigliata tale impresa interamente satisfatto. Tubia, ciò udendo, più vago de vederla che de bene albregare, andò ad alloggiare col nostro Tonto; de la venuta del quale credendo lui traere non piccolo guadagno, non sulo esso lietamente il recevette, ma da la muglie le fe’ fare grandissime accoglienze; e con loro tutto domesticatosi, fra brevissimi dì del piacere de colei interamente adimpì il suo disiderio.

          Ed essendo non meno ella de l’amore del ragoseo impaccita, che lui del suo priso si fusse, cognoscendo che la suverchia cautela del marito non gli concedea, como disideravano, lo insiemi godere, né Tubia multo tempo possere qui dimorare; e ultre ciò, gli parea un mancamento de natura che tanto peregrina giovene fusse per muglie ad un poltrone concessa e ivi dimorare como signo al versaglio; diliberò ponere tutt’i suoi ingegni de menarenela seco, e ad una ora satisfare a se medesmo, a Lella unicamente piacere, e Tonto togliere d’affanno e gilosia. E con la giovene cominciorno a trattare del modo; e più e diverse vie cercate, ancora che alcune caute gli paressero, puro, estimando che qualora l’oste non avesse la muglie trovata, se avrìa andato tanto travagliando e cridando, e con l’adiuto d’amici e col faore de multi innamorate de la muglie tanto adoperato, che per ogne modo la serìa reavuta, pensò con una manera non meno piacevole e bella che strana e periculosa menarnela, e a tanti possibili inconvenienti reparare.

          E de l’ordene la giovene pienamente informatane, avendo sentito che la nave altro che lui non aspettava per levarse, chiamò l’oste e gli disse:

          — Tonto mio, avendome tu in casa tua onorato e accarizzato, me pare, e meritamente, de te possereme fidare, e con alcuna tua comodità te adoperare, in quello che tu uderai, in servicio de un mio amico, quale in vero un altro io estimo non sia. Il modo è che io col nome de Dio intendo domane partirme, per la mia nave essere del tutto dispacciata; e avendo qui in casa d’un citadino occultato un giovenetto vineciano, quale per non avere interamente [satisfatto] a’ suoi maestre, per non farlo ne le loro mano travenire, ho diliberato menarlo meco in levante; e perché lui è stato più dì da continua febre inlascato, e in manera debelito, che con bestia da sella non se porrìa senza suo detrimento condurre, ho pensato, con farete da lui più che ’l dovere pagare, che tu con la tua cavalla da suma questa notte travestito in femena e con lo vulto occultato, in manera che, passando per Bari, ove lui è multo cognosciuto, niuno il raffigurasse, de compagnia nel menassemo insino a Monopoli; e ’l sequente dì te ne potrai retornare, e averai ben guadagnato, e a me singularemente piaciuto. Tuttavia non lasso de recordarete che con persona che viva, neanco con tua muglie, ne facce parola, ché ancora che lei, como a giovene, sia puro discreta, nondemeno le femene sono de natura poco continente, e, per non loro mancare mai che dire, dicono d’altrui più che quello che sanno; e si avviene che loro sia ditta alcuna cosa secreta e impostoli che nol redicano, pare che loro se abbatta la rabia adosso fin che non l’haveno palesciata, in tanto grandissimo scandalo ne sequesse; però sei prodente, e del servicio tuo lassa il pinsiero a me.

          Tonto, udendo questa sì bene composta favola, e cognoscendo col servire de l’amico l’affanno essere poco e la utilità essere multa, a la grossa gli respuose lui essere a tutta sua requesta apparicchiato, e che de dirlo a la muglie non dubitasse, ché con lei non ragiona mai si non de cose che a la cocina appertengono. E con più altre piacevolezze fatta usanza, e ben pagatolo, e fatti certi piccoli veveragge a la muglie e al fante, como de’ mercanti a l’ultimo partire è de costume, Tonto impuose a la muglie che in sul far del dì in casa de la matre se ne andasse, e ivi insino al suo retorno l’attendesse; e al fante dato l’ordene del governo de casa, se andorno a possare. Tubia, che poco o niente voglia de dormire avea, tra la mezza notte chiamò Tonto che la cavalla ponesse in ordene, ché già volea partire; quale rattissimo levato, e acconciata la bestia, retornò a serrare adosso con la chiave a la muglie, e al fante data la chiave, disse che se facesse quanto avea ordenato; e ditto adio, andò ov’era Tubia e gli disse:

          — Che abbiamo da fare?

          Quale fra quello mezzo era già montato a cavallo, respuose:

          — Tu te ne uscirai fora la porta de la cità con la cavalla, e io anderò e poneromme lo giovene in groppa, e quivi il cavalcaremo.

          Disse Tonto:

          — Sio col nome de Dio!

          E avviosse verso la porta. Tubia, data una volta per la terra, retornò a l’albergo, e retrovato il fante de l’oste tutto infreddato e sonnacchioso dintorno ad un povero fuoco, gli disse avere scordato la bargioletta a capo al letto; il quale con difficultà e sonnacchioso gli respuose che andasse per essa. De che lui salito su, e con uno certo ferretto per ciò acconciato facelemente uperta la cambera [de la donna], e con certi altri panni però portati spacciatamente revestitala, e postoli un pappafico col cappello, e acconciatala in manera che uomo al mundo l’averebbe cognosciuta, se la fe’ in groppa montare, e andò dove da Tonto era con disio aspettato; e tutti dui cavalcatala su la cavalla e pontellata bene, e lei fando del tristo, in manera che dadovero non se potesse in su l’imbasto retenere, e con tale artato inganno introrno in camino.

          E passando per Bari, fu d’alcuni, che poco faccende aveano, dimandato cui fusse e dove la femena menava; lui, che alquanto faceto era, e puro per servire con lialità l’amico, respuose:

          — Egli è mia muglie, che la porto a guadagnare a lo pianale de Taranto.

          E con semele e altre assai facete respuoste andò per tutto ’l camino mottiggiando quanti de ciò lo domandavano. E iunti a Monopoli, e trovata la nave con lo ferro appiso per levarse, né altro che ’l ragoseo aspettavano, satisfatto Tonto e de la sua liberalità e cortesia infinite gracie rendutele, lui, como insino a lo lito del mare le avea la muglie condutta, cossì anco le volse con amore e carità ad imbarcarla prestare agiuto e compagnia; e con festa tolto l’un da l’altro ultimo conviato, la nave fatta vela, e Tonto, per avere bene guadagnato litissimo, montò a cavallo, ché a piede era venuto, e verso casa se ne retornò. Dove trovato la muglie avere cambiato patrone e regione, tardo alquanto malicioso devenuto, estimò como il fatto de certo era andato, e non possendovi fare alcun reparo, più e più dì amaramente la pianse; dopo puro remaritatose, iorò con vóto solenne de mai più al suo vivente veruno ragoseo allebergare; e cossì guardandose de la secunda ruina, Tubia e Lella godettero de loro rapina.

 

MASUCCIO

 

          Per lo recevuto inganno de l’oste, che in vero fu netto, singulare e mirabile, potimo l’ingegno del ragoseo estimare; però, essendo sì fieramente innamorato, gran parte a l’amore se ne possono lode attribuere, quale, per quello che gli suoi effetti ogne dì ne mostrano, vedemo che non che supra gli umani sentimenti ha vigore, ma supra le indomite e selvane fiere le sue forze se estendeno; le operazione de quale serìano suavissime a comportare, se con la sua dolcezza non avvolgesse a la improvista l’amarissimo assencio, in manera tale che a le volte con duppia e cruda morte sono li avuti piaciri de’ poverette amante termenati, sì como appresso se ne rende aperto testimonio.

 

NOVELLA XXXV

 

argomento

 

          Eugenia, gravida de uno armigero, dubita de’ fratelli; fenge essere ammorbata e morta de peste; l’amante travestita in regazzo la conduce in Lombardia; sono assaltati da inimici; l’amante è ucciso, e la donna lei medesma sopra ’l suo corpo se uccide.

 

A LO EGREGIO MESSERE FRANCISCO BANDINI NOBELE FIORENTINO.

 

ESORDIO

 

          Onerosa suma è quella, multo vertuoso messere Francisco, quale hai a’ mei deboli dossi già posta, per averme la tua elegante dottrina, dal primo dì che te cognobbi insino a qui, con carità non piccola comunicata, e io non cognoscere in me modo né facultà alcuna [de] possere a tanto beneficio né poco né multo satisfare. Nondemeno, per non esser del tutto ascritto al libro de l’ingrati, cercando tra ’l mio esile peculio, ho trovata una nova qualità de moneta senza cugno e de falso metallo composta, quale, per scambio de la tua perfettissima, a’ mei maiori bisogni convertita, de presente te mando; e si de quella profitto alcuno non te ne seque, recivela puro per recognoscenza de la mia verso de te grandissima obligazione. Vale.

 

narrazione

 

          Poco tempo si fa, che ne la egregia e bellicosa cità de Peroscia fu un nobile e strenuo armigero braccesco, ligiadro e multo vertuoso e gagliardo, Virgineo de’ Baglioni nominato; il quale avendo un longo tempo infelicemente amata una vaga e formosissima iovene de assai buona fameglia, chiamata Eugenia, sempre da male in peggio crodelissima gli s’era demostrata. Ove accadde che avendose Virgineo avantaggiatamente bene in una notevole giostra adoperato, e de quella tra multi valerusi uomini avuto lo onore, fu accagione de rompere e spezzare ogne durezza dal freddo cuore de la da lui amata Eugenia, e in manera tale, che non [suo] a parimente amare lo se dispuose, ma gli venne in tanta gracia, che ’l suo novello amore in milli duppii l’antiquo e ’l moderno del suo Virgineo avantaggiò. E questo con lieta apparenza e per discreto mezzo a lui fatto palese, avvenne quello che, de coloro che se trovano le voglie conforme, suole de continuo avvinire; però che, ancora che lei fusse doncella e da’ suoi fratelli con grandissima guardia tenuta, puro il suo providimento bastò a tanto, che con gran piacere de tutti dui donatoli il fiore de sua virginità, più tempi con felicità non piccola goderno, senza esserne mai da malignità de contrarii venti molestate.

          E perché gli casi e volgimenti de la invida fortuna sono tanti e sì orribili, quanto miseri coloro che da summa felicità in estrema miseria redutti li provano, accadde che abbattendosi il morbo pestifero a Peroscia in un tempo che la poveretta Eugenia se trovò del suo Virgineo gravida, e ancora che prima de multe arte per non ingravidarse e dopo per guarirse avesse usate, puro nulla gli ne giovò; per la cui accagione ognuno de loro era per volerne la morte recevere. E quello che con più amaritudine la mente de la giovene travagliava, [si era] che, convenendoli de necessità con suoi fratelli la peste fuggire, e andare in parte che niuno providimento de donne antique vi si trovano, che a tali bisogni sogliono e sanno reparare e la facessero de la meritata morte scampare, quale poco più che nulla de receverla estimava, a respetto che, morendo, non arìa l’amante veduto. E vedendo i fratelli al subito partirse diliberati, dal suo medesmo consiglio aitata, gli occurse al periculo de la morte providere; e fattone Virgineo accorto, venuta la sera che la sequente matina i fratelli voleano in contado andare, lei finse esser ne l’anguinaglia de la contagiosa peste ammorbata. Quale da’ fratelli sentito, e per firmo tenendolo, dubitando de loro medesmi, e in manera impauriti, che ad ognuno parea essere de tale lancia a morte ferito, e subito fuggitesi, e lassato un vecchio servitore de casa con dinari, che a la vita e a la morte de loro sorella providisse, in contado se condussero.

          Eugenia, vedendo che ’l suo avviso procedea, de po’ più e diverse arte e strani modi col vecchio lassatoli in governo tenuti, a la fine per forza de moneta il corroppe a fare e a dire quanto il suo bisogno recercava; e mandato per lo suo Virgineo, quale a lei occulto e prestissimo venuto, e con gran piacere insiemi ragionato del modo tenuto e da tenere, per non menare il fatto in longo, e anco dubitando non la fencione de la peste avesse de vero reuscita, il vecchio data fama che Eugenia, da’ fratelli ammorbata lassata, era morta, composto un certo corpo de panni che de vero corpo morto parea, con poca compagnia e meno lumi, per la qualità de la infirmità, che maior non lo recercava, fu ditto ficto corpo ad una loro propinqua chiesa sepellito. Virgineo, travistita la sua donna in regazzo de uomo d’arme, a la Cità de Castella, ove avea suoi cavalli e famegli mandate, se condusse; e quivi occultissimamente al devuto termene un bellissimo figliolo parturito, come volse loro avversa fortuna, che già d’ogne gattivo augurio a minacciarle commenciava, poco dì appresso, l’avuta contentezza con morte del nato figlio con dolore grandissimo fu termenata. Puro, con la prodenzia dandosene pace, diliberarno, como già preposto aveano, Virgineo al soldo de’ vineciani se condurre; e postosi ottimamente in ordene de ciò che a tale misteri se rechiedeva, col suo novello paggio montati a cavallo, con suo carriaggio verso Lombardia drizzò il suo camino, fando il suo pinsiero tutto ’l suo vivente cossì in paggio la donna travistita tenere. E avendo, quando con piacere e quando con rencriscimento, de Toscana uscite, e Romagna passata, e vicino a Brescia pervenute una sera quasi al tardo, como li ciele e loro contrarie fate aveano già diliberato, che gli dui miseri amante con festa caminando, però che lo parea essere fuora d’ogne periculo se abbattero con uno squatrero, che, dal campo de la signoria fuggendose, ne l’esercito del duca de Milano se n’andava.

          Quale, videndo quisto uomo de arme sì bene in ordene de cavalli, d’arme, de fameglie e de carriagge, diliberò de svalisarlo, e a la sua gente comandò che gli dessero de urto; quale, senz’altra consulta da lui aspettare, cominciorno a menar le mano, ora uno fameglio ora un altro abbattendo e percotendo, e gli cavalli pigliando; e prise i carriagge, e ogn’altra cosa posta a sacco, accorgendosi del speciosissimo paggio che una rosa de maggio parea, non como l’altri scavallarno, ma, prisolo per la briglia, il voleano tra loro minare. Il disaventorato Virgineo, che dolente a morte insino a qui ogne cosa avea sofferta, e più volte fatto pinsiero de volere in ciò sue forze opponere, ancora che invano contra a tanti le avesse adoperate, a tale che con le facultà la vita perdesse, puro sperando che, se la donna sula gli restasse, poco il resto arìa estimato, videndola da sé departire, lui che gagliardissimo era, e dolore e amore gli aveano dato de novo coraggio, prepuose del tutto volere como a valeruso cavaliero morire; e non essendo d’altro che de bracciali e arnisi de faude e fiancali guarnito, posta mano a la spata, arditamente se bottò tra loro; e firito a morte cului che la briglia de la donna tenea, e più altri da nante e da traverso firitine, parea che uno fiero leone fra vile pecure fusse iunto. Ma il cavo de squatra, che ciò con rencriscimento grandissimo videa, da fiera ira acceso, e de arabia tutto fremendo, per lo cognoscere che uno sulo tanti ne cacciava, comandò a dui suoi avantaggiati famegli che subito l’ammazzassero; quale avendo ognuno de loro una iannetta in mano, tutti dui prestissimo gli corsero adosso e de più colpi a morte il ferireno, e uno de essi postale la iannetta dentro li rieni, con la furia del cavallo gli la passò più d’un palmo de fuore il petto, e l’altro avendoli il cavallo ammazzato, per morto fo bottato a terra.

          L’afflitta e dolente Eugenia, vedendo essere morto il suo ferventissimo amante, de morire anco lei per ultimo partito già prise, non meno per volere al reciproco amore e a se medesma satisfare, che per non consentire che ’l suo dilicatissimo corpo, che tanto al suo Virgineo era piaciuto, fusse per alcun tempo d’altrui volere posseduto; e senza altramente de preposito cambiarse, subito con gran furia de cavallo bottatase, e quasi como volesse il suo signore piangendo abbracciare, priso tempo che da color non fusse il suo operare interditto, puose il suo candido e morbido petto a la ponta de la lanza che per lo corpo del misero amante usciva, e supra de quella cadere lasciatase, quanto de fuora vi ne avanciava, senza alcuna contradizione de la natura, dentro al suo dilicato corpo vi la puose; e con l’amante abbracciatase, che anco spirato non era, e forte strengendolo, disse:

          — Ahi! dolcissimo signore mio, ecco colei per la quale l’acerba e violente morte contr’ogne onestà hai già recevuta; ecco colei che tu unicamente amave e da lei eri supra ogne altra cosa amato; ecco colei che voluntaria è venuta a volerete a tale ultimo naufragio senza paura accompagnare, a tale che la tua Eugenia non sia mai sotto altro imperio trasportata; ecco colei che, morendo, te supplica, per quello amore che vivendo parimente regnò tra nui e per quello che gli nostri spiriti dal canto de là eternalmente se porteranno, che tu in uno medesmo punto con meco insiemi doniamo ad essi nostri spiriti ultimo conviato, a ciò che, cossì uniti e insiemi coniunti, possano negli oscuri regni del nostro perpetuo e inseparabile amore e in vita e in morte rendere vero testimonio.

          E con queste e assai altre pietose parole ardentissimamente basciatisi, tutti dui in uno medesmo punto da questa vita se departerono. E quivi gli topinelli corpi senz’altra sepultura remasti, le nude osse de’ quale fuorno [per] a’ posteri de loro sanguinose morte evidente testimonio rendere.

 

MASUCCIO

 

          Volubile e senza alcuna fermezza se può, e non de novo, questa nostra madonna Fortuna chiamare, gli prospiri e avversi casi, e racontate e da racontare, considerando; e certo non senza grandissima compassione se posseno gli avuti infurtunii degli innamorate peroscini né leggere né ascoltare. Ma lassando agli fervente amante tale compassionare, l’ordene dato sequendo, mostrerò appresso uno strano e faceto caso, anzi travagliatissimo accidente, travenuto a dui grandissimi amici, e tanto più da notarese, quanto rustice e inculte se seppe con pace e unione il fatto raconciare.

 

NOVELLA XXXVI

 

argomento

 

          Dui cari compagne per uno strano e travagliato caso l’uno cognosce carnalemente la muglie de l’altro e l’altro de l’uno; divulgase il fatto tra loro; per non guastare l’amicicia, abbottinano le muglie e l’altri beni, e con quiete e pace insiemi godeno.

 

A LO MAGNIFICO MESSER UGOLOTTO FAZINO DE L’ILLUSTRISSIMO

DUCA DE FERRARA ORATORE DIGNISSIMO.

 

ESORDIO

 

          Se ’l dolerme de mia prava sorte, magnifico messere Ugolotto, rendesse al presente mio bisogno alcuno profitto, io a lei de lei medesma de continuo me dolerìa, per accagione che tra la mente revolgendome gli multi onori, le grande e non simolate accoglienze da te, vertuoso cavaliero, recevute, e non vedere in me modo alcuno a la recompensa de quilli né poco né multo possere satisfare; nondemeno, da tale necessità astretto, ho avuto recorso a le non saporose erbecciole del mio incolto iardini, de quale composta la presente insalatuccia, a te, fiume de eloquenzia, la mando. E te supplico che, senza aspettare da me altra suntuosa cena, assaggiare la dibbi, a tale che, de quella alcun piacere ristandote, te puosse del tuo Masuccio, ove che col tempo serai, alquanto rammentare.

 

narrazione

 

          Non multo lontano da le nostre contrate è un luoco poco noto e meno frequentato, il quale ancora che de gente inculte e de grossa pasta sia abitato, puro poco tempo [si fa] che vi fuorno dui giovani, l’uno molinaro, chiamato Augustino, e l’altro calzolaro, per nome ditto Petruccio, tra’ quali da loro fanciullezza era contratta tanta amicicia e compagnia, quanta per veri amici usata fusse mai; e avendo ognuno de loro muglie assai giovane e bella, tra esse semelemente era una domestichezza e familiarità sì grande e continua, che rado o non mai seperate se vedeano. E in tanta perfezione d’amore perseverando, avvenne che ’l calzolaro, ancora che bellissima fusse la muglie, puro, piacendoli alquanto più la muglie de l’amico, o talvolta per mutare pasto, essendogli un dì più che ’l solito da commodità concesso posserle parlare, con acconcia manera il suo volere con la passione insiemi gli discoperse. Catarina, ché cossì avea nome la molinara, intesa tale requesta, ancora che non multo gli fusse rencrescevole, puro, senza resposta, isdignosetta gli se tolse dinanzi; e como prima se retrovò con la Salvaggia, muglie del calzolaro, gli disse como il suo Petruccio l’avea de battaglia dimandata. La zabbattera, quantunque turbatissima l’ascoltasse, puro, effrenatase alquanto, gli occurse ad una ora vindicarse del marito, e non guastare in niuno atto tanta loro continuata amicicia; e dopo le multe gracie a la cara compagna rendute, la pregò che al marito promettesse de una cotale notte l’aspettare dentro ’l suo letto, e che in scambio de sé vi ponesse lei, ché ne sequerrìa grandissimo piacere.

          La molinara, disiderosa de compiacirglie, disse de farlo; a la quale poco dì appresso Petruccio, con la Catarina trovatosi, li fe’ la semele requesta, e con maiore istanza che prima fatta gli avea; de che lei, che l’ordita trama volea mandare ad effetto, dopo più e diverso non multo caldo negare, mostrò quietarse al suo volere; e avendo a trattare del quando dove e como, la giovane gli disse:

          — Io non ho altra attitudine se non quando mio marito fusse de notte occupato al molino, e allora te porrìa dentro ’l mio proprio letto recevere.

          Petruccio, letissimo, respuose:

          — Io vengo adesso dal molino, ed èvvi tanto grano, che prima serranno gli dui terzi de notte passate, che de macenare sia fornito.

          Il che lei disse:

          — Sia a nome de Dio! Verrai tra le due e tre ore de notte, ché io te aspetto, e lasserotte l’uscio como sai sono solita lassare a mio marito, e senz’altramente fare mutto, te ne intra in letto. Ma dimme, como lassarai mùgliata, ché io la temo più che la morte?

          Respuose lui:

          — Io puro adesso ho pensato farme improntare l’asino da compare archipreite, e ad essa dirò che voglio andare fuori il paese.

          Disse lei:

          — Questo me piace assai.

          E partiti loro ragionamenti, Petruccio andò verso lo molino, per rassicorarse de la occupazione del compagno, ove tra quel mezzo Catarina diede a la compagna de l’ordene priso col marito pieno avviso. Petruccio, che trovato avea lo molinaro a lo molino a suo modo occupato, se ne retornò in casa, e tutto travagliato fingendose, disse a la muglie che lui volea in quella ora partire per Policastro, per comparare del coriame per la poteca.

          La muglie, che sapea dove andare volea, gli disse:

          — Va in buona ora! — e fra sé, ridendo, disse: — Questa volta compararai puro del tuo e non de l’altrui coriame.

          Petruccio, fatta vista de partirse, se occultò ad un certo luoco del casale, e quivi, aspettando l’ora, se dimorò. La Catarina, como notte fu, se n’andò in casa de Salvaggia, e, [secundo] l’ordene tra esse priso, lei se restò, e Salvaggia ne andò a casa de Catarina; e intratasene in letto, con piacere aspettava il marito a la disiata battaglia, fra sé più volte repetendo quello che dopo il fatto gli avesse da dire. Petruccio, quando tempo gli parve, con lento passo verso la casa del compagno se avviò, ed essendo quasi per intrare, sintì e cognobbe che ’l molinaro se ne retornava a casa, però che ’l molino ultra il suo credere era guasto, in manera che per quella notte non se ne averìa alcun lavore possuto fare; de che Petruccio impaurito e poco contento, senza essere stato né visto né sentito, se ne retornò verso casa sua, fra sé dicendo:

          — Quello ch’è mancato adesso, serà un’altra volta.

          Ma per non avere tutta la mala notte compita, cominciò quando piano e quando forte a picchiare e a chiamare la muglie che gli apresse. Catarina, cognoscendolo a la voce, non sulo non glie apriva, ma, senza responderiglie chieta se stava, per non farlo de l’inganno accorto; de che lui, alquanto turbato, tanto se affaticò che vi aperse, e intrato, se n’andò dritto al letto, e sentendo colei che fingeva de forte dormire, demenandola per lo braccio, la fe’ destare, e credendosi che fusse la muglie, sue favole componendo per quale accagione era remasto d’andare, e dispogliatose, se gli puose da lato. Ed essendosi a l’aspettata battaglia preparato, diliberò, dopo che ne l’altrui terreno non avea possuto solcare, volere nel suo medesmo il seme spargere, e tenendo per fermo appicciare la sua Salvaggia, recatase in braccio Catarina, gli ne donò una picchiata de le buone: il che la poveretta, per fargli credere che lei fusse la muglie, con piacere e paciencia sel puro sostenne.

          Il molinaro, che lento e affaticato in casa se n’era intrato, e al suo letto postosi per dormire, senza fare mutto se stava firmo. Salvaggia, estimando del certo che ’l marito fusse, senza alcuna parola lietamente il recevette, e dopo che alquanto ebbe aspettato, e non sentendo l’amante dargli alcun signo de battaglia, per non essere lei la ingannata e beffizzata in tale impresa, lo cominciò a festiggiare; il molinaro, che con la muglie credea essere, ancora che più bisogno de dormire che vaghezza de scaramozzare avesse, puro, sentendosi e mordere e scrizare, forzato a tale lavore, da una volta in su diede acqua al non suo molino.

          E parendo a la zabbattera tempo de mandare fuori il conceputo isdigno, rutto il silencio, gli prise a dire:

          — Deh! traditore cane disliale, cui te hai creduta tenere in braccio, la muglie de tuo tanto caro amico? Al terreno del quale credendote lavorare, fuorsi per servargli amicicia, lo hai più che lo solito coltivato, mostrandote sì gagliardo, e a casa pare che non abbi fiato; ma, la Dio mercè, questa volta t’è puro il pinsiero fallito. Nondemeno io providerò ponirete de tuo peccato.

          E con semele e assai peggio parole increpandolo, lo molestava che gli respondesse. Il povero molinaro, ancora a tale partito fusse muto devenuto, puro, intendendo le parole, non sulo cognobbe colei essere la muglie del suo caro compagno, ma comprise il fatto pontalemente como era passato; de che lo avuto piacere fu subito in merore convertito. E puro col continuo tacere gli se tolse da lato, e ancora che dì chiaro non fusse, se n’andò ratto dove estimava del certo che la muglie fusse; e chiamato il compagno, che per cosa necessaria a lui venesse, quale pieno de suspetto fuore uscito, gli disse:

          — Fratello mio, de la tua sula colpa tutti dui ne abbiamo recevuto il danno e la virgogna, e semonce abbattuti a cosa, che ’l tacere ne è più onesto che ’l parlarne, e farne briga non è necessario.

          E con grandissimo rencriscimento per ordene gli racontò la istoria como interamente era travenuta, aggiungendo che a lui parea che se la fortuna era stata favorevole a l’astucie e malignità de loro muglie, che essi a loro medesmi non volessero essere inimici e guastarne o in alcuno atto diminuire la loro de tanti anni continuata amicicia; e che quello ch’era stato con inganno, per lo inante fusse, per emenda del passato rencriscevole errore, con comone consintimento e piacere de tutti quattro, e como per adietro aveano tutt’i loro beni comunicati, cossì per l’avvenire tra loro le muglie insiemi abbottinassero.

          Petruccio, sentendo con la buona conclusione del suo caro amico lui avere goduto con colei che unicamente amava, e che ’l fatto se termenava in amore e carità, diliberò essergli multo più caro lo conservarese l’amico, che per suo mancamento perdere il dovea, che non lo onore del mundo, quale, como ogge chiaro se vede, como cosa poco appregiata non sulo se vende, ma se ne fa baratto como de vilissima mercia; e con piacevole viso disse contentarese quanto lo molinaro per comone commodità e loro eterna quiete e pace avea già pensato. E cossì, a non partire, chiamata Catarina, ché lei sula non era stata ingannata, e impostoli che subito chiamasse la Salvaggia, quali tutti insiemi radunati, e apertose tra loro quanto era con inganno sequito, e quanto per la santa unione, quiete e pace era tra essi decreto e stabilito; il che a tutti per diversi respetti fu carissimo. E cossì da qui avante né de muglie né d’altra qualsivoglia natura de robba niuna divisione tra loro fu cognosciuta mai; e in tale manera andava la cosa trasattata, che suli gli figlioli per proprie loro matre cognosceano.

 

MASUCCIO

 

          Seranno alcuni che pigliaranno in deriso la narrata operazione degli dui cari compagne, che volsero la loro amicicia a lo onore comone anteponere; ma io dubito che a cui verrà appresso, se gli cieli non fanno altra mutazione, che questo onore, che ogge sulo per gli vertuosi è estimato e celebrato, venerà a termene, che serà con comone dispregio non sulo non corato, ma dagli estremi termeni de la terra con perpetuo esilio discacciato. Però lassando a’ posteri la briga, dico che se de la unione fatta tra gli rusticani e villici amice ne avessero priso esempio dui altri nobilissimi compagne ne l’amare d’una gentile damicella, de’ quali appresso scrivere intendo, non ne serebbono sequite tante battaglie e morte, quante con poco piacere seranno racontate.

 

NOVELLA XXXVII

 

argomento

 

          Marchetto e Lanzilao, compagne armigeri, se innamorano de una medesma donna; combatteno insiemi, e l’uno e l’altro more; la donna per l’avuto dolore voluntaria se more; sono con generale dolore pianti, e tutti tre in uno medesmo sepulcro sepellite.

 

AL FORMOSISSIMO MIO ARIETE.

 

ESORDIO

 

          Dagli legame de la vera amicicia costretto, Ariete mio formosissimo, me ho voluto de quella, como ad immacolata, in questa nostra assenzia recordare, e a te, unico amico, la presente novella mandare; de la quale como che ’l fine sia acerbo e sanguinoso, puro ne la tua giovenile età, ne la quale sei, cognoscerai quanto e quale sono con poco ordene e senza mesura le forze d’Amore, a ciò che, negli anni più maturi venendo, te sappi, se potrai, da tali travagliati lazzi con prodencia guardarete. Vale.

 

narrazione

 

          Nel tempo che l’invitto e illustrissimo signore conte Francisco Sforza, non ancora duca de Milano devenuto, la Marca d’Ancona signoriggiava, fuoro ne la sua fiorita compagnia dui uomini d’arme, l’uno chiamato Marchetto da Faenza e l’altro Lanzilao da Virzella, ciascuno de loro animoso e gagliardo a maraveglia, e vertuosi ioveni, ligiadri e acconzi quanto dire se potesse. Il che, per esserno in una compagnia medesma allevati, nacque tra loro una amistà sì grande e continua, che, como è già de’ soldati costume, se affratellarno insiemi e in vita e in morte e con perfetto amore, che non sulo l’arme, i cavalli e ogne altra loro facultà aveano tra essi comunicata, ma ad ognuno parea avere l’anima del compagno dentro ’l corpo con la sua insiemi unita. E in tale giocundissimo stato più anni, sempre in onore fama e robba augumentando, dimoraro, e in manera la loro unione era supra tanto amore e carità fabricata, che né disiderio de stato o cupidità de robba, né ambizione de fama o gloria avrebbe bastato a guastare puro in alcuno atto tanta amicicia e fraternità, se la maestra de tutte le cose Fortuna con le insidie e sottile vie d’amore negli loro petti non fusse intrata; però che con nova manera de atrocissimo veneno tutti dui de una medesma fiamma rescaldando, ogne altro fatto reparo vinse e bottò per terra.

          Essendo dunque costoro dagli bellicosi esercicii ne la cità de Fano a le stancie redutti, accadde che ’l signore Malatesta fe’ bannire un torniamento in Arimini, nel quale andando de multi e diversi armigeri, tra’ quali foro i dui fratelli Marchetto e Lanzilao, de cavalli, de paramenti e de famegli più che l’altri accompagnati; e col termenato numero degli altri al torniamento intrati, tanto fu il virilmente adoperare degli già ditti dui compagni, che ognuno de l’altri, cui abbattuto e quale stracco, se ne era fuori uscito, altro che loro, che dentro suli eran remasti. Li quali, non volendo l’uno più contro l’altro giostrare, ognuno de essi lo onore a l’altro cedendo, se ne uscerno; il che, trovandose poche lanze più Marchetto che Lanzilao avere rotte, con non meno piacere e gloria de l’uno che de l’altro, fu a Marchetto il palio e lo onore donato. E andando a fare festa al palagio del signore, avvenne che gli ditti compagni tutti dui in uno ballo se innamororno de una medesma giovenetta, multo ligiadra e bella, figliola de un notevole cavaliero de la cità, e, senza sapere l’un de l’altro, ognuno ardentissimamente la vaghiggiava. La giovene, che Ipolita avea nome, vedendoli ambedui de una medesma età, e de bellizze e de custume conforme, e tant’altre egualanze essere tra loro, che lei medesma che de tutto si era accorta, non sapea né possea diliberare a cui de loro dovesse l’animo inclinare, e in tale ambiguità stando, prepuose tutti dui parimente amarle; e cossì occultamente or l’uno or l’altro favorizzando, le facea de sua gracia stare contenti.

          Finita la festa non senza greve [dolore] de tutti i dui novelli amanti, prisi e legati da cului che agli suoi teli niuno providimento bastò mai a repararvi, se ne retornarno in casa; dove gionti, cominciò Marchetto a dire:

          — Fratello, io vinni qui per guadagnare il palio, e ho persa la libertà, però che io sono sì forte infiammato de l’amore de una doncella, quale ne la festa ogge ho male per me veduta, che non ne posso reposo alcuno pigliare.

          Lanzilao con non meno calente sospiro respuose:

          — Oimè! fratello, che con simili legami puro ogge sono stato avvolto da un’altra giovenetta, la più bella del mundo.

          Disse Marchetto:

          — Io non me ne maraviglio, però che dal primo nostro cognoscimento in ogne cosa ne semo trovati d’un volere conforme, cossì anco adesso pare che da’ fati siamo costretti a dovere l’un l’altro, amando, accompagnare, e tanto deve essere più caro, quanto l’uno, la pena de l’altro credendo, le averà duppia compassione. Puro non resto de dirte che, se la tua passa la mia in bellezza, de vero potrà dire unica essere al seculo nostro.

          Lanzilao con piacevolezza respuose:

          — Domane, l’una e l’altra mirando, ne farrai iudicio.

          Venuto il novo giorno e la cominzata festa continuando, e tra gli altri che litissimi andarno, fuoron i dui cari compagni, quali da ciascuno onorati e accaricciati multo, védero la loro amorosa con l’altre donne andàtive; de che ognuno de loro continuando il cominciato trastullo, Marchetto, priso il compagno per brazzo, con acconcia manera gli demostrò colei, che esso in quel punto a lui la volea già demostrare. Quale da Lanzilao vista, e inteso che Amore con medesmo fuoco parimente le brusciava, con rencriscimento grandissimo gli toccò il suo passionato cuore, e quasi lacrimando, a lui revolto, disse:

          — Marchetto mio, questa è colei de la quale sì ardentemente te ho ragionato, e però se de summamente piacerme avesti mai nel disio, te prego che de tale impresa te remanghi; e posto che la vittoria a tutti [dui] sia dubiosa, pur a me pare del certo ottinerla, atteso che in lei ho cognosciuto unico e ferventissimo essere l’amore che me porta.

          Marchetto, alquanto croccioso, respuose:

          — Io non me possea persuadere che, essendo tanto amore reciproco tra nui, avesse non che fatta, ma puro pensata de farme tale inonesta dimanda, atteso che tu sai che eri sera te disse che costei con la libertà insiemi me avea rapito il cuore; e certo altro non serìa a dire che d’amarla fin a la morte me restasse, se non disiderare la morte del tuo caro amico, fratello e compagnone. E como ch’io non dubito che lei te ama, puro per firmo pòi tenere che essa, per averme visto sì vigorosamente adoperare, ha volto in manera verso de me il suo intendimento, che più che se medesma me ama e amerà sempre, como l’effetti ne renderanno maiore testimonio.

          Lanzilao, che con poco piacere lo avea ascoltato, udendo l’ultime parole, turbatissimo respuose e disse:

          — Sì, per bene adoperare, la gracia sua presumi avere acquistata, io per quello non l’averò perduta, però che, como già sai, avendo io cossì bene como te giostrato, per mia cortesia, essendo nui una cosa, me contentai che lo onore tenesse; e non dubitare ch’io, essendo, como già era, più fresco de te, averìa dorato più, e ’l palio serrebbe stato il mio; e questo a tutto uomo e a la donna altrisì è manifesto.

          Marchetto, in sul fatto rescaldato, respuose:

          — Se tu dirai ch’io per tua cortesia abbia il palio guadagnato, tu non dirai il vero, però ch’io avendo de gran longa meglio de te e de tutti l’altri adoperato, meritamente me fu donato; e ora avesse piaciuto a Dio che uscito non te ne fusse, ch’io arei posto te al numero che l’altri da più de te già puosi.

          Lanzilao, de rabia tutto fremendo, disse:

          — Lo questionare in parole me pare arte de poltroni, e perché ho meco medesmo diliberato quello che de fare intendo, te retorno a dire che tu o d’amarla o de la nostra amistà te dibbi remanire; e se pur lo partito d’amarla te dilibera, con le spate in mano e con le nostre forze insiemi demostraremo quale de nui maioremente ama, e cui da lei serà più amato.

          Marchetto respuose:

          — Io non aspettava da te altra respuosta, e però sta in ordene, ch’io te farò prestissimo intendere il modo e lo luoco como e dove averemo da essere insiemi.

          E con gran furia toltoglisi davanti, a più uomini d’arme tale fatto con l’accagione insiemi fe’ manifesto; e dal compagno fatto ’l semele, in poco de ora ne fu tutta Arimini repiena; e quantunque per il signore e per più altri conduttieri e armigeri fusse con istancia cercato ponere pace, nondemeno erano de’ dui amanti sì l’animi accesi, che, per requesta da l’uno a l’altro fatta, a combattere la matina sequente a tutto ultranso a cavallo fuori la cità se apparicchiarno. Il patre de la giovene, che ’l fatto avea sentito, per vidergli e ligiadri e da vertù e recchezze accompagnati, avea già per partito priso, a cui de loro restava vincitore, la figliola con gran parte de le sue facultà gli donare per muglie; e in presenzia de più signori e donne, e anco de la figliola, tale diliberazione a ditti amanti fe’ manifesta. Il che non sulo loro fu carissimo, ma per quello raccendendosi a ciascuno l’ardore, a bene operare tutti se accordorno. Ipolita che, com’è ditto, egualmente l’amava, né possea l’amore e la vittoria de l’uno senza la morte de l’altro cercare, de intollerabele pena aspettava a che dovesse il fatto reuscire. Venuta la matina, e ognun de loro de più singulari uomini fornito e accompagnato, bene a cavallo e acconciamente armato de ciò che a tanto eccessivo fatto se rechiedeva, non per un camino su la campagna se retrovorno; e per lo signal ordenato il numero del trombettare e del cominciare de l’aspro duello, e lo imponere de chieto stare sotto grieve pena, e toccando l’ultimo signo de la fiera battaglia, ognuno con animosità grande, lassati i cavalli, s’andorno a trovare. Il che Marchetto, tenendose alto, ferì il compagno ne la vista de l’armetto, in manera che un troncone col ferro de la rotta lancia appicciatosi dentro, da canto in canto passandolo, il bottò morto a terra; nondemeno Lanzilao, che bascio si era tenuto per ammazzare il cavallo, per dopo possere facelmente il compagno in terra martellando conquistare, avea il cavallo de Marchetto al petto ferito per modo tale, che, como un toro percosso in qua e in là tempestando, se lassò andare in terra. E fu sì crodele la fortuna de povero Marchetto, che nel tempestare gli uscì la spata dal fodaro, e remasta col pomo in terra e la ponta per la spalla del cavallo, nel cascare avvenne cosa quasi mai semele travenuta, che ponendose la ponta de la spata per dentro le piastre de la sua corazza, e lui con la furia del cadere premendovi su, fin a l’elzo dentro ’l suo misero corpo se la puose; per il che, senza possere dire una sula parola, e quivi semelemente se morì.

          La gente cui a l’uno, cui a l’altro correndo, e tiratigli de sotto i cavalli, e disarmati, trovaro tutti dui, como è già ditto, esserne morti; per la quali accagione cominciò ognuno con alte voci piangendo a ramaricarse e de Dio e de la fortuna de l’aspro e sì spiatato accidente. Ipolita, che in su le mura de la cità con l’altre donne mirando stava, e la morte d’ognun de loro amante con la propria vita averìa voluntieri rescossa, udendo che tutti dui già erano morti, assalita de interno dolore, con subita diliberazione de più non stare in vita per ultimo partito già prise, e con forte animo a ciò sequire diliberò, e disse:

          — Ahi! misera e infelicissima la vita tua, Ipolita, a quanta orribilità te have la tua prava sorte recata! Tu sula se’ colei per la quale l’aspra iornata è venuta, la fiera battaglia è fatta, la duppia uccisaglia è causata, e tanta longa amicicia, fraternità e compagnia è seperata. Ahi! male aventurati amanti, discompagnati sono gli vostri nobili corpi, mancate sono le vostre vertù e prodizze, e con amara morte spente sono le bellizze, l’ornati costumi de ambedui, senza esservi fatti digni d’un sulo abbracciamento de colei che unicamente amavati, e che da lei eravati, e con ragione, egualmente amati! Maleditta sia l’ora ch’io nacqui con la mia da vui lodata bellezza insiemi, dopo che de morte vi dovea essere accagione! Io, afflitta e dolorosa, non dubito che gl’innamorati spiriti, seperati, vanno errando per questo nostro emisperio aspettando il mio, quale, con essi insiemi accompagnato, dal canto de la vera testimonianza fare, quale de loro era da me più amato; e io per satisfare in parte a tale più che onesto disiderio, volentiere subito nel mandirò.

          E ciò ditto, priso tempo che da l’altre donne non fusse il suo camino impedito, col capo avanti se lassò da la summità de le mure, ove era, giù andare; e né prima a terra fo gionta, che, ultre il fiaccarse il collo, gran parte de’ suoi dilicatissimi membri se sfracassorno. A tale crodelissima novità la gente corse, e trovata la nobile dammicella morta, e saputa l’accagione, ognuno de novo dolore fu trafitto, e de tanti fieri accidenti ognuno con amare lacrime piangendo se dolea. Venuta la sanguinosa novella al vecchio patre, quale sì como ad unica figliola e unicamente da lui amata, unico e perpetuo fu il suo dolore. Quanti e quali fussero stati de’ signori e d’altri nobili e populi, de’ citatini e forestieri, gli pianti e gli ramarichi, longo serrebbe il racontare. Nondemeno, como il signore volse, i dui corpi degli disaventurati amanti, con quello de la donna in mezzo tra de loro, tutti tre in uno marmoreo e digno sepulcro fuorno sepelliti, e in quello l’accagione de loro morte vi fu con memorevole scrittura disignata.

 

MASUCCIO

 

          Aspri e fieri sono stati gli racontati casi degli tre innamorati, e in acerbissimo fine termenati, a’ quali, vivendo, né fiore né foglia né frutto fu conceso de gostare. Puro me persuado che li spiriti loro ne l’ultimo partire alcuno refrigerio senterono, per lo averono gli loro corpi eternalemente lassati accompagnati. Ma perché de tutti tre non se può avere si non grandissima compassione, e io dovendo con nova piacevolezza continuare, ad altri de loro la briga lassando, e sulo de Marchetto recordandome, sono tirato a scrivere un facetissimo caso de un altro Marco, piscatore, quale lui medesmo condusse con la sua barca un nobile viniciano a godere con la muglie; e quello che con piacivolezza grandi ne sequio.

 

NOVELLA XXXVIII

 

argomento

 

          Antonio Moro, innamorato de la muglie de un marinaro, da lui medesmo sotto inganno se fa condurre a godere con lei; menala in barca e, non cognosciuta, fa il marito con essa godere; pàgane un disnare e ’l fatto se descuopre; il marinaro se fugge per virgogna, e Antonio publico gode con la muglie.

 

AL MAGNIFICO ED ECCELLENTE MESSERE IORGE CONTARINO

CONTE DE IAFFO, VENETO NOBILISSIMO.

 

ESORDIO

 

          Dopo che da li ciele o da’ nostri contrarii fati non ce fo con comone comodità conceso, nobilissimo mio messere Iorgi, gli suavi frutti de la nostra alma e giocunda amicicia, como non dubito parimente disideravamo, gostare, ho priso per partito in alcuna parte a tanto mancamento satisfare; e ciò serà lo mandarte de la presente facetissima novella, quale, negli ocii e dilicie de tua amenissima patria dimorando, leggendola, te serà accagione farte del tuo Masuccio e del nostro intiero amore recordare; e ultre ciò, da qui copia restandone, serà da’ posteri il tuo nome con longa recordazione cognosciuto, como le tue singulare vertù d’assai maiore premio son digne. Vale.

 

narrazione

 

          Ne la mirabile e potentissima cità de Vinecia poco tempo si fa che vi fu un gentiluomo d’antiqua e nobile fameglia, assai giovene e costumato e tutto pieno de piacevolezze, per nome ditto Antonio Moro, quale, avendo qui nel reame prisa meco singulare amistà, tra gli altri nostri piacivoli ragionamenti me racontò per verissimo il sottoscritto caso essere a lui pontalmente travenuto; quale per remembranza de la patria a te scrivendolo, con l’altri lo accompagnarò. Dico adunque che questo Antonio un dì andando a diporto per Vinecia con un suo compagno carissimo con una barchetta secundo la vostra usanza, e trascorrendo da uno canale ad uno altro, gli venne veduta una vaga e bella giovene, e fuorsi fiorentina de Iara, muglie d’un scavone piscatore, chiamato Marco de Curciola, quale più volte era andato per marinaro de una gran nave, con la quale Antonio, patronizzandola, de multe acque avea sulcate; e quella singularmente piazutale, per non dare più longa dimora al fatto, gli mandò a parlare per una prattica vecchia, multo domestica de la giovene. A la quale non meno piacendo l’ambasciata che colui che gli la mandava il dì davanti gli era piaciuto, senza volere tenere la cara missaggiera in longhe trame, respuose dal canto suo lei essere apparicchiata a satisfarlo, ma gli parea quasi impossibile che ciò avesse in alcuno atto possuto avere effetto, atteso che ’l marito già mai de notte la lassava, né de dì in casa lo averìa possuto recevere, per la contrata che era sì folta abitata, che uno uccello non vi averìa possuto intrare, che non fusse da multi stato veduto.

          Antonio intesa la voluntà de la giovene, gli parve gran parte de la fatica esserli scemata, e al resto subito gli occorse con un bello tratto providere; e d’ogni suo priso avviso fattone la giovene pienamente informare, quando tempo gli parve, fece chiamare in casa Marco, e de po’ ch’al modo solito lo ebbe accarizzato, lo pregò che la sera con la sua barca il conducesse in un lato, ove una gentile donna a donargli il suo amore l’aspettava. Marco, che servirlo summamente disiderava, subito respuose al chiesto servicio essere parato. E con tale ordene da lui partito, como notte fu, Marco cautamente serrato adosso a la muglie, se n’andò in casa de Antonio; ed essendo già ora de partire, saliti in barca, con un remo, al modo di là, il condusse nel canale dove gli avea ordenato, rente al quale la vecchia missaggiera abitava, che respondea a la contraposta parte de l’altro canale, ove Marco la sua casa a pensione tenea; a la quale volendovi andare per acqua, serìa stato besogno, togliendo una longa volta, fare un gran camino, dove per terra, per via de la casa de la vecchia e d’altre casi, che Antonio i patruni avea contaminati, facelmente e presto vi potea andare. E quivi iunti, [disse:]

          — Marco mio, aspettame, ch’io venerò prestissimo.

          E in casa de la vecchia intratosene, e da lei, che già l’aspettava, con festa racolto, gli mostrò lo già trovato camino che dovea tenere; e in breve a l’uscio de la giovene conduttose, quale ancora che de fortissimo serraglio provisto fusse, con certi ferretti, che seco per [tal] respetto portava, quello da lui fu subito uperto, e con la giovene che lietamente l’attendea trovatosi, diero al loro amore intero e piacevole compimento.

          E priso ogne devuto ordene, como aveano per lo innanti da godere, per lo semele camino in barca se retornò, ove Marco dormendo e senz’alcuno sospetto l’aspettava. Quale destato, e in barca recevutolo, e verso casa drizzata la proda, il domandò se avea il suo volere fornito. A lo quale Antonio respuose:

          — Maisì, e multo bene, e dicote, Marco mio, ch’io non me recordo mai con veruna donna avere semele piacere priso, però che, ultre la sua gioventù e bellezza, me ha usata tanta piacevolezza, che io non so como mi ho da lei possuto partire.

          Disse Marco:

          — Io non dubito che vui con gran piacere siti surto in porto; e io ho qui, aspettando, più volte arborata la barca senza fare vela, avvisandove che pensando al piacere che vui, caro mio messere, con la donna vostra prendevati, sintivi in me svigliarenosi li concupiscibili appetiti, in manera che più volte fui vicino de fare forza de remi e andare spacciatamente a darne una beccata a mia mugliere; e certo lo arei fatto, si non che vui dicisti de tornare, e tornando e non trovandome, non meno de grandissimo scandolo ne averìa possuto nascere.

          Antonio, udendo tale parole, ancora che fusse fuora del travaglio, ebbe non piccola paura del passato periculo, e de continente pensò con un altro modo assai più piacevole del racontato al dato inconviniente, possibile un’altra volta ad intravenire, reparare; e, ridendo, disse:

          — Marco mio, io non sapeva che tu avisse muglie, ché te arei ditto che vi fussi andato, e ad una termenata ora ne aviriamo al prepostato luoco retrovati.

          Respuose Marco:

          — Dunque vui non sapevati ch’io ho de quisti dì tolta muglie, quale è giovene e multo bella?

          Disse Antonio:

          — Io nol sapeva; ma le muglie, per belle che siano, se tengono per munizione de casa, ché, sempre che le vogliamo, stanno a nostro piacere; e però se vole de continuo cercare de fare nove prede. Tuttavia, de po’ il fatto è andato per questa volta in tale manera, se vada; ma domane a sera io spero portare meco in barca la mia amorosa con la sua compagna non meno bella de lei, quale del certo serà ottimo pasto per te.

          Marco, tutto godente, respuose che lui era per gagliardamente receverla. E con questo ionsero a casa; e Marco, lassato Antonio, se ne tornò a la sua stanza, e con la muglie abbracciatose, supplìo a quello che l’amante per la dubiosa pressa avea mancato. Antonio la matina per tempo avvisata pienamente la giovene de quanto la venente notte intendea de fare, a la solita ora remandò per Marco, il quale reconciata la barca con tappeti e panni de raza, e fatto un partimento verso la proda, rechiuso a modo de tenda, introrno in camino. E lassato Marco al solito luoco, con dirle che subito tornerìa con le promisse madonne, a la giovene se n’andò; e al modo usato uperto, e con lei essendo, gli disse il passato periculo, per lo quale lui volea, con lo providimento le avea mandato a dire, reparare; e spacciatamente vestitale una camorra de seta che le avea il dì passato mandata, e velatasi in manera che ’l marito per modo alcuno l’averìa possuta cognoscere, col suo Antonio in barca se ne vennero. Marco, vedendo una donna sula col suo messere, il domandó ove fusse la sua; al quale Antonio respuose che per certa buona accagione non era per quella volta venuta.

          — Nondemeno io non voglio questa sera portare da te vantaggio alcuno, però che questa che ho meco menata, andando per buona mane serà bastevole, anzi davanzo, a te e a me; ché priso che averò il mio piacere, te ne farò quella parte che del certo te soverchiarà dinanzi; e ancora ch’io non cognosca tua muglie, me persuado costei non essere meno bella, giovene e polita de lei.

          Disse Marco:

          — Io il credo, ma a me non paterìa il cuore ponere mano a le cose vostre in alcuno modo.

          Respuose Antonio:

          — Tu mi pari un altro: si a me non piacesse, non te lo arei offerto, né tu presumeristi de farlo, e però apprèstati, ch’io vo’ tu il fazzi, e non te costerà altro che un disnare de pesce, che farò a certi mei compagni per lo primo sabato che vene.

          Marco puro refutando l’invito, e Antonio per ogne modo volendo, a la fine puro vi si accordò, e promese il chiesto disnare per avere parte de sua medesma mercatancia. E cossì lui, surta la barca, e prisa l’arpa del suo messere, con nova melodia cominciò a sonare; e Antonio intratosene con la giovene dentro la capannetta, a la suavità de tale musica ferono de più acconzi balli trivisani. Quali forniti, chiamò Marco, e piano gli disse:

          — Piglia omai la tua sorte de la nostra fatta preda, ma per mio amore te guarda de volerla cognoscere, però che lei è de onorevole fameglia, e con difficultà grandi a ciò la ho condutta, con dargli ad intendere che tu se’ nevote del nostro doce.

          Respuose Marco:

          — Questo è il meno ch’io curo; io non ho da fare parentato con lei.

          E ciò ditto, v’andò multo volentieri, e trovatala tutta de suavi odori perfumata, non curandosi del resto, né che lei con poco piacere il recevesse, a la scavonesca fornìo il suo lavore; e al suo messere retornatose, disse:

          — Io non ho possuto vedere lo vulto de costei, ma, secundo l’altro, ciò vi dico, che me ha parso stare con mia propria muglie, però ch’una medesma carne e fiato pare che aviano; e però non sulo il disnare del pesce, ma ’l resto de quanto tengo sta al vostro comando.

          E supra de ciò fatta mirabile festa, Antonio ne retornò la giovene unde tolta l’avea, con tante piacevole rise che aveano Marco de montone becco fatto retornare, che non si posseano in pèdi tenere; e raffermato tra loro quanto era de bisogno per godere, Antonio se ne venne a Marco, che lieto a maraveglia l’aspettava; e in casa conduttosi, Marco a la muglie se ne retornò, quale turbatissima de sua longa dimora mostrandosi, non la possette per quella notte repacificare.

          Venuto il primiero sabato, Marco in casa de Antonio ordenò lo onorevole disnare del pesce; al che Antonio per non avere tanta iocundità senza compagni, chiamati più suoi amici e de l’inganno fattigli consapevoli, con loro insiemi se godettero de l’apprestato a le spese de Marco disnare. Quali ne la cena stando, con nove manere de piacevolezze mottiggiando, ognuno da per sé e tutti insiemi dissero e bottaro al povero Marco tanti mutti e tanto chiari, che se lui fusse stato un ligno, li averrebbi intesi; e ancora che ad Antonio dispiacesse, e tutto se avesse andato struggendo, e con parole e con atti, de fargli tacere, nondemeno erano coloro sì da la piacevolezza del fatto rescaldati, che ’l doce non gli arìa posto scilencio. Il che Antonio cognoscendo Marco de male talento repieno verso la muglie, per avere il fatto ottimamente inteso, mandò subito per cauta via, e fe’ assentare la giovene; ove Marco ito in casa e non trovatala, dolente ultre modo, scombrata la casa, a Curciola se ne venne; e la giovene col suo Antonio restatase, godette la sua fiorita gioventù.

 

MASUCCIO

 

          Mirabile del certo sono le astucie e suttili partiti in pronto prisi per li savii amanti, e in manera che, secundo il mio vedere, niuno providimento o estrema guardia de gelosi mai basterà a repararce. E se cossì è, dubito che ad ognuno bisognarà ponere la sua mercancia a beneficio de fortuna, o vero, nel togliere de muglie, usare quello mutto che usano gli ruzzi medici de villa quando vendeno in fera loro rezette, che a sorte se le cavano da la manica, e dicono agli infirmi: “Dio te la mande buona! Ché altramente il grano andarà al macino”. E io, lassando il mundo como l’ho trovato, demostrerò appresso a quanta infelicità e Amore e Fortuna dui poveretti amanti retornò.

 

NOVELLA XXXIX

 

argomento

 

          Susanna se innamora de Ioanni, e per piccolo tempo godeno; Ioanni è priso da’ mori; la donna, travestita in uomo, va in Tunisi per redimere l’amante; vende se medesma, e rescuotelo, e se ne fugeno insiemi; da la fortuna son retornati in Barbaria, e, repigliati, Ioanni è appiccato, e Susanna, per donna cognosciuta, lei medesma se uccide.

 

A LA ILLUSTRISSIMA INFANTE DONNA BIATRICE D’ARAGONA.

 

ESORDIO

 

          Se da peregrine e prodentissime madonne è de l’altrui avversità e orribili casi avuta compassione, non resterò a te, illustrissima infante, che singulare esemplo de ogne vertù sei al resto de virgine doncelle, fare parte de un piatosissimo avvinimento de dui mali aventorati amanti, quali non multo tempo né con longo piacere per li regni d’Amore caminando, l’uno con violente e cruda morte fu de vita privato, e l’altra, de se medesma omicida devenendo, il volse volentaria morire e accompagnare. Leggeraila, dunque, o regia formosissima prole, con quella umanità che le magnanime donne sogliono le cose de poca qualità dai loro cordiali servitori pigliare; e nel leggere continuando, te supplico abbi, de cui avere se deve, con carità compassione. Vale.

 

narrazione

 

          Secundo da un notevole gaitano me è stato racontato, mostra che poco avanti la morte del re Lanzilao fu in Gaita un ligiadro giovene, chiamato Ioanni da Piombino, il quale, ancora che de multe vertù fusse accompagnato, nondemeno, balestrato spesso da la fortuna, sempre in povero stato dimorava; puro, essendo multo esperto ne l’arte marinaresca e anci ne la mercancia, da più mercanti era adoperato: mettendoli de loro trafichi tra le mano, ora con un navilio, ora con un altro, in più e diversi luochi, e lontani e vicini, il mandavano. Costui, ancora che de umile sorte fusse, puro, avendo l’animo gintili, tutta quella poca utilità che de’ suoi multi affanni e travagli le toccava, senza resparagno alcuno in adobarse e farese polito de la persona andare la consumava; per la cui accagione e per li suoi laudivoli custumi parea che ognuno per debito l’amasse. Ove avvenne che una giovene, de nobile parentato e assai bella, se innamorò ardentissimamente de quisto Ioanni, e non volendosi de niuna persona fidare, più tempi con grieve pena tale passione sostenne; nondemeno con gli tempi lei medesma, con certe vie mostratele d’Amore, gli fe’ intendere da lei essere unicamente amato. Il che da Ioanni cognosciuto, como a prodente diliberò, como prima potesse, e a la donna e a se medesmo interamente satisfare, tenendosi tra tanti suoi infortunii felicissimo per lo essere da tale dammicella tanto amato. Dove a tanto bastò il providimento de tutti dui, che per via quasi impossibile se retrovorno insiemi, e a’ loro disiderii diero intero e piacevole compimento; e como che in tale felicità poco tempo dimorassero, puro menavano la cosa con tanto discreto ordene, che de loro furtivo amore niuno se ne accorse già mai. E benché lo essere insiemi, per loro discreta manera, rade volte le fusse interditto, nondemeno, o da soverchio amore o da gattivo augurio causato, sempre, al departire, l’uno il vulto e ’l petto de l’altro de calde lacrime bagnava.

          Ora avvenne che ’l povero Ioanni, con poco piacere de la donna e meno suo, fu costretto da’ suoi maistri andare con un certo carrico con uno navilio a Genoa; e da la donna tolto ultimo conviato, intrò al suo camino. Il quale essendo non multo de longi da Ponsa, la matina in sul fare del dì stando il navilio in calma, fu assaltato, combattuto e priso da certe fuste de mori, e tòltine quelle robbe che de portarle loro era conceso con li pregioni insiemi, affondato il ligno, con l’altre prede fatte in Barbaria se ne retornorno; e tra gli altri miseri captivi fu il disaventorato Ioanni per scavo ad un mercante tunisino venduto. La sconcia e amara novella in Gaita venuta, quale fusse de la infelice giovene l’intrinsico dolore e occulto lacrimare, se alcuna donna da tale fiera passione fusse stata per alcun tempo afflitta, sula lo porrà considerare: la pena sua fu sì acerba e intollerabile, che poco più che nulla estimava il divinire de se stessa volentaria omicida. Ma puro dato a le volte alquanto luoco al dolore, pensava che, se la fortuna per alcun tempo avesse al suo Ioanni concesso lo essere rescosso, o per altro possibile accidente in Gaita il retornare, e non trovatala viva, doppia serìa stata dal canto di là la sua pena, e a l’amante la indubitata morte causata. Da tale fredda speranza era de darese la morte retenuta; e saputo puro per littere de mercanti como il suo Ioanni era vivo e in captività in Tunisi detenuto, volenteri, se dal timore de sue brigate non gli fusse stato interditto, senz’altra considerazione vi serìa personalmente andata, non sulo a vederlo, ma anco a trattare del suo recatto, atteso che lei non se sentea che persona alcuna per la salute sua se levasse.

          E in tale unico disiderio stando, avvenne che a la casa de lei se abbattì una certa contagiosa febre de mala natura, offendendo le brigate de casa in manera che in brevi dì tutti gli uomini de capo se morerno, che non altro che lei con alcun’altri piccoli fanciulli vi remasero. De che lei, sula quasi vedendosi e libera, e senza avere de cui più temere, diliberò mandare ad effetto il suo antefatto pinsiero, e senz’altra dimora in uomo travistitase, e ad un paro de buge poste certe robbette con ducento fiorini d’oro, a Napoli se ne venne; e ivi trovata una nave de vineciani, che carrica de frutti in Tunisi andava, col patrone de quella se puosse per fante a stare, e de Susanna Raimo Ranco se fe’ chiamare. E a convenevole tempo in Tunisi arrivati, fra pochi dì con grandi arte, non cognosciuta, lei prise stretta domistichezza con certi mercanti genoesi, e per vie indirette del suo Ioanni dimandando, e trovato dove e como dimorava, gli fo conceso de viderlo in miseria grandissima e de catene carrico per la cità bastasando andare; la quale ancora che da dolore e compassione fusse afflitta, puro supra ogne altra cosa gli fo carissimo averlo vivo e sano trovato. E con acconcia manera datali cognoscenza, e con amare lacrime tutti gli loro accidenti narratisi, como che a Ioanni unicamente piacesse veder lì venuta la sua Susanna, e incomparabile ad ogne altro iudicasse il suo amore, nondemeno, da la onestà e fiera gelosia molestato, dubitava non lei, dal patrone cognosciuta, la avesse per altro che per fante de nave adoperata; per la cui e altre assai ragione caramente la pregò che de retornarse presto in Gaita contentasse il suo volere, ché Idio e ’l suo providimento con la speranza degli amici insiemi averìano il suo scampo procurato. Susanna, che de la portata moneta le avea noticia data, respuose che stesse de buon core, ché lei prestissima era ponerlo in libertà; e non avendo più spacio d’esserne insiemi, con discreto ordene como se avea supra de ciò da governare, se parterono.

          De che lei per non perdere tempo, per mezzo d’un mercante genoese de’ suoi novi cognoscenti, col moro patrone de Ioanni a redimerlo sessanta doble se convenne; e andando in nave, per pigliare i suoi dinari da la camera del patrone, dove securissimi insino allora gli avea tenute, trovò che da un marinaro fuggito gli dinari, le buge e ogne altra cosa gli era stata robbata. Il che dolente a morte, a summergerese in mare più volte fo vicina; dopo pur pensando che, lei mancando, niuno per la salute del suo amante serìa intervenuto, non essendoli né robba né alcuna speranza remasta, como colei che fervintissimamente amava, de vendere se medesma e del retrattone rescuotere Ioanni, per ultimo partito già prise. E al genoese mercante retornata, tutta lamentevole e afflitta il suo novo infortunio gli racontò, e ultre ciò, la sua firma e disperata diliberazione gli fe’ palese, sue favole componendo per qualche accagione se movea ad usare tanta inaudita liberalità e carità verso il suo amico in captività trovato; e de po’ più e più dibatti, dal ditto mercante al tesaurero del re per sessanta doble se fe’ vendere; quali per lo mercante recevute, subito amichevolemente ne recomparò Ioanni. Quale in libertà posto, e saputo como la donna e per quale ragione si era lassata vendere, e dove e como era remasta, doppio e intollerabile fo il suo acerbo e mai udito dolore; e sapendo ottimamente che niuna quantità de tesoro averìa bastato a recompararla da la casa del re, d’amore e da gratitudine con la perdita de tanto digna cosa insiemi stimulato, diliberò, se cento morte ne potesse recevere, tutte le volere, prima che la sua Susanna in servitù lassare. E ancora che lui a bastanza sapesse la qualità de tutte spiagge e luochi tunisini, pur cognoscea il paese sì male condicionato e de guardie provisto, che lui non possea pensare niuno modo possibile da reuscirle il suo disigno; nondemeno, como a disperato e volenteroso de morire, con cert’altri cristiani captivi accordatose, per vie quasi impossibili e inaudite ebbero una barca guarnita de quanto besognava; e fuggitane la donna in una spiaggia longi da Tunisi, dove la consertata barca aveano lassata se condussero, e in quella prestissimo imbarcatisi, per lo mare e vento che loro era favorevole, verso Sicilia drizzaro loro camino.

          E avendono la notte e gran parte de l’altro dì con prospirità navigato, essendo poco miglie lontane a Trapani, trovaro da la loro prava fortuna essergli più dura anzi mortale battaglia apparicchiata. Però che discarrecatoli un groppo adosso con tanta impetusità de mari da fiera tramontana menate, che senza posserne niuno argomento marinaresco adoperare, per forza fòrno costritti a retornare a li lassati mauritani liti, e andareno traversi ad una spiaggia non multo lontana da Tunisi; e quivi como a cristiani fuggiti cognosciuti, fòrno a salva mano represi e menate a Tunisi. De’ quali la fuga saputase con la rapina insiemi fatta del scavo de la casa del re, subito Ioanni como a latro fo appiccato; e Susanna in potere del suo patrone pervenuta, diliberò con certe verghe inuda farela frustigare, como de fare agli fuggiti è loro usanza; e fattala dispogliare, de contenente cognobbe quella essere femena; e le cose passate con le presente, como a prodente, considerando, se maravigliò multo, e de po’ che più volte del suo essere invano l’ebbe dimandata, senza volerene a lo onore né a la persona de lei offendere, dinanci al re la menò. Quale de secreto più strettamente esaminandola, la indusse a compitamente dirgli cui era, e cui il morto amante, e per quale accagione venuta, e perché recomparatolo e dopo fuggitisi; e quanto era dal principio de loro amore travenuto con un fiume de lacrime gli racontò. E ciò ditto non senza grandissima ammirazione del re, diliberò in tanto digno spettaculo voluntariamente con grand’animo volere l’amante a la morte accompagnare; e tolto un coltello da lato ad un moro, in presencia del re e d’altri mori e cristiani per mezzo il petto ponendoselo, dinanzi a’ piedi del re se lassò, chiamando il suo Ioanni, morta cadere.

 

MASUCCIO

 

          Avvenga che non senza grandissima compassione la manera de tanti e sì orribili infortuni, da quanti li topinelli amanti fuorno balestrati, non si possa considerare, puro me pare tempo del recordare de tante miserie omai uscire; e a questa quarta parte del lacrimare fine ponendo, con l’ultima piacevolezza se demostrerà un tratto catalano fatto ad un povero geloso, quale, secundo il mio iudicio, tutti gli raccontati de piacere avanza.

 

NOVELLA XL

 

argomento

 

          Genefra catalano ama una donna, e per lo poco senno del geloso marito conseque sua intenzione, e con uno sottilissimo tratto induce il marito a conducerle la muglie per scambio de un’altra in nave, e ne la mena in Catalogna; e de po’ invano s’accorge del fatto, e dolese de la malvagità e tratti catalani

 

A LO ECCELLENTE SIGNORE IOANNI SANSOVERINO.

 

ESORDIO

 

          Avendome tu, eccellente e vertuoso signore mio, de unicamente amarte data potissima accagione, son costretto de quelle facultà che in me sono, e secundo il mio estremo potere, farete alcuno presentino, e ciò serà il presente cestarello male pieno de mei non limate littere; quale, si, como penso, adesso al tuo bisogno profitto alcuno non rendeno, puro gioveranno a fare col tempo il tuo dignissimo nome con l’altre tue singulare parte insiemi con eterna memoria celebrare. Vale.

 

narrazione

 

          Nel tempo che tra Napoli e le castelle fieramente se guerriggiava, in Salerno più che in niun’altra parte del reame usavano mercanti d’ogne nazione; ove tra gli altri essendosi recapitato un ricchissimo catalano chiamato Piero Genefra, vi facìa de gran trafichi e per mare e per terra, como de’ mercanti è già usanza. Costui, dunque, essendo giovene e tutto disposto ad amore, domisticandosi con più de’ nostri gintiluomini, accadde che se innamorò de una bellissima giovene chiamata Andriana, muglie de uno argenteri amalfitano; quale, o per la suverchia bellezza de la muglie, o per lo essere d’Amalfi, che de natura sogliono essere pusillanimi, dove la gelosia volentiere estende le sue radice, senza la muglie averene data accagione, era de lei puro de novo fieramente geloso devenuto. Genefra, inteso de la gelosia de colui, ancora che la giovene d’alcuna piacevole guatatura il favorizzasse, puro, cognoscendo con quanta vigilancia sono le guardie de’ gelosi, estimò con contrarii venti se avere in tale mare da navigare; e se cominciò a domisticare col marito, che Cosmo avea nome, fandole fare alcune operette del suo maesterio, e più che ’l dovere pagatolo, e ultre ciò, de le dilicature de Catalogna multo spesso il presentava; per la cui accagione l’argenteri facìa gran caso avere tale amico acquistato. E in tanto se cominciò a strengere la cosa, che Cosmo, o per amore o puro per dubio, ancora che la muglie non fusse gravida, a divinirgli compare il rechiese; dove Genefra, litissimo, gli disse contentarse, parendoli che lui medesmo con la sua fortuna insiemi l’apressero la serrata strata, donde avesse con arbitrio colorato possuto caminare. E per fide e per bascio datali quella fé torta che tra gli sciocchi se usa, e credesi tra loro il comparatico confirmato, questo dunque gli fu accagione farlo multo spesso a le sue spese de la cara commare convitare; il che non passorno multi dì, che ’l catalano, avendovi posto il piede, vi se bottò dentro in manera che del suo volere sequì intero effetto. E ancora che d’alcuni nostri salernitani, como a poco ne le loro faccende occupati, Cosmo fusse stato provisto che de prattiche e tratti catalani se guardasse, nondemeno, confidando del buon compare e del suo providimento, d’ogne dire d’altrui se facea beffe, e l’amanti senza sospetto godeano.

          Dove accadde che per faccende de grandi importanza Genefra fo costretto retornarse in Catalogna, e a l’andare del tutto diliberato, propuose con un tratto piacevole e alquanto periculoso, si la giovene volesse, seco con la nave ch’al porto era per partirese, ne la menare; e a lei chiarita tale sua intenzione, issa, como a giovene che vaga e innamorata era de Genefra catalano e d’assai poco levatura avea besogno, senz’altra considerazione respuose e a l’andare via e ad ogne altro suo volere essere apparicchiata. Per il che Genefra, chiamato il caro compare, gli disse:

          — Avendo respetto a la tua perfetta amicicia, de niuna mia né piccola né grandi occurrencia non saprei de altro che de te, e meritamente, me fidare; e volesse Dio che ’l tempo e parte de le facultà, ch’io ho con certi gintilotti qui consumate, le avesse sulo con teco dispese; ma spero col tempo se acconciarà ogne malefatto. Il modo è, compare mio, ch’io per mezzo d’un gintiluomo, quale ti dirò, ho goduto pur assai con la muglie del tale marinaro; quale, a dirte lo vero, non meno per unicamente amarme che per la sua soverchia bellezza, io ne son devenuto mezzo matto, e in manera che dovendome, como tu sai, domani a sera col volere de Dio partire, il cuore non me paterìa per modo alcuno qui in preda d’altrui lassarla, atteso massime che lei me ha chiaramente ditto che ’l gintiluomo, mio tanto caro compagno, più volte l’have de battaglia requesta; e per quello ho diliberato in tutt’i casi meco con la nave menarla, e lei essendo contentissima, cercarìa de farlo con ordene tale, che ’l mio retornare qui non me fusse interditto. E perché bisogna che ’l marito sia tenuto in tempo fuori de casa, fin che la nave è per levarse, te priego che tu domani il rechiedi che la sera a tardi, pagandolo multo bene, te conduca con la sua barca in nave, per farme insino a l’ultimo partire compagnia; e in questo io manderò Galzarano mio fameglio, como ho già con lei ordenato, che travestita in uomo la conduca in barca, e tutti de brigata ne anderemo in nave, e dopo te ne potrai con lui retornare; e tale tuo operare non voglio che vada del tutto inremonerato, però ch’io intendo che infino al mio retorno la commare se goda da mia parte una gonella de finissima grana.

          Cosmo, udendo questa sì bene composta e ordenata favola, non sulo il crese, ma appena ebbe colui la sua longa diceria fornita, che cominciò a mormorare contro de’ gentiluomini, con dire:

          — Questo e peggio te sta bene, ché mi pare un miraculo como non te hanno e robbato e offeso de persona, ch’io so multo bene gli frutti che le loro prattiche rendeno; avvisandote che alcuni de loro, invidiusi e poco contenti de nostra amicicia, sotto colore de carità me haveno ditto milli mali de’ fatti tuoi, e postome sospetto de mia muglie con tutto ’l nostro comparatico; e io, che in tutto non persi il tempo col mio maestro, gli ho lassati redire con la loro robba. Ma al fatto tornando, io sono acconcio per servirete: il marinaro è mio multo amico, e condurrollo dove e como hai ditto; e ultre ciò, essendone tutti insiemi, lui né a te né a me porrà suspettare, anzi tenerà per firmo che con altre se ne sia fuggita, atteso che in verità lei è multo vana e ligiera.

          E con tale ordene ognuno contente de l’altro si departì.

          La venente sera la nave levate l’ancore, Genefra avendo de tutto Andriana pienamente informata, quando ora gli parve, chiamò il compare e disse:

          — Andiamo in casa, ch’i’ho a togliere da la commare licenzia, e dopo attenderemo a dare recapito al fatto nostro.

          Il che lui con gran piacere pigliatolo per mano, e itine a casa, dopo una legiera collazione e altri piacivoli ragionamenti, e vinticinque ducati, per la promissa fatta, a la commare donati, e da lei tolto l’ultimo ficto conviato, Cosmo, a la muglie revolto, disse:

          — Abbrazza e bascia teneramente il nostro buon compare, dopo la Dio mercè lui si è puro partito, sanza la sua prattica avere il mio onore offeso, como alcuni spirti diabolici teneano il contrario per firmo.

          De che loro, che con fatica teneano le rise, se abbracciaro, e ditto adio, se partì, e con Cosmo a la marina se ne vennero; dove trovato il marinaro con la barca in ordene, sì como per Cosmo da la matina gli era stato ordenato, gli dissero che aspettavano dui famegli con certe robbe, e se puosero passiggiando per lo lito. Il che Galzarano andò spacciatamente in casa de Cosmo, e travestita Andriana in uomo, con un manto avvolta e un paro de buge in spalla, colui ingannando che ’l compagno se credea già ingannare, in barca se condussero; dove tutti de brigata saliti, dati de’ remi in acqua, verso la nave se avviarno. Andriana che lievemente si era mossa vedendo il marito, che lui medesmo con tanta innocenzia l’accompagnava, como a femena e giovene gli venne certa debole compassione, e cominciò pianamente a piangere e ramaricarese de la fortuna, che a cossì avverso caso avea condutto il suo marito. De che Cosmo, che più presso gli stava, disse:

          — Deh! gattivella, de che piangi? Fuorsi te duole, vedendo qui tuo marito, de lassarlo? Certo tu me fai de te maravegliare: tu hai la tua condizione in cento duppii avanzata, e non dubitare, dove povera e mal servita eri, adesso signora de’ meio beni devenerai. Io so l’amore che ’l mio compare te porta, e renditi secura che lui te tenerà sempre per donna de la persona e de le facultà sue, ché non sono uomini al mundo, che sappiano amare e ben trattare le donne, si non catalani; e ultre ciò, porrìa esser tanto tua ventura, che tuo marito se moresse, ché de certo lui sì te pigliarà per muglie.

          E con semele parole la confortava, in manera che quello poco pintimento, che gli andava per il suo lieve cervello, del tutto se fuggì via; e como legieramente avea pianto, pensando a le parole e a cui gli le dicea, cossì, senza altramente respondere, cominciò a fare le maiuri rise che mai facesse. E in questo gionsero in nave, dove Genefra il caro compare abbracciato e basciato, con Andriana e ’l fameglio montarno in nave, che, già fatta vela, diede la proda al suo camino. E Cosmo verso terra col marinaro retornandosi, venea fra sé godendo, per lo pensare a la recevuta beffa del compagno, e de quello avea a dire quando, giunto a casa, non trovava la muglie. E como furno in terra, ognuno se ne andò contente a casa; e Cosmo a la sua arrivato, e non trovato la muglie, e per più manifesti signi cognosciuto como il fatto era andato, tardi de se medesmo, de la malvagia femena e del gattivo compare se dolse, e la sua bestiagene longamente pianse.

 

MASUCCIO

 

          E si Trofone oste, como a malfitano, fu dal salernitano con tanta arte ingannato, e trattato da forestiero nel pagare il dazio de la mercancia che sulo per suo uso l’avea qui tra nui recata, non è da dubitare che non fusse stata maiore e più perpetua la beffe e ’l danno del nostro Cosmo, per esserli robbata ad un tratto tutta la mercancia, che lui medesmo avea, e como a senzale e como a mercante, e contratta e fundicata, e anco pagato lo nolito al marinaro, che in nave gli l’avea condutta. E si cossì è, me pare che li malfitani se possano poco più che nulla de nostra vicinità lodare; ma perché lui medesmo confessa esserne stato da’ salernitani provisto, de lui e non d’altri se abbia, e meritamente, da biasemare. Nondemeno iudico che ’l poveretto sia in alcuna parte da escusare, atteso che le prattiche de’ catalani in tali tempi non erano si note per lo nostro regno como sono ogge, quali sono in manera cognosciute e vintilate, che non sulo chi vuole se ne sa e può guardare, ma offenderle con vergogna e danno, sì como ogne dì le esperienzie ce ne rendeno testimonio. E io a questa quarta parte ponendo fine, a l’altra che ultima serà, piacendo a Dio, pervenerò.

 

INTRODUZIONE PARTE QUINTA

 

FINITA LA QUARTA PARTE DEL NOVELLINO, INCOMINCIA LA QUINTA E ULTIMA, NE LA QUALE MATERIE NOTIVOLE E DE GRAN MAGNIFICENCIE DE GRAN PRÌNCIPI USATE, E D’ALTRE A LIETO FINE TERMENATE SE CONTERANNO.

 

          Uscito dal tenebroso lago de l’altrui miserie repieno, nel quale per adrieto con la mia male guarnita barca, con suspiri per contrarii venti e con lacrime per folta pioggia, ho già navigato, e da la iniqua e crodele fortuna insino al porto, con le sue continue e mestuose uccisaglie espaventandome, sono stato accompagnato. E certo se dal suave zefiro non fusse stato il mio nauchero da passo in passo confortato, niuno marinaresco argomento serìa stato bastevole a reparare che l’infallibeli naufragio non avesse incorso. Puro, essendo con gracia del generale Fattore qui condutto, ho con meco medesmo per ultimo partito già priso, de gli pianti e ramarichi con le miserie de l’aspra fortuna agli miseri lassare; e questa quinta e ultima parte del principiato e presso la fine venuto Novellino con diece altre digne istorie de singulare vertù, ancora de gran magnificencie da gran prìncipi usate, e d’altri piacivoli e alcuni piatosi accidenti in lieto fine termenati, le passate accompagnando, daremo e al libro ultimo conviato e a la faticata mano alcuno riposo. Ma prima che più ultre vada, lassando gli prodenti, como a non bisognosi del mio conseglio, da banda, dico a coloro che da la natura non sono de multe gracie dotati, che avvertiscano multo bene a la nova arte, o vero industria, anzi temeraria baldanza, che le innamorate madonne hanno da loro medesme sceleragine imparate; a le quale non bastando con tanti e diversi manifesti signi e con nove intramesse, non sulo dentro le cità ma de un regno ad un altro mandate, darene ad intendere loro summamente amare, ma li mandano a requedere che debbiano a l’ameroso duello personalemente comparere, non altramente né con meno importunità, e senza timore o virgogna, che gli sfrenati iuvini amanti a le loro amorose sogliono mandare. E perché temo che a sì fatta disposizione de’ cieli non se possa con umano providimento reparare, prima che più ultre a scrivere proceda, offero e prometto a tutti coloro che da tale donne sono o per matrimonio accompagnati o per altra consanguinità astritti, che venendone da me como ad indigno secretario de mio serenissimo signore, principe salernitano, loro fare uno autentico privilegio e senz’alcuno salario, che possano e vagliano portare il cimero, che sulo a quilli de la retta linea e prima genitura de’ Sansoverini è già permesso de fare e de portarene. E viva Amore!

          Finito lo generale esordio de la quinta parte, comincia lo particulare de la prima novella, e prima l’argomento, e dopo la narrazione.

 

NOVELLA XLI

 

argomento

 

          Dui cavalieri francisi se innamorano de doe sorelle fiorentine; so’ necessitati retornarsi in Francia; una de quelle con una sentenciosa intramessa de un falso diamante fa tutti dui retornare in Fiorenza, e con una strana manera godeno a la fin de loro amore.

 

A LO MAGNIFICO FRANCISCO GALIOTO.

 

ESORDIO

 

          E se da la suave musica d’Anfione fuorno le dure pietre commosse, nobilissimo mio Galioto, quale maraveglia che ’l tuo Masuccio da l’armonia de tua dulcissima lira sia sforzato a fabricare con ruda mano la sequente novella, e quella a te, che noticia me ne disti, la intitulare? Supplicote, dunque, che, leggendola, il correggere non te sia molesto, a tale che si dilongata de la verità [te parrà], o alcuna rugine, como non dubito, vi cognoscerai, con amore emendare e raconciare la dibbi, sì como tra la nostra non moderna amicicia se recerca. Vale.

 

narrazione

 

          Dico adunque che nel tempo che lo duca Rainere d’Angioia, emolo de la quieta pace, da la potencia col senno insiemi del divo principe re don Alfonso fu di Napoli e dal regno cacciato, como le piacque, per certo tempo in Fiorenza se raffisse; dove tra gli altri francisi, che a sì gran perdita e curso naufragio l’accompagnarno, fuoro dui valerusi e acconci cavalieri, l’uno chiamato Filippo de Lincurto e l’altro Ciarlo d’Amboia. Quali, ancora che prodentissimi fussero e de multe vertù accompagnati, puro, essendone gioveni e tutti disposti ad amore, lassando l’affanno del perdere, col pinsieri insiemi a cui l’avesse, al duca, trascorrendo a cavallo quasi ogne dì per Fiorenza, avvenne che Filippo se innamorò de una ligiadra e bellissima giovene, de nobile parentato, muglie d’un notevole citatino. E travagliandosi de continuo a la cominciata impresa, accadde che Ciarlo in un altro lato de la cità fu priso dal piacere de la sorella de l’amorosa de Filippo, quale in casa del patre, non maritata, dimorava; il che, senza sapere tale parentela, si diliberò, ancora che bella ultre modo gli paresse, de temperatamente amarla, però che, como ad esperto ne le ameruse battaglie, cognoscea che le giovene doncelle lievemente e con poca firmezza sogliano amare. Filippo, trovando che la sua donna discreta e intendente era, con tale subietto apparicchiato, a summamente amarla se dispuose; de che la donna, accorgendosine, e considerate le multe laudivoli parte del cavaliero, se diliberò con tutto ’l cuore lui altresì unicamente amare, e lo cominciò in manera de la gracia sua a favorire, che a lui parea che colei sula al mundo sapesse amare. E certo d’amore l’ultimi frutti gli arìa con comone piacere fatti gostare, se da lo essere del marito continuo ne la cità e in casa non gli fusse stato interditto; e de tale suo firmo proposto avendonelo e per littere e per imbasciata fatto certo, null’altra cosa era da loro con summo disiderio aspettata, si nol partire che ’l marito per Fiandra volea fare, con le galee che a Pisa da ora in ora doveano già toccare.

          E in tali piacivoli pinsieri stando, a duca Renato fu de bisogno in Francia retornarse; il che dagli dui cavalieri fu tale partire agramente tollerato, e multo più da colui che con più passione amava ed era amato; puro, da ditta necessità astritti, cossì negli lazzi d’amore avviluppati si dipartereno. Nondemeno Filippo a la sua donna promese che quale si voglia grandi affare il retornare non gli arìa interditto, e, como liale amante, per niuno accidente abandonarla mai; e con più altre assai effettuose parole confortatala, intrarono al loro camino. E con ditto signore in Francia iunti, avvenne che in processo de tempo, o che novello amore o che altre occupazioni de cose grandi ne fussero state accagione, ancora che Filippo de la sua lassata donna se recordasse, puro le calente fiamme veneano da passo in passo in manera ad estinguere, che non sulo il promesso retornare gli era uscito de mente, ma a le multe e diverse littere da lei mandatele rare o non mai resposte ne sequeano. De che la donna, cognoscendo dal fervente amante essere quasi del tutto abandonata, in tanto fiero dolore ne cadde, che era per impaccirne; puro, pensando a la intera vertù del cavaliero, non se possea persuadere che tanta inumanità in core nobile allebergasse. Ma tuttavia de l’ultime parole e scritte e mandatele a dire per loro fido misso recordandose, pensò con una nova e sentenciosa intramessa mordere la vertù de l’amante, e con quello vedere l’ultima esperienzia del suo amore. E subito da un singulare maestro fatto fare con gran dilicatura uno anello d’oro, e in quello fe’ incastare un contrafatto diamante, che ben parea la sua falsità, e d’intorno a ditto anello fe’ scolpire certe littere, che sulo diciano: “Lama zabatani”. E quello acconciamente fasciato in più viluppi de sottilissima cambraia, per un fiorentino giovenetto consapevole del fatto, che per altre sue bisogne in Francia passava, al suo Filippo il mandò, e gli impuose che tra sé e lui glil desse, e non altro gli dicesse si non:

          — Colei che unicamente te ama, te manda questo, e te supplica che de conveniente resposta la fa’ digna.

          Al quale il misso col presente e con la imbasciata iunto, e da lui lietamente recivuto, e dopo che la condizione de l’anello col mutto insiemi ebbe con maraveglia visto, più dì andò supra tale significato fantasticando; e non possendone il vero costrutto cavare, diliberò al suo Ciarlo e a più altri cavalieri de la corte del re de Francia il mostrare, quali ognuno da per sé e tutti insiemi l’intilletti esercitando, niuno al versaglio se sapea né possea accostare. Ultimamente dal duca Ioanni, quale prodentissimo signore era, e multo più savio in consigliare altrui che fortunato in avere de sue multe imprese finale vittoria, fu subito la sua particularità intesa, quale in effetto dicea: “Di’, amante falso, perché me hai abandonata?”. La cui sentenzia da Filippo ascoltata, cognobbe che la donna con gran prodenzia lo avea del suo falso amare iustamente remorso, e diliberò con una medesma operazione a tale ornata preposta respondere e a tanto debito d’amore satisfare. E senza volere il fatto menare più in longo, strettamente requese Ciarlo, suo caro compagno, e lo scongiurò, per l’amicicia tra loro, il dovesse per la ditta accagione in Fiorenza accompagnare; al quale ancora che duro gli paresse, puro per ottemperare al volere de tanto amico, e ultre ciò, pensando che a se medesmo e a la piaciuta dammicella satisfacerìa, senz’altra replica disse contentarse.

          Quali intrati al loro viaggio, e a convenevole tempo a Fiorenza giunti, como prima da comodità loro fu concesso, dinanzi le casi de loro madonne passiggiando, de loro venuta significaro; e poco appresso Filippo fe’ per lo solito missaggiero dire a la sua donna como lui inteso a bastanza quanto l’anello da lei mandatole gli avea demostrato, non sapendo como tale sua non vera opinione reprovare, si non con la testimonianza de la sua presente venuta, e però omai a lei restasse de dargli modo de compita udienza. La gintili madonna, che de loro venuta avea con la sorella fatta mirabile festa, e tra esse ordenato de quanto fare intendeano, sentendo l’effettuosa e d’amore condita imbasciata, fu de tanta allegrezza repiena, che ad avere invidia de se medesma parea esser costretta; e per non perdere più tempo che perduto si era, gli fe’ brevemente respondere che la sequente sera col suo compagno dinanti la porta de sua casa se conducesse. Per il che Filippo litissimo quando ora gli parve, col suo Ciarlo al demostratoli luoco giunti, trovaro la donna che lietamente l’aspettava; e fatto loro da una fidata fante aprire e redurre dentro, per quella glie fe’ dire che, a non possersene fare altro, de necessità bisognava che, fin che essa a prendere piacere con Filippo dimorava, Ciarlo avesse andato a giacere ignudo in letto da lato de suo marito, a tale che, isvigliandosi, sentendolo in letto, se avesse la muglie creduta; altramente vi serìa corso piriculo e de onore e de persona; e per quello gli supplicava che de tale oportuno remedio per loro fusse provisto, o vero de retornarse indietro avessero il partito priso. Ciarlo udendo tale dimanda, quantunque a l’inferno per servire il compagno serìa andato, nondemeno gli parea che a la sua ottima fama fusse grandissimo mancamento, soccedendo il caso, lui essere ivi ignudo trovato; denegò del tutto in tale modo volervi andare, ma, vestito e con la spata in mano, offerse d’andarvi multo volenteri.

          Filippo, che de Francia era retornato per essere da la sua donna racolto, vedendosi a tale partiti estremi, parendoli che ’l compagno dicesse bene e che la donna con colorata ragione se movesse, dopo più e diversi dibatti, cognoscendo puro la donna stare ostinata a tale proposta, a la fine lui, più che mai d’amore infiammato, quasi lacrimando pregò Ciarlo per li vinculi de l’amicicia che de tale dimanda, como che inonesta fusse, contentasse il volere de la donna e ’l suo. Il che Ciarlo, cognoscendo la qualità de la passione de l’amico, e a che termeni era la cosa, diliberò prima, se besognasse, morire, che de contentarlo in alcuno modo mancasse. E cossì la fante, prisolo per mano, al buio il menò dove era la donna; da la quale benignamente racolto, dentro la sua camera il condusse, e fattolo dispogliare ignudo, con la spata in mano se ne intrò in letto; e piano confortatolo a paciencia, ché prestissimo tornerìa a liberarlo, al suo Filippo tutta festiggevole se ne venne, e in un’altra camera andatine, diero al loro amore intiero e piacevole compimento. Ciarlo, avendo non che doe ore ma quattro aspettato, e credendo che, se non la donna, almeno il compagno prodente avesse de cavarlo da lì procurato, dove contro ogne suo piacere e pieno de sospetto dimorava, e non sentendole venire, cognobbe omai il dì avvicinarsi; de che, fra se medesmo consigliato, disse:

          “Se costoro, d’amore rescaldati, non se tormentano avereme qui per bestia lasciato, a me conviene de me e del mio onore fare estima”.

          E piano toltose dal letto, parendole che ’l marito de la donna dormesse, con li panni in spalla andò a fare prova de uscire, e trovata la porta de la camera de forte serraglio da fuori provista, se torbò ultre modo, e non sapendo ove fenestre fussero né dove respondessero, con fellone animo puro al letto se retornò; e ancora che sentesse collui destato e per lo letto demenarse, senza accostarglisi né dire alcuna parola, puro da timore e da maraveglia era stimolato. E in tali travagliati pinsieri stando, vidde per le fessure de le fenestre già essere dì chiaro, e dubitando da colui essere raffigurato, li voltò le spalle, e in sé racolto, ammanitase la spata per averla al bisogno, posto quello ch’essere devea a beneficio de fortuna, chieto e con grandissimo rencrissimento se stava. E non dopo multo sintì a la casa esservi acceso fuoco, e le brigate con frettolusi passi correre con acqua a reparare; per la cui accagione per ultimo partito già prise, de prima como a buon cavaliero morire, che essere ivi ignudo per scambio de femena retrovato. E saltato dal letto, con la spata dal fodaro tratta andò verso la porta, e fando ogne suo sforzo d’aprirla, sintì che de fuora gli era uperto; del che alquanto retenuto, se vidde Filippo e la donna per mano con gran festa intrare, e lui, che de forore e male talento cognosceano repieno, con gran piacevolezza abbracciaro. E videndolo ancora tanto abbagliato stare, che non sapea ove si fusse, la donna, lietamente prisolo per mano, disse:

          — Signore mio, l’intiero amore, quale vi porto, con quello insiemi che vui ad altre sì portati, me darà prontissima secortà dirve quello che tra tanta amistà dire se conviene. Io non so se a vui cavalieri francisi è da la natura mancato quello che lei medesma agli bruti animali have già concesso; e ciò dico, ch’io non cognosco niuna domita o puro selvana fiera, che a l’odore il mascolo, d’amore trafitto, non cognosca la femena. E vui, prodente e savio cavaliero, da Francia insino a qui per amore retornato, è stata tanto debole la vostra infreddata natura, che, avendo avuta una sì longa notte da lato colei che tanto mostravati d’amare, ed a l’udore non la aveti cognosciuta.

          E al letto menatolo, gli fe’ vedere e cognoscere la sua sorella, che tutta la passata notte con lui era giaciuta; il che il cavaliero non meno scornato remasto, nacque tra loro quattro tanta festa e piacevole rise, che non se posseano in pedi tenere. Dove parve a tutti che, per emenda del commesso errore, a coppia se dividessero; e cossì Ciarlo in letto retornatose, e da tale fertele iardino il novello fiore e primo frutto coltone, triunfando e godendo ognuno con la sua, fin che ’l marito da ponente retornò, si dimorarno.

 

MASUCCIO

 

          Se la notevole intramessa del falso diamante de una donna composta deve essere, e meritamente, commendata, non meno con piacere considerare se può la singulare beffa da lei medesma fatta a Ciarlo, col travaglio de mente, con gli diversi pinsieri e col timore insiemi, che in sì longa notte recevette. Ma dopo la cosa in tanto lieto fine fu termenata, me pare che sulo la conclusione, de le donne che mandano a requedere gli uomini, prendere se ne debbia; da quale tema argomento togliendo, sequerò appresso un altro fiero, crodele e libidinuso caso de la regina de Polonia, puro a lieto fine, per altro che per essa, termenato.

 

NOVELLA XLII

 

argomento

 

          La regina de Polonia manda a morire uno suo figliolo, e de uno suo cavaliero se ingravida e parturisce femena; il figliolo per diversi e varii accidenti campa, e, como a figlio, palesata la verità del fatto, fa morire la regina sua matre, e lui, re remasto, piglia la figlia del re de Ungaria e regna nel suo stato.

 

A LO MULTO ECCELLENTE E VERTUOSO SIGNORE

DON FERRANDO DE GIVARA, CONTE DE BELCASTRO.

 

ESORDIO

 

          Avendo per multi anni la intera vertù de te, magnanimo cavaliero castigliano, cognosciuta, e quella da tua illustre sterpe non digenerare, diliberando una de mei novelle scriverte, non ho voluto si non de materia alta e de gran prìncipi te la mandare, a tale che, leggendo, possi comprendere che la temeraria baldanza che ogge useno le donne ne lo mandare a requedere coloro che da esse sono amati, in altri regni che nel nostro e da grandissime maestre è già usata e posta in prattica, e tanto differente da le nostre italiche, quanto le ultramontane madonne, quando loro viene meno l’arte, adoperano la forza, sì como tu, eccellente signore conte, con maraveglia leggerai.

 

narrazione

 

          Ermino, re de Polonia, per quello che da più poloni ho già inteso, fu ne’ dì suoi multo savio e prodentissimo signore, il quale, essendo remasto senza muglie e con niuno figliolo, ancora che avvicinassero gli anni de sua senettù, per non lassare dopo lui il regno a strana nazione, a remaritarse se condusse, e tolse per muglie la sorella del franco re de Bòsena, giovene e multo bella; quale avendola con regale cerimonia recevuta e ultre modo piacendole, quanto la propria vita l’amava. Il che fuorsi a la regina non bastando quello che in sorte gli era toccato, prepuose con ogne istanzia cercare de godere de l’altrui beni; e avendo posto gli occhi addosso ad uno ligiadro cavaliero cortesano, senza volerse d’alcuna persona fidare, lei medesma in camera chiamatolo, con assai acconcia manera, che dovesse a sue disordenate voglie consentire, strittamente il requese, dicendole:

          — A te deverìa essere caro il mio amore, perché tu dive considerare cui sono io e con che passione te parlo; e ancora che questa sia grande impresa per te intrarence, puro dive considerare che ad un medesmo periculo sono io como sei tu, e Amore è gran signore, contra la forza del quale mortale niuno mai potte resistere. E per ben che multi esempli de ciò te ne potesse in presente redurre a proposito, puro ve n’è uno al quale dive remanire contento, e sequir quello io te comando: dicote del forte Ercules, quale avea morto il Cerbaro, scortigato el lione, e per amore insignò filar lana. Non te dico nulla de Teseo, qual, abandonata la sua Andriana, tutto volse essere de Fedra, non curandose però niente del suo Ipolito. E ancora che queste verissime ragione siano al mio proposito, a farete movere a contentare la mia voluntà e l’innamorato cor, quale per tuo amore se destrugge, e del certo e senza certo, se mel negarai, serai accagione de la mia morte, qual non possendo de po’ remediare, ne pigliarai dispiacere in lo averme de quisto mundo cazzata per tua gran crudelità. Però, adesso ch’è tempo, me aiuta.

          E in questo se tacque. Il cavaliero, che de multe vertù era accompagnato, cognoscendo quanto eccessivamente, ciò fando, averìa lo onore e la propria vita del re suo signore offesa, dopo le oneste reprensione dateli, gli respuose:

          — E con che onore e con che fazza io porrìa procedere a tal nefando delitto? Tu si’ la corona de la testa del mio signore, e a lui son obligato esserele fidele, spronandome in ciò la legge de la natura. Qual morte serìa, per ben fusse crodelissima e piena de nefandi martìre, quale il mio errore, prevaricando in tal offesa de la sua maiestà? qual se pò dir maiore, ch’è in il primo grado? Ché il mio signore, sapendo tal vergogna, se contentarìa essere più tosto un vile fante de cocina, e, che peio è, eleggerìa de sua voluntà la morte. Però, illustrissima regina, remanete dal proposito errore, e non credate per me ià mai tal cosa ad altri fàrende parte; ante, serratola al mio core, mel tacerò, e vui tenerò de continuo supra la testa mia. E se per aventura per vostro piacere disiderate lo esilio de mia persona, dicatemelo adesso, ché io anderò ove me serrà imposto a pascere le erbe silvagge, né mai me curarò vedere fazza de uomo vivente alcuno; concludendove con vera conclusione il mio dire, primo sufferire mille morte, che in sì fatto errore cascare ià mai.

          Per il che la regina turbatissima gli disse:

          — Vide, messere Domizio, si tu de contentare il mio disiderio te disponi, io sono puro gravida del signore re, e sì te prometto supra la mia fé che, venendo il parto a compimento, de ciò che serà lo fare de contenente morire, e dopo ingravidandome de te, como non dubito, ultra che tu, fin che ’l vivere ne serà concesso, te goderai e de la persona e de le facultà mei, quella erede che da nui provenerà, como del re fusse, serà con diligenzia allevata, e verrà indubitatamente a succedere in quisto nostro regno. E se puro ostinato in sul negare stare vorrai, te dilibera assentarte da qui, in manera che mai novella de te me pervenga, ch’io te giuro de farete, dove che te sento, vituperosamente morire.

          Il cavaliero, dagli aspri menazzi multo impaurito, da tanti presenti e futuri promissi beni con le bellizze insiemi de tale madonna raconfortato, dopo più e diversi consigli con seco medesmo in pronto avuti, per ultimo partito già prise de fare quanto per la regina gli era comandato. E cossì, a non partire, a tanto libidinoso volere interamente satisfare e cogliere li amerusi frutti d’amore [venuti], se può presumere che, quando da comodità loro era conceso, de tale fortivo amore con gran piacere se godeano. Dove avvenne ch’al tempo debito la regina parturì un bellissimo figliolo; de la natività del quale e dal re e da tutti baroni e populi ne fu fatta mirabele festa, e fo nel battesmo Andriano nominato. Il che, ancora che a la impia regina, como a matre, dolesse insino al core farlo, como avea già diliberato, morire, puro per non turbare in alcuno atto l’amante, essendo più che mai per la longa passione negli amorosi anzi adulteri lazzi avvolta, del tutto se dispuose mandare in parte ad effetto il suo crodelissimo e detestando offerto partito.

          Erase per aventura ne la corte del re suo marito un cavaliero ungaro con muglia e figlioli reparato, che dal re de Ungaria avea per certo isdegno avuto bando; e sentendo la regina che la muglia de l’ungaro avea de quei prossimi dì similemente parturito uno figliolo assai bello, gli occurse nel pensiero colei sula possere al suo proposto satisfare; e fattasela chiamare, dopo le accoglienze, gli disse:

          — Costanza mia cara, quanto e quale sia de grandissima importanza quello che teco fidarme intendo, e como te serà de bisogno de secreto tenerlo, essendo tu prodente como si’, la qualità del fatto a te medesma ne farà fare iudicio: pregote dunque, per lo sulo Idio e per li beneficii da me recevuti e per gli multi maiori che de recevere aspetti, te piazza prima con tuo grandissimo profitto il mio disiderio contentare, e appresso la cosa passar con quella taciturnità, che tu medesma estimerai il bisogno lo recercare maiore.

          Costanza con umilità grandi respuose che de fidarse de lei, como che meretevole non ne fusse, contentasse il suo disiderio; ma che essa avrìa prima eletta la morte, che con alcuno vivente cosa che glie dicesse palesasse già mai. Allora la regina disse:

          — Egli è de bisogno, per uno certo respetto che non senza accagione me muove, quale al presente scoprire non te posso, che ’l tuo figliolo con quello del re e mio sia cambiato; del quale cambio per indubitato pòi tenere, il tuo figliolo venerà nel regno a succedere. Quello che è de mio disidero che avvenga, essendo io puro matre e tu savia, io non tel posso dire, e tu compitamente considerare il pòi; nondemeno tale mio volere al tuo providimento e a beneficio de fortuna lo remetto.

          La Costanza, che quivi forestiera e in povertà estrema se vedeva, ancora che multe e diverse novità l’andassero per lo capo de tale strana dimanda, puro, pensando a la presente comodità e a quello ch’al figliolo potrìa avvinire, respuose ad ogne suo volere essere apparicchiata. E in casa retornata e col marito consigliatasi, parve a tutti, per le ragione già ditte, quello se mandar ad effetto; e cossì tolto il suo figliolo, e in camera de la regina portatolo, e de fasce e d’altri panni i figlioli travistiti, fu tra loro il contrattato baratto già fatto.

          Ahi! perversa Fortuna, cui è collui che possa la tua velocissima e periculosa rota firmare? Ahi! Fortuna, per ben che tu sei dagli alti prìncipi negata e in tutto dal seculo sbandita, non però tu ne mostre alcuna vendetta, si non quando lo fai per rapacissima rabia. Tu ben sapive dove reuscisse la trama. Uno pensava la Costanza, e un altro la regina: la Costanza, con lo pensiero de fare lo proprio figliolo re, non vide la prestissima morte del proprio innocente figliolo; e a la regina ancora fo occulta la cautela de la povera notrice, quale, essendo matre, avea cussì de l’estraneo como del proprio fanzullo cura: pensi cui ha intelletto questo. La Costanza col regio formosissimo figliolo sotto poveri panni avvolto a la sua piccola stanza se ne venne, e ’l suo in tanta altezza, como che poco gli durasse, lassò; e quantunque lei avesse a bastanza cognosciuto, in intrinsico volere de la prava regina essere che Andriano non avesse del suo latte né d’altri né poco né multo gostato, puro lei, considerando la malignità de la ribalda matre, la innocencia del povero figliolo e la sua medesma coscienza insiemi, diliberò, se morte ne dovesse recevere, como a proprio figliolo e con gran dilicatura lo allevare; e cossì fece; e poco appresso fatto credere a la regina che era morto, e occultamente in casa il notriva. La iniqua regina, che con contrarii venti navigava, non fe’ fornire un mese al figliolo de la povera Costanza, che con violente mano lo fe’ de vita privare; de la morte del quale tutta mestuosa, lacrimevole e trista mostrandosi, diede ad intendere al re e a tutto ’l resto de la corte e a la Costanza altresì con colorata accagione, che da naturale curso tale morte era causata; de che dal re e da’ sudditi fu tale acerbo caso con incomparabile dolore tollerato. Messer Domizio, che per firmo tenea il morto figliolo essere quello da la regina parturito, quantunque summamente gli piacesse, puro con ammirazione non piccola fra se medesmo iudicava colei sula ogne altra scelerata femena de crudelità avanzare; nondemeno né questo né altro ebbe tanta forza de retrarlo dal cominciato lavore. Nel quale con comone piacere continuando, la regina de lui se ingravidò, e al devuto termene parturì una multo bella figliola; quale il re pigliata per sua, ne fe’ gran demostrazione d’allegrezza.

          La Costanza, che con dolore mai semele gostato avea il morto figliolo col marito insiemi amara e occultamente pianto, e, como a prattica e intendente, cognosciuto a bastanza la domestechezza e faore de la regina al cavaliero suo amatore con effetti demostrati passareno gli termeni del dovere e de la onestà, con seco racolse tutto ’l fatto como era pontalmente socceso, non altramente che se lei a tutto fusse intervenuta; e da dolore e disdigno de tale e tanta sceleranza vinta, non se ne possea da pace. E avendo il marito per mezzo del re de Polonia l’ gracia del re de Ungaria racquistata, poco dì appresso la morte de loro figliolo in Ungaria se ne retornorno, e tre altri figlioli ne condusse col secreto Andriano, quale da essi, non altramente che proprio figliolo, era amato e con gran tenerezza allevato; dove dal re loro signore furono benignamente recevuti e onorati caramente. Costanza visitando de continuo la regina e da lei lietamente racolta, avvenne che, avendo la regina un bellissimo figliolo quasi d’uno medesmo tempo con Andriano, la sua balia se infirmò in manera che non volea dargli del suo latte; il che la regina, tenerissima del figliolo, avea man dato per più e diverse donne che in tale servigio intra venessero, e, como fuorsi li cieli aveano diliberato, il figliolo del latte de niuna volse assaggiare, si non de quello de la Costanza, quale con tanto piacere piglio quanto quello de la sua balia pigliare solea. De che la regina ne fo ultre modo contenta, e caramente la pregò che, fin che altramente providesse, non gli fusse grieve il figliolo gli notrire, il che a Costanza fu carissima tale requesta e paratissima al chiesto servigio se offerse; dove la regina gli fe’ spacciatamente una stanza dentro ’l palagio per sé e per le bregate acconciare, ne la quale con grandissimo amore e diligenzia ambe gli figlioli allevava.

          La fortuna, per l’altrui beni, non volendola de sì digna e gloriosa coppia per multo tempo fare stare accompagnata, accadde che una notte tra l’altre, con gran felicità in mezzo de coloro dimorando, da soverchio sonno assalita, se adormentò supra ’l figliolo del re de Ungaria, e in manera il venne premendo, ch’al svigliare sel trovò morto a lato. E dolente a morte, como ciascuno può pensare, dopo che longamente lo ebbe pianto, videndo che ’l lacrimare a remediare non giovava, pensò a la sua medesma salute reparare; e pigliato il multo amato Andriano, che col morto figliolo grandissima simiglianza tenea, de le veste del quale adobatolo, col marito insiemi senz’alcun sentore il morto figliolo sotterrato, e ’l vivo la matina, como era già solita, a la regina demostrato, né per lei né per altro fu si non per suo proprio cognosciuto. La Costanza, dopo il fatto più sollicita devenuta, con duppio amor il suo Andriano allevava. Il quale ne la età virile pervenuto, e in manera che generale esempio e de vertù e de bellezza a tutti gli ungari già era, successe che la regina de Polonia, non dopo multo tempo de la sua enormessema fatta barratteria, remase vidua, e avendo la sua illegittima figlia multo bella, e lei né de l’amante né d’altri più figlioli produtti, prepuose a questo cambiato e recambiato figliolo del re de Ungaria, ancora che secundogenito estimato fusse, volere la figliola per mugliere e ’l regno in dote donare. E fatt’el pinsiero, mandò sua imbasciaria onorevole con tale requesta al re de Ungaria; quale dopo più contratti firmata tra loro la parentela, e venuto ’l tempo che la festa e sposalicie se doveano celebrare, il re suntuosamente puose in ordene tutto, tra la sua Costanza e ’l marito. Ed essendono posti in camino, e già intrati nel regno de Polonia, parve già tempo a Costanza traere il suo caro figlio da lo esacrabile errore, al quale lui, innocente, con tanto piacere correa; e col suo marito de secreto chiamatolo, dopo l’acconcio e ornato esordio, le narrò e disse de cui era figliolo, e como e perché da lei allevato, e per quale accagione era per lo figliolo del re de Ungaria tenuto, con quello insiemi che tra sua matre e ’l cavaliero suo patregno avea apertamente cognosciuto, e ogne altra cosa soccesa insino allora pontalemente gli racontò.

          Andriano, che Adoardo era chiamato, avendo con grandissima ammirazione e rencrescimento tanti varii casi ascoltato, non bastando le parole a rendere a la sua cara nutrice de tanti recevuti beneficii guidardone, se reservò ne la sua mente con fatti faregli recompensa tale, che da’ presenti e da’ posteri serìa de gratitudine comendato; e ancora che fusse multo più savio che a la sua giovinil età non se rechiedeva, puro con loro consigliatose, diliberò l’ordene tra loro priso con virilità grandissima mandare a compimento. E arrivato dove arrivare dovea, fu da la regina de Polonia e da’ suoi baroni e populi con gran triunfi racolto e recevuto e onorato, como a sì gran principe se spettava. E la matina fatta con debite ceremonie la missa celebrare, sposò e prise per muglie la figliola de sua medesma matre; e avvicinatase l’ora, che ’l matrimonio tra loro se dovea consumare, il novello re con arte se fense de la persona indisposto, in manera che per consiglio de suo medico fu la loro coniuncione, fin che lui era ben convaluto, diffirita. Dove fra quel mezzo lui pigliò pacifica e intera possessione del regno e de tutte sue tenute; e da’ baroni e populi avuto il devuto umaggio, e appoteratose in manera che d’alcun temere non gli bisognava, una notte fe’ occultamente la matre e messere Domizio pigliare, e, seperati, de diversi e fieri tormenti de secreto fattigli tormentare, ognuno da per se confessò appieno como dal principio insino a la fine era il fatto passato. Quale confessione ià fattele da tutti dui a pieno populo ratificare, e de quelle con la diposicione de la Costanza e del marito insiemi fatteno autentico processo fabricare, e de quello a tutt’i prìncipi cristiani copia mandatane a porificazione del suo onore, la matina sequente fe’ la scelerata matre col disliale cavaliero insiemi in uno medesmo palo, como se convenne, publicamente brusciare; e a la sorella, che innocente era, fatti i capilli tondare, la fe’ in uno monesterio, fin che visse, con diligenzia guardare. E ciò fornito, mandò dui de’ suoi primi baroni al re de Ungaria a significargli più distintamente il fatto, e appresso gli dire, como lui cognoscendo tenere lo essere con la vita e ’l stato insiemi da sua magestà, che del regno e de la persona disponesse como da prima avea pensato de farene, quando per figliolo lo avea a tanto bene mandato. Il re de Ungaria che con maraviglia grandi e poco piacere il fatto avea già inteso, dopo più e diversi pinsieri supra tali strana novità avuti, essendo puro prodentissimo, gli occurse ne la mente, dopo lui avea il re de Polonia per figliolo perduto, volerlo per genero acquistare; e avendo una sua figliola multo ligiadra e bella, de comone consentimento e pari voler gli la donò per muglie. Quale con grandissima festa e regale solennità recevuta, donato grandissimo stato a la Costanza e al marito, e del privato suo consiglio fattigli, con quiete e pace, con grandi amore verso la sua donna e con belli figlioli, con piacere de Dio e contentezze de’ suoi sudditi, longo tempo godendo vissero.

 

MASUCCIO

 

          Quanto la verità è vertuosa, santa e perfetta, e como né vicio né sceleranza può né vale quella ledere, amacchiare o in alcuno atto occupare, che a la fine puro, o per divina o per umana operazione overo per sua bonità medesma, non vada de continuo [a] summa, passando le travagliate acque senza mai né falde né pede bagnarse, gli racontati casi del nostro Andriano, de la matre e de la nutrice ce ne rendono aperto testimonio. Ma lassando il novo re con la nova sposa godere, e sulo la parte del figlio da la matre ad uccidere dato, e con tanti variati casi puro nel suo stato reposto, pigliando, me tira a racontare un’altra digna e pietosa istoria de uno nostro cavaliero salernitano, quale avendo la sua figliola iustamente a morire mandata, con certi non pensati e strani accidenti venne con l’amante insiemi de la eredità paterna a godere, e ’l fatto con onore e lieto fine fe’ termenare.

 

NOVELLA XLIII

 

argomento

 

          Messere Mazzeo Protoiudice trova la figliola con Antonio Marcelli, quale, non cognosciuto, se fugge; il patre manda a morire la figliola; li famegli ne deveneno pietosi; ponenola in libertà; quale per uomo pervene in corte del duca de Calabria; recapita col suo signore a Salerno; alloggia in casa de l’amante; trovalo erede del patre devenuto; dàgli cognoscenza; pigliansi per marito e muglie, e godeno de la eredità paterna.

 

AL MAGNIFICO MESSERE IOANNI GUARNA.

 

ESORDIO

 

          Persuadome, magnifico mio messere Ioanni, che avendote tu medesmo de la patria, degli amici e de’ parenti per alcun tempo voluntario privato, che lo scriver degli amici e lo sentire de’ nostri antiqui compatrioti fare alcuna menzione unicamente te delettano; per la cui accagione ho pensato, con scriverete la presente, e a te e a la nostra de tanti anni continuata amicicia in parte satisfare, a tale che in sì longa assencia, leggendola, il tuo Masuccio de continuo a li occhi de la mente se te represente. Vale.

 

narrazione

 

          Recordome più volte da mio vetusto avulo avere per verissimo sentito racontare, como nel tempo de Carlo secundo fu in Salerno un singulare cavaliero de antiqua e nobile fameglia, chiamato messere Mazzeo Protoiudice, ricchissimo de contanti e d’altre notivole robbe ultre ogne altro suo compatriota; quale essendo omai d’anni pieno, gli si morì la sua donna, e de lei una sula figliola remastane, Veronica nominata, giovene bella e discreta multo, quale, o per lo suverchio amore che ’l patre, como ad unica e vertuosa, gli portava, o vero per farene alcuna alta parentela, ancora che da multi gli fusse stata per muglie dimandata, puro in casa, non maritata, la tenea. Dove avvenne che, essendo pratticato da la sua fanciullezza in casa loro un nobile giovenetto, chiamato Antonio Marcelli, con colorata accagione de certa larga parentela che con la muglie del cavaliero avea, Veronica gli avea posto in manera il suo amore adosso, che non ne possea reposo alcuno pigliare. Antonio ancora che discreto e onestissimo fusse, e dal patre de lei como a proprio figliolo amato, puro avendo il fatto ottimamente inteso, e, como a giovene, non possendo agli colpe d’Amore col suo debile senno reparare, da pari fiamme acceso, avendo l’attitudine al comone volere conforme, con acconcia manera d’amore gostaro gli più suavi frutti; e ancora che con discretissimo ordene godendo continuassero in tanto piacere, puro loro providimento non bastò a reparare al gran naufragio, che de la invida fortuna loro era apparicchiato. Però che essendono una notte insiemi litissimi e senza alcun sospetto, avvenne che per uno non pensato caso fuorno da un fameglio de casa visti; quale chiamato subito il cavaliero e racontatoli il fatto, de male talento repieno, con suoi famegli andò dove erano coloro, quali nel colmo de loro piacere fuorno a salva mano prisi; nondemeno Antonio, che gagliardo e animoso era multo, per forza uscitole de le bracce, e con la spata in mano fattose fare luoco, senza essere stato d’alcun cognosciuto né offeso, se ne retornò a casa sua.

          Messere Mazzeo, dolente a morte remasto, vedendo a che termeni era la cosa, volse sapere da la figliola cui il giovene fuggito fusse stato: il che lei, como a prodente, cognoscendo la intera vertù del patre, che, per non finire gli anni de sua vecchiezza con tanto carico, per modo alcuno le averìa la morte perdonata, diliberò la vita del suo amante essergli più che la sua cara, e per finale resposta gli diede che prima averìa sofferto ogne tormento con la morte insiemi, che ’l giovene palesare. Il patre, nel furore raccendendosi, dopo più e diversi tormenti datili, e vedendola puro in sul negare ostinata stare, ancora che l’affezione de la carne lo strengesse, puro con virilità grandi per ultimo partito già prise de farla morire; e subito, senza volerla più vedere, comandò a dui suoi privatissimi famegli che in quella ora andassero con una barca, e strassinatala prima, la bottassero paricchie miglie in mare.

          Coloro, como che male volenteri il facessero, puro, per obedire, prestamente ligatala, al lito del mare la condussero; e nel raconciare de la barca, ad un de loro venne compassione, e acconciamente tentato il compagno, che con non meno rencrescemento de lui in tanto crodelissimo caso interveneva, da una parola ad un’altra trascorrendo, de pari consentemento diliberarno, se morte ne dovessero recevere, non sulo donarle la vita, ma in libertà ponerla. E cossì disligatala, gli dissero como, da pietà mossi, non voleano procedere a la cruda sentencia dal patre loro imposta; per merito del quale la pregarno che, de tale e tanto beneficio recordandose, se avesse depatriata, in manera che per alcun tempo tale loro operare da suo patre non fusse stato sentito. La poveretta giovene, cognoscendo da’ suoi medesmi servi in dono recevere la vita, e non bastare lo rendere de gracie de gran longa a tanta recompensa, pregò il remoneratore de tutt’i beni che de sua parte gli guidardonasse de tanto inestimabile duono; e dopo che a tanto timore e terrore ebbe alcuno luoco dato, loro promesse e giurò, per la salute quale le donavano, de governarse per modo che non ch’al dispietato patre, ma ad alcuno vivente averìa de sé noticia data ià mai. E cossì tondatigli i capilli, e con li loro panni medesmi lo meno male che possettero in uomo travestitala, datigli quei pochi dinari che adosso se trovarono, drizzatala per lo camino de Napoli, lacrimando de lei se parterno; e con suoi panni a casa retornati al loro signore affirmarno che, uccisa, con una gran pietra in gola l’aveano circa dieci miglia in mari sommersa.

          La infelice e nobile giovene, che mai de la cità non era uscita, quantunque ad ogne passo se sentea gli spiriti viniri meno, sulo per lo pensare a lo lassar del suo Antonio senza speranza de revederlo mai, e multi vani pinsieri de retornarse l’andassero per lo capo, puro, del recevuto beneficio e de la fatta promissa insiemi recordandosi, la gratitudine, como a fiore d’ogne vertù, ebbe in lei tanta forza, che ogn’altro contrario pinsier cacciò via. E cossì postase la via tra’ pede, como che de caminare solita non fusse, recomandandosi a Dio, andando e non sapendo dove, tutto ’l remanente de la notte con grandissimo affanno caminò; e trovandose in sul fare del dì presso Nocera, fu gionta da certe brigate che a Napoli andavano, con quali familiaremente se accompagnò. Dove tra gli altri essendo uno gentiluomo calabrese, che certi sproveri motati al duca de Calabria portava, parendoli il giovene de assai buono aspetto, il domandò donde fusse, e si volea partito pigliare. Veronica che la sua puericia, contrafando in casa una vecchia pogliese, avea multi vocaboli de tale idiome imparate, gli occorse de quelli de continuo servirsene, e respuose:

          — Messere, io sono pogliese, e non per altro che per trovare partito de casa mia me sono mosso; ma perché figliolo de nobile patre sono, male volentieri a vili servigii me ponerei.

          Disse il calabrese:

          — Darìate il cuore gobernare uno sproveri?

          Il che a Veronica fu carissima tale demanda, atteso che lei non che uno ma multi ne avea in casa del patre con gran dilicatura gobernati, e gli respuose che de sua fanziullezza non si era in altro esercitato. Dove, dopo più parole, caminando, se fu a tenere un sproveri con lui acconciato. E giunti a Napoli, e dal suo patrone reposto in arnese, che dadovero parea un ligiadro e acconcio scodieri, o che li fati lo avessero diliberato, o che la sua gentile presenzia lo causasse, avvenne ch’al presentare degli sproveri, il duca con lo sproveri insiemi volse il pogliese che ottimamente il gobernava. E cossì fo fatto; e posto in lista con le brigate de casa, con uno gentiluomo napolitano fo accompagnato. Il che tanto a le vertù e a bene servire se diede, che in breve tempo la gracia del signore in manera acquistò che de’ primi faoriti e onorati era da lui; e in tale fatto de continuo augmentando dimorò, fin che a la fortuna piacque le sue cose per altro camino indrizzare.

          Il vecchio patre, de intollerabile dolore pieno remasto, essendo il fatto in publica voce del vulgo devenuto, lo più del tempo renchiuso in casa, o talevolta in villa, solitario e melanconico se dimorava. Antonio, dopo che con amare e sanguinose lacrime ebbe la sua morta Veronica pianta e repianta, avendo per cauta via sentito che ’l cavaliero non avea cui il fuggito giovene fusse ià mai possuto sapere, per togliere da sé ogne suspetto, e ante mosso da compassione, dopo alcuni dì del socceso caso, quasi de continuo con tenerissimo amore a casa sua il visitava e ’l più de le volte fuori la cità le facea compagnia, e, non altramente che proprio e obediente figliolo, ossequioso e de carità repieno gli si demostrava. Il che a messere Mazzeo ultre modo era caro, però che parea che lui sulo a tanto conflitto non lo avesse mai abandonato; per la cui accagione e per le singulare vertù del giovene era costritto como proprio figliolo amarlo, e cossì verso lui il suo amore volgì, che una sula ora non possea senza il suo Antonio dimorare. E cognoscendolo in tale ossequio e ben servirlo con amore e timore continuare, nacque ne l’animo al cavaliero, dopo che la sua prava sorte lo avea senza erede lassato, volere lui e in vita e in morte in figliolo adottare; e su in tale pinsieri firmatose, fatto suo ultimo e finale testamento, d’ogne suo bene e mobele e immobele costituì e fece erede il suo Antonio; e non dopo multo tempo passò de questa vita. Antonio de sì grandi ereditaggio signore devenuto, e a le proprie case del cavaliero rencasatose, non era niuno luoco che per remembranza de la sua donna non avesse dove lacrimato e dove sospiri bottati; e rammentandose de continuo che lei avea eletta la morte prima che palesarlo, da tale debito d’amore vinto, e altre cose assai de la sua Veronica esaminando, con seco medesmo ordenato e decreto avea de mai a togliere muglie se condurre.

          E in quisti termeni stando, accadde che ’l duca diliberò in Calabria passare; lo che al pogliese ultre modo fu caro, atteso che non sulo la lassata patria vederìa, ma del suo amante, e anco del patre, quale per niuno modo odiare possea, averìa qualche odore sentito; però che, per non dare de sé alcuno cognoscimento, non dimandandone, niuna cosa ne avea sentita già mai. E arrivati in Salerno, e tutte le brigate del duca in diverse case alloggiate secundo le loro condizioni, avvenne, como a la fortuna medesma piacque, che per uno non pensato ordene toccò in sorte ad Antonio Marcelli recevere in casa il pogliese e ’l compagno; quale quanto a Veronica fusse giocundissimo, ciascuno ne può fare iudicio. Essi fuorno da Antonio onorati e accarizzati multo, e la sera loro diede suntuosamente da cena, e in quella medesma loggia, dove le più de le volte con la sua donna solea piacere pigliare; e attento or l’uno or l’altro mirando, gli si representavano alquanto le imagine de la sua donna, de la vita e de la morte de quale recordandose, ogne sua parola de calenti suspiri accompagnava.

          Veronica, videndose ne la sua casa medesma condutta, ancora che unicamente gli piacesse videre il suo fidele amante signore de tutto, puro, non videndove il patre né niuna de le brigate da lei lassàtive, da debita pietà astretta, disiderosa de saperene novelle, timea de dimandare; e cossì confusa ne la cena stando, il compagno domandò Antonio se quelle arme ch’erano ne la loggia depinte, fussero le sue. Al quale Antonio respuose de non, anzi erano state de uno dignissimo cavaliero, nominato messere Mazzeo Protoiudice, quale, essendo remasto a la sua vecchezza senza figlioli, avea lui d’ogne suo bene erede lassato; per il che, como adottato da lui, non sulo la robba ma il nome de la casa e l’arme, como de proprio patre, avea già pigliate. Quando Veronica sentì tale nova, fu de tanta improvista allegrezza repiena, che con gran fatica le lacrime tenne; puro temperatase per fare la cena fornire, quale finita, parve già tempo a la donna de recivere con le bracce aperte il suo medesmo bene, da lieta fortuna insino allora conservatoli; e priso Antonio per mano, il compagno con più altre brigate lassando, in camera se ne introrno, e volendo dire alcune parole, como seco preposto avea, per vedere se in alcuno modo la recognossesse, non gli fu dall’allegrezza né dal lacrimare d’aprire la bocca conceso, ma adebilita ne le sue bracce se lassò cadere, dicendo:

          — O Antonio mio, può egli essere che non me cognosci?

          Lui, che, como ho ditto, gli avea parso la sua Veronica raffigurare, udendo le parole, fu subito del dubio fatto certo, e da grandissima tenerezza vinto, disse:

          — Deh! anima mia, si’ tu viva ancora?

          E ciò ditto, lui anche se lassò supra de lei cadere.

          E dopo che per longo spacio senza alcuna parola se ebbero abbracciati tenuti, e in sé retornati, e gran parte de’ loro accidenti narratisi, cognoscendo Antonio che non era da tenere il fatto in tempo, con comone piacere gli disse quanto in pronto gli era occurso de dovere fare; e de camera al compagno usciti, como che tardi fusse, Antonio mandò spacciatamente a rechiedere tutto ’l parentato de la donna e ’l suo, che per cosa de grandissima importanza a casa sua se conducessero. Quali subito venuti e insiemi radunati, le pregò che insino al palazzo del signore il volessero accompagnare, perché lui intendea con loro faore chiedere de gracia al duca lo reintegrasse d’un feudo nobele stato de messere Mazzeo, e già de multi anni d’altrui, senza receverne frutto, per non cognosciuto, occupato tenuto. E tutti de briata volentieri andativi, ed essendo dinanzi al signore, lui prisa la sua Veronica per mano, in presencia de quanti ve n’erano, ogne loro passato e presenti socceso caso senza resparagno alcuno tutti dui pontalmente racontorno, dechiarando appresso, como dal principio del loro amore per marito e muglie se aveano e per fede e de pari consentimento già prisi, e como intendeano con gracia de sua signoria in tanto digno spettaculo tale matrimonio in publico mandare ad ultimo effetto. Il che ancora che ’l duca con suoi baroni e col comone parentato, e ogne altro citatino e forestiero, ne restassero ammirati, la qualità de li strani casi ascoltando, nondemeno ad ognuno fo carissimo vedere che ’l fine in bene e onore comone se termenava; e a maraveglia fuorno le operazione de Antonio con le vertù de la donna insiemi da ciascuno comendate. Il duca con grandissimo piacere ne le remandò a casa; e la matina fatta con gran cerimonia la missa celebrare, nel suo cospetto e d’altri assai nobeli e populi, e con generale contentezza de’ nostri salernitani, fe’ Veronica ad Antonio dignamente sposare; e fatti loro grandissimi duoni, con felicità e ricchezza, con grandissimo amore e belli figlioli, la loro longa età termenaro.

 

MASUCCIO

 

          Però che ’l fine de la racontata novella fu sì lieto e iocundo, onorevole e fruttuoso, che ogne d’altrui sentito dolore e degli loro infortunii compassione avuta mitica e occupa; lassando i dui cari amanti il perduto tempo restorare, e sulo de la vertute del passato, e fuorsi primo passato, duca de Calabria recordandome, me invita a sequire l’ordene con un’altra magnificencia e vertuosa liberalità, per il nostro moderno illustrissimo signore duca de Calabria usata; quale, como lui de ogne vertute indubitatamente gli altri prìncipi avanza, cossì questa, che appresso a sua illustrata consorte de scrivere intendo, tutte le racontate de gran longa trapassa, como da cui legge ne sarà fatto iudicio.

 

NOVELLA XLIV

 

argomento

 

          Marino Caracciolo ama una donna ed essa lui; son per concludere; la donna vede il duca de Calabria piacevole multo più de Marino; lassando la prima impresa, e’ seque la secunda; ottene che ’l duca vada a gaudere con lei; quale ne l’andare premeditato sente la passione de lo amico, e, per vertute, de tale piacere se priva e fa Marino de la preda possessore.

 

A LA ILLUSTRISSIMA IPOLITA MARIA DE VESCONTI D’ARAGONA, DUCHESSA DE CALABRIA.

 

ESORDIO

 

          Se ne lo sentire de aliene e strane persuni alcuna loro usata vertute, mia serena e ultramontana stella, gli vertuosi ascoltanti ne receveno gran consolazione, quanto maiore deve, e meritamente, essere la manifesta allegrezza e intrinseco piacere de coloro, i quali de congiunti o per amistà o per sangue senteno somme laude racontare? E perché tutt’i mei pensieri non sono in altro termenati, si non a scriverte cose che summamente rallegrare te possano, non tacerò a te, che unico esemplo de vertute ogge sei al seculo nostro, avvisarne de una singulare, e fuorsi mai d’altri simele usata, magnificencia de collui, il quale più che la propria vita, e con ragione, te è caro, e che de dui seperati corpi per matrimoniale commestione sèti fatti una medesma carne; a ciò che con altre accomolate vertute de tale tuo conveniente e digno sposo insiemi racolte, il tuo intiero amore con piacere ogne dì verso lui se fazza maiore, e assai più la tua contentezza de continuo augmentare. Vale.

 

narrazione

 

          Senterà dunque tua maiestà como dopo la prosima passata guerra de Romagna, per lo non essere a le doe potencie de la qualità del tempo conceso più li bellicosi esercicii adoperare, ognuna de esse se retrasse indietro, cui in uno luoco e cui in un altro, secundo da la comodità eran tirati. E tra gli altri toccato in sorte il pisano contado a stanciare a lo eccelso principe Alfonso duca de Calabria, tuo dignissimo consorte, e ivi conduttose col suo invitto e potentissimo aragonese esercito, e per le castelle e ville dintorno collocata la sua gente de arme, secundo a la disciplina militare se rechiedeva, e ciò espedito, per contrattare de alte cose per comodo e stato de la lega, gli fu de bisogno personalmente trascorrere de multe famose cità e luochi de Italia; ed essendo in tutte con gran triunfi recolto e lietamente recevuto e onorato multo, accadde che in una de ditte cità, quale de nominare necessità non me astrenge, gli piacque più che a niuna de l’altre dimorare. E in quella cità con gran piacere e continua festa stando, avvenne che uno suo privatissimo, per generosità del sangue e per vertù claro, Marino Caracciolo nominato, cavalcando per la cità a suo diporto, gli venne vista una ligiadra madonna, giovene e multo bella, muglie de un gran citatino; al quale summamente piacendo, senza partirse da quindi, se sentì sì negli lazzi d’amore avvolto, che non sapea quale camino togliere se devea per retornarse a casa. E continuando ogne dì e nel passare e ne l’onesto vaghiggiarla, tanto fe’ e tanto se travagliò che indusse lei ad amare anco lui; però che le più volte e con piacevole guatatura e de graciosa resposta a’ suoi saluti il faoriggiava; del che Marino ne restava ultre modo contento e sperando de continuo essere reposto in megliore fortuna.

          Uno dì se fe’ una festa ad onore e gloria de ditto signore duca, e in quella andate la maiore parte de le donne de la cità, e tra le altre la de Marino amata, como a singulare, singularemente ornata vi andò. Quale essendo vista dal signore, e, como una de prime belle, multo piaciutale, non sapendo che ’l suo multo amato Marino de quella fusse in alcuno modo priso, se diliberò lui pigliare e sequire insino a fine tale digna impresa. La gentile donna, che anco non avea visto ditto signore, quantunque lo avesse da multi multo mirabelemente sentito comendare e iudicare, ultre ogne altro principe, savio costomato e proveduto, fiero ne l’arme, vigoruso e galiardo e magnanimo, racolse che la sua presenzia non sulo non avea la laldata fama in parte alcuna deminuita, ma anco de bellezze e ligiadria essere specchio ed esemplo de’ viventi; quale, como consideratrice de tante laudivoli parte, de continuo fiso il mirava, gli dii pregando per lo suo felice stato. Il signore, che, como è già ditto, tale donna gli era unicamente piaciuta, per sequire la pista, mirandola, cognobbe del certo la donna non meno de lui essere invaghita che esso de lei priso si fusse; e prima che da quindi se partessero, ebbe l’uno da l’altro manifesto signo esserne de pari forma accesi. Retornato ognuno a casa, il signore per cauta via saputo de costei ogne particularità, e a lei più imbassate e littere e mandate e recevute, a la fine, per il partire del signore che se avvicinava, parve a tutti venire prestissimo agli ultimi effetti d’amore; e, per mezzo d’uno consapevole del fatto, conclusero de la venente prossima notte se retrovarne insiemi, atteso che ’l dì avanti il marito per Genoa era già partito.

          Avea in quisto mezzo la donna, per la nova e maiore impresa, in tale manera Marino disfaorito, che non sulo de le solite piacevole guatature non gli era liberale, ma rigida e fiera e da capitale inimica ogne dì peggio gli si demostrava. Marino pessimo contento, como ciascuno può pensare, e tanto più che lui cognoscea de tale strane novità non averlene data alcuna accagione, non se ne possea dare pace, e in tanto fiero dolore ne cadde, che quasi uno altro parìa in lo viso devenuto. E più volte de l’accagione del suo non bene essere dal signore dimandato, e favole per resposta datele, avvenne che, appressandose già la ora che ’l signore a lo preposto gaudere con la donna volea andare, però che tale camino mai senza Marino pigliare solea, sel fe’ in camera chiamare, e gli disse:

          — Avendote, Marino mio, tutti quisti dì sì male contente cognosciuto, e de l’accagione dimandatote e tu taciutala, io non te ho più ultre molestato che tu medesmo te abbi voluto; e questo anco ha causato de io non fare parte a te, unico consapevole d’ogne mio secreto, del mio novello e ferventissimo amore, e la vittoria che de quello fra poco ore aspetto consequire. Pregote dunque, per la servitù che me divi e per lo amore che me porti, che tu de presenti me scuopri la tua occulta e vera passione, e ultre ciò, in parte cacciare l’angustia e dolore, e il più che pòi te sforza de devenire lieto, e questa notte me fa compagnia, però che senza de te male volenteri intrarei in tale camino.

          Marino udendo tante umanissime parole, gli parve avere fatta non piccola offensione al suo signore, de averle insino allora occultato il suo amore, e con quelle debite escusazione che in pronto gli occorsero, dal principio del suo innamoramento, e cui era la donna da lui amata, e ogne buona e rea particularità soccesagli, per longo racontò. Il signore, ciò udendo, e per più respetti poco piacendoli, alquanto supra de sé stette; nondemeno, cognoscendo la qualità de la passione del suo servitore, ed estimando che quanto era la grandezza de l’animo suo e la dignità maiore, tanto più liberalità gli bisognava adoperare, subito gli occurse pigliare partito de senza niuna comparazione essergli più cara la contentezza de lo amico che satisfare a la sua sensualità; e cossì gli disse:

          — Marino mio, como tu più che altro pòi sapere, dagli teneri anni io non ebbi mai niuna cosa tanto cara, che gli amici non l’abbiano per propria possuta usare; e certo pòi tenere che, se la cosa che tu tanto ami, fusse de tale natura che mia e tua insiemi fare la potesse, non altramente che sempre de l’altre ho fatto, più che d’una darei. E ancora ch’io l’abbia insino a qui ardentissimamente amata, e gli suoi congiungimenti ed essa gli mei questa notte con grandissimo disio aspettavamo, e a lei accompagnarme te avia eletto, nondemeno ho diliberato, e voglio che cossì sia, che vincendo me medesmo, de uno mio volere fare non mio, prima che vederte in tanta angustia languire e per amore stentando perire. E per ciò, se de amore compiacereme disìderi, caccia da te ogne avuto dolore, e de rallegrarte sulo pensa, e de venire adesso meco te apparicchia, ch’io, de uno sulo modo puro qui pensando, te farò possessore de la tanto da te disiata donna.

          Marino, auscultando sì fatta nova, tutto sbigottì, e udendo quanto era grandi la liberalità che ’l suo signore usare gli volea, tanto più accertarla gli pongette vergogna; e quelle debite gracie che de esprimere gli fuoro concese, rendutele, gli concluse de prima morire che lui avesse, non che fatto, ma puro pensato de macolare ove lui avea posto il suo intendimento. Il signore de ciò se rise, e disse che senza altra replica volea che quello se mandasse per lui ad effetto; e cossì toltolo per mano, in quello punto se puosero in camino. E giunti in casa de la gentile donna, lasciate le sue bregate per più secorità per le strate ordenate, e ’l signore sulo da Marino accompagnato, introrno dentro; e da una fante in camera condutti, trovorno la donna che lietamente il signore aspettava, quale, fattaglisi incontro, con gran festa il recevette. E ancora che lei multo bene cognossesse quivi il suo primo amatore essere a tale gioco presente, non ne fe’ né mostrò de farne altra estima, che de uno altro forestere, che ’l signore con lui avesse menato, fatto se avesse. E da po’ dulci basci e lieto fistiggiare, parve già tempo al signore dare con opera compimento a quello che ivi de novo condutto lo avea; e per mano tenendola, gli disse:

          — Cara madonna, io te prego, per quillo vero amore che a donarme te si’ condutta, che ’l mio dire a noia prendere non dibbi, però che quanto serà più inonesta la mia demanda, tanto cognoscerò, tu adimpiendola, essere maiore lo amore che me porti. Egli è vero che nel mio ultimo partire dal cospetto del serenissimo e potentissimo re mio patre e signore, tra gli altri ordeni e precetti me donò, fu che, in niuno lato ove me retrovasse, in tanto fusse d’amore fieramente priso, non devesse con veruna donna usare senza avereme prima fatta fare de uno mio privato la credenza, per accagione che la veneranda recordazione del potente re Lancilao fu per donna in sì fatto esercicio in quisto paese avvenenato. E quantunque io tenga per indubitato che tu prenderisti milli morte per la conservazione de la mia vita, nondemeno, per ossequire inviolatamente i comandamenti de ditto serenissimo signore re mio patre, son costretto retornare a pregarte che con lieto triunfali animo tolleri che questo mio perfetto amico e intrinseco servitore, quale non altro io estimo che sia, tale officio fazza, per dopo essere tuo continuo abandonato e unico amatore.

          La donna, che discreta e prodente era multo, intese subito per le cose passate lo effetto del presente volere del signore, non altramente che si da lui il vero fatto gli fusse stato pontalmente ditto; e como che insino al core gli dolesse vederse in tale modo schernita e refutata da sì digno e specioso signore, li congiungimenti del quale con non piccolo disiderio e non senza accagione aspettava, nondemeno, vedendose a tali partito che gli convenea de la necessità fare vertù, con seco medesma consigliata, occultando quanto possette la sua fiera passione, con ficto piacevole viso al signore respuose:

          — Quantunque, multo vertuoso principe, e amore e la vostra soverchia bellezza, accompagnata de tante altre singulare e notivole parte, me abbiano al presente partito condutta, che de mia vertute se convenga fare la prova, prima che a scoprirve mia diliberazione venga voglio che sappiati che io non me era tanto fuori de me lassata trascorrere, che non cognossesse il vostro amore col mio non convinirse; nondemeno, videndo per tanti manifesti signi che la mia persona multo vi agratava, la vostra a me per più respetti era carissima. Ma adesso sentendo che altramente la disiderati, ancora che in maiore eccellencia tenga la vostra usata e inaudita vertute e gran magnificencia, che essendo sì dignissimo principe e figliolo de tanto nobele, potente ed eccellente relassando d’essere, a quisto fatto, principali, per satisfare ad altrui disiderio vi sèti fatto voluntario e lialissimo mezzo, amando più lo piacere del vostro lialissimo servitore che la contentezza del mio e vostro core, quale cosa è fora de ogne legge de amore; nondemeno, per non impedire o in alcuno atto torbare questa sì alta liberalitate, senza altramente pensarvi, ho priso per ultimo partito de a vui, mio gracioso ed eccellente signore, servire, e a quisto mio nobelissimo primo amatore con tutto lo core piacere; e cossì, senza vui perdere, averò lui con maiore gracia e maiore piacere recoverato, essendole non meno del mio amore liberale che vui del vostro disiderio stato gli sèti.

          E tolto Marino per mano, e ’l signore pregando che sulo aspettare non gli fusse noia, in una altra camera se condussero; ove dopo gli amorusi e stritti abbracciari, dulci basci e gli altri piacevoli ragionamenti, essendo Marino intrato col suo falcone assai più animoso che gagliardo a la disiata caccia, con non piccola difficultà pigliò una starna, e cercando per l’altra remessa, per prenderla a la rebattuta, ancora che ’l faore de’ cani e ogne altra arte avesse usata, puro, senza ottenere la secunda, sulo con la prima al signore si ne venne. E la donna, tutta lieta e graciosa mostrandosi, con uno doppieri in mano acceso, dietro a lui ne venne, e, muttiggiando, al duca disse:

          — Signore mio, la credenza fatta per lo vostro buon servitore è stata tale, quale per ottimo scodieri al suo signore fare si deve, però che ’l sulo assaggiare la vivanda pare che gli sia stato davanzo.

          De che il signore ne fe’ mirabile festa, e con più altri assai acconci e piacevoli ragionamenti gran parte de la notte passarno; e parendo tempo al signore de retornarse a casa, donate de multe ricche e care gioie a la donna, per fare che la vertuosa liberalità fusse compita, con renderglisi obligatissimo, da lei se diparterno. Se Marino vi retornasse a continuare la caccia, o che la fatta gli bastasse, lui medesmo non me ne donò altra vera noticia.

 

MASUCCIO

 

          Quale ornata ed esquisita eloquencia fusse bastevole, scrivendo, racontare le accomolatissime vertute, che nel divo spirito de questo terreno dio como a proprio luoco de continuo albergano? Cui dunque porrà in carta ponere tante sue laudivole parte, tanti digni gesti da vero figliolo de re e gran signore in ogne luoco per lui adoperati? Cui cantarà la gloriosa fama e perpetuo nome, che custui per Italia per propria vertute se have vindicato? Cui saperà con tante eccessive laude comendare questa recontata vertute, magnificencia e liberalità, per lui usata verso il suo caro e fidele servitore? Quale patre per unico figliolo, o uno fratello per uno fratello, o vero amico perfetto per amico, che più ultre dire non si può, avesse operata vertute alcuna, che a questa egualare se possa? Io, volendone alcuna parte toccare, sento raoca la mia lira, debele cognosco l’ingegno, e la ruzza mano insufficiente volgerìa la penna: taceronne, prima, de tutto, che non posserene a bastanza parlare. E de ciò restandome, non me occorre altro de dire, si non beati i populi che da lui serranno retti e gobernati, beati i servitori che ’l vedeno, beati i criati che ’l serveno; ma beatissima dirò a te, immortale dea Ipolita Maria, sua dignissima consorte, quale dagli fati te fu concieso de possedendo gaudere tanto tesoro. Però non meno felicissimo puro dirò meritamente a lui essere per divino sacramento congiunto con tale dignissima madonna, speciosa de vertù e de onestate, fonte de bellezza e de ligiadria, fiume de magnificencia, de gratitudine e de caritate. Oh, che formosa coppia! oh, gloriosa compagnia! oh, che giocunda e santa unione! Gli dii de continuo siano pregati, che vui e gli vostri conservano per longissimi tempi con prosperoso e tranquillo stato, como ognuno de vui maioremente disidera. Amen.

 

NOVELLA XLV

 

argomento

 

          Uno scolaro castigliano, passando in Bologna, se innamora in Avignone, e, per godere con la donna, per patto gli dà milli ducati; dopo, pentito, se parte; abbattese col marito, e, non cognoscendolo, gli raconta il fatto; compreende essere stata la muglie; con arte fa retornare il scolaro in Avignone; fagli restituire gli dinari, ammazza la muglie e al scolaro fa onore e doni assai.

 

A LO ILLUSTRISSIMO SIGNORE DON ENRICO DE ARAGONA.

 

ESORDIO

 

          Suolese spesse volte, illustrissimo signore mio, tra’ volgari un cotale proverbio usare: “Ogne promissa è debito”; e si ciò è vero, ché essere vero manifestamente appare, ogne ragione e ogne onestà vuole che ciascuno debitore debbia, como primo può, a collui che ha promisso satisfare. Dunque, rammentandome per mia promissa averemete de una de mei novelle fatto voluntario debitore, ho priso per partito con la presente tale onerosa soma dagli faticati mei omeri discarrecare; per la quale, ultre la mia desublicazione, senterai una singulare magnificencia e grandissima liberalità, usata per un cavaliero francese verso un nobile giovenetto castigliano; quale ancora che tale vertuosa operazione non dubito serà da multi multo mirabilemente comendata, me persuado che ad alcuni il predicarla serà più facele, che, essendono in sul fatto, non serìa a loro il mandarlo ad effetto. Vale.

 

narrazione

 

          Da l’antiqua e celebratissima fama del bolognese studio tirato, un nobilissimo legista castigliano se diliberò del tutto in Bologna passare, per ivi studiando il dottorato consequire. Costui dunque, che messere Alonso da Toleto era chiamato, essendo con la iuventù insiemi de multe vertù accompagnato, e ultre ciò, ricchissimo remasto dopo la morte d’un notevole cavaliero suo patre, per non porre in longo il suo laudevole proposto, de ricchi libri, onorivoli vestimente, de buoni cavalli e acconci famegli fornitose, con sua salmeria e con milli fiorini de oro in bursa verso Italia dirizzò il suo camino. E avendo dopo multi dì non sulo il suo castigliano regno uscito, ma quello de Catalogna passato e in Francia devenuto, arrivò in Avignone, ove fuorsi per reposare sé e suoi faticati cavalli, o che puro altro besogno ne fusse stato accagione, prepuose quivi alcuni poco dì dimorare. E alloggiato ne l’albergo, il dì sequenti, con suoi famegli appresso, cominciò a passaggiare per la cità, e da una strata ad una altra trascorrendo, como volse la sua sorte, gli venne veduta ad una fenestra una ligiadra madonna, quale ancora che giovene e multo bella fusse, nondemeno a lui parve niun’altra averne vista mai, che in bellezza l’avesse possuta agualare; e in manera gli piacque, che, prima che da quindi se partesse, se sentì da l’amore sì de lei priso, che niuno argomento gli parea bastevole a reparare. Per la cui accagione, senza del vertuoso camino recordarse, diliberò già mai da Avignone partirese, si la gracia sua non avesse in tutto o in maiore parte acquistata.

          E fando le passate continue dinanzi a colei, che grandissima artista era, subito se accorse che ’l poveretto giovene era in manera de lei invaghito, che de legiero non se arìa indietro possuto retornare; e videndolo multo [giovene] e senza pile in barba, e, per li vestimente e per la compagnia nobele e ricco estimandolo, prepuose, con lo ingegnarse tale boccone, gli estirpare de sotto quando possea de le sue facultà. E per darele modo de lui mandarle a parlare, fe’ como le navi quando stanciano in calma, che mandano la barca in terra per pigliare ligna; cossì costei cavata fuori de casa una vecchia fante, dotta e pratticata nel mistieri, e da la fenestra postala in faccende, a ciò che colui l’avesse cognosciuta, il giovene che altro non disiderava, gionta la vecchia e intrata in parole, a non partire e con poco fatica ebbe l’uno da l’altra ogne secreta particularità saputa; e a la donna l’ancella revenuta, dopo più imbasciate e portate e retornate, a la fine de chiaro patto s’accordorno che la donna a donargli suo amore la sequente notte l’aspettasse, e che lui gli portasse i milli fiorini de oro, ché più non ne avia. E venuta l’aspettata ora, il male consigliato giovene con li milli fiorini in casa de la donna, che Laura avea nome, se condusse; da la quale essendo lietamente recevuto e ultra modo accarizzato, avuto prima interamente il promisso dinaro, contenta a maraveglia, dopo alcuno festiggiari, in letto se ne introrno. Messere Alonso, che in tale età già era che ’l fine e ’l principio de tale lavore una medesma cosa gli parea, si deve credere che, quanto de notte gli avanzava, tutta la consumò in satisfare la sua bramosa voglia. Ed essendo omai dì, toltosi da lo letto, con multi altri ordeni da possere a la cominciata impresa retornare, con suoi famegli, ch’a l’uscio l’aspettavano stracqui, sonnacchioso e alquanto pentito al suo albergo se ne tornò.

          La donna, [quale] con suo grandissimo piacere e in breve tempo la ricca posta avea toccata, ancora che cognoscesse il giovene sì adiscato, che e Bologna e le ligge gli erano uscite de menti, puro, prima che lui da sé partito se fusse, [se diliberò mai più] con lui se retrovare.

          Messere Alonso, avendo il dì passato, e credendo, secundo il priso ordene, la sequente notte essere da la donna lietamente e con maiore gracia racolto, como la notte fu, a l’usata manera a l’uscio de Laura se n’andò; e dato più volte il signo, e avuto un continuo tacere per final resposta, tardi se accorse ad una ora l’acquistata donna, lo onore e la robba aver perduta; e dolente a morte retornatosene, non possette quella notte un sulo punto senza noia e angustiosi pensieri trapassare. Venuto il novo giorno, per vedere del recevuto inganno l’ultima prova, andò passaggiando dintorno la casa de colei, e trovate e porte e fenestre serrate, e tanti e tali altri manifesti signi, che lui fu del tutto certificato essere de la malvagia donna con grandi arte tradito e beffato; e a sue brigate retornato con tanto dolore e despirazione, che più volte fu per darese un cortello al petto; puro, refrenatose, e per tèma del peggio, diliberò de quindi se departire. E non essendoglisi uno sulo amaro dinaro a la bursa remasto per pagare l’oste, prise per partito de vendere una sua avantaggiata, buona e bella mula, e cossì fece; e satisfatto lo oste, con quei poco dinari che de la mula gli erano avanzati, verso Italia per lo provensale contado continuò il suo camino, però accompagnato da continue lacrime e d’amari suspiri, e supra ogne altra cosa da interno dolore trafitto, per lo pensare che, como a nobilista avea diliberato al studio demorare, gli convenia, vendendo e impignando per l’alberghi, in Bologna se condurre, e ivi dopo como a povero scolaro campare.

          E con tale angustia e inquiete de animo caminando, arrivò in Trayques, alloggiato in uno albergo, nel quale in una strana e impensata ventura quella medesma sera alloggiò il marito de la sua madonna Laura, quale era uno acconcio e ligiadro cavaliero, multo eloquente e de gran autorità, che, dal re de Francia al papa mandato, se ne retornava. De che disse a l’oste, se alcuno gentiluomo ivi [fusse] recapitato, il dovesse chiamare, per tenerlo a tavola in compagnia, sì como de’ cavaliere francisi, caminando, è costumato fare de continuo. Lo oste respuose che vi era uno scolaro spagnolo, quale, per quello che i suoi famegli le aveano ditto, andava in Bologna, e che da supraventale melanconia erano già dui dì che niente avea mangiato.

          Il cavaliero, ciò udendo, mosso da una naturale vertù, diliberò per ogne modo averlo a cena seco, e lui medesmo andato per esso, e in camera trovato melanconico e afflitto dimorare, senza altramente salutarlo, per modo de gran fameliarità prisolo per mano, gli disse:

          — Tu venerai in tutte manere meco a cena.

          Il giovene, vedendo lo cavaliero, che a la presenzia da multo il iudicava, senza altra replica con lui a tavola se condusse. E avendo insiemi cenato, e mandato via tutte le brigate, fo messere Alonso dal cavaliero domandato cui fusse e dove e perché andasse, e ultre ciò, se la onestà il potea, gli dicesse l’accagione de tanta sua melanconia. Messere Alonso, che una sula parola non possea fuori mandare che de duppii suspiri non se fusse accompagnata, per lo più breve modo che possette, a’ primi dimandi il satisfece, e de l’ultimo il priegò che de saperlo più ultre non lo molestasse. Il cavaliero, vedendo cui era costui, e per qual accagione de casa sua era partito, e per fama cognosciuto il patre de grandissimo nome, lui se raccese il disio de volere sapere quale accidente le avesse per camino causato tanto eccessivo dolore. Il giovene puro negando, e ’l cavaliero de continuo infestandolo, a la fine messere Alonso, senza altra considerazione, dal principio insino a la fine de la narrata istoria, e cui era la donna, col piacere insiemi che con lei avea avuto, pontalmente gli racontò, aggiongendo che lui, vènto da soppremo dolore de la recevuta beffa, da vergogna e perdita de tanti dinari, più volte era stato vicino a divinire de se medesmo omicida.

          Il cavaliero che con tanta istancia cercato avea quello che non credea né meno averìa voluto trovare, quanto de tale nova fusse con ragione dolente, e como remanesse ismorto, e quanta angustia de la sua mente avesse quella del scolaro avanzata, e visto che cosa è perdere de onore, cui il prova con verità ne porrà vero iudicio donare.

          Nondemeno, comprensa con sagacità non piccola la sua intollerabile pena, dato alquanto luoco al dolore, gli occorse ciò che intorno a tale fatto se devea per lui adoperare; e al giovene revolto, disse:

          — Figliolo mio, quanto e quale te sei male gubernato, e como giovenilemente da vile ribalda te hai lassato ingannare, tu a te medesmo ne pòi rendere testimonio e ragione; e certe, si io cognoscesse che ’l mio reprendere te giovasse o rendesse alcun profetto, se ’l nostro essere insiemi fusse eterno, de reprendere la tua gran follia già mai sacio me ne vederesti. Ma perché te tengo assai più bisognuso de soccurso de fatti che de improperii, voglio che ’l dolore col cognoscimento del commisso fallo insiemi siano a te per questa volta bastevole gastico; e per ciò confòrtate, e caccia da te gli matti pensieri de volere ne la tua persona incrodelendo in alcuno modo offendere, però che in ciò provedarò in manera che tu cognoscerai non altramente che proprio figliolo essere da me trattato. E perché, como tu vidi, io sono in camino, e qui forestero, e modo non averìa alcuno de satisfare al mio disiderio, te piazza non avere a noia il retornare indrieto meco alcune poco giornate, che sono insino a casa mia, per poscia lietamente potere il viaggio col tuo primo intendimento insiemi compitamente fornire; atteso che la fama de’ tuoi antipassati con la generosità del tuo peregrino aspetto insiemi non me lassano patere che tu con la tua nova e diliberata despirazione a lo studio ne vadi, e per povertà non possere la nobilità con la vertù accompagnare.

          Il giovene, maravegliato de tanta carità, gli rendì quelle gracie che de lo avuto dolore e de sua puerile contentezza gli fuorno conceduto de possere esprimere; e dopo alcuni altri ragionamenti ognuno se n’andò a posare. La matina per tempo tutti de brigata montati a cavallo, verso Francia retornando se avviorno, e, traversato il camino con arte dal cavaliero, quella medesma sera al tardo giunsero in Avignone; e ne la cità intrati, il cavaliero, priso il giovene per mano, a casa sua il condusse; quale non sulo cognobbe la contrata e la casa, ma vede la donna con duppieri avanti accesi e con gran festa farese incontra al marito. De che subito se accorse del fatto, e quivi se avereno gli giorni suoi a termenare, e de tanta paura abbagliato, che dismontare non gli era conceso; puro, como il cavaliero volse, dismontato, e priselo per brazzo, seco il menò in quella medesma camera, ove non multe ore dinanzi con breve piacere e longissimi danni avea già albergato. La donna similemente cognosciuto lo scolaro, essendo de’ suoi mali indivina, quanto de tale dolore fusse territa e afflitta, ognuno lo può considerare. Venuta l’ora de la cena, e tutti insiemi con la timida donna posati a tavola, e con grandissimo dolore de tutti tre, ma per diversi respetti, [la cena] finita, remasti suli a tavola, il cavaliero, a la muglie revolto, disse:

          — Laura, reca qui i milli fiorini de oro che te donò custui, per li quali gli vendisti con la tua persona insiemi il mio e ’l tuo onore e del nostro parentato.

          La donna sentendo tale parole, parve che la casa ruinando gli donasse in testa, e, quasi mutta retornata, né poco né multo gli dava resposta. Il cavaliero, rigidissimo devenuto, recatase sua daga in mano, disse:

          — Malvagia femena, per quanto non vòi la morte recevere, senza altra demora fa quello che ti ho ditto.

          Il che lei, vedendolo sì fieramente torbato, e che ’l negare non averìa avuto luoco, tutta afflitta, lacrimevole e trista andò per essi, e portatili, li bottò a tavola. Quali il cavaliero versatili, ne prise uno, e donollo in mano al giovene, quale de tanta paura accompagnato dimorava, che ad ogne ora parea che ’l cavaliero dovesse e lui e la muglie con la prisa daga de vita privare, e gli disse:

          — Messere Alonso, conveniente cosa è che ciascuno de l’avuto affanno receva condigno guidardone, e se mia muglie che è qui, da la quale col piacere insiemi la singulare beffa recevisti, per disonesto prezzo se condusse teco a tale lavore, meritamente al numero de le bagasce se può accompagnare; e perché, per bella che sia, una bagascia non può meritare né deve avere per una sula notte più de uno ducato, voglio che tu medesmo, che la mercancia comperasti, per ultimo pagamento gli done.

          E a la muglie imposto che pigliasse, subito cossì fu esequito. E ciò fatto, cognoscendo che ’l giovene, de vergogna e timore afflitto, non ardeva in vulto guatarlo, e che de conforto avea maiore bisogno che de altro, gli disse:

          — Figliolo mio, togli i tuoi male guardati e peggio spisi dinari, e recòrdate che per l’avvenire sei provisto de sì vili mercia a tanto caro prezzo non comperare; e là dove per acquistare onore, fama e gloria, da casa tua te sei mosso, non vogli in lassivia consumare il tempo e le facultà tue; e per questa sera non volendote de parole più ultre molestare, te dico che a posare te vaddi, e vivi securo, ch’io te prometto, como a buono cavaliero, che prima offenderei la mia propria persona, che a te né agli tuoi beni pensasse de fare alcuna offensione.

          E chiamati li suoi famegli, con li donati dinari in una ricca camera per lui acconcia nel fe’ intrare; e ciò fatto, prima che lui al letto se ne andasse, con artificiato veneno fe’ fare a la muglie la sua ultima cena. Venuta la matina, il cavaliero, che aprestato avea con multi ricchi e nobili doni uno bello portante, dopo uno ligiero disnare, fatto il giovene con sue brigate cavalcare, e lui altresì montato a cavallo, circa dieci miglia fuori la cità gli fe’ compagnia; quale volendose da lui partire, gli disse:

          — Caro figliolo, per averte con la vita insiemi la robba tua medesma donata, a me non pare in niuno atto l’animo mio avere satisfatto; e però prenderai quisti mei piccoli doni, ché la qualità del tempo maiuri non me l’ha conceduti, con quisto cavallo insiemi per recompensa de tua venduta mula, e da mia parte usandole, te recordi del tuo messere, quale voglio che da qui avanti per vero patre tengi, e cossì in ogne atto e per ogne tempo ne facci cunto; e io de te la possessione de unico figliolo pigliando, farò il semele, fin che ’l vivere me serà conceso.

          E strittamente abbracciatolo, cognoscendo il giovane dal continuo lacrimare, per soverchie allegrezze de tante magnificencie e liberalità, impedito, che appena a regraciarlo possea la bocca aperire, lui anco lacrimando gli impuose che tacesse, e senza possere l’uno a l’altro chiedere conviato, teneramente basciatise, piangendo se divisero. Il cavaliero a la cità retornato, e messere Alonso a convenevole tempo a Bologna giunto, quello che de ognuno de loro e tanta prisa amicicia se avvenesse, non ne avendo avuta altra noticia, de più scrivere me remango.

 

MASUCCIO

 

          Secundo il mio bascio iudicio può cognoscere, non deve essere l’avignonese cavaliero de men lode comendato de avere la ribalda muglie, como gli si convene, ponita, che de la magnanimità al nobile castigliano usata, anco che a la ponicione da onore e dal devere fusse tirato, e a la magnanimità de la propria vertute voluntario venesse; e ultre ciò, non intendo de tanto donare crociare il gentile scolaro, quanti altri fuorsi il biassemassero, atteso che la intera nobilità del suo spirito fu tanta, che essendo veramente passionato, non se volse davancio lassare affliggere a ponere e vita e robba, per satisfare la grandezza de l’animo suo. Ma perché de tutto è stato a bastanza parlato, de loro e non de magnificencia la penna togliendo, dirò appresso de tre singulare vertute per diversa qualità de personi usate, che non de legiero se pò una più che l’altra commendare.

 

NOVELLA XLVI

 

argomento

 

          Lo re de Portugallo piglia in battaglia uno arabo capitanio; la matre, senza altra securitate, con trenta milia doble in campo del re, per redimere il figliolo, [vene]; il re glil dona, da la quale vuole certe condicione; l’arabo nol vuole promettere; il re gli dona con gli dinari insiemi intera libertà; l’arabo, per gratitudine, il vene a servire in campo in nova stagione con grandissimo esercito a le sue spese.

 

A LO ILLUSTRO ED ECCELLENTE SIGNORE CONTE DE FUNDI ONORATO GAITANO, DEL REAME PROTONOTARIO.

 

ESORDIO

 

          Dopo che singulari tra’ magnanimi e liberali divi, e meritamente, essere ascritto, eccellentissimo signor mio, dovendo io de magnificencie il cominciato vertuoso camino continuare e finire, e una de mei novelle a te, che l’Onorato nome hai con le proprie vertute illustrato, intitulare, me pare assai devuta cosa, che non de altro che vertuosi gesti se te debbia, scrivendo, ragionare. Intra dunque, vertuosissimo signore, nel fertele e vago giardino, a l’uscire del quale te supplico dibbi da quello fede, liberalità e gratitudine per odoriferi fiori cogliere e odorare, a che col tuo grande cognoscimento possi vero iudicio donare quale de essi deve essere nel cospetto degli uomini de maiore odore e laude comendato. Vale.

 

narrazione

 

          Quante e quale siano state mirabile le imprese con le vittorie e gran conqueste insiemi e pigliate e avute per li cristianissimi prìncipi de Portugallo, e quanto sia digno de memoria il passare del grande mare tante e tante volte con loro potentissimo e bellicoso esercito ne l’africana regione contro degli arabi, essendo già per universo noto, più soverchio che necessario serìa a le particularità de quelle venire. Puro, degli passati lassando, e de quisto moderno e invitto signore re don Alfonso la istoria sequendo, dico che dopo il manutenere de la populosa cità de Agalsere Segher e d’altri assai paisi per lo eccellentissimo e serenissimo signore re suo patre occupati e tolti al gran re de Fes, e per ivi acquistato Tangere, e accampatose con sue gente a la quasi inespugnabile cità de Arzil, e quella redutta tanto a lo estremo, che non possea né poco né multo più sostinerse, fu al signore re significato como il re de Fes mandava uno capitanio suo parente, animoso e gagliardo, savio e prodente cavaliero, e degli arabi multo amato, per nome ditto Molefes, con mirabile esercito de arabi al soccurso de l’assidiata Arzil. Per il che il re don Alfonso, non volendo agli alloggiamente aspettare, lassate a bastanza proviste le bastede dintorno la cità, con la maiore parte de la sua più utile gente se fe’ incontro de l’arabo capitanio, e in manera che una matina in sul fare del dì i dui potentissimi eserciti affrontatisi, dopo la longa tencione, e aspra e sanguinosa battaglia, gli arabi fuorno posti in volta, rutti e fracassati, la maiore parte de’ quali morti, firiti e prisi, pochissimi fuggiti; e tra gli altri loro capitanio, per non volere sua gente abandonare, fu priso, de multi colpi firito. La presura del quale fu al re non meno che l’avuta vittoria cara, sperando, tanto uomo a l’inimico [tolto], il resto degli arabi in breve tempo debellare; per la qual accagione, dopo avuta Arzil senza altro contrasto, diliberò appresso de sé a perpetuo carcere, bene servuto e onorato, il tenere.

          La novella de l’avuto conflitto al re de Fes venuta, e a lui con dolore e recrescimento grandissimo tolerata, mandò subito sua ambassaria al re don Alfonso, pregandolo che, se per l’ordene militare non gli volia il suo capitanio remandare, como a pregione de ricatto glil concedesse, gran quantità de moneta e altri doni assai per lui offerendoli; a la quale il re in breve parole respuose che, avendo lui con incomotabile decreto diliberato che ’l suo contrario volere del tutto se antiponesse a la ragione, niuna quantità de tesori fusse bastevole de quello retraerlo, e però de ciò più ultre non si parlasse, ché ogne altra replica serìa stata vana. Per il che la matre de l’arabo cavaliero, tale diffinita resposta sentita, ancora che cognoscesse ogne altra speranza o partito essere nulla, puro, essendo matre, che non possono si non unicamente amare, prepuose con la sua prodenzia e gran ricchezza insiemi non vi lassare cosa a fare, per avere il suo unico e caro figliolo. E cossì, senza aspettare né volere d’altrui consiglio, montata a cavallo, con multi de’ suoi accompagnata e con onorevole carraggio, a l’oste del cristiano re se ne venne, e senz’altro intervallo dinanzi al suo padiglione ismontata, fu subito tale venuta al re intimata; de la quale alquanto ammirato remasto, gli se fe’ incontro, e con grandissimo onore e massima reverenzia recevuta, e dopo alcuni ragionamenti, la donna con ordene temperato al re disse:

          — Eccellentissimo signore, io non dubito che tu, e non senza ragione, te maravegli de la mia improvista e fiduciale venuta nel cospetto de tua maiestate; nondemeno, sentendo le vere ragione che a ciò me hanno tirata, non sulo non maravegliato, ma pietoso e de gracie repieno te faranno ultre lo solito devenire. La tua alta e savia maiestà, qual tiene il core in mano de Dio, pò, e meritamente, con ragione considerare quante e quale siano le pene e gli dolori hanno le povere matre, sentendo i figlioli in qualche sinistro caso, e massimamente quelle che uno sulo ne teneno, como io misera, quale nissuna quiete, nissuna pace pò l’afflitto core mio possidere. Dove, cognoscendo la singulare vertute con la mirabile fama de tua alta corona insiemi, me haveno data sì fatta securitate, che, senza altramente de te essere guidata, me sono qui condutta. Ove essendo, per il tuo Dio, per la fede e onore del quale, e per la vertute de buono cavaliero, sulo pugni e combatti, te supplico e scongiuro, sia de tua mercè donarme il mio unico e de me tanto amato figliolo; e como che a sì fatto duono niuno gran pregio baste per recompensa, puro io, como a donna, che de natura simo de poco core, avendo qui meco trenta mila doble portate, da mia parte te digne receverle, e sulo per un recordarte de mia venuta, ad una ligiera collazione de’ tuoi cavalieri le converterai; e io cognoscendo non che ’l figliolo ma la vita in duono da te recevere, lui e io con quanto tenemo, salva la nostra legge, seremo de continuo ad ogne tuo piacere e comando.

          Il re multo più che prima de la fede, la sagacità e prodenzia de l’araba maravegliato, ancora che de multi de’ suoi a retenerla fusse confortato, per avere ad un tratto e gli tesori e ’l grandi stato che tenea, nondemeno lui, sulo de la vertute recordandosi, diliberò tutto lo resto del mundo non bastare quella in alcuno atto ledere o maculare; e a lei con piacevole viso respuose:

          — Donna, la vostra liberale venuta con le laudivoli accagione insiemi hanno trovato in me sì fatto luoco e avuta tanta forza de rompere e spezzare il duro e longo mio diliberato proposito; e in breve parole respondendove, voglio che ’l vostro figliolo vi sia restituito, con tale condizione che, como lui prima può, debbia a me retornare, e in campo a la cominciata impresa servireme; e si ciò da incomodità gli serà interditto, me prometta per niuno tempo l’arme contra de me né de mia gente pigliare, né contra de mei bandere comparere.

          La donna, dopo le debite gracie rendutele con virilitate non piccola respuose:

          — Serenissimo signore re, io me guarderò de promettere cosa, che attendere remanga ne l’altrui potere; però io restando tanto de la tua regale maiestà [satisfatta], in quello se vuole de me servire, ché ’l promettere e lo attendere averà uno medesmo effetto; e però le demandate condicione le voglia promisse da cui le può attendere, ch’io non dubito, promettendole, si morte ne dovesse recivere, inviolatamente per lui seranno tenute e osservate.

          A lo liberalissimo signore re piacque multo la vertuosa resposta de la donna, e de maiore autoritate estimò la donna che estimata la avea. Il che subito, dopo le materne e amorivole accoglienze e altri necessarii ragionamenti, per il signore e per la sua matre fu a lo cavaliero la condicionata libertà palesata; quale de lui intesa, con intero animo, al nobilissimo signore re revolto, disse:

          — Vertuosissimo signore, cognoscendo non bastarno de gran longe parole per recompensa de’ fatti, me remango renderte quelle debite gracie, che a tanto magno e alto da te recevuto beneficio per me pensare se dovessero, e sulo me reste il pensare, como de ciò in futuro possa de alcuna gratitudine essere comendato. Puro, a l’ultime dimande respondendo, dico, ch’io essendo, como sono, già primo a la mia legge che a la dimandata condicione obligato, quella porrìa essere in manera de necessità, che me bisognasse per suo comodo e servicio, como a primo debitore, l’arme pigliare, e ossequire quanto il suo bisogno me costringesse, e non porrìa tale promissa né poco né multo osservare. E però toglialo Idio tale pensare, de promettere cosa certa, che per possibile accidente ne possa venire meno. E ultre ciò, donandome libertate con quale si voglia obligazione, ultre che puro pregione me parerìa remanere, volendo alcuna vertute usare, per sforzata e non voluntaria serìa de’ presenti e de’ posteri iudicata. Dunque, per la tua vertù te digna senza alcuna condicione intera libertate donarme, o vero appresso de te me lassa il remanente de mia vita ne la solita carcere macerare.

          Cognobbe il vertuosissimo e illustrissimo re, la intera vertute del cavaliero da la grandezza de l’animo de la matre non degenerare; a le quale parti parendo per debito essere obligato, volse ad essi demostrare che niuna loro usata vertute bastasse la generosità del suo spirito occupare; e cossì, senza aspettare lo tempo a la resposta, disse:

          — Io non voglio che niuno de vui qui reste, né lasse alcuna natura de robba per fatti né veruna parola per pigno; e però, donna, toglìti il danaro che per me avevati portato, e con lo vostro caro figliolo insiemi ve ne retornati a casa, perché de reale re sòle essere proprio la liberalità; e massimamente a vui che in quella sperastivo, e per longezza de camino qui con la persona e boni e con onore siteve presentata, non serrìa condigna cosa quello dove avete sperato mancareve, ché poi de la nostra morte ne senteriamo infamia; e serìa assai peio tale nome a la nostra corona poi li felici nostri dì, che non senteriamo comodità de la vita del tuo unico nato e vostra, e de’ vostri tesori. E a vui e a lui remanga la guerra e la pace, il prendere e lassare l’arme contra de me, ch’io spero, anco senza lui, ottinere la ottata vittoria de mia iusta impresa.

          E fatti venire de multi ricchi e nobili duoni, quale a la dignità sua e al valore de quilli se conveneano, con li quali insiemi dato loro ultimo conviato, e fattigli onorevolemente accompagnare, letissimi al loro paese se ne retornorno. Dove tra gli arabi essendo, e in secreto e in publico niuno ve era che lo potesse credere, ante parea una cosa fora de ogne accidente umano, e con caterva grande correano le donne e gli uomini a vedere la donna con lo figliolo in il paese retornati; e de continuo la donna predicava la sagacità del re, e non se vedeano sacii racontare e con somme lode comendare la magnificencia, liberalità e gran vertute del re don Alfonso. Da le quale mirabile parte e la matre e ’l figliolo speronati, volsero loro gratitudine demostrare; per il che Molefes, fatti grandissimi apparati de gente e de moneta, a la novella stagione suntuosissimamente uscito in campo con circa quindici milia combattenti de cavallo e de piede, senz’alcuno sentimento a lo portugallese re donarene, al suo campo se representò. L’eccellente re, ciò sentendo, non meno de nova maraveglia che d’allegrezza repieno, con grandissimo onore e reverenzia il recevette, e sempre como a proprio fratello accarizzandolo, appresso de sé il tenne; il quale ogne dì de nova gratitudine vento, con amore intero e lialità grandissima, perfin che visse, a sue spese bellando contro gli inimici, il servette de continuo.

 

MASUCCIO

 

          Volendome con le ultime parole de l’esordio de questa passata [novella] confirmare, me pare che meritamente le racontate tre vertute, l’una da l’altra causata, se possereno ognuna da per sé per singulari odoriferi fiuri odorare. E certo lo essere mora de la donna non toglierà de la penna la sua usata vertute, quale ancora che de materno affetto fusse tirata, puro mirabile fo la sua fede nel pigliare tanta securitate ne la vertute de uno re cristiano, de lei e de la sua legge inimico e debellatore, e contra la qualità de femene, che sono timide, avare e sospettose, gli ponere ad un tratto persona, onore e avere tra le mano; per il che, de mancamenti e defettiva natura de donne [si s’]avesse a ragionare, sempre la nostra araba ne serìa eccettuata. Ma per non volere tanto lei laudare, che gli compagni siano al numero degli obliti, dico che grandissima e massima senza mezzo se può la liberalitate del nostro liberalissimo signore re scrivere e annotare, dire e narrare. Però, non sapendo a quale grado la immensa e inestimabile gratitudine de l’arabo capitanio ed eccellente e nobile cavaliero porre, lasso tale non decisa lite a coloro che de maiori gracia e discrezione de intelletto sono da la natura dotati, quali saperanno l’una senza offensione de altra con diverse laude comendare. E io, da la strata de vertute non togliendome, sequerò con altro vertuoso, iusto e alquanto severo regale gesto, digno de gran memoria, che non meno che gli racontati se deve e può digno de memoria fare.

 

NOVELLA XLVII

 

argomento

 

          Lo signore re de Sicilia è in casa de uno cavaliero castigliano alloggiato; dui de’ suoi più privati cavalieri con violenzia togliono la virginitate a due figliole de l’oste cavaliero; il signor re, con grandissimo recriscimento sentito, le fa loro per muglie sposare, e a lo onore reparato, vuole a la iusticia satisfare, e a’ dui suoi cavalieri fa subito la testa tagliare, e le doncelle onorevolemente remarita.

 

A LO ILLUSTRISSIMO SIGNORE DUCA DE URBINO.

 

ESORDIO

 

          Se gli eloquenti e peritissimi oratori soglieno, nel cospetto de’ grandi prìncipi e signori orando, tale volta abbagliati e impigriti obmutescere, quale maraveglia, illustrissimo mio signore, che Masuccio con la sua impericia volendo scrivere a te, signore, che non sulo ne l’arme e militari disciplina novello Marte, ma in eloquenzia e in dottrina uno altro Mercurio pòi, e meritamente, essere chiamato, gli sensi, gli organi, con l’istrumenti insiemi, sì li confundono e travagliano in manera che non che de altri ma de lui stesso né può né vale vero iudicio donare? Nondemeno, cossì devio e fuori de strata caminando, ho priso per partito, non manco per volere la mia operetta del tuo esimio ed eccellente nome favorire, che per osservare la mia promissa; negli partenopei marini liti già fatta, de con le mei illicite littere in sì longa assenzia visitarte como caro amico, e de uno notivole gesto e iusto, e in parte rigido e severo, de uno principe aragonese darete noticia, a ciò che tu, esempio de vertute tra’ viventi, possi tale vertute predicando e narrando comendare. Vale.

 

narrazione

 

          Dico adunque che, de po’ il retornarse de la ricca e potentissima Barsellona a la debita fidelitate de l’inclito signore re don Ioanni de Aragona, loro vero e indubitato signore, lui del tutto se diliberò vindicarse la occupata da’ francisi Perpignana; a la impresa de la quale e suo sussidio provocò lo illustrissimo principe de Aragona re de Sicilia, suo primogenito, quale, per ossequire agli paterni mandati, lassate l’ispane delicie col piacere de la novella sposa insiemi, con suoi baroni e cavalieri intrò al prepostato camino. E passando più cità e castella de lo castigliano regno, e in ogni luoco lietamente racolto, e quasi como a loro signore onorato e recevuto, arrivò in Vagliedolì, dove, non meno per la sua autoritate che per il novo parentato, fu onorevolemente e con gran triunfi recevuto, e alloggiato in casa d’un notevole cavaliero de’ primi nobili de la cità. Quale, dopo gli suntuosi apparati e senza alcuno sparagno, per non lassare alcuna parte de lo onore e allegrezze a demostrargli, sì como a sì gran principe se rechiedeva, il dì sequente sì fe’ convitare a casa sua la maiore parte de le donne de la cità a fargli festa, con diverse qualità de istrumenti e ogne manera de balli; tra le quale, più che altre ligiadre e oneste, furono due sue figliole virgine doncelle, e de tanta suverchia bellezza, che fra lo resto teniano il principato.

          Per il che accadde che dui cavalieri aragonesi, de’ primi amati e multo faoriti de l’eccellente signor re, se innamorareno ardentissimamente ognuno ad una de ditte belle damizelle, e in manera che in sì brevissimo tempo si retrovorno fuori il pelago de Amore usciti, che niuno altro in contrario vento le averìa a porto de quiete possuti retornare. E anteposto il sulo loro disordenato volere ad ogne onestissimo debito de ragione, per ultimo partito già priseno, prima che da quindi se departessero, si morte se ne devesse recivere, ottenire la vittoria de tale impresa; e per il partire del re, loro signore eccellentissimo, che ’l prossimo dì se appressava, proposeno d’un volere d’accordo, la sequente notte tale loro inico e scelerato disiderio mandare ad intero effetto. E avuta per strana e cauta via la prattica d’una fante de casa del cavaliero, quale si domandava per nome Agnolina, la quale ne la propria camera de ditte doncelle dormia, e con multi doni e assai promisse, como de ultramontani è costume, corruttala, con lei ordenareno quanto per compimento al fatto bisognava; e como la camera e fenestre de ditte doncelle fussero multo levate de la strata, nondemeno Amore a memoria loro avea tornato una scala de corda, che in nel loro carraggio teniano, che in altre parte per scalare de monasteri aveano adoperata, e de quella loro occorse a tale bisogno se ne servireno, atteso che ogne altro pinsiero l’aveano già trovato vano. E como notte fu, con li necessarii preparatorii a’ piedi de la provista fenestra se condussero, e con il favore de la contaminata fante ebbeno manera de appiccare la scala a la fenestra de la camera, dove ditte doncelle securissime [stavano]; e l’uno dopo l’altro saliti, e con piccolo lume intrati, le trovorno in letto ignude e discoperte, che forte dormivano e quiete; de le quale ognuno d’essi l’amata con grandissimo amore cognoscendo, loro se puosero de lato, e se acconciorno a fornire loro pravo, tristo e sceleratissimo proponimento. Per la venuta de’ quale le poverette e oneste figliole ancora che del tutto non si svigliasseno, puro una con altra festiggiare, como erano inter loro già solite, credendosi, prima che ’l vero del fatto avessero cognosciuto, sentiro la virginitate con grandissima violenzia e inganno loro essere stata rapita e robata; e dolenti de ciò a morti, con altissime voce chiamorno soccorso.

          A lo rumore e questione grandissime fatte de quale il patre prestissimo e rattissimo venuto, e da le figliole il fatto racontatoli, e trovato quelli cavalieri fuggiti, e la scala ancora a la fenestra appiccata, gli parve per subito espediente e con aspri minazzi e tormenti volere de la ditta fante sapere cui fussero li laceratori de la sua onestà e de suo onore stati; de la quale a lui pienamente declarata e ogne cosa saputa per certo, con quel dolore che ciascuno può pensare, se diede a confortare le figliole, ché ognuna voluntaria e orrebele morte avea già eletta. E como dì fu, ancora che l’angustia de la mente avesse il core del prodente cavaliero mortificato, pur con animositate grande, con le figliole per mano, se n’andò in camera del sicolo re, e gli disse:

          — Signore mio, ti piazza di audirme e ascoltarme alquante parole, per discazzare via lo affanno e fastidio, il quale porrìa avvenir ne le mente umane. Io ho qui meco portato li frutti colti da li giardini da’ tuoi intimi creati per ultima ingratitudine e perpetuo restoro de la mia devuta e amorivole demostrazione, che, per onorarete, con loro insiemi ho già fatto.

          E [ciò] ditto, interamente il fatto gli racontò; il quale, per vedere le figliole quivi amaramente piangere, de pietade e de interno dolore vinto, lui anco fu costritto a fiero lacrimare. Il prodentissimo e sapientissimo signor re, che con dolore e recriscimento grandissimo il cavaliero avea ascoltato, fu de tanto furore e sdegno assalito, che poco se tenne che in quello punto non facesse li suoi pravissimi cavalieri vituperosamente morire. Nondemeno, temperatose alquanto, se reservò ne l’arcano del suo petto la fiera punizione, la quale a tanto aspro e strano caso si rechiedeva; e dopo che ’l povero cavaliero con le sue figliole con assai acconce parole insiemi ebbe reconfortati, diliberò, prima che al perduto onore de coloro in parte provedere, il conceputo sdegno alquanto mitigare. Per che, differito il suo partire, de continenti ordenò col potestà che tutti notevoli uomini e donne de la cità, per una nova festa che de fare intendeva, in casa de lo cavaliero se dirizzasseno.

          Quali prestissimi venuti, e in una gran sala condutti, il prodentissimo re in mezzo de le due doncelle accompagnato se ne uscì fuora, e de l’altra parte fatto i dui delinquenti suoi cavalieri ivi venire, lacrimando, lo enormissimo caso, como e quale era succeso, pontalemente a tutti fe’ palese; per la cui accagione lui volea che, per alcuna emenda de tanto detestando eccesso e quivi de presenti fatto, ognuno de loro avesse la sua per muglie sposata, e che a ciascuna fussero diece milia fiorini de oro de dote per essi costituiti. E subito ciò mandato ad intero effetto, l’eccellentissimo e liberalissimo re de’ suoi contanti volse quivi de presente le promisse dote a le doncelle interamente pagare; e cossì lo avuto dolore e merore in tanta allegrezza convertito, fu la lieta festa radoppiata, e la contentezza de ognuno fatta maiore. Per che il re, in su la maestra piazza venutone, e fatti tutti, e nobeli e populi, a sé chiamare, dove i dui novelli sposi bene guardati erano presenti, dopo che dagli araldi al multo e diverso ragionare fu posto silencio, agli ascoltanti cossì disse:

          Signori, parendomi con mia poca contentezza a lo onore de lo buono cavaliero mio oste e de sue figliole de quelli oportuni remedii providere, che in tale estremità da li fati mi sono stati conceduti, como ognuno de vui ne può e porrà in futuro rendere testimonio, voglio ormai a la iusticia, a la quale prima e più che a niun’altra cosa sono obligato, interamente satisfare, a la quale più presto eleggerìa la morte che in alcuno atto mai mancare; e però ciascuno tollere in paciencia quello che con dolore mai simile gostato, per disobligareme dal iusto ligame, de fare intendo.

          E ciò ditto, senza altro iudicio dare, fatte venire dui nere veste insino a terra e gli dui cavalieri vestitene, comandò che in quello istante in tanto digno spettaculo ambodui fussero decollati; e cossì, non senza generale lacrimare degli circustanti, fu subito mandato ad effetto. I quali per li citatini onorivelemente fatti sepelire, il re volse che tutti i loro boni, ché ne aveano e mobili e immobili, a le vidue doncelle fussero donati; e ciò espedito, prima che la nova cominciata festa dal novo dolore fusse occupata, como il re volse, furono le ricchissime doncelle a dui de’ primi nobeli citadini per muglie sposate. E cussì la festa, con tanti variati casi e refreddata e riscaldata, finita, il re, con lo essere unico principe de vertute e liberalitate al seculo nostro estimato, se partì; e le maritate doncelle con li loro novelli sposi gaudendo e triunfando remaste, tutti gli avuti dolori in summa allegrezza furono convertiti.

 

MASUCCIO

 

          Ancora che multi e diversi dignissimi gesti del memorato principe, in ogni luoco per lui adoperati, con verità grandi racontare si possano, pure notevole e grandi, le parti de la racontata vertù esaminando, porrà essere iudicata. E certo volendo, como era tenuto a li regali precetti ottemperare, non averìa altramente possuto esequire; atteso che pare che non per altro gli mondani prìncipi e da Dio, da la natura e da le divine e umane legge siano in terra a lo reggimento e governo de’ populi e ministramento de iusticia stati ordenati e istituiti, che per doverno con eguale bilanza reggere e gubernare, removendo da loro petto ogne amore e passione, odio e rancore. E coloro che de tali laudabili vertù e digne parti sono accompagnati, non per uomini mortali ma per eterni idei deveno, e dignamente, essere celebrati; e li contrarii non de iusti, savii e prodenti re, magnanimi e liberali, ma de iniqui, pravi e viciosissimi tiranni lasseranno dopo loro immortale fama; sì como la memoria de’ buoni e de’ gattivi ogne dì ce ne rende testimonio. E io con veloci passi il cominciato ordene sequendo, e al venente e al piccolo resto, con piacere de Dio darò ultimo fine.

 

NOVELLA XLVIII

 

argomento

 

          Uno figliolo del re de Tunisi è priso da’ corsali e venduto a Pisa; lo patrone gli pone amore adosso, e in processo de tempo gli dona libertà, e, non cognosciuto, nel rimanda a casa; quale poco appresso divene re de Tunisi; il pisano non dopo molti anni è priso da fuste de mori, e a lo re, senza cognoscerlo, è dato in sorte per scavo; quale recognoscendo, per gratitudine fa fare la sorella cristiana, e con gran parte de tesori gliela dà per muglie, e ricchissimo nel rimanda a Pisa.

 

A LO ILLUSTRISSIMO SIGNORE IOANNI CARACCIOLO DUCA DE MELFI.

 

ESORDIO

 

          Cognoscendo, illustrissimo signore mio, la gratitudine non sulo a te essere innata passione, ma a guidardonare de’ servicii recevuti ogne altro magnanimo e liberale avanzare, sì como gli effetti me ne possono ad altri fare rendere testimonio, non ho voluto la presente novella, de liberalità e gratitudine fabricata, ad altro che a tua signoria, e meritamente, la intitulare, a ciò che, como a vero cognoscitore de vertù, possi ad altri noticia dare, quale da le usate pò e deve de maiore lode essere celebrata. Vale.

 

narrazione

 

          Tra’ multi vertuosi ragionamenti de certi notevili mercatanti, l’altr’anno sentivi da uno nobile fiorentino per autentico racontare, como, dopo che l’isola de Scicilia fu per il re Piero d’Aragona occupata, gli corsali catelani, con tale comodità, faceano supra de’ mori de continuo grandissime prede; per il che il re de Tunisi, sentendo ogne dì essere da’ pirati danneggiato, diliberò fare un redutto misso in forza sopra uno grandissimo scoglio, chiamato il Cimbalo, posto parecchie miglia in mare de rimpetto a Tunisi, per potervi de continuo la guardia tenere, che con fumi e fuochi desse signale in terra, quando fuste de cristiani se avessero in quello occultato. E uno dì con certe fuste ben armate, con multa de sua più cara e nobile gente e con maestri de tale arte, mandò il suo primogenito figliolo, nominato Malem, a providere ditto luoco; ed essendo non multo de longi al Cimbalo, posto parecchie miglia in mare, como volse loro disaventura, se abbattero tra due galee de catelani, quale per forza de remi postese le fuste in mezzo, como gli amaistrati falconi pellegrini nel balse batteno le timide ribere, cossì li mori, non valendo né fuggire né alcuna fare difesa, perterriti, furono a salva mano prisi. Malem, ancora che multo giovanetto fusse, e in manera che le sue polite guanze de le prime lanugine non erano offese, pure, essendo prodentissimo, deposte le regale veste e in marinaro travestitosi, como uomo de remo fu con gli altri insiemi priso, legato e posto in galea. Gli patroni de ditte galee, avendo il gran numero de mori prisi, diliberorno verso ponente retornando, ove meglio potevano, de la fatta preda fare tra loro il costumato bottino; e avendone multi dì con gran favore de venti con prosperità navigato e supra de Ponsa pervenuti, da subita contrarietà de venti assaltati e molestati, furono costretti ad andare quasi per perduti in foce d’Arno; e in quella a salvamento redutti, vendero la maior parte de’ mori a Pisa.

          Tra’ quali Malem, regio figliolo, multo dilicato e bello, fu venduto ad un nobile giovenetto pisano, chiamato Guidotto Gambacorta, il quale, vedendolo de sì gentile aspetto e quasi de una medesma età con lui, da sua benigna natura tirato, e anco per essere de la morte de suo patre ricchissimo remasto, non il volse a niuno servicio vile porre, anzi, de sue lassate spoglie revestitolo, de continuo appresso de sé il menava. E vedendo ogne dì li suoi ornati costumi più a la nobilità e a la vertù che ad altro tirare, con seco medesmo iudicò esso non potere se non de nobilissima gente tra’ mori [essere] nato; e con tale credulità stando, sempre in piacerli e a beni trattarlo s’ingegnava. E cognoscendolo de acuto e nobile ingegno, prepuose che, como la lingua toscana avea in brevi dì imparata, cossì de littere moderne latine, se essere possea, l’altre sue vertù accompagnare; lo che facilmente ottenne, però che non furono forniti tre anni che lui non serìa stato da niuno si non per toscano e de littere convenivolmente ornato cognosciuto. Per la cui accagione, e per le prime, in tanto amore e gracia del suo messere venne, che un altro sé lo estimava, e, como un altro proprio fratello e lialissimo compagno, de la persona e de le facultà gli avea commisso il governo. Il che Malem, dal suo messere Martino nominato, vedendosi da sì infima miseria a sì digne mano pervenuto, laudando Idio, si tenea ultre modo contento, e nel ben servire con maiore istanzia ogne dì istudiava; e ben che ’l fuggirse con tale libertà ogne dì gli fusse stato concesso, puro, da lo amore de’ recevuti beneficii restretto, mai tale pensiero nel suo petto si possette firmare.

          Il perché Guidotto, per demostrarli l’ultimo grado del suo amore, venne in nel disio volerlo tentare de farlo cristiano, a tale che li potesse alcuna figliola de buon nato per muglie, con buona parte de sue facultà, donare; e un dì, chiamatoselo, con acconcia manera tale suo disiderio li fe’ manifesto. Al quale Martino con umilità grande respuose:

          — Signore mio, cognoscendo il miserrimo stato, nel quale era allora che per vile servo me comparasti, e quello che per tua innata bontà e naturale vertù, e senza io avertene data accagione, me hai esaltato, non sulo in questo, che per mia comodità con tanto amore e carità me inviti, doverìa voluntario venire, ma, dove il bisogno tuo il recercasse, lo perdere de la propria vita non denegare. Tuttavia, non dovendosi a te niuno mio piccolo o grande affare occultare, sappi che ’l vero o falso de nostre leggi a la verità lassando, la mia non intendo, se morte ne dovessi recevere, per altra cambiare: supplicoti, per la tua gran vertù, de ciò più l’animo mio non inquietare. Ma se, a compimento de lo incominciato bene, ti dignassi a mio patre, che notevole e grandissimo mercante tra’ mori è cognosciuto, mandarmi, spererìa in breve tempo farti de li frutti de sua e mia mercanzia con grandissimo piacere gostare; e quando il contrario, per superchiamente amarmi, del tutto decreto avessi, sappi del certo che dal tuo servizio, fin che ’l vivere mi serà conceso, per alcun tempo non porrìa mancare.

          Cognobbe Guidotto la integrità de l’animo de custui, e, de non piccola autorità estimandolo, non fu pentito de quanto de onore e de bene gli avea fatto, e sì gli respuose:

          — Martino mio, como gli effetti te hanno in parte possuto demostrare, che niuna persona, per amistà o per sangue coniunta, se averìa né più né tanto possuto amare, quanto io ho amato e amo te; e se la mia dimanda ha passato alquanto li termeni de la onestà, tieni per firmo che non altro che per demostrarti l’ultimo luoco del mio core lo ha causato. Nondemeno, dopo che cognosco in altre parte essere il tuo volere fermato, ti conforto a stare de buono animo, ché io ti prometto in brevissimi dì de mandare ad intero effetto il tuo onesto disiderio.

          Martino, la gratissima resposta intesa, lacrimando disse:

          — Signore mio, essendome al presente ogne debito de gratitudine interditto, non voglio che niuno rendere de gracia mi sia conceso, e l’uno e l’altro al remuneratore de tutt’i beni, che da mia parte ti debba restoro fare tale quale tu maiore disideri, tal me recomando.

          Guidotto, anco per tenerezza piangendo, strettamente l’abbracciò e basciò; e dopo alcuni altri acconci ragionamenti, ordenorno como e in quale manera nel potesse con le galee de Pisa, che in Barbaria passavano, mandare. Ed essendo il passaggio in ordene, Guidotto, reposto il suo caro Martino onorevilmente in arnesi, e fattili alcuni gentili e digni doni, e con la bursa colma de moneta, e con uno fiume de pari lacrime, a casa sua nel remandò.

          Il re de Tunisi, che gran parte del ponente avea e da cristiani renegati e d’altra gente fatto il suo figliolo con diligenzia cercare, né in alcun lato mai niuna nova sentitone, vedendoselo sì bene vestito e onorato davanti, ultra l’amore e carità paterna, quanto la speranza de lui gli era del tutto mancata, tanto fu la sua contentezza e la demostrata festa maiore; e dopo le infinite accoglienze, e d’ogne suo passato accidente fatto [consapevole], mandò per tutto il suo dominio, ché del recoverato suo Malem grandissima demostrazione de allegrezza ciascuno facesse; e cossì fu fatto. Ove, poco appresso de tale iubilo e festa, il re de Tunisi, che assai già vecchio era, passò de questa vita; dove, considerate le vertù de Malem per li tunisini, e ancora che meritamente, como figliolo del re, meritava il septro del solio regale, ad alta voce gridarolo e crearolo signore con voluntà de tutto il barbaro regno, pigliando speranza dal novo re avere buona compagnia; e con gran piacere de’ suoi populi e senza altro intervallo devenne re de Tunisi. E avendo in nel regno de’ paterni tesori la intera possessione già prisa, de continuo in negli occhi de la mente gli stavano scolpiti gli irremunerati beneficii, che dal suo Guidotto negli oportuni tempi avea recevuti, persuadendosi che tanto la remunerazione bisognava gli avuti beni avanzare, quanto l’autorità e ’l potere suo si estendeva maiore, e tanto più quanto l’amico a la sua liberalità era voluntario e per propria vertù venuto, e lui a debito de gratitudine era necessitato; e sulo gli restava firmo nel pensiero como li fusse la manera concesa de tale suo vertuoso proponimento adimpiere.

          Al quale Idio e la fortuna avendoli infino a qui tanto favore demostrato, similmente lo volsero del suo onesto e laudevili disiderio satisfare; per accagione che Guidotto, ancora che a Pisa de’ primi citadini fusse, pure per certe brighe citadinesche fu costretto ad andare in esilio a Missina; per che salito in uno mercantile ligno, essendo vicino in Faro, fu priso da certe fuste de mori e menato a Tunisi, e per sua grandissima ventura dato in sorte per scavo del re. Dove cui ha intelletto, pò pensare che conforto, che solazzo, quale piacere possea in la mente de Guidotto regnare: ben me penso che lui più volte tra se medesmo dicea:

          “Ahi fortuna! ahi rea sorte! io libero, sono scavo! Volessero i fate che sentisse nova del mio Martino, quale de certo credo, como amico, ancora manderìa per lo mio recatto a Pisa, o procurarìa la mia libertà, in modo che in tanta servitù non serrìano finiti li iorni de la mia restante vita!”. E in quisto modo il povero Guidotto de continuo con aspre lamenti se cognosceva, e, per peio che morto estimandose, desperato vivea; per la cui accagione lui iudicava la fortuna a peior partito non lo aver possuto condurre e farelo lo più de’ vivente tristo, sì per essere distituto de speranza de redenzione, e sì che, essendo in potere de quale altra persona si voglia essere venuto, [non] gli serìa stato il vedere del suo Martino conceso e da lui la sua salute procurata. Misso adunque il povero Guidotto de catene carico con altri assai captivi cristiani a la cultura de un grande e bello iardino del regale palagio, che altro che ’l re con poco de’ suoi privati v’andava, con dolore intollerabile e senza alcuna speranza de futuro bene, avendoli la necessità con la forza insiemi l’agricultura imparata, con la zappa e col cortello e con continue lacrime domava la vita sua.

          Unde accadde che il re un dì per il iardino a diporto andando, gli venne alquanto raffigurato il povero Guidotto; e ancora che lui tenesse per impossibile lui essere desso, atteso che la miseria ogne sua similitudine gli togliea, pure, sì fiso mirandolo, ognora del dubio si facea più certo, e a lui avvicinatosi, toscanoiando, il dimandò cui e de quale parte fusse. Il dolente Guidotto a la voce del re levata la testa, como che la nova barba e li regali vestimenti lo avessero un altro fatto parere, esso incontenente cognobbe e per indubitato tenne il suo Martino essere re de Tunisi devenuto; e cossì, senz’altri inviti aspettare, lacrimando, a li piedi del re se buttò, e da suverchia e impensata allegrezza impedito, la gracia sua aspettava. Malem del tutto certificato lui essere il suo Guidotto, quanto la cosa da lui disiderata era stata grande, tanto il vederselo appresso li porgea maiore piacere, e in manera che, quanto teneva, nulla da la fortuna estimava a rispetto de averle il suo amico, e in tanta miseria costituto, davanti mandato. E fattolo in piedi levare, e teneramente in bocca basciato, e subito de catene sciolto, per mano in camera il condusse; e dopo se ebbero infinite volte parimente abbracciati e basciati, e tutt’i loro accidenti e felici e avversi recontati, il re lo fe’ incontenente de sue regale veste adobare, e in sala, ove tutti li suoi baroni erano, il menò; e quando ebbe loro manifestato cui era collui, e quanti e quali erano gli beneficii da lui recevuti, comandò a ciascheduno che como a se medesmo lo avessero onorato e reverito, e como a re e loro indubitato signore adorato.

          E dopo che circa d’uno anno in tanta altura e gloria lo ebbe con seco tenuto, gli disse:

          — Amico caro, dopo che agli dii e nostra lieta sorte piacque con tanta impensata allegrezza il mio longo e unico disiderio satisfare, me pare assai devuta cosa che, de te recordandomi, il fine disiderato si debbia per me ad intero effetto mandare; e imperò, per lo vinculo de nostra immaculata amicicia, ti scongiuro ti piaccia scoprirmi quello che più l’animo ti diletta, o qui con meco insiemi, non che compagno ma signore de me e de quanto io tengo, remanere, o vero con quella parte de mie facultà, che da la comodità più che dal devere mi seranno concese, a Pisa retornare; però che de tutto serà il tuo volere subito adimpito.

          Guidotto, ancora che in il regale solio si vedesse, e cossì il suo passato stato como il presente e futuro esaminasse, nondemeno, da l’amore de la patria e pietate materna, da l’affezione de’ parenti e ossequio d’amici tirato, e supra tutto de la perfezione de la indubitata fede de Cristo recordandosi, per ultimo partito già prise con gracia del re a casa sua se ne retornare; e al re tale sua diliberazione con le accagioni insiemi fe’ manifesta. Malem, la resposta intesa, como che infine al core gli dolesse, pure li fu carissimo l’animo de lo amico interamente contentare, e gli disse:

          — Guidotto mio, colui che è sulo cognoscitore de’ secreti del core mi sia testimonio como a tanta felicità, quanta da lui senza alcuna tua né mia operazione m’era stata concesa, niuno caso avverso me averìa possuto supravenire, che tanto me avesse noiato quanto vederti da me partire; nondemeno cognoscendo, con la persona insiemi, quanto tengo da te l’avere in dono recevuto, non mi pare che a sì alta liberalità niuna gratitudine basti per recompensa, si non te a te medesmo, como a quello che supra ogne altra cosa me si’ caro, concedere; e però a me stesso summamente offendendo, voglio che non sulo il repatriare ti sia conceso, ma con quello insiemi un altro me accompagnando, te ricco e bene contento remandartene; e ciò serà Maratra mia sorella, quale assai giovene e bella, savia e costumata, como tu sai, essendo, voglio como a cristiana per muglie ti sia sposata; e de ciò ti piaccia l’animo tuo e mio per commune beneficio contentare.

          Guidotto, infinite gracie al re rendute, li respuose sé ad ogne suo volere essere apparicchiato. Malem, dopo alcuni altri dì fatta sua sorella da li sacerdoti de rabatto secretamente battizzare, con la valuta de ducento milia doble tra gioie e contanti al suo Guidotto per muglie la donò, e con altri assai nobelissimi doni, letissimi, a Pisa onorivolemente accompagnati nel remandò. Ove essendo d’amici e da parenti con gran triunfi racolti e onorati, con gran ricchezza e belli figlioli, dopo la longa etate loro vita al donatole corso fu termenata.

 

MASUCCIO

 

          Grandi e mirabili furono gli inopinati e varii casi con tanti motamenti de fortuna cossì al moro re como al pisano cristiano travenuti; e certo, ancora che il cristiano da istinto de sua benigna natura a l’usata vertù donasse principio e senza alcuna speranza de remunerazione, nondemeno incomparabile si pò la immensa gratitudine del tunisino re iudicare. Ma perché gli accidenti de l’uno e de l’altro furono in lieto e iocundo fine termenati, per vertuosissimi li potemo tutti dui, e meritamente, celebrare; e sulo la perfezione de la nostra cristiana religione pigliando, che Guidotto, in tanta altura videndose, non volse abandonare, me tira a racontare de quella un’altra mirabile esperienzia fatta e vista per il soldano de Babilonia in persona del Barbarosso Frederico; quale, per esempio e approbazione de essa nostra indubitata e verissima fede, deve essere con eterna memoria preconizzata.

 

NOVELLA XLIX

 

argomento

 

          Frederico Barbarosso, travestito, anda a la casa santa; e dal papa sentito, fa retraere la sua figura e la manda al soldano, per la quale Frederico è priso; il soldano, donandoli libertà, vole cinquecento milia ducati; lassali il corpo de Cristo in pigno e se ne retorna; manda il promisso dinaro; il soldano, da tale vertù tirato, gli lo remanda; raffermano tra loro amicicia, e lo imperatore caccia il papa da Roma.

 

A LO ECCELLENTE E STRENUO SIGNORE MATTEO DE CAPUA

CONTE DE PALENA.

 

ESORDIO

 

          Quanto dagli antiqui gesti per vetustà de tempi semo fatti da longi, eccellente e strenuo signore mio, tanto più il racontare de quelli a’ novi ascoltanti deveno parere estrani e peregrini. E como io non dubito de la sequente istoria sono già più anni ne abbi perfetta noticia avuta, pure, avendola fatta con le mie rude littere digna de eterna memoria, me è piaciuto a te, che per nova e verissima la farai e da’ presenti e da’ posteri estimare, la intitulare; a tale che, le sue parte esaminando, ciascuna da per sé e tutte insiemi ne possano, con la interità de nostra immaculata fede, e in sul credere de quella senza alcuna rugine confirmare. Vale.

 

narrazione

 

          Avendo lo imperatore Frederico Barbarosso del tutto per sua grandissima divocione diliberato, como catolico e cristianissimo principe, videre il sepulcro de Colui che per la generale redenzione volse in sul ligno de la cruce morire, cominciò secretamente a dare ordene a li necessarii preparamenti, como, non cognosciuto, potesse tale vertuoso e santo viaggio fornire. E però non seppe il fatto tanto occulto tramare, che Alessandro quarto, allora nel sommo pontificato e vicariato de Cristo assunto, non sentisse tale diliberazione; quale, como suo privato e fiero inimico, con sua pravissima natura [prepuose] in tanto meritivile e divotissimo camino farlo dagli inimici de Cristo prendere e morire. E per non porre il fatto in longo, avuto un singulare pittore, al quale non piccoli doni promittendo, clandestinamente il mandò a retraere la figura de lo imperatore da sua propria naturale forma; e quella non dopo multo tempo avuta, e de tanta perfezione, che sulo il spirito li mancava ad essere per viva e vera cognosciuta, per un suo privato cubiculario al soldano de Babilonia la mandò, e gli impuose quanto a fare e dire avesse per compimento del pravo e detestando volere.

          Quale a convenevole tempo iunto, e al soldano per occulte vie introdutto, gli disse:

          — Potentissimo signore, il santissimo signore nostro papa me manda a significarti, ancora che tu si’ de’ primi e principali inimici de la cristiana religione e fede, de la quale lui como a successore de san Piero è capo, governo e guida, che lo imperatore, non contento d’avere gran parte del ponente occupata, cerca con ogni istancia volere il levante occupare; e per quello de continuo con alcun’altri suoi confederati il chiamano e provocano a pigliare la impresa de l’acquisto de la casa santa; e questo non per veruna divocione como a seguace de la bandera de Cristo, ma como iniquo tiranno, rapace e ambicioso de l’altrui beni, debellando e te e tutto il tuo parentato, farsi generale signore. E avendo più volte trovati supra de ciò suoi pensieri vani, e dal papa avute de continuo favole per resposta, e da lui cognosciute, cerca per altro camino tale sua insaciabile voragine volere adimpiere; e fatti già grandissimi apparati con altri assai prìncipi cristiani, non confidando che niuno bastasse a darli de la qualità del tuo paese e stato perfetta noticia, ha priso per partito lui personalmente con dui de’ suoi più privati cavalieri, travestito in abito peregrino, venire da quiste parti, ed è già intrato in camino, e prestissimo averà il suo disiderio fornito. Per che non sulo sua santità te n’ha voluto dare particulare avviso, a tale che tu posse a tanta gran furia presto providere, ma te ha per me mandata la sua figura dal naturale fatta, con la quale fando, dove passare deve, con diligenzia guardare, indubitatamente l’arai a salva mano priso.

          E ciò ditto, gli donò ditta figura in mano. Il soldano, che prodentissimo signore era, ancora che l’ambasciata e l’ambasciatore avesse gratamente intesa e recevuto, e al papa infinite gracie rendute, e, con multi doni licenciato, lo missaggiero letissimo ne remandasse, nondemeno con seco medesmo iudicò essere grandissima pravità de tale pessima generazione de cherici, confirmandosi con quello che da multi multe volte avea sentito dire, che ’l summo pastore con la maior parte de lo suo consistorio non sulo era de superbia e d’avaricia, de invidie e illicite lussurie amacchiato, ma d’ogne scelestissimo e nefando vicio repieno. Tuttavia, dando a l’ambasciata grandissima fede, e per considerare le parti de la figura de lo imperatore, che de non piccola autorità lo iudicava, non sulo con celerità e ordene grandi diede manera como cautamente lo imperatore, venendo, fusse priso, ma, senza dare al fatto alcuno indugio, mandò a richiedere tutte le potencie de’ pagani, e con infiniti e grandissimi tesori a soldare gente, per possere tanto gran naufragio, che credea esserli apparicchiato, reparare.

          Lo imperatore, gran parte de sue faccende apparicchiate, quando tempo gli parve, con li dui suoi compagni con arte travestiti, per occulto modo intrò al prepostato camino; e dopo multi travagli, affanni e disagi de corpo e de mente e per acqua e per terra patuti, arrivò là dove da’ suoi inimici era con non piccola diligencia aspettato; quale, per il naturale esempio, subito fu cognosciuto, e con taciturnità e onesta manera priso e menato al soldano. Il quale quanto fusse de ciò, e con ragione, lieto e contento, ciascuno ne pò fare iudicio; e ancora che con alquanta rigidezza il recevesse, pure finalmente, mirandolo, con seco racolse tale principe essere de grandissimi doni e da Dio e da la fortuna dotato, de maiore autoritate estimandolo che estimato lo avea; e fattolo con gran cautela dintro lo suo palagio guardare e con onore e diligencia servire, quando gli parve [tempo], a sé il fe’ venire, e benignamente de la sua occulta venuta il dimandò. Al quale lo imperatore, non isbigottito de la sua presura, con virilità non piccola gli respuose:

          — Signore, avendo io per adirieto agli faste e pompe, a le delicie e glorie temporale e vane lode il più de la mia età consumata, diliberai quanto a Dio e a la salute mia satisfare, e ciò era per mezzo de tanti periculi e affanni venire a visitare il piccolo albergo, dove il Figliolo de Dio, generale redentore, per breve spacio, dopo che per li iudei fu occiso, albergò; e ancora che tale mio laudivile disiderio abbia contrario effetto avuto, non sono né serò mai pentito, si ne dovessi non che una ma mille morte recivere, per avere a Colui, che per me [sopportò] passione e morte, servito, e in parte del debito satisfatto.

          Cognobbe il soldano per le parole de lo imperatore, dal iudicio de la presenzia non essere ingannato; e dando de gran longa a lo intero e ragionevole suo parlare [maior credenza] che a la sinistra e falsa informazione del papa, da cieca invidia e fiera odiosità causata, e subito gli occorse volere supra de ciò alcuna parte de sua magnificencia demostrare, e a lo imperatore revolto disse:

          — Il grande Idio, che tutto pò e cognosce, me debbia testimoniare, como, avendomi la verissima fama gran parte de tue vertute raportate, a summamente amarte me parea essere costretto, e de compiacerte non poco disiderava. E certo, se al passare de qua pigliare de me securità e fede te avissi dignato, como a la tua dignitate si rechiede, serìa stato tale tuo massimo disiderio con comune piacere; nondemeno, essendo, como fuorsi li cieli aveano disposto, pur venuto, mi piace farte intendere più benignità in me che in nimico non pensavi trovare, che nel capo e ministro de la vostra fede te credivi avere.

          E ciò ditto, la sua medesma figura li demostrò, e como e quale le avea avuta, e quanto il papa gli avea mandato a dire per farlo morire, partitamente gli raccontò; e gli suggiunse:

          — Quantunque tu per debellatore e nel mio potere, como priso, a vittima menato [fusse], e me potesse con l’inimico de l’inimici vindicare, ti voglio non sulo la vita ma libertà donare. Puro non resta che, da la saputa tal nova in qua, un gran tesoro ho dispeso per li necessarii preparatorii, non sulo per prepararmi a la difesa, ma providere a l’offendere d’altrui; ch’i’ ho meco diliberato che, in recompensa de tanto gran dono, per cinquecento milia doble, per alcuna parte de ditta moneta indarno spesa, contribuere debbi; quali qui venute, de contenente non che libertà, ma manera de farti a casa tua a salvamento retornare ti darò.

          Como che l’imperatore ultra modo ammirato restasse del doloso e pravo operare de lo iniquissimo papa, anzi del precursore de l’Anticristo, pur fo tanta l’allegrezza de la vertù che nel soldano ultra il suo credere trovava, e che il fatto in lieto fine sì se termenava, che minimissima cosa gli parve il numero de quisto dinaro; e dopo l’immenso rendergli gracia de tanta impensata liberalità, e multe e diverse cose insiemi trascorse de la guasta e adulterata vita de tale pastore, guloso e rapace lupo devenuto, gli disse:

          — Vertuosissimo signore, ancora che poco più che nulla il dimandatomi prezzo per me sia estimato, nondemeno io non cognosco che, restando qui, farlo venire de niuna comodità mi sia concesso; per accagione che non prima tale fatto serìa in cristianità sentito, che, con consiglio e favore del papa medesmo, con colorata carità insurgerìano e dintro e fuori in Italia multi ambiciosi del mio fatto, che in brevissimo tempo e l’imperio e li accomolati miei tesori mi serìano occupati; e cossì, ultra che ’l tuo e mio disigno serìa turbato e guastato, io qui, como a privatissima persona, appresso de te in continua captività remanirmi [dovrìa]. Dunque, per la tua gran vertù te piazza, ad intera perfezione del cominciato bene, a tanti mancamenti con un sulo operare providere; e io, ultra la mia fede, incomparabilmente multo più gran signore, che non sono io, per pregio e pigno ti lasserò, e ciò sarà il Sacratissimo Corpo del mio Cristo Iesù; per il quale ti iuro e promitto che, como prima con volere de isso Idio giunto sarò, senz’altra dimora ti manderò interamente il promisso debito, e me con quanto tengo arai in perpetuo obligato.

          Al soldano introrno le vere e non simulate ragione de lo imperatore, ma fe’ gran caso de la grandissima stima che ’l principe cristiano facea de la piccola ostia in materia de pane composta e per le parole del sacerdote in corpo de Cristo redutta; quale fu de tanta forza da rumpere ogne altro pensiero che de avere il dinaro avea fatto, e fargli subito il partito de recevere il ditto pigno e de pigliarlo, non per veruna cupidità de ditta moneta, ma sulo per vedere de la fé de’ ditti cristiani tanta grandissima esperienzia. E in breve parole gli respuose lui d’ogne suo piacere e comodo contentarsi, e como avea demandato, cossì fusse interamente esequito. E per il fatto che festinancia cercava, senz’altro intervallo fatto venire uno religioso da luoco de’ fra minori, e in presenzia [del soldano] fatto il corpo de Cristo divotamente e con le solite cerimonie celebrando consecrare, e quello dintro uno dilicatissimo tabernaculo posto, con gran reverencia e divoto lacrimare il cristianissimo imperatore al soldano consignò; e raffermatagli la fede de quanto gli avea promisso, ivi a pochi dì occultatissimamente, como era venuto, al suo dominio se ne retornò. Dove essendo e ’l recevuto alto beneficio de continuo esaminando, con celerità grandissima diede ordene ad armare certe galee, e in quelle fatta sua onorivole ambasciaria montare con uno suo divoto capellano, gli cinquecento milia ducati de nova moneta e con novo motto gli mandò.

          Quali a conveniveli tempi in Alessandria giunti, e dinanzi al soldano condutti, dopo la onorata e gratissima ambasciata, la portata moneta gli consignorono, de gracia chiedendoli che il lassato pigno li restituisse. Il soldano che lietamente li ambasciatori avea recevuti e la intera vertute in fra de sé mirabilemente comendata, fe’ de contenente il tabernaculo del corpo de Cristo venire; il che dal capellano con gran reverencia priso, in presenzia del signore e de’ suoi mamalucchi e d’altra gente se ’l comunicò. Per che il soldano, multo più che primo ammirato e fuori de sé remasto, fra sé disse: “Il resto del mundo non ha tale uomo, quale è il mio perfetto amico novamente racquistato”. E non sulo iudicò de grandissima autorità la fede de’ cristiani ma l’animo grande de l’imperatore, che per uno sì piccolo boccone d’uno suo minimo capellano avea tanto precio pagato. E agli ambasciatori revolto, disse:

          — Toglialo Idio che niuna quantità de dinari o tesori sia bastevole a farmi la nostra incominciata amicicia offendere o in alcuno atto maculare; e però al vostro e mio signore con il portato dinaro insiemi ve ne retornati, e con raccomandarmi a lui, li diriti che dopo gli è piaciuto la sua gran vertù l’anima occupare, voglio che in ogne altra cosa possa e vaglia de me e de quanto tengo disporre, salvo che de lassarmi la mandata moneta si possa per alcun tempo recordare, e sulo la sua fatta demostrazione mi sia in eterno bastevole per il suo recatto. E ultra ciò, non essendo mio sì digno e grandi pigno, quanto lui per osservazione de sua promissa me lassò, convenendome de quello ch’io ho me servire, il mio primogenito figlio, non per pigno, ma per arra e conservazione de nostra raffirmata e perfettissima amicicia, con vui insiemi li manderò, a tale che lui, che unico vertuoso al mundo si pò chiamare, la sua laudevile vita e ornati custumi comunicandoli, morigerato e bene istrutto, quando li piace e pare, mel possa mandare.

          E subito fatte venire multe de sue più ricche e care gioie, con il restituito dinaro, il figlio insiemi con tenerissimo amore a lo imperatore il mandò; dal quale con grandissimo onore e festa recevuti, circa tre anni appresso de sé como proprio figlio de continuo il tenne; e dopo, dotto in littere e de multe altre vertù accompagnato, con non piccoli doni al patre nel rimandò. E ciò fatto, como lui non avea il recevuto bene inremonerato fatto passare, cossì non volse che ’l perpetrato del gattivo papa imponito trapassasse: per il che, fatto il potere suo de grandissime gente e de tesori, contra il papa ne venne; quale, non per vendetta, ma per gastigo ed eterno esempio de’ posteri de tanto tradimento e scelo, non sulo da Roma vituperosamente il cacciò, ma al spitale de Siena il fe’ como a vile prete poveramente e in miseria grandissima, como si gli convenne, morire.

 

MASUCCIO

 

          Però che non se porrìa né con lingua né con penna scrivendo biasemare la racontata malignità del passato papa, quando lo reprobato vivere de’ moderni ogne dì ce ne rende aperto testimonio, intendo cossì degli antiqui como de’ loro successori del tutto tacermene, atteso che supervacua e non necessaria fatica sarìa quello che per l’universo è manifesto, a pochi particulari reintimare; e però a me medesmo de ciò perpetuo silenzio ponendo, me tacerò non sulo de’ loro scelesti ed enormissimi vicii, e publici e occulti adoperati, e degli offici e beneficii, prelature e virmigli capelli, che a l’incanto po’ loro morte vendeno, ma del camauro del principe san Piero, che n’è già stato fatto pattuito baratto, non farò alcuna menzione. Per il che non me occorre altro si non, como a non digno cristiano, supplicare de continuo la gran maiestà de Dio che non a la guasta e corrotta vita de tali pastori, ma al firmo credere e simplice orare de le pecore reguardar debbia; e nui con la interità e perfezione de la vera fede de Cristo confirmandone, e da le usate vertù e del moro soldano e del cristianissimo imperatore esempio pigliando, ad altri, como si conviene, le possiamo, per laudevile e degne comendando, comunicare. E io con un’altra mirabile vertù le passate accompagnando, al mio Novellino, como longamente ho disiderato, darò l’ultimo e piacevile conviato.

 

NOVELLA L

 

argomento

 

          Uno cavaliero castigliano, dal conte d’Armignaca faorito, serve il re de Francia; deventa gran maestro; la figliola del conte se ne innamora de lui e la sua persona gli offere; il cavaliero per propria vertù refiuta l’invito; il conte il sente e per gratitudine gli la dà per muglie, e ’l re il fa gran signore divinire.

 

AL MAGNIFICO E DE VERTÙ ACCOMPAGNATO SIGNORE

BUFFILO DE LO IUDICE NOBILISSIMO PARTENOPEO.

 

ESORDIO

 

          Reducome a memoria, generoso e magnanimo Buffilo, che tu non sulo fusti principio de ’l mio adormito ingegno svegliare, ma potissima accagione de farmi quasi, scrivendo, immortale tra’ mortali cognoscere e connumerare. Per che, avendo io in questa postrema parte del mio Novellino de la vertuosissima gratitudine trattato, mi pare assai debita cosa che, de’ frutti colti dal tuo fertile iardino a te grato mostrandomi, al numero degli ingrati non possa del tutto essere ascritto. Pigliarai adunque in sì longa assenzia questa mia ultima novella de vertuosi ultramontani gesti fabricata, a tale che tu, che de nobilissimo partenopeo voluntario ultramontano ti sei fatto, con alcuno ocio leggendola, te fia accagione de farte de lo da te un tempo tanto amato Masuccio alquanto recordare. Vale.

 

narrazione

 

          Cercando ultimamente tra’ vertuosi gesti, de prossimo me è già stato da un nobile ultramontano per autentico racontato, che è buon tempo passato, che in Toleto, cità notevile de Castiglia, fu un cavaliero d’antiqua e generosa fameglia, chiamato messer Piero Lopes d’Ayala; il quale avendo un suo unico figliolo multo ligiadro e bello e de gran core, Ariete nominato, como de’ ioveni sòle spesso, avvenne che con altri suoi compagni con non ordenato proposito si abbattì in una notturna zuffa, ove convenendoli menare le mano, si retrovò avere un nobilissimo iovene, criato e faorito del re, de sua mano già morto. Per il che porgendoli multo più timore l’ira del re che la qualità del non voluntario caso gli permettesse insurgere a la sua difesa, non volendosi a sì estremo de fortuna ponere, per ultimo partito già prise in altri regni andare a trovare sua ventura; e dal patre, con dui cavalli e poco famegli e quelli dinari che da la pressa gli furon conceduti avere, senza saper dove s’andasse, tolse conviato, e si partì.

          E sentendo che in nel reame de Francia mortal guerra si faceva tra loro e l’ingrisi, prepuose del tutto ivi si condurre, per possere de sua vertù esperienzia fare; e ne l’oste del re de Francia giunto, como volse la sua sorte, se acconciò per uomo d’arme con il conte d’Armignaca, che parente del re e generale capitanio de l’esercito era. Del quale avuti quelli pochi dinari che da la sua povera condutta gli erano toccati, con li portati insiemi lo men male che possette postosi in arnesi, s’incominciò sì fiera e vertuosamente ad operare, cossì ne le folte e sanguinose battaglie como ne l’espugnare de cità e castelle e in ogne altra cosa che a la militare disciplina se requedeva, che in manera tale accrebbe la sua laudevole fama, che non meno a li francesi esempio de sua vertù e prodezza donava, che agli inimici e timore e continua fuga si donasse. Per la cui accagione non sulo in tanta gracia del suo capitanio venne, che un altro sé lo estimava, ma l’amore del re in lui augmentò, che de’ primi onorati e faoriti de tutto il suo potentissimo esercito era da lui; per il che cavaliero e maestro del campo con grandissimo onore fattolo, e de condutta e de provisione mirabilemente cresciutoli, in tanta estimazione dal re era tenuto, che li parea che né inimici in battaglia né avversarie fortezze se potessero o sapessero senza ’l suo Ariete né vincere né debellare.

          E in sì fatta altura e gloria per propria vertù acquistata dimorando, avvicinato già il verno, il re, per la; stagione che ’l rechiedeva, a le usate stancie le sue gente redusse, e lui con la maiore parte de’ suoi commilitoni e cavalieri e con il novo inmiliciato a Parigi se ne venne. Dopo alcuni dì, volendo fare de l’avuta vittoria alcuna demostrazione d’allegrezza, mandò quivi a convocare gran parte de’ suoi baroni, che con loro donne insiemi a l’apprestata festa ne venessero; tra’ quali de’ primi, onorevolmente accompagnato, il conte d’Armignaca con la sua unica figlia vi venne. Ed essendo la lieta e suntuosa festa incominciata, e per multi dì con generale piacere continuata, avvenne che como la figliola del ditto conte tra l’altre de senno e de bellezza la palma portava, cossì ne l’eleggere d’uno valoroso amante volse il suo ingegno demostrare; e avendo viste e considerate, con la gioventù e bellezza insiemi, le vertù e mirabile fama de l’ispano cavaliero, sì fieramente de lui s’innamorò, che qual ora il dì non lo vidia o de lui non sentia ragionare, la notte non arìa possuto senza grandissima noia e inquiete d’animo trapassare. E perché non avea cui cautamente de tanta fiera passione si fidare, con multi diversi e occulti e quasi manifesti signi gli fe’ intendere de lui tutta se struggere e consumare; lo che da lui, che espertissimo ne l’amorose battaglie era, facelmente inteso, ancora che bella a maraviglia li paresse, nondemeno, avendo negli occhi de la fronte de continuo scolpiti li recevuti beneficii dal signore suo patre, prepuose in tutto a quelli de l’amante [se refutare], a ciò ogne e presente e futura sensualità con perpetuo esilio discacciare. E in tale vertuosa diliberazione firmatosi, con mirabile arte de continuo fingea la passionata guatatura e gli altri vaghiggiamenti de la innamorata donna non intendere, per il che de raddo pianto e dolore ogne dì li dava de novo accagione; e tale ora poco provisto e tale crodelissimo estimandolo, con seco medesma diliberò con più sicuro e curto camino farlo a le palustre d’amore voluntario venire; e prisa la carta, una littera li scrisse sì ornata e ancora de tanta passione fabricata, che non che ’l nobile spirito de l’amato giovene, ma un core de marmo avrìa a pietà commosso, termenando il suo elegante dire in uno, che o la gran sua [passione satisfare], o violente morte avea per ultimo supplicio già eletta; e quella serrata, ad un piccolo fantino suo cameraro datala, l’impuose a cui e in quale manera la dovea dare.

          Il misso che de tenera età e de ingegno maturo era, estimando in quella non si possereno se non cose de cattiva natura trattare, cambiato l’ordene, al conte suo signore prestissimo se n’andò, e de la littera e l’ambasciata li fe’ presente; dal quale prisa e letta, e ’l disordenato e biasmevole appitito de sua unica figliola inteso, quanto e quale fusse il suo fiero e mai simile gostato dolore, ciascuno nobele core, de vilità e infamia inimico, ne porrà dare iudicio. E intorno a sì duro partito avendo varie e diverse cose trascorse, como a la condigna punizione de la scelerata figliola potesse cautamente vinire, e prima che a nissuno diliberato pensiero si fusse affitto, prepuose, como la malignità de quella ultra il suo credere con intollerabile dolore [avea] cognosciuta, cossì de la vertù e finezza del buon cavaliero ultima esperiencia vedere, e secundo le cose procedeano si gubernare; e cautamente reserrata la littera, al caro paggio rendutala, l’impuose che con l’ordene da la donna datoli a messere Ariete la portasse, dal quale recoverata resposta, a lui la retornasse. Il che con diligenzia fatto, fu dal cavaliero benignamente recevuta, e de quella letto il tinore, ancora che dal primo assalto insino allora quanto de bene o de male gliene possea sequire avesse con discreta considerazione esaminato, pur con incommutabile preposito diliberò sulo la vertù avere de continuo firmo per obietto; e de quella forte armato, la carta prise, e dopo che a le parti de sua littera con onestà grande ebbe acconciamente resposto, li concludea che prima ogne natura de violente morte più presto [avrìa] eletta, che lo onore del suo signore conte né con fatti né con pensiero offeso, o in parte alcuna maculato. Nondemeno, de’ pravi e naturali costumi del vile femineo sesso dubitando, non la volse del tutto esasperare, atteso che, quando tale gran maestre si vedeno da lor amanti refutate e schernite, soglieno con tale rabia de fiere e mortale botte donare, ma con qualche fredda speranza, e impossibile a reuscire, la confortare: e ciò fu che se a lei dava il core con il suo patre medesmo, e non con altro mezzo, ottenere averlo per sposo, como che a bastanza cognoscesse la disgualanza de loro sorte non il consentire, con quello sulo se avrìa il suo disiderio possuto satisfare; altramente si togliesse del tutto dal capo tale fantasia, ché a li recevuti onori e comodi dal patre pensando, niuna suverchia bellezza, né condicione de grandi stato, né quantità de tesori sarìano bastevoli la sua vertù né multo né poco amacchiare. E quella serrata, al savio fantino datala, con non piccoli travagli e inquiete d’animo, pinsieri e timore, aspettava a che luoco de mala qualità devesse reuscire.

          Il paggio la resposta al signore gli retornò; e da lui con sagacità intesa, non fu tanto né sì fiero il primero conceputo sdegno e interno dolore per lui priso, che per la supravenuta de la cognosciuta vertù del da lui tanto amato cavaliero non fusse [il piacere] maiore; e in manera tale e tanta forza vince, che non sulo de memorarlo il fe’ bramoso restarlo, ma dal petto ogne rigida diliberata punizione cacciargli, e verso l’amata figliola benigno e pio, clemente e liberale farlo divinire. E in tale laudevole pensiero firmatosi, senza parola né con la figliola né con altri farene, rattissimo al re se n’andò; e dopo che ’l fatto como era dal principo insino a la fine successo, con la sua nova diliberazione insiemi, gli ebbe intieramente racontato, de gracia gli chiese che ’l parere suo, col volere parimente insiemi, benignamente gli scoprisse. Il re che savio e prodentissimo principe era, non gli parve che la defettiva natura de femene avesse cosa alcuna nova o strana adoperata; ma se maravigliò forte, e, quasi fuor de sé remasto, de la gran costanzia e fortezza d’animo del cavaliero con tanta mirabele esperienza demostrata, de maiore eccellenzia le sue vertù e condicione estimando, che per adietro estimate avea. E dopo che insiemi ebbero supra de ciò multe e diverse cose trascorse, gli persuase e comandò che la sua ultima e laudevole diliberazione fusse senz’altro intervallo ad intiero effetto mandata; e per il cavaliero mandato, e a loro de contenente venuto, e in camera tutti tre serratisi, il re cossì cominciò a dire:

          — Carissimo nostro Ariete, avendone, dal principio che sotto la protezione del conte a servire ne vinisti, gran parte de tua vertù corporale con tanta animosità, ordene e prodenza, e con diverse e memorivole operazione demostrata, non te restava altro, a farete per unico al mundo intiero e perfetto cognoscere, se non la fortezza occulta e sincera vertù de l’animo tuo ne demostrare; quale avendo tu e l’una e l’altra con tanta approvata esperienza fatta intendere, ultre che in perpetuo con quanto tenemo ne hai obligati, ne pare che non sulo dal dovere e da la onestà ne sia concieso, ma da le tue immortale vertù, e ne la guerra e ne la pace usate, siamo forzati a farte guidardone tale, che da’ presenti e da’ posteri sia nostra gratitudine commendata, e tu per esempio de’ vertuosi con eterna memoria celebrato.

          E ciò ditto, dopo che quanto per la littera de la figliola del conte e per la sua era stato e preposto e resposto, e ogne altra cosa supra de ciò per loro intesa gli ebbe pontalmente racontata, gli disse:

          — Como che nui con il conte insiemi abbiamo ottimamente inteso e cognosciuto che l’ultimo partito de la toccata parentela, che a la donna per finale resposta donasti, non d’altro che da timore, per non lassarla del tutto isdignata, fu causata, como colui che, per la non piccola disgualanza del sangue che nol permetteva, cognoscivi impossibile a reuscire; nondemeno, se la natura nobele e la fortuna ricco como lei te avesse produtto, con l’altre tue digne parti accompagnato, multo maiore donna che lei per isposa serìa permessa. Dunque, avendo tu negli oportuni tempi a nui gran parte de l’avuta vittoria e al nostro multo amato conte tutto lo onore ad un tratto donato, tra nui insiemi è con decreto incommutabile firmato, per recompensa de tue tanto celebrate vertù, a tutti gli ditti mancamenti satisfacendo, la illustre e ligiadra dammicella, como lei unicamente disidera e tu per impossibile tenisti, per muglie te sia conciesa.

          E dato fine al suo parlare, dopo che ’l conte con assai ornate parole quello ebbe intieramente confirmato, per tenerezza quasi lacrimando lo abbracciò e basciò, e per genero e unico figliolo il battizzò.

          Il prodente cavaliero non meno ammirato che contento de tanta impensata felicità remasto, non gli occorse altra resposta si non:

          — Signore mio, quantunque chiaro cognosca che l’autorità de sua maiestà grandi e la vertù del conte, mio antiquo signore e novo patre, si estende a tanto che in maiore stato, onore e gloria reporre me potrestivi, lo cognoscimento de me stesso have in sé tanta forza, che, como il renderve de debite gracie lo esprimere non me è concieso, cossì lo accettare de tanto eccelso luoco non me pare che da niuna onestà o dovere me debbia essere permesso; e però a la discreta considerazione de tua maiestà e de sua signoria se remanga, e a l’uno e a l’altro mancamento supplendo satisfare; e io né da la fortuna né da veruna mia operazione, se non da la benignità de tua maiestà, non meritato ma per liberalità donato tenendolo, per tuo recomperato servo e del conte minimo servo in eterno m’appellarò.

          E al re la mano e ’l pede basciato, de più ultre e intorno a ciò parlare se restarno. Il re, per non porre il fatto in longo, anzi per mandarlo con celerità ad intiero compimento, comandò subito che ’l sequente dì al suo regale palagio suntuosa e grandissima festa fusse apparicchiata; e cossì fu fatto. Dove raunata la gran caterva de baroni e cavalieri, de donne assai e d’altre nobele gente, senza né per la doncella né per altri de ciò l’accagione sentirese, como il re volse, fu la lieta festa cominciata. Nel colmo de la quale fatta la figliola del conte vinire, non meno de natura che de arte fatta bella, in manera che de non altro che lei mirare dava a ciascuno accagione, dopo che dagli araldi fu messere Ariete per generale capitanio de l’esercito e per conte de Foes bannito e devulgato, per il contato che senza signore era remasto, in tanto memorevole spettaculo fe’ la gintil dammicella dal novello conte per muglie sposare; per la cui accagione fu la raduppiata festa continuata, e l’allegrezza de ciascuno fatta maiore. E non dopo multo, saputose de tale novo accidente da varii l’accagione, il re e ’l conte, la donna e ’l cavaliero fuorno con diverse lode, ognuno da per sé e tutti insiemi, mirabelemente da ciascuno commendati. Fornita per multi dì la gran festa, al conte parve tempo con gli novelli sposi al suo dominio se retornare, e dal re con suntuosi doni conviato avuto, se parterno; e a casa iunti, e da’ sudditi con grandissimi augurii, feste e triunfi racolti, ognuno de tale digno avvenimento se tenea ultre modo contente. Per il che il capitanio da la pietà paterna e ossequio filiale astretto, gli parve messere Lopes suo patre a tanta altura e gloria chiamare; e per lui onorevole compagnia mandata, e ivi con convenevole tempo condutto, quanta e quale fusse la lietezza e allegrezza, d’amore e carità repiena, tra tutti recomenzata e fatta maiore, ciascuno il può considerare. Quali in tanta felicità lassando, de loro scrivere e del mio più ultre novellare del tutto me remango.

 

MASUCCIO

 

          Per esserno ogge le vertù prostrate a terra, e dagli prìncipi poco o niente appregiate, e per premio se sogliono de ingratitudine remonerare, me pare che, sentendo alcuna antiqua gratitudine racontare, non sulo per vertuosa ma per cosa supranaturale puote, e meritamente, essere ascritta e annotata; sì como quella che per il re de Francia e per il conte d’Armignaca verso il buon cavaliero castigliano con gli fruttuosi effetti demostrata ne può rendere aperto testimonio. Ma perché gli prestati e recevuti beneficii son de la secunda vertù principio, e a la gratitudine apreno e demostrano il camino, iudico che ’l cominciatore deve con maiore lode essere esaltato; po’ a la discreta considerazione de cui legge e ascolta se remanga, quale de l’usate vertù se deve a l’altra preporre e preferire. Puro non se può tacere che ancora che al cavaliero d’essere grato gli fusse donata accagione, nondemeno mirabele fu la esperienza de sua fortezza e costanzia demostrata, quale, con la propria vertù vencendo se stesso, sì alto invito refutando, al conte suo signore tutto lo onore un tratto volse donare, como e de l’uno e de l’altro è stato a bastanza parlato. Tuttavia essendo omai tempo de a la mia inquietata mente dare alcun reposo per a le promisse cinquanta novelle avere dato ultimo fine, sulo me resta al mio multo amato Novellino dare conviato; lo che brevemente esequito, me forzarò per il curso naufragio al porto l’ancore fermare, e degli selvani e senza pecore pastori imitare li custumi. Vale.

 

PARLAMENTO DE LO AUTORE AL LIBRO SUO

 

          Essendo la Dio mercè a la fine de la cominciata fatiga già venuto, il mio unico e tanto aspettato disiderio ad ultimo e lieto effetto mandato, me pare omai tempo e assai devuta cosa mandare te, mio umile libretto, nel cospetto de collei, per la quale tanto al mio fragele intelletto quasi insupportabile lavore ho già priso. E sappi de certo, Novellino mio, che lei non sulo tra le umane madonne d’ogne singulare vertù è illustrata, ma con la deità celeste può, e meritamente, essere accompagnata. E però prima da me te sia imposto che, con ogne umilità che tu potrai, dinanzi gli te representa, e basciata che l’arai la sua candida e formosissima mano, te medesmo senz’altro fido latore da mia parte gli te dona, e dopo che ne la sua mercè e piedi me arai racomandato, fa che non te esca de mente de singulare gracia gli chiedere, che te como a minimo duono a schivo non prenda. Ma se per aventura tu cognosci che per la tua poca presenzia con isdignosi vulto te recevesse, rammentale ch’io non dubito lei avere tra le dignissime greche istorie già letto, como Xerxes, gloriosissimo re de multi regni e potentissimo de gente e de tesori, un dì cavalcando per lo suo dominio, accompagnato da multi de’ suoi baroni, como a sì gran principe se rechiedeva, essendo al vallicare d’un fiume, a la riva del quale era un agricola che con l’altrui boi sulcava il non suo terreno, al quale fu detto: “Ecco il re!”, il poveretto, sapendo che de custume antiquato già era, che ognuno a la prima vista del re gli dovesse fare alcuna oblazione, quale poco e quale multo, secundo era il potere de ciascuno; e lui vedendosi senza modo alcuno possere, como era già debito, il re in signo de maioranza onorare, compunto subito da mirabele tenerezza procedente dal centro del suo core, lassati i boi, con frettolosi passi se bottò dentro il fiume in mezzo del quale vide il re, e con le mano ionte pigliò un pugno d’acqua, e andò verso lui e gli disse:

          — Signore mio, in me non è oro né argento né niun’altra facultà da posserete, como è già debito, reverire e como a re mio signore cognoscere, si non de questa poca acqua, quale ne le mei faticose mano già vidi: prindila dunque, te supplico, con quella purità de core con la quale te la dono, e sappi del certo che, se da lieta fortuna me fusse stato concieso, como se te conviene, te averìa fatta la debita oblazione.

          Mirabile fu la umanità del re, adoperando gesto digno de vero e naturale gran signore; e non isdegnò inclinare la sua dilicatissima bocca ne le lutulente e rozze mano del villico coltivatore de la terra, a bere de quella acqua, non avendo respetto a la qualità del piccolo duono, ma sulo al puro affetto del donatore; e del tenero suo amore rengraziatolo, cavalcò ultre e andòsene con Dio. Dunque tornato che le arai a memoria il detto esempio per autorità qui prodotto, gli torna a dire che, quantunque io vero cognosca che a la grandezza del suo magnanimo e pirigrino spirito ogne suntuoso duono serebbe scarso, nondemeno se digne non la poca tua qualità ma la grandissima affezione de colui che a donare gli te manda prendere ne debba; e con quella umanità che sua maiestà suole le piccole cose avere care, e tra ’l ditto numero aggregarte gli piazza, e de Masuccio suo deditissimo scavo per alcun tempo non se ponga in oblio. E perché me persuado che, esequito che abbi a bastanza il supraditto ordene, tu serai da tale serena stella lietamente recevuto, da necessità me pare essere costretto con temperata manera te istruere, como averai tutto ’l tuo vivente con l’altre private gente che te leggeranno da passare.

          E prima voglio che per niuno tempo dibbi presumere de persuadere, pregare o forzare altrui che te debbia leggere, a tale che le longe e non saporose novelle, de le qual tu si’ con male ordene e inornato parlare composto, non dieno, a cui non vuole, fastidio e recrissimento; ma a colloro che voluntarii a leggere te veneranno, con piazevolezza grandi ogne tuo secreto senza risparagno alcuno gli mostra. Puro starai attento, ché de certissimo da traverso usciranno alcuni susurroni, a’ quali da la natura il ben dire è stato interditto, e ’l mordere de’ vertuosi dagli loro medesmi vicii è stata loro ampia facultà conciesa, che me crociaranno de quanto contra la onestà de donne e guasta vita de’ ficti religiosi ho scritto. Novellino mio, fa che nel respondere sei provisto, e con breve e sentenciose parole dirai che quello che de donne ho narrato, como le più de loro a loro medesme possono rendere testimonio, a respetto de quanto con approvatissima verità ne averìa possuto dire, altro non è che a togliere una carafetta d’acqua dal mare maiore. Ma a la partita de’ reprobati religiosi, dove non dubito seranno le botte, fa che senza torbarte respondi, e di’ che tu non cognosci che niuna ragione voglia, né d’alcuna onestà sia concieso, che colloro che non usano né vita né custumi de religiosi possano o debbiano per religiosi essere tenuti né chiamati; però che, commettendo tante evidente sceleragine e coronate rebalderie, quante ne lo passato hanno commesse e ogne dì manifestamente de novo commetteno, non altramente che per lupi rapaci, anzi per soldati del gran diavolo le potemo, e meritamente, ascrivere e chiamare. E però se contra de quisti tali ho sì largamente e non anco a bastanza parlato, niuno me porrà dignamente repreendere; e certo si io avesse creduto essere stato inteso, mai religiosi, si non ministri de Satanasso, de loro scrivendo, le averìa appellati.

          Stéanosi, dunque, gli veri e perfetti religiosi ne le loro solitudine sante e approvate religione, però che contra de loro io non ho parlato, né presumerìa de parlare; anzi dirai ch’io ho ditto, dico e confesso, che colloro che sulo attendeno a lo intiero servicio de Dio e a la pura e dilicatissima celebrazione del culto divino, fuggendo il mundo con le sue dolose insidie, donde voluntarii se sono assentati, non sulo como religiosi deveno essere onorati, amati e recevuti, ma como beati e santi e in vita e in morte da nui meritano essere commendati, tenuti e reputati, atteso che con infallibile verità se può dire loro essere diamantine colonne e perpetuo sostinimento de la nostra cristiana religione e fede. E questo baste per finale resposta a colloro che discosti con avvenenati teli me balestraranno. E se puro replicare volessero ch’io, non essendo loro iusto iodece, non m’aspettare lo cognoscere de’ loro vicii né fare tale distinzione da li buoni a li rei, e che deve bastare a me quello che a tutto ’l resto de’ viventi è bastato e basta, firmo, Novellino mio, e con secortà respondi, che essendono alcune sceleragine de quisti tali laceraturi e destrutturi de religione venute in publica voce del vulgo, a tale che altrui non creda che tutti sono d’una pece amacchiati, me pare che da Dio e da la natura, da’ laudivoli custumi e dagli buoni medesmi me sia concieso, con la ditta distinzione esaltare gli perfetti e dannare gli gattivi scelerati, sì como chiaramente a la fine de la tua prima parte, con verità escusandome, ho a bastanza parlato. A le quale vere ragione non possendo né sapendo respondere, tale volta averanno recurso al dire de vile femenelle, che dicono: “Ne vederanno sentenzia al dì del iudicio”. Se puro con tale biastema me credessero percuotere, fa che, senza pensarvi, loro respondi ch’io dal canto mio nonne cerco né voglio più longo tempo che de tale generale iudicio, dove tutti seremo del bene e del male poniti e commendati.

          Dopo costoro, estimo che saranno altri de assai meno mala sorte, che diranno che de cinquanta novelle, de le quale io te ho ordenato, la maiore parte sono faole e buscìe; a’ quale te piazza nondemeno li dire che loro se delongano multo de la verità, e invoca l’altissimo Dio per testimonio che tutte sono verisimile istorie e le più negli nostri moderni tempi travenute; e quelle che d’antique veste e de canuta barba sono ornate, da persone de grandissima autorità me sono state per istorie, in contando, approvate.

          E cossì opponendo e respondendo a tanti e a sì diversi argomenti a tue conclusione fatti, sei al tuo Masuccio ottimo ed eterno defensore e scuto. Però non te maravigliare se a sì alto viaggio povero de vistimente e de lacrime amacchiato te mando; atteso che a te non deve essere inoto che ’l novo e fiero accidente, l’acerbo e sanguinoso caso, con questo insiemi, il mio perpetuo dolore e continuo lacrimare ha causato. Dunque, con cambiata vista e novi sembianti, piangendo, te pàrti, e fin che si’ iunto e ’l datote ordene arai fornito, de piangere non restare, dopo che al tuo conditore il sole è ecclissato, oscurata la luna, e gli cieli, pianete e stelle de dare loro eterni lumi sono restati. Morto è lo ligiadro e bello cavaliero, il pirigrino e magnanimo signore, lo serenissimo Roberto principe salernitano, lo sapientissimo e grandi ammiraglio del nostro denigrato e viduo reame! Per il quale con approvata verità, puro piangendo, porai [dire]:

          “È la vertuosa liberalità con perpetuo esilio discacciata; questa dispiatata e cruda morte con violente rapina ha la carità estinta, lo refrigerio de’ poveri mancato, e lo presidio de indigenti finito, e finalmente le porte del generale albergo de’ gintiluomini in eterno serrate”.

          Piangi, Novellino mio, ché è già morto colui per cui le littere, e latine e materne, erano celebrate, per cui la militare disciplina e con opere e con consiglio, cossì negli bellicosi esercicii como ne le regale palustre e suntuosi giochi de Marte, con ordene grandi era adoperata, e per cui gli feroci e timidi animali, venando, erano molestati, e tante nature de ucelli inquietati. Esclama, dunque, povero Novellino, che tale eccelso principe con la sua morte ha uccisa la iusticia, che con tanta integrità la facea ministrare; per essa è la verità ascosa e ogne fiorita vertù prostrata a terra; e con [la più] alta voce che te retrovi, chiama:

          “O glorioso principe, dove è la tua ornata e sentenciosa eloquenzia, dove è il mirabile ingegno, e il gran vedere e lo ottimo iudicio e perfetto consiglio, che, cossì ne le importante e publice como ne le minime private cose, con tanta prodencia e secundo la oportunità lo rechiedeva, con iusta bilanza donavi?”.

          E però piangendo, dolente mio criato, a’ presenti e a’ posteri de dire non restare che, de tale e tanta oscura e repentina morte essendo a me mancata la vita, non te posso, como avea già diliberato, d’altre assai dilicature e notivoli parti accompagnare. Essa dunque improvista e quasi violente morte me ha voluntario fatta la mia lira distemperare e ’l stracco calamo a Mercurio votato innanzi il prepostato termene del tutto offirire, e in manera tale che, a me medesmo perpetuo scilencio imponendo, voglio che de cose liete piacevole e giocunde non me sia, insino che l’amara vita me dura, mai più lo scrivere, concieso. E cossì dal tuo Masuccio lacrimoso e mesto, lassandolo de nero vestito, togli il tuo ultimo conviato. Vale.


 
© Belpaese2000.  Created 03.10.2004

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