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LORENZO DE’ MEDICI RIME IN FORMA DI BALLATA |
Edizione di riferimento: L. de’ Medici Tutte le opere, a cura di P. Orvieto, Roma, Salerno 1992. |
CANZONI A BALLO
I
Benché io rida, balli e canti, e sì lieto paia in vista, l’alma è pure afflitta e trista, e sta sempre in doglia e in pianti.
Tanto tempo io ho seguìto un mio sol gentil signore: tanto li son drieto gito, sì come ha voluto Amore: hogli dato l’alma e il core, stato son fedel suggetto; or, non già per mio difetto, son tra’ più infelici amanti.
Io non ne do colpa alcuna a chi è tutto il mio bene; sol la mia aspra fortuna è cagion di tante pene: da lei ogni mio mal viene; ma facci quel che la vuole: non andrò drieto a parole, ma terrò nel cor diamanti.
II
Non mi dolgo di te, né di me stessi, ché so mi aiuteresti, stu potessi.
Dolgomi ben della fortuna mia, che impedisce la tua e la mia voglia: dolgomi dell’invidia e gelosia, che di dolcezza tal mi priva e spoglia; e della mia disgrazia, che par voglia che tanta pena e tanto male avessi.
Dolgomi e dorrò sempre del sospetto, quale interrompe i dolci pensier’ miei: dolgomi, perché veggo n’hai dispetto, ché so vorresti quel che anch’io vorrei. Questo già mai pensato non arei, che gelosia tanto mal mi facessi.
Sia maladetto chi mi to’ il mio bene e chi guerra mi fa sanza cagione; e la cagione onde tanto mal viene, e chi ha tanta poca discrezione: sia maladetto chi ci s’interpone, e chi vorre’ che ’l mio mal non avessi.
Ma sì costante e fermo è il mio amore (e così di te credo, o donna bella), che forza non arà pena o dolore o gelosia, che dal mio cor divella il ben ch’io t’ho voluto, o chiara stella: ma tuo sarò, ché per signor t’elessi.
Donna, io ti priego che tu sia costante, e lascia fare e dire, e tempo aspetta: ché ancor sarai col tuo fedele amante, sì come Amor vorrà, lieta e soletta: di tanto strazio ancor vedrai vendetta, se già Morte i disegni non rompessi.
III
Vivo contento e stommi lieto in pace, perché così al mio caro signor piace.
Vuol ch’io sia lieto più che alcuno amante la donna mia e ’l mio gentil signore, e cacciate ha le pene tutte quante, né vuol ch’io senta più pianto o dolore: e di tanta dolcezza ha pieno il core, ch’è per morir in mezzo alla sua pace.
Non fece Amor alcun mai tanto lieto, quanto son io, e d’allegrezza pieno; e s’io il tenessi nel mio cor secreto, per la troppa dolcezza verre’ meno. Non fu già mai il ciel lieto e sereno, quanto il cor a cui troppo il suo ben piace.
Fuggan da me tutti i sospiri e ’ pianti, fugga dal core ogni maninconia; felice e lieto par fra li altri amanti, ché così vuol la bella donna mia: la qual, poich’è verso il mio cor sì pia, la vita per servirla sol mi piace.
S’io non temessi che la ria Fortuna, forse invidiosa a mia troppa dolcezza, color mutassi e diventassi bruna, sare’ certo la mia troppa allegrezza: poiché la fonte d’ogni gentilezza mi fa contento stare in tanta pace.
IV
Con tuo promesse e tuo false parole, con falsi risi e con vago sembiante, donna, menato hai il tuo fedel amante, sanz’altro fare; onde m’incresce e duole.
Io ho perduto drieto a tua bellezza già tanti passi per quella speranza, la qual mi die’ la tua gran gentilezza e la beltà, che qualunque altra avanza: fida’mi in lei e nella mia costanza, ma insino a qui non ho se non parole.
Di tempo in tempo già tenuto m’hai tanto, ch’io posso annoverar molt’anni; ed aspettavo pur di tanti guai ristorar mi volessi e tanti affanni; e conosco or che mi dileggi e inganni: la fede mia non vuol da te parole.
Donna, stu m’ami, come già m’hai detto, fa’ ch’io ne veggia qualche esperienzia: deh! non mi tener più in cotanto aspetto, ché forse non arò poi pazienzia: se vuoi usare in verso me clemenzia, non indugiare e non mi dar parole.
Questo tenermi come m’hai tenuto pensa, donna, che l’è la morte mia. Il tuo indugiare è pur tempo perduto: poiché tu sai quel che ’l mio cor disia, deh! fatti alquanto più benigna e pia; tra’mi d’impaccio, e non mi dar parole.
Va’, canzonetta, e priega il mio signore che non mi tenga più in dubbio sospeso; di’ che mi mostri una volta il suo core, e s’è perduto il tempo ch’io ho speso: come io arò il suo pensiero inteso, prendo partito, e non vo’ più parole.
V
Prenda pietà ciascun della mia doglia, giovane donne, e sia chiunche si voglia.
Sempre servito io ho con pura fede una la qual credea fussi pietosa e che dovessi aver di me merzede, e non, com’è, altera e disdegnosa: or m’ho perduto il tempo ed ogni cosa, ché s’è rivolta come al vento foglia.
Oh, lasso a me!, ch’io non credetti mai ch’e suoi occhi leggiadri e rilucenti fusser cagione a me di tanti guai, di tanti pianti e di tanti lamenti: ah! crudo Amore, or come gliel consenti? Di tanta crudeltà suo core spoglia.
Oh, lasso a me!, questo non è quel merto ch’io aspettava di mia fede intera; questo non è quel che mi fu offerto; questo ne’ patti nostri, Amor, non era: folle è colui che in tua promessa spera, e sotto quella vive in pianti e in doglia.
Cantato in parte v’ho la doglia mia, che vi debba aver mosso âver pietate; e quanto afflitta la mia vita sia, perché di me compassione abbiate: e priego Amor che più felici siate, e vi contenti d’ogni vostra voglia.
VI
So con altri ti diletti, né di me udir vuo’ nulla: tu hai il torto inver, fanciulla, se ’l mio amor tu non accetti.
Certamente tu hai il torto non accettare il mio core; dammi almen qualche conforto, non sprezzar così il mio amore; perché m’è troppo dolore pensar ch’altri abbi diletto, io ti sia così in dispetto: per disutil tu mi metti.
Forse ancor se mi provassi, donna, e’ ti verre’ disio di far ch’altri non mi passi: piacere’ti l’amor mio, e sarei il buono e ’l bello io; donna, deh!, non mi spregiare, ch’io saprei così ben fare, come quel ch’è tra li eletti.
Tu hai il torto a non mi udire, ché ascoltar si vuol ciascuno; tu non sai quel ch’io vo’ dire, e son pur me’ duo che uno. Scusami s’io t’importuno: ché, se tu ne farai pruova (io so quanto il servir giova), non vorrai che più aspetti.
Donna, il dico per tuo bene se tu vuoi esser stimata, ch’altri stimi si conviene: chi non ama, non è amata. Chi non ode una imbasciata certo ell’è troppo crudele; io son pure un tuo fedele; il torto hai, se non m’accetti.
VII
Chi tempo aspetta, assai tempo si strugge e ’l tempo non aspetta, ma via fugge.
La bella gioventù già mai non torna, né ’l tempo perso già mai riede indrieto, però chi ha ’l bel tempo e pur soggiorna, non arà mai al mondo tempo lieto; ma l’animo gentile e ben discreto dispensa il tempo, mentre che via fugge.
Oh quante cose in gioventù si prezza! Quanto son belli i fiori in primavera! Ma, quando vien la disutil vecchiezza e che altro che mal più non si spera, conosce il perso dì quando è già sera quel che ’l tempo aspettando pur si strugge.
Io credo che non sia maggior dolore che del tempo perduto a sua cagione: questo è quel mal che affligge e passa il core, questo è quel mal che si piange a ragione; questo a ciascun debbe essere uno sprone di usare il tempo ben, che vola e fugge.
Però, donne gentil, giovani adorni, che vi state a cantare in questo loco, spendete lietamente i vostri giorni, ché giovinezza passa a poco a poco: io ve ne priego per quel dolce foco che ciascun cor gentile incende e strugge.
VIII
Io priego Iddio che tutti i ma’ parlanti facci star sempre in gran dolori e pianti.
E priego voi, o gentil’ donne e belle, che non facciate stima di parole; però che chi tien conto di novelle, d’ogni piacer privare alfin si suole; onestamente e liete star si vuole, vivere in gioie ed in piaceri e in canti.
Deh! lasciam dire a chi vorrà mal dire, e non guardiamo al lor tristo parlare: allegre si vuol vivere e morire, mentre che in giovinezza abbiamo a stare; e chi vorrà di noi mal favellare, il cor per troppa invidia se gli schianti.
Canzona, truova ciascheduno amante e le donne leggiadre alte e gentile: ricorda lor che ciascun sia costante al suo amor coll’animo virile; perché il temer parole è così vile, né fu usanza mai de’ veri amanti.
IX
Crudel Fortuna, a che condotto m’hai? Peggio non mi puo’ far che quel che fai.
Tu ti mostrasti già felice e bella, tu mi mostrasti il tuo volto sereno; dicesti a me che volevi esser quella, la qual facessi ogni mio disio pieno, poi ti mutasti in meno ch’un baleno, e mi facesti pien d’affanni e guai.
Promettestimi già che un bel Sole fare’ per sempre la mia vita lieta; e nel principio dolci atti e parole di speranza facean l’alma quieta: e m’hai dimostro alfin che un cor di prieta amato io ho, e dileggiato m’hai.
Io non credevo al tuo falso sembiante, e ben ti conoscevo in altre cose; ma de’ begli occhi lo splendor prestante e le fattezze sì belle e vezzose, fecion che l’alma mia speranza pose in tue promesse: e morte n’acquistai.
Tu m’accendesti al core una speranza, che mi facea veder quel che non era: lasso!, io credetti che maggior leanza regnassi in te: dunque folle è chi spera; perché ho veduto poi in qual maniera schernito al tutto e dileggiato m’hai.
Va’, canzonetta; e pregherai colei, la qual può farmi vivere e morire, che alfin vogli esaudire i prieghi miei; digli che m’apra un tratto il suo disire. E, s’ella vuol le mie ragioni udire, Fortuna più crudel non fia già mai.
X
Amor, poi ch’io lasciai tuo gentil regno, la vita mia è sol dispetto e sdegno.
Poi che la donna mia per sua durezza mostrò d’avere a sdegno il mio servire, la vita mia sanza la sua bellezza vita stata non è, ma un morire. Amor libero e sciolto lasciomm’ire: d’allora in qua ebbi la vita a sdegno.
Amar non puossi chi non ama altrui; non ha amante chi non sente amore; e, se in un tempo innamorato fui, non conoscevo ancor il mio errore; ma, come se n’accorse poi il mio core, non volse con Amor pigliare sdegno.
A mal mio grado mi parti’ da quella ch’io più amavo che la vita mia; e da poi in qua mia vita meschinella è stata sempre, e così sempre fia: d’Amor mi dolgo e di Fortuna ria, ché l’uno e l’altra mostra avermi a sdegno.
Vorrebbe pure il mio cor ritornare al foco ardente, alla fiamma amorosa, ché in questo modo omai non può più stare. Se qualche donna ci fussi pietosa, che accetti questa vita lacrimosa, a lei mi do: ogni altra cosa ho a sdegno.
XI
Ècci egli alcuna in questa compagnia, ch’abbi il mio core o sappi ove si sia?
E’ si partì da una donna bella, per suo durezza, quale amava molto, e, nel tornare a me, nuova fiammella l’accese, e quasi in tutto me l’ha tolto; Amor me lo rendea libero e sciolto; ma, non so come, fu preso tra via.
Li occhi leggiadri e di pietate adorni d’una donna gentil me l’han furato; né credo che già mai a me ritorni, tanto le sue bellezze l’han legato: io l’ho già mille volte richiamato, ma lui di star con lei brama e disia.
Donne gentili, chi di voi mel tiene, gli usi qualche pietà, qualche merzede; e, poiché a voi liberamente viene, con pietà sia pagata la sua fede: già mai si partirà da voi, se vede che li sie fatta buona compagnia.
XII
Donne belle, io ho cercato lungo tempo del mio core. Ringraziato sie tu, Amore, ch’io l’ho pure alfin trovato.
Egli è forse in questo ballo chi il mio cor furato avia: hallo seco, e sempre arallo, mentre fia la vita mia; ella è sì benigna e pia, ch’ell’arà sempre il mio core. Ringraziato sie tu, Amore, ch’io l’ho pure alfin trovato.
Donne belle, io v’ho da dire come il mio cor ritrovai: quand’io me ’l senti’ fuggire, in più luoghi ricercai; poi duo begli occhi guardai, dove ascoso era il mio core. Ringraziato sie tu, Amore, ch’io l’ho pure alfin trovato.
Che si viene a questa ladra, che il mio cor m’ha così tolto? Com’ell’è bella e leggiadra, come porta amor nel volto! Non sia mai il suo cor sciolto, ma sempre arda col mio core. Ringraziato sie tu, Amore, ch’io l’ho pure alfin trovato.
Questa ladra, o Amor, lega, o col furto insieme l’ardi: non udir s’ella ti priega; fa’ che gli occhi non li guardi, ma, se hai saette e dardi, fa’ vendetta del mio core. Ringraziato sie tu, Amore, ch’io l’ho pure alfin trovato.
XIII
Amore, se vuoi tornar drento al mio core, fa’ che torni pietà nel mio signore.
Tu sai perché da te mi son partito, ch’altra cagion non fu se non durezza, avendo io sempre una donna servito che il mio servire e la mia fé non prezza. Se vuoi ch’io torni âmar la sua bellezza, fa’ ch’ella sappi quanto è il tuo valore.
Fa’ ch’ella ami il mio cor, che tanto l’ama; deh!, fa’ ch’ella conosca la mia fede; un tratto sol risponda a chi la chiama: fa’ che drento al suo cor nasca merzede, e vengali pietà, quand’ella vede il fedel servo suo, che per lei more.
Se di pietà facessi un picciol segno, se si rompessi ancor questo adamante, bench’io non sia di tanta grazia degno, più che mai sare’ io forte e costante: e’ non fu mai al mondo alcuno amante, il qual con tanta fé servissi Amore.
Priegoti bene, Amor: quel ch’esser deve sie sanza indugio, perché il tempo vola: tant’è il troppo aspettar molesto e grieve, e ’l tempo ogni pietà ne porta e invola; amato ho sempre ed amerò lei sola, se lei pietate arà del mio dolore.
XIV
Non so che altro paradiso sia, quando amor fussi sanza gelosia.
Quando amor fussi sanza alcun sospetto, lieta saria la vita degli amanti, e ’l cor pien di dolcezza e di diletto, da non aver invidia in cielo a’ santi. Ma, lasso a me, cagion di quanti pianti è questa maladetta gelosia!
Troppo sarebbe il cor contento e lieto, poi ch’Amor fa contenta ogni mia voglia; ma parmi tuttavia mi vegga drieto un che ’l mio ben mi furi, e per sé il toglia: questo pensiero il cor mi priva e spoglia d’ogni dolcezza: ah trista gelosia!
Ma io ho tanta fede, o signor mio, nella tua gentilezza o fedel core, che questo caccia ogni sospetto rio, e so che fia eterno il nostro amore: degno me ne facesti, o car signore, ond’io non ho sospetto o gelosia.
Tu non mi amasti per farmi morire; tu hai sì gentil cor, però non puoi il fedel servo tuo già mai tradire, e farlo disperar so che non vuoi. Il tuo bel viso par mi voglia dire ch’io viva lieto e sanza gelosia.
XV
Io non so qual maggior dispetto sia, che aspettar quel che ’l cor brama e disia.
Ogni ora a chi aspetta pare un anno, e ogni brieve tempo è troppo lungo: color che ’l pruovon, molto ben lo sanno. Io son di quei che dicon: “Ora la giungo”; e, quando ben nascessi come il fungo, mi par che troppo al mio bisogno stia.
Quel ch’io aspetto, e’ me lo par vedere; quel ch’io vorrei, e’ me lo par sentire: s’i’ penso a quel ch’io spero presto avere, parmi vederti lieta a me venire; ma poi per doglia sono in sul morire, ch’io veggio vana ogni speranza mia.
E il core a oncia a oncia si distrugge: pure aspettando io mi consumo ed ardo; e priego il tempo, che sì ratto fugge, che sia al passar via più lento e tardo. E, mentre che il passato indrieto guardo, veggo il presente che se ne va via.
Donna, deh, pon’ rimedio a questo male! Tu non t’avvedi forse, poveretta, che tu se’ a te stessa micidiale, ch’è maggior danno, sendo giovinetta. Abbi compassion di chi aspetta, e della tua bellezza e leggiadria!
XVI
Chi non è innamorato esca di questo ballo, ché faria fallo a stare in sì bel lato.
Se alcuno è qui, che non conosca amore, parta di questo loco; perch’esser non potria mai gentil core chi non sente quel foco. Se alcun ne sente poco, sì le sue fiamme accenda, che ognun lo intenda; e non sarà iscacciato.
Amor in mezzo a questo ballo stia, e chi gli è servo intorno. E, se alcuno ha sospetto o gelosia, non facci qui soggiorno; se non, che arebbe scorno. Ognun ci s’innamori, o esca fuori del loco tanto ornato.
Se alcuna per vergogna si ritiene di non s’innamorare, vergognerassi, s’ella pensa bene, più tosto a non lo fare: non è vergogna amare chi di servirti agogna; saria vergogna chi gli fussi ingrato.
Se alcuna ce ne fussi tanto vile che lasci per paura, pensi bene che un core alto e gentile queste cose non cura. Non ha dato Natura tanta bellezza a voi, acciò che poi sia il tempo male usato.
XVII
Come poss’io cantar con lieto core, s’io non ho grazia più col mio signore?
Io vo’ lasciare canti, balli e feste a questi più felici e lieti amanti, perché il mio cor d’un tal dolor si veste, che a lui conviensi dolorosi pianti. Chi è contento si rallegri e canti, perch’io vo’ pianger sempre a tutte l’ore.
Anch’io fui già contento, come volse Amor, ché ’l mio signor m’amava forte; ma la Fortuna invidiosa volse in tristi pianti ogni mia lieta sorte. Omè, che meglio sare’ suta morte, che aver sì poca grazia con Amore!
Un sol conforto il core sbigottito consola e l’alma in tanto suo dispetto, perch’io ho sempre il mio signor servito con pura fede e sanza alcun difetto: però, s’io muoio a torto, almeno aspetto che, morto ch’io sarò, n’arà dolore.
XVIII
Io ho d’amar dolcezza il mio cor pieno, come Amor vuole, e d’un dolce veneno.
Nessuno è più di me lieto e contento, nessun merta maggior compassione; la dolcezza e ’l dolor, che insieme sento, di rider dammi e sospirar cagione: non può intender sì dolce passione chi non ha questo gentil foco in seno.
Quanto più ha il mio cor quel che disia, quanto più è benigno il mio signore, tanto s’accende più la voglia mia, ché ’l mio ben più mi piace a tutte l’ore: cresce la doglia mia, crescendo amore, né può già mai per tempo venir meno.
Io non provai già mai piacere alcuno sì dolce, com’è dolce la mia pena, né martìr tanto acerbo e importuno, come il piacer che alla morte mi mena; ma morte fia d’ogni dolcezza piena, poi che ’l martìre è sì dolce e ameno.
XIX
Io non mi vo’ scusar s’io seguo Amore, ché gli è usanza d’ogni gentil core.
Con chi sente quel foco, che sento io, non convien fare alcuna escusazione, ché ’l cor di questi è sì gentile e pio, ch’io so che arà di me compassione; con chi non ha sì dolce passione scusa non fo, ché non ha gentil core.
Amore e onestà e gentilezza, a chi misura ben, sono una cosa: parmi perduta in tutto ogni bellezza ch’è posta in donna altera e disdegnosa; chi riprender mi può s’io son pietosa, quanto onestà comporta e gentil core.
Riprenderammi chi ha sì dura mente, che non conosce gli amorosi rai: i’ prego Amor che chi amor non sente nol facci degno di sentirlo mai; ma chi lo serve fedelmente assai, ardali sempre col suo foco il core.
Sanza ragion riprendami chi vuole: se non ha cor gentil, non ho paura; il mio costante amor vane parole mosse da invidia poco stima o cura; disposta son, mentre la vita dura, a seguir sempre sì gentile amore.
XX
Tienmi, Amor, sempre mai stretto e serrato, poiché sì dolcemente m’hai legato.
Intenda bene ogni amorosa donna e ogni altro, che ha il cor costante e caldo: tienmi legato a una sua colonna Amor, ch’è d’alabastro terso e saldo, nudo, misero a me!, come un ribaldo e sanza compagnia sì m’ha lasciato.
Al collo stretta tienmi una catena di madreperla questo mio signore, tanto ch’io posso sospirare a pena, sì serra alla colonna il petto e ’l core. Le man’ mi lego io stesso: oh che dolore è a star sempre così incatenato!
Tienmi le gambe e ciascun piede avvolto di duo catene, e son più grosse assai d’un netto avorio, ch’è candido molto; mi stringon sì, ch’io non mi scosto mai; quel che segue di questo, Amor, tu il sai, perché sei sempre alla presenzia stato.
XXI
In mezzo d’una valle è un boschetto con una fonte piena di diletto.
Di questa fonte surgon sì dolci acque, che chi ne gusta un tratto, altro non chiede: io fui degno gustarne, e sì mi piacque, ch’altro non penso poi, per la mia fede, questa dolcezza ogni altro dolce eccede, pur ch’altri sia a tanto bene eletto.
Già non voglio insegnarvi ov’ella sia, ché qualche animal bruto non v’andassi; son ben contento di mostrar la via, onde, chi vuole andarvi, drizzi i passi. Per duo cammini a questa fonte vassi, chi non volessi far certo tragetto.
Vassi disopra per un gentil monte, che quasi par di bianca neve pieno; truovasi andando dritto verso il fonte da ogni parte un monticello ameno, e in mezzo d’essi un vago e dolce seno, che adombra l’uno e l’altro bel poggetto.
Seguitando il cammin di mano in mano, si passa per un vago monticello, un’erta ch’è sì dolce, che par piano, e ’l poggio è netto, rimunito e bello: nascon poi duo vallette a piè di quello e in mezzo a queste è il loco ch’io v’ho detto.
XXII
E’ convien ti dica il vero una volta, donna mia: benché forse egli è pazzia, pur saprai il mio pensiero.
Tu non sai pigliar partito: tu vorresti e poi non vuoi; poi ti torna l’appetito: servir vuo’mi e non sai poi. Questo giuoco già fra noi, come sai, è stato un pezzo: egli è pur cattivo vezzo non fermare il suo pensiero.
Tu mi mandi una imbasciata che mi tiene un pezzo lieto; poi in un punto sei mutata: ond’io resto tristo e cheto. Tu non hai punto il discreto: sciogli un tratto questo laccio: trai e te e me d’impaccio, ché gli è tempo, a dire il vero.
Tu hai pur tanto indugiato, che se n’è avveduto ognuno; prima, avendomi spacciato, non se ne avvedeva alcuno. Non guardar s’io t’importuno, ch’io tel dico per tuo bene: questo nuoce e a te e a mene, non fermare il tuo pensiero.
Credo che tu sappi a punto che chi quando può non vuole, quando passa poi quel punto, rade volte poter suole. Facciam fatti e non parole, come dee buona maestra. Deh!, sta’ meno alla finestra, e conchiudi a dire il vero.
XXIII
Una donna avea disire con un giovane parlare: tanto seppe alfin ben fare, che li die’ quelle tre lire.
Su ’n un canto di cassone gliel contò la prima volta, ma vi fu tra lor quistione, onde ch’ella a dir s’affolta: «Una parte me n’hai tolta, ma infin nulla arai tu fatto; se non conti un altro tratto, non potrai di qui partire».
E, perché la donna è avara, non li satisfe’ ancor questo: la non fu scarica e chiara, finché il giovane assai presto non li dette ogni suo resto, e gliel misse tutto in tasca; allor sana come lasca lo volea lasciar fuggire.
Ricordossi a mano a mano che gli avea a dar l’usura: sciolse al giovan di sua mano la sua borsa assai sicura; disse: «Gli è trista natura! Non sta ritto, giusto e intero; e’ bisogna far pensiero l’erta di nuovo salire».
Funne il giovane contento, perché gli era ben fornito: di danar vi dette drento e pagolla in sul pulito; poi volea pigliar partito, ma la donna disse: «Aspetta», dodici uova con gran fretta li die’ ber, poi lasciollo ire.
XXIV
Ragionavasi di sodo un marito con la moglie: «Stu non muti viso o voglie, io non muterò mai modo».
La sua moglie si dolea che faceva un certo giuoco, che veder non lo potea; e dicea: «Pur muta loco». Il marito disse poco: «Seguir vo’ l’usanza mia; nol vo’ far per altra via, se miglior ragion non odo».
«Tu ti se’ male allevato; hai apparato cattiva arte: non è buono alcun mercato, che non fa per ogni parte». Il marito a questa parte: «Tu ne se’ cagion tu stessi, ché, se miglior viso avessi, non commetterei tal frodo».
La si dolse co’ parenti, ma doluto prima gli era co’ vicin’: fe’ gran lamenti e dicea mattina e sera: «Fàllo il tuo in tal maniera? Non par mai che vi s’assetti, che le lacrime non getti: pensi ognun com’io ne godo!».
Disse: «Porta in sofferenza» il marito; «e se t’avvezzi aver meco pazienzia, non vorrai che ’l modo sprezzi; e dirai ti faccia vezzi; se tu gusti il giuoco mio, tu dirai quel che dico io: che sia questo il proprio modo».
XXV
Figlia mia, per me non resta, che tu sia bene allevata, perché pai alla brigata gentil, savia e ben modesta.
Quando giugni ove sia gente, ove sia qualche ridotto, fa’ che stia allegramente, non che pai abbi corrotto; se ti vien qualche bel motto, per non dir parola scorta, fa’ che a dirlo sia accorta, da tua mente manifesta.
Se alcun ti guarda in viso, chi ti guarda guarda bene: l’occhio attento, e qualche riso da cavare altrui di pene; se un ti tocca mano o piène, non mostrare averlo a male, ché saria cosa bestiale il voler guastar la festa.
Se alcun, che non sie avaro, qualche cosa dar ti vuole, mostra pure averlo caro e in cenni e in parole; ché villania parer suole chi gli altrui don’ non accetta; non negar, fa’ che prometta, se di nulla se’ richiesta.
Questo è il modo, o figlia mia, a volermi fare onore; fa’ che a mente ben ti stia, che tel metta ben nel core: sappi prender tempo e l’ore da far poi quel c’hai promesso: non si torna a festa spesso; passa il tempo e non s’arresta.
XXVI
«Io son suta consigliata da te in modo, madre mia, ch’io non credo alcuna sia, più di me, lieta o beata.
Ieri un giovane gentile mi si offerse innanzi al viso con un atto dolce e umìle. Cominciommi a guatar fiso; femmi un certo ghigno o riso, che dicea, sanza dir nulla: “Più di me t’amo, fanciulla!”. Presto m’ebbe innamorata.
Destramente per la mano poi mi prese accortamente, che nessun, presso o lontano, non se ne avvide niente; la mia man, che la sua sente, presto quella strinse e prese, fece in modo, che palese non fu alcun della brigata.
E’ mi messe un piè in sul mio, sì che impolverò la cotta; poi mi disse aver disio di parlar meco a cert’otta, soli al buio e non in frotta; io da prima non lo intesi, poi pe’ suoi cenni compresi, e rimbeccai la ballata.
Disse mi volea parlare di tal cose, ch’arei caro: com’io lo stetti âscoltare, non pote’ far più riparo; e risposi tutto chiaro: “Trar ti vo’ di questa noia; io non vo’ che per me muoia; ecco io sono apparecchiata!”.
Onde che stanotte venne per un luogo molto strano; s’egli avessi avuto penne, era troppo a venir sano; e ne venne a me pian piano, dove io ero in sul mio letto. S’io dicessi il gran diletto, so da te sare’ invidiata.
Tanto ci stemmo a quel modo, che alfin fu contento e sazio; mentre lo racconto, io godo; pur mi parve un brieve spazio. Madre mia, io ti ringrazio del ricordo che mi desti, perché mai cosa facesti, che a me fussi più grata».
Donne mie, pigliate esemplo da costei, che seppe fare: ché, se ’l vero ben contemplo, chi può far non de’ tardare; perché spesso l’indugiare fa scoprir cose secrete: fate, mentre che potete, ch’altri poi non è lasciata.
XXVII
E’ non c’è niun più bel giuoco, né che più piacci a ciascuno, ch’esser due e parer uno: chi nol crede il pruovi un poco.
Chi non lo sapessi fare, venga a me ch’io gliene insegni; non bisogna adoperare a impararlo molti ingegni, pur che da natura vegni, come avviene all’asinino, che non è mai sì piccino, che non sappi fare un poco.
Già ne vidi una che n’era nel principio poco destra, e poi la seconda sera diventò buona maestra; a un gambo di ginestra l’insegnai la prima volta: non mi fu fatica molta a insegnarli sì bel giuoco.
E’ bisogna sofferire, lasciar far quel che t’è fatto, e l’ingegno bene aprire, chi imparar vuole ad un tratto; non è niun sì sciocco e matto, che, se ’l giuoco punto dura, non l’insegni la natura, ché s’impara a poco a poco.
Par da prima un po’ fatica fin che l’uomo siasi avvezzo; non è alcun che poi non dica contenta esserne da sezzo; chi la danza mena un pezzo, fin che vien quel ch’altri vuole, nulla prima o poi li duole, né vorre’ far altro giuoco.
Un maestro c’è di scuola, che bottega di ciò tiene: chi avessi una figliuola, che imparar volessi bene, s’ella è sana delle rene, saprà presto il giuoco bello; fia come uno arrigobello, come arà apparato un poco.
E’ ci è bene un altro modo, ma gli è più pericoloso, e perciò io non lo lodo, perché è troppo faticoso; pur, se c’è niun voglioso, venga a me, che son maestro: far l’insegnerò sì destro, che non guasterà mai il giuoco.
XXVIII
Tra Empoli e Pontolmo in quelle grotte, andando a Pisa, mi giunse la notte.
Io mi credetti a Pontolmo fermare: perch’e’ pioveva, io nol potetti fare; egli era buio, ond’ebbi a sdrucciolare a Empoli in iscambio quella notte.
Dello scambiar non me ne maraviglio: come sapete, è men d’un mezzo miglio; e spesse volte simile error piglio, come anche m’intervenne quella notte.
A Empoli il caval fermar si volse: or udirete come ben gli accolse; perdonatemi voi: il cul ci volse l’ostessa, ove alloggiammo quella notte.
La non ci dette la sera altro a cena ch’arista e lombi e di vitella schiena; tagliato il dito avea, e per la pena attese a succiar uova tutta notte.
Poi certe mele dinanzi ci misse, e vuolmi ricordar che l’arrostisse; per farci onore il tondo manomisse, e altro non si bevve tutta notte.
Tal che, quando io farò questo viaggio, di stare altrove in error più non caggio, da poi che questa ostessa fa vantaggio, ch’io non ebbi già mai la miglior notte.
XXIX
Donne e fanciulle, io mi fo coscienza d’ogni mio fallo, e vo’ far penitenza.
Io mi confesso a voi primieramente ch’io sono stato al piacer negligente, e molte cose ho lasciato pendente: di questo prima io mi fo coscienza.
Io avea lungo tempo disiato a una gentil donna aver parlato; poi in sua presenzia fui ammutolato: di questo ancora io mi fo coscienza.
Già in un altro loco mi trovai, e un bel tratto per viltà lasciai; e non ritornò poi quel tratto mai: di questo ancora io mi fo coscienza.
Ah, quante volte me ne son pentito! Presi una volta un più tristo partito, ch’io pagai innanzi e poi non fui servito: di questo ancora io mi fo coscienza.
Io mi ricordo ancor d’altri peccati, ché per ir drieto a parole di frati molti dolci piaceri ho già lasciati: di questo ancora io mi fo coscienza.
Dolgomi ancor ch’io non ho conosciuto la giovinezza e ’l buon tempo ch’i’ ho avuto se non or, quando gli è in tutto perduto: di questo ancora io mi fo coscienza.
Dico «mia colpa», e ho molto dolore di viltà, negligenzia e d’ogni errore; ricordi o non ricordi, innanzi Âmore generalmente io mi fo coscienza.
E priego tutte voi che riguardiate che simili peccati non facciate, acciò che vecchie non ve ne pentiate, e invan poi ne facciate coscienza.
CANZONE CARNASCIALESCHE
I
CANZONA DE’ CONFORTINI
Berricuocoli, donne, e confortini! Se ne volete, i nostri son de’ fini.
Non bisogna insegnar come si fanno, ch’è tempo perso, e ’l tempo è pur gran danno; e chi lo perde, come molte fanno, convien che facci poi de’ pentolini.
Quando gli è ’l tempo vostro, fate fatti, e non pensate a impedimenti o imbratti: chi non ha il modo, dal vicin l’accatti: e’ preston l’un all’altro i buon’ vicini.
Il far quest’arte è cosa da garzoni: basta che i nostri confortin’ son buoni. Non aspettate ch’altri ve li doni: convien giuocare e spender bei quattrini.
No’ abbiam carte, a fassi alla “bassetta”, e convien che l’un alzi e l’altro metta; e poi di qua e di là spesso si getta le carte; e tira a te, se tu indovini.
O a “sanz’uomo” o “sotto” o “sopra” chiedi, e ti struggi dal capo infino a’ piedi, infin che viene; e, quando vien poi, vedi stran’ visi, e mugolar come mucini.
Chi si truova al di sotto, allor si cruccia, scontorcesi e fa viso di bertuccia, ché ’l suo ne va; straluna gli occhi e succia, e piangon anche i miseri meschini.
Chi vince, per dolcezza si gavazza, dileggia e ghigna, e tutto si diguazza; credere alla Fortuna è cosa pazza: aspetta pur che poi si pieghi e ’nchini.
Questa “bassetta” è spacciativo giuoco, e ritto ritto fassi, e in ogni loco; e solo ha questo mal, che dura poco; ma spesso bea chi ha bicchier’ piccini.
Il flusso c’è, ch’è giuoco maladetto: ma chi volessi pure uscirne netto, metta pian piano, e inviti poco e stretto: ma lo fanno oggi infino a’ contadini.
Chi mette tutto il suo in un invito, se vien flusso, si truova a mal partito, se lo vedessi, e’ pare un uom ferito: che maladetto sie Sforzo Bettini!
“Trai” è mal giuoco, e ’l “pizzico” si suole usare e la “dritta” a nessun duole: chi ha le carte in man, fa quel che vuole, s’è ben fornito di grossi e fiorini.
Se volete giucar, come abbiam mòstro, noi siam contenti metter tutto il nostro, in una posta, or qui per mezzo il vostro: sino alle casse, non che i confortini.
II
CANZONA DE’ PROFUMI
Siam galanti di Valenza qui per passo capitati, d’amor già presi e legati delle donne di Fiorenza.
Molto son gentili e belle donne nella terra nostra: voi vincete d’assai quelle, come il viso di fuor mostra; questa gran bellezza vostra con amore accompagnate. Se non siete innamorate, e’ saria meglio esser senza.
[Secondo e nostri costumi, useremo ancora con voi useletti, oli e profumi; donne belle, abiamo con noi altri odori, soavi e buoni: molto aiuta la natura; se c’è donna alcuna dura contro Amore, la farà senza].
Quanto è una buona spanna vaselletti lunghi abbiamo; se dicessi: “altri v’inganna”, noi ve li porremo in mano, ritti al luogo li mettiamo. Nella punta acceso è il foco, onde sparge a poco a poco dolce odor, che ha gran potenza.
Or dell’olio vogliam dire: ha odore e virtù tanta, che fa altri risentire dal capo insino alla pianta. L’olio è una cosa santa, s’è stillato in buona boccia: esce fuori goccia a goccia; se più pena, ha più potenza.
L’olio sana ogni dolore e risolve ogni durezza; tira a sé tutto l’umore, trae dal membro la caldezza, penetrando la dolcezza quanto più forte stropicci: se hai triemiti o capricci, usa l’olio e sarai senza.
Noi abbiamo un buon sapone, che fa saponata assai: frega un pezzo, ove si pone; se più meni, più n’arai. Èvv’egli accaduto mai, donne, aver l’anella strette? Col sapon, che cava e mette, cuoce un poco: pazienza!
Donne, ciò che abbiamo è vostro. Se d’amor voi siate accese, metterem l’olio di nostro, ungeremo a nostre spese; abbiam olio del paese, gelsi, aranci e bengiuì; se vi piace, proviam qui: fate questa esperienza.
III
CANZONA DE’ CIALDONI
Giovani siam, maestri molto buoni, donne, come udirete, a far cialdoni.
In questo carnascial siamo sviati dalla bottega, anzi fummo cacciati: non eron prima fatti che mangiati da noi, che ghiotti siam, tutt’i cialdoni.
Cerchiamo avviamento, donne, tale, che ci passiamo in questo carnasciale; ma sanza donne inver si può far male: e insegnerenvi come si fan buoni.
Metti nel vaso acqua, e farina drento quanto ve n’entra, e mena a compimento; quand’hai menato, e’ vien come un unguento, un’acqua quasi par di maccheroni.
Chi non vuole al menar presto esser stanco, meni col dritto e non col braccio manco; poi vi si getta quel ch’è dolce e bianco zucchero; e fa’ ’l menar non abbandoni.
Conviene, in quel menar, cura ben aggia, per menar forte, che di fuor non caggia; fatto l’intriso, poi col dito assaggia: se ti par buon, le forme a fuoco poni.
Scaldale bene, e, se sia forma nuova, il fare adagio e ugner molto giova; e mettivene poco prima, e pruova come riesce, e se li getta buoni.
Ma, se la forma fia usata e vecchia, quanto tu vuoi, per metterne, apparecchia, perché ne può ricevere una secchia; e da Bologna i romaiuol’ son buoni.
Quando l’intriso nelle forme metti e senti frigger, tieni i ferri stretti, mena le forme, e scuoti acciò s’assetti, volgi sozzopra, e fien ben cotti e buoni.
Il troppo intriso fuori spesso avanza, esce pe’ fessi, ma questo è usanza: quando ti par che sien cotti abbastanza, apri le forme e cavane i cialdoni.
Nello star troppo scema, non già cresce: se son ben unte, da sé quasi n’esce, e ’l ripiegarlo allor facil riesce caldo, e in un panno bianco lo riponi.
Piglia le grattapugie o un pannuccio ruvido, e netta bene ogni cantuccio; la forma è quasi una bocca di luccio: tien’ ne’ fessi lo intriso che vi poni.
Esser vuole il cialdone un terzo o piùe grosso, a ragione aver le parti sue; e a farli esser voglion almen due: l’un tenga, l’altro metta; e fansi buoni.
Se son ben cotti, coloriti e rossi, son belli, e quanto un vuol mangiarne puossi; perché, se paion ben vegnenti e grossi, strignendo e’ son pur piccioli bocconi.
Donne, terrete voi e noi mettiamo; se noi mettessin troppo forte o piano, pigliate voi il romaiuolo in mano: mettete voi, purché facciam de’ buoni.
IV
CANZONA DEGLI INNESTATORI
Donne, noi siam maestri d’innestare; in ogni modo lo sappiam ben fare.
Se volete imparar questa nostr’arte, noi ve la mostreremo a parte a parte: e’ non bisogna molti studi o carte; le cose naturali ognun sa fare.
L’arbor che innesti fa’ sia giovinetto, tenero, lungo, sanza nodi, schietto, dilicato di buccia, bello e netto, quando comincia a muovere e gittare.
Segalo poi e fa’ pel mezzo un fesso, la marza in ordin sia un terzo o presso, stretto quanto tu pòi ve lo arai messo, purché la buccia non facci scoppiare.
Così quanto si può drento si spigne, con un buon salcio poi si lega e cigne, e l’una buccia con l’altra si strigne, così gli umor’ si posson mescolare.
Sanza fendere ancor fassi e s’appicca: con la man la buccia gentilmente spicca sanza intaccarla, e poi la marza ficca, tra buccia e buccia strigni e lascia fare.
Per quando piove molto ben si fascia; così fasciato, qualche dì si lascia: chi lo sfasciassi allora e’ non c’è grascia, che non facessi la marza sdegnare.
Chi vuol buon olio ancor gli ulivi innesti, e mele e fichi fansi grossi e presti. Veggo che ’l modo intender voi vorresti, ma voi il sapete, e fateci parlare.
Di questo modo si fa grande stima: togli un tondo cotal forato in cima, un ferro da stampare, e spicca prima la buccia intorno dove l’occhio appare.
Spicco quell’occhio e presto lo conduco, ov’io ho preparato prima un buco, che men d’un grosso un po’ la buccia sdruco; mettivel drento: e’ suol rammarginare.
Convien con diligenzia ivi si metta: guasta ogni cosa spesso chi fa in fretta, riesce meglio chi ’l suo tempo aspetta: quando gli è in succhio e dolce è miglior fare.
Noi crediamo oramai che voi sappiate l’innestare a bucciolo e quel del frate, che ne fa tutto l’anno verno e state. Puossi ogni pianta, e pèsche ancora innestare.
L’arbor, ch’è prima salvatico e strano, innestandol si fa di mano in mano più bello e più gentil, né viene invano, ma vedete be’ frutti che suol fare.
Donne, noi v’invitiamo a innestar tutte, se non piove e se van le cose asciutte; e, se volete pèsche o altre frutte, noi siamo in punto e ve ne possiam dare.
V
CANZONA DELLO ZIBETTO
Donne, quest’è un animal perfetto a molte cose, e chiamasi ’l zibetto.
E’ vien da lungi, d’un paese strano, sta dov’è gemition o ver pantano, in luoghi bassi, e chi ’l tocca con mano, rade volte ne suole uscir poi netto.
Carne sanz’osso sol gli paion buone, ma vuolne spesso e, se può, gran boccone; poi duo dita di sotto al codrione, come udirete, si cava il zibetto.
Hassi una tenta, ch’è un terzo lunga, spuntata acciò che drento non lo punga. Caccisi drento, e convien tutta s’unga: o donne, e’ vi parrà dolce diletto.
Così si cava quel dolce licore; e ècci a chi non piace quell’odore: egli è pur buon, ma il troppo fa fetore di qualche tanfo a chi lo tien mal netto.
Bisogna al metter drento ben guardare, il luogo ov’è ’l zibetto non scambiare, ché si potria d’altra cosa imbrattare la tenta, e fassi male al poveretto.
Chi non ha tenta pigli altro partito: truova stran’ modi, o almeno fa col dito, e poi lo danno a fiutare al marito, se non ha tenta o vien da lui il difetto.
È certe volte a trar pericoloso, perch’egli ha il tempo suo, e vuol riposo tre giorni o quattro; pure un voglioso non guarda a quello e trae un stran brodetto.
La virtù del zibetto, o donne, è questa: mettivi il naso, scarica la testa; della donna del corpo ogni mal resta, e non c’è meglio a chi ha tal difetto.
Chi avessi durezza nelle rene, la punta della tenta ugnerai bene, metti ov’è il male, e subito ne viene fuor la caldezza, e hanne gran diletto.
Di fare ingravidare ha gran virtùe, molte altre ancor, ma non ne direm piùe; forse abbiam detto troppo. Donne, orsùe, provate s’egli è ver quel che abbiam detto.
Se ne volete, noi ne vogliam vendere; del più vivo che avete convien spendere; non state dure; e’ vi bisogna arrendere, e menar a volerne un bossoletto.
VI
CANZONA DELLE FORESE
Lasse, in questo carnasciale noi abbiam, donne, smarriti tutt’a sei nostri mariti; e sanz’essi stiam pur male.
Di Narcetri noi siam tutte, nostr’arte è l’esser forese; noi cogliemo certe frutte belle come dà il paese; se c’è alcuna sì cortese, c’insegni i mariti nostri: questi frutti saran vostri, che son dolci e non fan male.
Cetriuoli abbiamo grossi, di fuor pur ronchiosi e strani: paion quasi pien’ di cossi, poi sono empitivi e sani, e’ si piglion con duo mani; di fuor lieva un po’ di buccia: apri ben la bocca e succia, chi s’avezza, e’ non fan male.
Mellon c’è cogli altri insieme quanto è una zucca grossa, noi serbiam questi per seme, perché assai nascer ne possa. Fassi lor la lingua rossa, l’alie e ’ piè: e’ pare un drago a vederlo e fiero e vago; fa paura, non fa male.
Noi abbiamo con noi baccelli lunghi, e teneri da ghiotti; e abbiamo ancor di quelli duri e grossi, e son buon’ cotti e da far de’ ser margotti; se la coda in man tu tieni, su e giù quel guscio meni, e’ minaccia e non fa male.
Queste frutte oggi è usanza che si mangin drieto a cena: a noi pare un’ignoranza; a smaltirle è poi la pena: quanto la natura è piena de’ bastar: pur fate voi dell’usarle innanzi o poi; ma dinanzi non fan male.
Queste frutte, come sono, se i mariti c’insegnate, noi ne faremo un dono: noi siam pur di verde etate; se lor fien persone ingrate, troverrem qualche altro modo, che ’l poder non resti sodo: noi vogliam far carnasciale.
VII
CANZONA DE’ FORNAI
O donne, noi siam giovani fornai, dell’arte nostra buon’ maestri assai.
Noi facciam berlingozzi e zuccherini, cociamo ancor certi calicioncini: abbiam de’ grandi, e paionvi piccini, di fuor pastosi e drento dolci assai.
Facciamo ancor bracciatelli e ignocchi, non grati agli occhi, anzi pieni di bernocchi: paion duri di fuor, quando li tocchi, ma drento poi riescon meglio assai.
Se ci è alcuna a chi la fava piaccia, la meglio infranta abbiam che ci si faccia con un pestel, che insino a’ gusci schiaccia: ma a menar forte ell’esce de’ mortai.
Noi sappiamo ancor fare il pan buffetto, più bianco che non è ’l vostro ciuffetto; direnvi il modo, ché n’abbiam diletto: pensar, dir, far non vorrem altro mai.
Convien farina aver di gran calvello, poi menar tanto il staccio o buratello, che n’esca il fiore: e l’acqua calda e quello mescola insieme, e tutto intriderai.
Or qui bisogna aver poi buona stiena: pasta è fine quanto più si mena; se sudi qualche goccia per la pena, rimena pur insin che fatto l’hai.
Fatto il pan si vuol porre a lievitare, in qualche loco caldo vorria stare, sopra un lettuccio puossi assai ben fare, che in ordine sia bene aspetterai.
Intanto ’l forno è caldo e tu lo spazzi: lo spazzatoio in qua e in là diguazzi, se vi resta di cener certi sprazzi; non l’ha mai netto ben chi cuoce assai.
Sente il pan drento quel calduccio e cresce, rigonfia, e l’acqua a poco a poco n’esce; entravi grave e soffice riesce; d’un pane allor quasi un boccon farai.
Per cuocere un arrosto e un pastello, allato al forno grande è un fornello, e tutt’a dua han quasi uno sportello, ma non lo sanno usar tutti i fornai.
O belle donne, questa è l’arte nostra; se voi volessi per la bocca vostra qualche cosetta, questa sia la mostra: al paragon noi starem sempre mai.
VIII
CANZONA DELLE CICALE
Le fanciulle incominciano Donne, siam, come vedete, giovanette vaghe e liete.
Noi ci andiam dando diletto, come s’usa il carnasciale: l’altrui bene hanno in dispetto gl’invidiosi e le cicale; poi si sfogon col dir male le cicale che vedete.
Noi siam pure sventurate! Le cicale in preda ci hanno, che non canton sol la state, anzi duron tutto l’anno; a coloro che peggio fanno, sempre dir peggio udirete.
Le cicale rispondono Quel ch’è la natura nostra, donne belle, facciam noi; ma spesso è la colpa vostra, quando lo ridite voi; vuolsi far le cose, e poi saperle tener secrete:
chi fa presto, può fuggire il pericol del parlare. Che vi giova un far morire, sol per farlo assai stentare? Se v’offende il cicalare, fate, mentre che potete.
Le fanciulle rispondono Or che val nostra bellezza, se si perde per parole? Viva amore e gentilezza, muoia invidia e a chi ben duole! Dica pur chi mal dir vuole, noi faremo e voi direte.
IX
CANZONA DI BACCO
Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia: chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.
Quest’è Bacco e Arianna, belli, e l’un dell’altro ardenti: perché ’l tempo fugge e inganna, sempre insieme stan contenti. Queste ninfe e altre genti sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.
Questi lieti satiretti, delle ninfe innamorati, per caverne e per boschetti han lor posto cento agguati; or da Bacco riscaldati, ballon, salton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.
Queste ninfe anche hanno caro da lor essere ingannate: non può fare a Amor riparo, se non gente rozze e ingrate; ora insieme mescolate suonon, canton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.
Questa soma, che vien drieto sopra l’asino, è Sileno: così vecchio è ebbro e lieto, già di carne e d’anni pieno; se non può star ritto, almeno ride e gode tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.
Mida vien drieto a costoro: ciò che tocca, oro diventa. E che giova aver tesoro, s’altri poi non si contenta? Che dolcezza vuoi che senta chi ha sete tuttavia? Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.
Ciascun apra ben gli orecchi, di doman nessun si paschi; oggi sian, giovani e vecchi, lieto ognun, femmine e maschi. Ogni tristo pensier caschi: facciam festa tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.
Donne e giovinetti amanti, viva Bacco e viva Amore! Ciascun suoni, balli e canti, arda di dolcezza il core, non fatica, non dolore! Ciò c’ha a esser, convien sia. Chi vuol esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.
X
CANZONA DE’ SETTE PIANETI
Sette pianeti siam, che l’alte sede lasciam per far del cielo in terra fede.
Da noi son tutti i beni e tutti i mali, quel che v’affligge, miseri, e giova; ciò ch’agli uomini avviene, agli animali e piante e pietre, convien da noi muova; sforziam chi tenta contro a noi far pruova; conduciam dolcemente chi ci crede.
Maninconici, miseri e sottili; ricchi, onorati, buon’ prelati e gravi; sùbiti, impazienti, fer’, virili; pomposi re, musici illustri, e savi; astuti parlator’, bugiardi e pravi; ogni vil opra alfin da noi procede.
Venere graziosa, chiara e bella muove nel core amore e gentilezza: chi tocca il foco della dolce stella, convien sempre arda dell’altrui bellezza; fere, uccelli e pesci hanno dolcezza: per questa il mondo rinnovar si vede.
Orsù, seguiam questa stella benigna, o donne vaghe, o giovinetti adorni: tutti vi chiama la bella Ciprigna a spender lietamente i vostri giorni, senz’aspettare che ’l dolce tempo torni, ché, come fugge un tratto, mai non riede.
Il dolce tempo ancor tutti c’invita lasciare i pensier’ tristi e ’ van’ dolori. Mentre che dura questa brieve vita, ciascun s’allegri, ciascun s’innamori; contentisi chi può: ricchezze e onori, per chi non si contenta, invan si chiede.
XI
CANZONA DE’ VISI ADDRIETO
Le cose al contradio vanno tutte, e pensa a ciò che vuoi: come il gambero andiam noi, per far come l’altre fanno.
E’ bisogna oggi portare gli occhi drieto e non davanti; né così possi un guardare: traditor’ siam tutti quanti; tristo a chi crede a’ sembianti, ché riceve spesso inganno.
Però noi facciamo scusa di questo nostro ire addrieto; e’ s’intende, oggi ognun l’usa: questo è ’l modo consueto: chi lo fa, dunque, stia cheto; noi sentiam che tutti il fanno.
Crediam questo me’ riesca, poi ch’ognun dà di drieto oggi; se riceve qualche pèsca vede e pensa ove s’appoggi, con man tocca, pria ch’alloggi, poi non ha vergogna o danno.
Chi non porta drieto gli occhi, per voltarsi indrieto incorda; di gran colpi convien tocchi, per vergogna fa alla sorda; drieto al fatto si ricorda, quando sente il mal che fanno.
Non pigliate maraviglia, se le donne ancor fan questo; ciascun oggi s’assotiglia, ogni mese è lor bisesto: l’un soccorre all’altro presto, e così tutte vi vanno.
LAUDE
I
Ben arà duro core
Ben arà duro core, quel che non segue Iesù Salvatore.
Bene arà il cor perverso, bene arà sé medesimo in dispetto chi non sarà converso ove ci chiama Iersù benedetto. Dice: «Vien’, che io t’aspetto; ché muoio per salvarti, o peccatore!».
Non vuol la sua salute chi non si muove a sì benigna voce; non ha grazia o virtute chi non pensa allo amor che ’l pose in croce; molto a se stesso nuoce chi non contempla quanto è il suo amore.
Cieco se’, stu non mire, o peccatore, il tuo eterno bene! Perso hai in tutto l’udire, se tu non senti la voce che viene sol per trarti di pene, se tu vorrai por fine a tanto errore.
Chi sanza te t’ha fatto, sanza te stesso non ti vuol salvare; se tu non ti se’ astratto dalla tua morte, non ti puoi scusare; se te non vuoi amare, tua fia la colpa, e tuo il danno e il dolore.
Deh, rivolgiti a Lui, che ti contenterà de’ beni eterni! Tuo non se’, ma d’altrui, se tu permetti che altri ti governi; poco a lungi discerni, se non contempli chi è il tuo Signore.
E’ muor per darti vita, e diventa mortal per far te dio; la sua gloria infinita patisce per salvarti infetto e rio. S’Egli è benigno e pio, deh, non esser sì tristo pagatore.
Deh, prendi la sua via, piglia il suo santo giogo sì suave! Comincia, e fa’ che stia col dolce peso adosso, non già grave. Tanta pietà questo have, che ti farà felice a tutte l’ore.
II
Poi che io gustai, Iesù, la tua dolcezza. Cantasi come Tanta pietà mi tira e tanto amore
Poi che io gustai, Iesù, la tua dolcezza, l’anima più non prezza del mondo cieco alcun altro diletto.
Da poi che accese quella ardente face della tua carità l’afflitto core, nessuna cosa più m’aggrada o piace; ogni altro ben mi par pena e dolore, tribulazion e guerra ogni altra pace, tanto infiammato son del tuo amore; nulla altro mi contenta o dà quiete, né si spegne la sete, se non solo al tuo fonte benedetto.
Quel che di te m’innamorò sì forte, fu la tua carità, o Pellicano, che per dar vita a’ figli, a te dài morte e per farmi divin, se’ fatto umano: preso hai di servo condizione e sorte, perch’io servo non sia o viva invano. Poiché ’l tuo amore è tanto smisurato, per non essere ingrato tanto amo te, che ogni cosa ho in dispetto.
Quando l’anima mia teco si posa, ogn’altro falso ben mette in oblio: la tribulata vita faticosa sol si contenta per questo disio, né può pensare ad alcun’altra cosa, né parlar né veder se non te, Dio. Solo un dolor li resta, che la strugge: el pensar quando fugge da lei il dolce pensier per suo difetto.
Vinca la tua dolcezza ogni mio amaro, allumini il tuo lume il mio oscuro, sicché il tuo amor, che m’è sì dolce e caro, mai da me non si parta nel futuro. Poi che non fusti del tuo sangue avaro, di questa grazia ancor non mi esser duro: arda sempre il mio cor tuo dolce foco, tanto che a poco a poco altri che tu non resti nel mio petto.
III
O Dio, o sommo Bene, or come fai. Cantasi come Canzone del Fagiano
O Dio, o sommo Bene, or come fai, che te sol cerco e non ti trovo mai?
Lasso, s’io cerco questa cosa o quella, te cerco in esse, o dolce Signor mio! Ogni cosa per te è buona e bella e muove, come buona, il mio disio; tu se’ pur tutto in ogni luogo, o Dio, e in alcun luogo non ti truovo mai.
Per trovar te la trista alma si strugge, il dì m’affliggo e la notte non poso. Lasso, quanto più cerco, più si fugge il dolce e desiato mio riposo! Deh, dimmi, Signor mio, ove se’ ascoso: stanco già son, Signor, dimmelo omai.
Se a cercar di te, Signor, mi muovo in ricchezze, in onore o in diletto, quanto più di te cerco, men ne truovo, onde stanco mai posa il vano affetto. Tu m’hai del tuo amore acceso il petto, poi se’ fuggito, e non ti veggo mai.
La vista, in mille varie cose volta, ti guarda e non ti vede, e sei lucente; l’orecchio ancor diverse voci ascolta, il tuo suono è per tutto, e non ti sente: la dolcezza comune a ogni gente cerca ogni senso, e non la truova mai.
Deh, perché cerchi, anima trista, ancora beata vita in tanti affanni e pene? Cerca quel cerchi pur, ma non dimora nel luogo ove tu cerchi questo bene: beata vita onde la morte viene cerchi, e vita ove vita non fu mai.
Muoia in me questa misera vita, acciò che io viva, o vera vita, in te; la morte in multitudine infinita in te sol vita sia, che vita se’; muoio quanto te lascio e guardo me: converso a te, io non morrò già mai.
Degli occhi vani ogni luce sia spenta, perché vegga te, vera luce amica; assorda e miei orecchi, acciò che io senta la disiata voce che mi dica: “Venite a me, chi ha peso o fatica, ch’io vi ristori”: egli è ben tempo omai!
Allor l’occhio vedrà luce invisibile, l’orecchio udirà suon ch’è senza voce, luce e suon che alla mente è sol sensibile, né il troppo offende o a tal senso nuoce. Stando e piè fermi, correrà veloce l’alma a quel ben che è seco sempre mai.
Allor vedrò, o Signor dolce e bello, che questo bene o quel non mi contenta, ma levando dal bene e questo e quello, quel ben che resta il dolce Dio diventa. Questa vera dolcezza e sola senta chi cerca il ben: questo non manca mai.
La nostra eterna sete mai non spegne l’acqua corrente di questo o quel rivo, ma giugne al tristo foco ognor più legne: sol ne contenta il fonte eterno e vivo. O acqua santa, se al tuo fonte arrivo, berrò, e sete non arò più mai.
Tanto desio non dovria esser vano, a te si muove pure il nostro ardore. Porgi benigno l’una e l’altra mano, O Iesù mio: tu se’ infinito amore! Poiché hai piagato dolcemente il core, sana tu quella piaga che tu fai!
IV
Quanto è grande la bellezza. Cantasi come Quant’è bella giovinezza
Quanto è grande la bellezza di te, Vergin santa e pia! Ciascun laudi te, Maria, ciascun canti in gran dolcezza.
Colla tua bellezza tanta la Bellezza innamorasti. O Bellezza eterna e santa, di Maria bella infiammasti! Tu di Amor l’amor legasti, Vergin santa, dolce e pia. Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
Quello Amor che incende il tutto, la Bellezza alta infinita, del tuo ventre è fatto frutto, mortal ventre, e ’l frutto è Vita. La Bontà perfetta unita è tuo bene, o Vergin pia. Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
La Potenza, che produce tutto, in te la sua forza ebbe: fatto hai il Sole esser tua luce, luce, ascosa in te, più crebbe. Quello a cui il tutto debbe, debbe a te, o Maria pia! Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
Prima che nel petto santo tanto ben fussi raccolto, saria morto in doglia e in pianto chi di Dio vedessi il volto: questa morte in vita ha vòlto el tuo parto, o Vergin pia. Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
Hanno poi e mortali occhi visto questo eterno Bene: volse che altri il senta e tocchi, onde vita al mondo viene. O felice mortal’ pene, cui vendetta è tanto pia! Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
O felice la terribile colpa antica e il primo errore, poiché Dio fatto ha visibile, et ha tanto Redentore! Questo ha mostro quanto amore porti a noi la Bontà pia. Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
Se non era il primo legno, che in un gusto a tutti nuoce, non arebbe il mondo indegno visto trionfar la Croce: della colpa tanto atroce gloria fe’ la Bontà pia. Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
Tu, Maria, fusti onde nacque tanto bene alla natura. l’umiltà tua tanto piacque che il Fattore è tua fattura. Laudi ognun con mente pura dunque questa Madre pia. Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
A laudarti, o Maria, venga ciaschedun d’amore acceso: peccator nessun si tenga, benché molto l’abbi offeso; su le spalle il nostro peso posto ha al Figlio questa pia. Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
Più della salute vostra, peccator’, non dubitate, el suo petto al Figlio mostra questa Madre di pietate; le sue piaghe insanguinate mostra a lei la Bontà pia. Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
Dice lei: «O santo Figlio, questo petto t’ha lattato». E lui dice: «Io fe’ vermiglio già di sangue il mio costato: per pietà di questo ingrato la Pietà è sempre pia». Ciascun laudi te, Maria; ciascun canti in gran dolcezza.
V
O maligno e duro core. Cantasi come Canzona de’ Valenziani
O maligno e duro core, fonte d’ogni mal concetto, ché non scoppi in mezzo il petto, ché non scoppi di dolore?
Non pigliare alcun conforto, o cor mio di pietra dura: poi che Iesù dolce è morto, trema il mondo e ’l sole oscura; escon della sepoltura morti, il Tempio straccia il velo; piange, oimè, la terra e il cielo; tu non senti, o duro core.
Liquefatti come cera, o cor mio tristo e maligno, poi che muor la Vita vera, Iesù tuo, Signor benigno; fa’, cor mio, sul duro ligno con Iesù ti crucifigga; quella lancia ti trafigga che passò a Iesù il core.
O cor mio, così piagato fa’ di lacrime un torrente, come dal santo costato versa sangue largamente; gran dolcezza, o cor mio, sente chi accompagna Iesù santo; se la pena è dolce tanto, più dolce è chi con lui muore.
Vengon fuor così dolce acque della fonte tanto amara; poiché morte, o Dio, ti piacque, fatta è morte dolce e cara. O cor mio, da Iesù impara: la tua croce ancor tu prendi e sopra essa ti sospendi; non muor mai chi con lui muore.
VI
Peccator’, su tutti quanti. Cantasi come la Canzona de’ visi addrieto
Peccator’, su tutti quanti, rallegriànci con disio: questo è il dì che ha fatto Dio: ciascheduno esulti e canti!
Peccator’, la morte è morta: questa morte vita dona; la pena oggi ognun conforta, dolce pena e morte buona. Oggi il servo si corona, dello inferno vengon santi.
Oggi al ciel la spiga arriva di quel gran che in terra è morto; questo gran, se non moriva, frutto alcun non aria porto: questo frutto oggi nell’orto di Maria conforta e pianti.
Questa spiga il suo bel frutto ha cresciuto e fatto un pane: santo Pan, che pasce il tutto alle mense cotidiane. O felice menti umane, che mangiate il Pan de’ santi!
Cieca notte, ben sei santa, che ’l vedesti suscitare: nelle tenebre tue tanta luce al mondo non ha pare, l’ombre tue furon più chiare che del sole e raggi tanti.
Mostra il cammin dritto e certo la colonna nella oscura notte al popol nel diserto: agli egizii fa paura; l’inferno a tal luce pure triema, e in ciel cantono e santi.
O beata notte e degna, tuo Fattor gran ben ti vuole, benché il sol forse ne sdegna, tu vedesti un più bel Sole! Tanta gloria con parole non si lauda o mortal’ canti.
Ciaschedun lasci la vesta della notte tenebrosa, della luce l’arme vesta: luce in noi sia ogni cosa. Nostra vita, in Cristo ascosa, luce è in Dio: cantate, o santi.
VII
O peccator, io sono Dio eterno. Cantasi come la Canzona dei Fornai
O peccator, io sono Dio eterno, che chiamo sol per trarti dello inferno.
Deh, pensa chi è quel che tanto t’ama e che sì dolcemente oggi ti chiama! E tu chi se’, la cui salute e’ brama: se tu ci pensi, non morrai in eterno.
Io sono Dio, del tutto creatore; tu non uom, anzi un vil vermin che muore; in mille modi ognor ti tocco il core, tu non odi, e più tosto vuoi l’inferno.
Perché ti muova più la santa voce, ecco per te io monto in su la croce; col sangue lavo la tua colpa atroce, tanto m’incresce del tuo male eterno.
Deh, vieni a me, misero poveretto, o peccator, che a braccia aperte aspetto che lavi nel mio sangue el tuo difetto, per abbracciarti e trarti dello inferno!
Con amorosa voce e con soave ti chiamo per mutar tue voglie prave. Deh, prendi il giogo mio, che non è grave: è leggier peso, che dà bene eterno.
Io veggo ben che il tuo peccato vecchio al mio chiamar ti fa serrar l’orecchio; ecco, la grazia mia io t’apparecchio, tu la fuggi, e più tosto vuoi l’inferno.
Deh, dimmi che frutto hai o che contento di questa che par vita et è tormento, se non vergogna, affanno e pentimento? E vuoi perder per questa il bene eterno?
Pien d’amor, di pietà e di clemenzia, ti chiamo or, peccatore, a penitenzia; ma, se aspetti l’ultima sentenzia, non è redenzion poi nello inferno.
Non aspettar quella sentenzia cruda, ch’ogni pietà allor convien si escluda; non aspettar che morte gli occhi chiuda, che ne vien ratta, e forse fia in eterno.
VIII
Io son quel misero ingrato Cantasi come la Canzona delle Cicale
Io son quel misero ingrato peccator, che ho tanto errato.
Io son quel prodigo figlio che ritorno al padre mio, stato sono in gran periglio esulando da te, Dio; ma tu se’ sì dolce e pio, che non guardi al mio peccato.
Io son quella pecorella, che ’l pastor suo ha smarrito: tu, Pastor, lasci per quella tutto il gregge, e m’hai seguito; o Amor dolce e infinito, perduto ero, or m’hai trovato.
Lasso, oimè, sopra una nave me e mie ricchezze porto! La fortuna acerba e grave ha le merce e il legno assorto; una tavola ora in porto il naufrago ha portato.
Ero sano, puro e bello, fui ferito a mezzo il petto: grave doglia tal coltello dièmmi e di morir sospetto; ma tu, medico perfetto, questo colpo hai ben sanato.
L’alma pura, innamorata di te, Dio, suo padre e sposo, poi dal diavolo accecata, ha ucciso il suo amoroso; non può mai trovar riposo: quanto è misero suo stato!
Perché da te vien, si posa solo in te, e sua pace truova; e però niuna altra cosa a questa alma afflitta giova, ma convien sempre si muova fin che te, Dio, ha trovato.
Allor porto ha nostra vita, quando a te ritorna, o Dio. Sana la mortal ferita, truova il sposo dolce e pio: el padre ha suo figlio rio, el pastor la ove ha trovato.
El tuo verbo ha liquefatto la durezza della mente; dal tuo spirto un vento è tratto che di pianto fa torrente: mieterò poi lietamente quel che in pianti ho seminato.
O mirabil Dio santo come in me operi e fai, che mi piace pianger tanto, che altro non vorrei far mai! O dolor dolce, che me hai con Iesù dolce legato!
O dolcissima catena, che m’ha Dio al collo messo! O dolcezza intera e piena, che a chi l’ama ha Dio concesso! Non dà Dio tal grazia spesso, e chi l’ha non ne sia ingrato.
Quasi in uno specchio or veggio, e tu fai che sì mi piaccia quel che qui sogno e vaneggio: di dolcezza par mi sfaccia. Or che fia a faccia a faccia quanto io ti vedrò beato?
Inquieto è il cor mortale fin che torna onde par esca: dàgli, Dio, di colomba ale, sicch’e’ voli e requiesca: tu se’, Dio, quella esca che ’l disio santo hai saziato.
IX
Vieni a me, peccatore. Cantasi a modo proprio composto per Isac e come Tu m’hai legato, amore
«Vieni a me, peccatore, che a braccia aperte aspetto; versa dal santo petto visibilmente acqua, sangue e amore.
Come già nel diserto la verga l’acque ha dato, così Longino ha aperto con la lancia il costato. Vieni, o popol ingrato, a bere al santo fonte che non muore».
Era in arido sito el popol siziente; è della pietra uscito largo fonte e corrente. Qui bea tutta la gente: la pietra è Cristo, onde vien l’acqua fore.
Chi sete ha avuto un pezzo alle sante acque venga, e chi pur non ha prezzo per questo non si tenga, ma con letizia spenga la sete alle acque il suo divoto ardore.
Questo è quel Noè santo che ’l vin della uva preme, innebriato tanto sta scoperto e non teme, Sem e Japhet insieme le cuopron, Cam accusa il suo errore.
E così nudo in croce Iesù, di amore acceso, non cura scherni o voce di chi l’ha vilipeso; poi Nicodemo ha preso e involto in panni il dolce Salvatore.
Ebro di caritate così il vide Esaia: rosse e di vin bagnate le sue veste paria; del torculare uscia del vin: questo è la croce e il gran dolore.
«El petto e ’ santi piedi verson sangue per tutto; le mani e il capo vedi patire, e tu n’hai frutto; perché io sia così brutto, vien’ pure, o penitente peccatore.
Deh, accostati a me, non temer che io t’imbrodi, il mio car figlio se’ ch’io chiamo in mille modi; non mi terranno e chiodi ch’io non ti abbracci e stringa col mio core!
Non temer la crudele spina che il capo ha involto, o che d’aceto e fele sappin le labra molto; bacia il mio santo volto, deh, non avere a schifo il tuo Signore!
Questo sangue, che io spargo, non imbratta, anzi lava; questo perenne e largo fonte ogni sete cava; ogni mia pena aggrava se non è conosciuto tanto amore». |
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Belpaese2000.
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17.11.2007 Лоренцо Наверх '400 Biblio Italia
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