Franco Sacchetti

Franco Sacchetti

 

Il Trecentonovelle
(parte I: novelle I-C)


 

 

Proemio

 

 

 

Considerando al presente tempo e alla condizione dell'umana vita, la quale con pestilenziose infirmità e con oscure morti è spesso vicitata; e veggendo quante rovine con quante guerre civili e campestre in essa dimorano; e pensando quanti populi e famiglie per questo son venute in povero e infelice stato e con quanto amaro sudore conviene che comportino la miseria, là dove sentono la lor vita esser trascorsa; e ancora immaginando come la gente è vaga di udire cose nuove, e spezialmente di quelle letture che sono agevoli a intendere, e massimamente quando danno conforto, per lo quale tra molti dolori si mescolino alcune risa; e riguardando in fine allo eccellente poeta fiorentino messer Giovanni Boccacci, il quale descrivendo il libro delle Cento Novelle per una materiale cosa, quanto al nobile suo ingegno... quello è divulgato e richie... che infino in Francia e in Inghilterra l'hanno ridotto alla loro lingua, e grand...so; io Franco Sacchetti fiorentino, come uomo discolo e grosso, mi proposi di scrivere la presente opera e raccogliere tutte quelle novelle, le quali, e antiche e moderne, di diverse maniere sono state per li tempi, e alcune ancora che io vidi e fui presente, e certe di quelle che a me medesimo sono intervenute.

E non è da maravigliare se la maggior parte delle dette novelle sono fiorentine... che a quelle sono stato prossima... e se non al fatto piú presso a la... e perché in esse si tratterà di... condizioni di genti, come di... marchesi e conti e cavalieri, e di... grandi e piccoli, e cosí di grandi donne, mezzane e minori, e d'ogni altra generazione; nientedimeno nelle magnifiche e virtuose opere seranno specificati i nomi di quelli tali; nelle misere e vituperose, dove elle toccassino in uomini di grande affare o stato, per lo migliore li nomi loro si taceranno; pigliando esempio dal vulgare poeta fiorentino Dante, che quando avea a trattare di virtú e di lode altrui, parlava egli, e quando avea a dire e' vizii e biasimare altrui, lo faceva dire alli spiriti.

 

E perché molti e spezialmente quelli, a cui in dispiacere toccano, forse diranno, come spesso si dice: “queste son favole”, a ciò rispondo che ce ne saranno forse alcune, ma nella verità mi sono ingegnato di comporle. Ben potrebbe essere, come spesso incontra, che una novella sarà intitolata in Giovanni, e uno dirà: ella intervenne a Piero; questo serebbe piccolo errore, ma non sarebbe che la novella non fosse stata. E altri potran dire...

 

 

NOVELLA II

 

Lo re Federigo di Cicilia è trafitto con una bella storia da ser Mazzeo speziale di Palermo.

 

Di valoroso e gentile animo fu il re Federigo di Cicilia nel cui tempo fu uno speziale in Palermo, chiamato ser Mazzeo, il quale avea per consuetudine ogni anno al tempo de' cederni, con una sua zazzera pettinata in cuffia, mettersi una tovagliuola in collo e portare allo re dall'una mano in un piattello cederni e dall'altra mele; e lo re questo dono ricevea graziosamente.

Avvenne che questo ser Mazzeo, venendo nel tempo della vecchiezza, cominciò alquanto a vacillare, e non sí però che l'usato presente di fare non seguisse. Fra l'altre volte, essendosi molto ben pettinato, e assettata la chioma sotto la cuffia, tolse la tovagliuola e' piattelli de' cederni e delle mele per fare l'usato presente; e messosi in cammino, pervenne alla porta del palazzo del re.

Il portinaio, veggendolo, cominciò a fare scherne di lui e a tirargli il bendone della cuffia; e contendendosi da lui, e un altro il tirava d'un'altra parte, però che quasi il tenevano insensato; e cosí datoli la via, or da uno e ora da un altro fu tanto tirato e rabbuffato che tutto il capo avea avviluppato; e con tutto questo, s'ingegnò di portar pure a salvamento il presente, giugnendo dinanzi al re con debita reverenza. Lo re, veggendolo cosí schermigliato, disse:

- Ser Mazzeo, che vuol dir questo, che tu sei cosí avviluppato?

Rispose ser Mazzeo:

- Monsignore, egli è quello che voi volete.

Lo re disse:

- Come è?

Ser Mazzeo disse:

- Sapete voi qual è la piú bella storia che sia nella Bibbia?

Lo re, che era di ciò intendentissimo, rispose:

- Assai ce ne sono, ma il superlativo grado non saprei ben quale.

Allora ser Mazzeo disse:

- Se mi date licenzia vel dirò io.

Rispose lo re:

- Di' sicuramente ciò che tu vuogli.

E ser Mazzeo dice:

- Monsignore lo re, la piú bella istoria che sia in tutta la Bibbia è quando la reina di Saba, udendo la sapienza mirabile di Salamone, si mosse cosí da lungi per andare a vedere le terre sue e lui in Egitto; la quale, giugnendo alle terre governate per Salamone, tanto trovava ogni cosa ragionevolmente disposta che quanto piú vedea, piú si maravigliava, e piú s'infiammava di vedere Salamone, tanto che, giugnendo alla principal città, pervenne al suo palazzo, e di passo in passo ogni cosa mirando e considerando, vidde li servi e' sudditi suoi molto ordinati e costumati; tanto che, giunta in su la gran sala, fece dire a Salamone come ella era e perché quivi venuta. E Salamone subito uscío della camera e faglisi incontro; il quale la detta reina veggendo, si gittò inginocchioni, dicendo ad alta voce: “O sapientissimo re, benedetto sia il ventre che portò tanta prudenza, quanta in te regna”.

E qui ristette ser Mazzeo.

Disse allora il re Federigo:

- Be', che vuoi tu dir, ser Mazzeo?

E ser Mazzeo rispose:

- Monsignor lo re, voglio dire che se questa reina comprese bene, per l'ordine e costume delle terre e de' sudditi di Salamone, esser lui il piú savio uomo del mondo; io per quella medesima forma posso considerare voi essere il piú matto re che viva, pensando che io, vostro minimo servo, venendo con questo usato dono alla vostra maestà, li servi vostri m'abbino concio come voi vedete.

Lo re, veggendo e considerando ser Mazzeo, lo consolò con parole, volendo sapere chi e come era stato, quelli tali fece dinanzi a sé venire, e corressegli e puní innanzi a ser Mazzeo, e del suo servizio gli cacciò; comandando a tutti gli altri che quando ser Mazzeo volesse venire a lui, giammai porta non gli fusse tenuta e sempre a lui facessono onore: e cosí seguirono di fare, maravigliandosi il detto del fine di sí notabile istoria, a proposito detta per un vecchierello a cui la mente già diffettava. Fu cagione questo ser Mazzeo, col suo dire, che questo re d'allora innanzi tenne molto meglio accostumata la sua famiglia che prima non tenea: ed è talor di necessità che si truovino uomeni di questa forma.

 

 

NOVELLA III

 

 

Parcittadino da Linari vagliatore si fa uomo di corte, e va a vedere lo re Adoardo d'Inghilterra, il qual, lodandolo, ha da lui molte pugna, e poi, biasimandolo, riceve dono.

 

Lo re Adoardo vecchio d'Inghilterra fu re di gran virtú e fama, e fu tanto discreto che la presente novella ne dimostrerrà in parte. Fu adunque nel suo tempo uno vagliatore a Linari in Valdensa nel contado di Firenze, il quale aveva nome Parcittadino. Venne a costui volontà di lasciare in tutto il vagliare ed esser uomo di corte, e in questo diventò assai sperto; e cosí spermentandosi nell'arte cortigiana, gli venne gran volontà di andare a vedere il detto re Adoardo; e non sine quare , ma perché avea udito molto delle sue magnanimità, e spezialmente verso li suoi pari. E cosí pensato, una mattina si misse in cammino, e non ristette mai che elli pervenne in Inghilterra alla città di Londra, dove lo re dimorava; e giunto al palagio reale, dove il detto re dimorava, di porta in porta trapassando, giunse nella sala, dove lo re il piú del tempo facea residenza; e trovollo fiso giucare a scacchi con lo gran dispensiere.

Parcittadino, giunto dinanzi al re, inginocchiandosi con le reverenti raccomandazioni, quella vista o quella mutazione fece il re come prima che giugnesse: di che stette Parcittadino per grande spazio in tal maniera. E veggendo che lo re alcun sembiante non facea, si levò in piede e cominciò a dire:

- Benedetto sia l'ora e 'l punto che qui m'ha condotto, e dove io ho sempre desiderato, cioè di vedere il piú nobile e 'l piú prudente e 'l piú valoroso re che sia fra cristiani; e ben mi posso vantare piú che altro mie pari, dappoi che io sono in luogo dove io veggio il fiore di tutti li altri re. O quanta gloria mi ha conceduta la fortuna! ché oggimai, se io morisse, con poca doglia verrei a quel passo, dappoi che io sono innanzi a quella serenissima corona la quale, come calamita tira il ferro, cosí con la sua virtú tira ciascuno con desiderio a veder la sua dignità.

Appena ebbe insino a qui Parcittadino condotto il suo sermone, che lo re si levò dal giuoco, e piglia Parcittadino, e con le pugna e calci, cacciandolo per terra, tante gliene diede che tutto il pestò; e fatto questo, subito ritornò al giuoco delli scacchi. Parcittadino assai tristo, levandosi di terra, appena sapea dove si fosse; parendoli aver male spesi i passi suoi, e similmente le lode date al re, si stava cosí tapino, non sapendo che si fare. E pigliando un po' di cuore, volle provare se, dicendo il contrario al re, gliene seguisse meglio, da che per lo ben dire glien'era colto male; incominciando a dire:

- Maladetto sia l'ora e 'l dí che in questo luogo mi condusse, che credendo esser venuto a vedere un nobile re, come la fama risuona, e io sono venuto a vedere un re ingrato e sconoscente: credea esser venuto a vedere un re virtuoso, e io sono venuto a vedere un re vizioso: credea esser venuto a vedere un re discreto e sincero, e io sono venuto a vedere un re maligno, pieno di nequizia: credea esser venuto a vedere una santa e giusta corona, e io ho veduto costui che male per ben guiderdona; e la prova il dimostra, che me piccola creatura, magnificando e onorando lui, m'ha sí concio ch'io non so se mai potrò piú vagliare, se mai al mio mestiero antico ritornare mi convenisse.

Lo re si lieva la seconda volta piú furioso che la prima, e va a una porta, e chiama un suo barone. Veggendo questo Parcittadino, qual elli diventò non è da domandare, però che parea un corpo morto che tremasse, e s'avvisò essere dal re ammazzato; e quando udí lo re chiamare quel barone, credette chiamasse qualche justiziere che lo crucifiggesse.

Giunto il barone chiamato dal re, lo re gli disse:

- Va', da' la cotal mia vesta a costui, e pagalo della verità, ch'io l'ho ben pagato della bugia io.

Il barone va subito, e recò a Parcittadino una robba reale delle piú adorne che lo re avesse, con tanti bottoni di perle e pietre preziose che, sanza le pugna e' calci ch'egli ebbe, valea fiorini trecento o piú. E continuo sospettando Parcittadino che quella robba non fosse serpe o badalischio che 'l mordesse, a tentone la ricevette. Dappoi rassicuratosi e messasela indosso, e dinanzi allo re si appresentò, dicendo:

- Santa corona, qualora voi mi volete pagare a questo modo delle mie bugie, io dirò rade volte il vero.

E conobbe lo re per quello che avea udito, e lo re ebbe piú diletto di lui.

Dappoi, stato quello che gli piacque, prese commiato e dal re si partí, tenendo la via per la Lombardia; dove andò ricercando tutti li signori, raccontando questa novella, la quale gli valse piú di altri fiorini trecento; e tornossi in Toscana, e andò a rivedere con quella robba gli suoi parenti vagliatori da Linari, tutti polverosi di vagliatura e poveri; li quali maravigliandosi, Parcittadino disse loro:

- Tra molte pugna e calci fui in terra, poi ebbi questa robba in Inghilterra.

E fece bene a assai di loro; poi si partí e andò a procacciare sua ventura.

Questa fu cosí bella cosa a uno re, come potesse avvenire. E quanti ne sono che, essendo lodati come questo re, non avessono gonfiato le gote di superbia? Ed elli sappiendo che quelle lode meritava, volle dimostrare che non era vero, usando nella fine tanta discrezione. Assai ignoranti, essendo lodati nel loro cospetto da piasentieri, se lo crederanno; costui, essendo valoroso, volle dimostrare il contrario.

 

 

NOVELLA IV

 

 

Messer Bernabò signore di Melano comanda a uno abate che lo chiarisca di quattro cose impossibili; di che uno mugnaio, vestitosi de' panni dello abate, per lui le chiarisce in forma che rimane abate e l'abate rimane mugnaio.

 

Messer Bernabò signore di Melano, essendo trafitto da un mugnaio con belle ragioni, gli fece dono di grandissimo benefizio. Questo signore ne' suoi tempi fu ridottato da piú che altro signore; e come che fosse crudele, pur nelle sue crudeltà avea gran parte di justizia. Fra molti de' casi che gli avvennono fu questo, che uno ricco abate, avendo commesso alcuna cosa di negligenza di non avere ben notricato due cani alani, che erano diventati stizzosi, ed erano del detto signore, li disse che pagasse fiorini quattromila. Di che l'abate cominciò a domandare misericordia. E 'l detto signore, veggendolo addomandare misericordia, gli disse:

- Se tu mi fai chiaro di quattro cose, io ti perdonerò in tutto; e le cose son queste che io voglio che tu mi dica: quanto ha di qui al cielo; quant'acqua è in mare; quello che si fa in inferno; e quello che la mia persona vale.

Lo abate, ciò udendo, cominciò a sospirare, e parveli essere a peggior partito che prima; ma pur, per cessar furore e avanzar tempo, disse che li piacesse darli termine a rispondere a sí alte cose. E 'l signore gli diede termine tutto il dí sequente; e come vago d'udire il fine di tanto fatto, gli fece dare sicurtà del tornare.

L'abate, pensoso, con gran malenconia, tornò alla badía, soffiando come un cavallo quando aombra; e giunto là, scontrò un suo mugnaio, il quale, veggendolo cosí afflitto, disse:

- Signor mio, che avete voi che voi soffiate cosí forte?

Rispose l'abate:

- Io ho ben di che, ché 'l signore è per darmi la mala ventura se io non lo fo chiaro di quattro cose, che Salamone né Aristotile non lo potrebbe fare.

Il mugnaio dice:

- E che cose son queste?

L'abate gli lo disse.

Allora il mugnaio, pensando, dice all'abate:

- Io vi caverò di questa fatica, se voi volete.

Dice l'abate:

- Dio il volesse.

Dice il mugnaio:

- Io credo che 'l vorrà Dio e' santi.

L'abate, che non sapea dove si fosse, disse:

- Se 'l tu fai, togli da me ciò che tu vuogli, ché niuna cosa mi domanderai, che possibil mi sia, che io non ti dia.

Disse il mugnaio:

- Io lascerò questo nella vostra discrizione.

- O che modo terrai? - disse l'abate.

Allora rispose il mugnaio:

- Io mi voglio vestir la tonica e la cappa vostra, e raderommi la barba, e domattina ben per tempo anderò dinanzi a lui, dicendo che io sia l'abate; e le quattro cose terminerò in forma ch'io credo farlo contento.

All'abate parve mill'anni di sustituire il mugnaio in suo luogo; e cosí fu fatto.

Fatto il mugnaio abate, la mattina di buon'ora si mise in cammino; e giunto alla porta, là dove entro il signore dimorava, picchiò, dicendo che tale abate voleva rispondere al signore sopra certe cose che gli avea imposte. Lo signore, volontoroso di udire quello che lo abate dovea dire, e maravigliandosi come sí presto tornasse, lo fece a sé chiamare: e giunto dinanzi da lui un poco al barlume, facendo reverenza, occupando spesso il viso con la mano per non esser conosciuto, fu domandato dal signore se avea recato risposta delle quattro cose che l'avea addomandato.

Rispose:

- Signor sí. Voi mi domandaste: quanto ha di qui al cielo. Veduto appunto ogni cosa, egli è di qui lassú trentasei milioni e ottocento cinquantaquattro mila e settantadue miglia e mezzo e ventidue passi.

Dice il signore:

- Tu l'hai veduto molto appunto; come provi tu questo?

Rispose:

- Fatelo misurare, e se non è cosí, impiccatemi per la gola. Secondamente domandaste: quant'acqua è in mare. Questo m'è stato molto forte a vedere, perché è cosa che non sta ferma, e sempre ve n'entra; ma pure io ho veduto che nel mare sono venticinque milia e novecento ottantadue di milioni di cogna e sette barili e dodici boccali e due bicchieri.

Disse il signore:

- Come 'l sai?

Rispose:

- Io l'ho veduto il meglio che ho saputo: se non lo credete, fate trovar de' barili, e misurisi; se non trovate essere cosí, fatemi squartare. Il terzo mi domandaste quello che si faceva in inferno. In inferno si taglia, squarta, arraffia e impicca, né piú né meno come fate qui voi.

- Che ragione rendi tu di questo?

Rispose:

- Io favellai già con uno che vi era stato, e da costui ebbe Dante fiorentino ciò che scrisse delle cose dell'inferno; ma egli è morto; se voi non lo credete, mandatelo a vedere. Quarto mi domandaste quello che la vostra persona vale; e io dico ch'ella vale ventinove danari.

Quando messer Bernabò udí questo, tutto furioso si volge a costui, dicendo:

- Mo ti nasca il vermocan; sono io cosí dappoco ch'io non vaglia piú che una pignatta?

Rispose costui, e non sanza gran paura:

- Signor mio, udite la ragione. Voi sapete che 'l nostro Signore Jesú Cristo fu venduto trenta danari; fo ragione che valete un danaro meno di lui.

Udendo questo il signore, immaginò troppo bene che costui non fosse l'abate, e guardandolo ben fiso, avvisando lui esser troppo maggiore uomo di scienza che l'abate non era, disse:

- Tu non se' l'abate.

La paura che 'l mugnaio ebbe ciascuno il pensi; inginocchiandosi con le mani giunte, addomandò misericordia, dicendo al signore come egli era mulinaro dell'abate, e come e perché camuffato dinanzi dalla sua signoria era condotto, e in che forma avea preso l'abito, e questo piú per darli piacere che per malizia.

Messer Bernabò, udendo costui, disse:

- Mo via, poi ch'ello t'ha fatto abate, e se' da piú dí lui, in fé di Dio, e io ti voglio confirmare, e voglio che da qui innanzi tu sia l'abate, ed ello sia il mulinaro, e che tu abbia tutta la rendita del monasterio, ed ello abbia quella del mulino.

E cosí fece ottenere tutto il tempo che visse che l'abate fu mugnaio, e 'l mugnaio fu abate.

Molto è scura cosa, e gran pericolo, d'assicurarsi dinanzi a' signori, come fe' questo mugnaio, e avere quello ardire ebbe lui. Ma de' signori interviene come del mare, dove va l'uomo con grandi pericoli, e ne' gran pericoli li gran guadagni. Ed è gran vantaggio quando il mare si truova in bonaccia, e cosí ancora il signore: ma l'uno e l'altro è gran cosa di potersi fidare, che fortuna tosto non venga.

Alcuni hanno già detto essere venuta questa, o simil novella, a... papa, il quale, per colpa commessa da un suo abate, li disse che li specificasse le quattro cose dette di sopra, e una piú, cioè: qual fosse la maggior ventura che elli mai avesse aúto. Di che l'abate, avendo rispetto della risposta, tornò alla badía, e ragunati li monaci e' conversi, infino al cuoco e l'ortolano, raccontò loro quello di che avea a rispondere al detto papa; e che a ciò gli dessono e consiglio e aiuto. Eglino, non sappiendo alcuna cosa che si dire, stavano come smemorati: di che l'ortolano, veggendo che ciascheduno stava muto, disse:

- Messer l'abate, però che costoro non dicono alcuna cosa, e io voglio esser colui e che dica e che faccia, tanto che io credo trarvi di questa fatica; ma datemi li vostri panni, sí che io vada come abate, e di questi monaci mi seguano; e cosí fu fatto.

E giunto al papa, disse dell'altezza del cielo esser trenta voci. Dell'acqua del mare disse: “Fate turare le bocche de' fiumi, che vi mettono entro, e poi si misuri”. Quello che valea la sua persona, disse: “Danari ventotto”; ché la facea due danari meno di Cristo, ché era suo vicario. Della maggior ventura ch'egli avesse mai, disse: “Come d'ortolano era diventato abate”; e cosí lo confermò. Come che si fosse, o intervenne all'uno e all'altro, o all'uno solo, e l'abate diventò o mugnaio o ortolano.

 

NOVELLA V

 

Castruccio Interminelli, avendo un suo famiglio disfatto in uno muro il giglio dell'arma fiorentina, essendo per combattere, lo fa combattere con un fante che avea l'arma del giglio nel palvese, ed è morto.

 

Ora voglio mutare un poco la materia, e dire come Castruccio Interminelli, signore di Lucca, castigò uno gagliardo contro le mura. Questo Castruccio fu de' cosí savi, astuti e coraggiosi signori come fosse nel mondo già è gran tempo; e guerreggiando e dando assai che pensare a' Fiorentini, però che era loro cordiale nimico, fra l'altre notabili cose che fece fu questa: che essendo a campo in Valdinievole, e dovendo una mattina andare a mangiare in uno castello da lui preso, di quelli del Comune di Firenze, e mandando un suo fidato famiglio innanzi che apparecchiasse le vivande e le mense, il detto famiglio, giugnendo in una sala, dove si dovea desinare, vide tra molte arme, come spesso si vede, dipinta l'arme del giglio del Comune di Firenze, e con una lancia, che parea che avesse a fare una sua vendetta, tutta la scalcinò.

Venendo l'ora che Castruccio con altri valentri uomeni giunsono per desinare, il famiglio si fece incontro a Castruccio e, come giunse in su la sala, disse:

- Signore mio, guardate come io ho acconcio quell'arma di quelli traditori Fiorentini.

Castruccio, come savio signore, disse:

- Sia con Dio; fa' che noi desiniamo.

E tenne nella mente quest'opera, tanto che a pochi dí si rassembrò la sua gente per combattere con quella del Comune di Firenze; là dove, appressandosi li due eserciti, per avventura venne che innanzi a quello de' Fiorentini venía uno bellissimo fante bene armato con uno palvese in braccio, dove era dipinto il giglio.

Veggendo Castruccio costui essere de' primi a venirli incontro, chiamò il suo fidato famiglio, che cosí bene avea combattuto col muro, e disse:

- Vien qua; tu desti pochi dí fa tanti colpi nel giglio ch'era nel muro che tu lo vincesti e disfacesti: va' tosto, e armati come tu sai, e fa' che subito vadi a dispignere e vincere quello.

Costui nel principio credette che Castruccio beffasse. Castruccio lo costrinse, dicendo:

- Se tu non vi vai, io ti farò impiccar subito a quell'arbore.

Veggendosi costui mal parato, e che Castruccio dicea da dovero, v'andò il meglio che poteo. Come fu presso al fante del giglio, subito questo fante di Castruccio fu morto da quello con una lancia che 'l passò dall'una parte all'altra. Veggendo questo Castruccio, non fece alcun sembiante d'ira o cruccio, ma disse:

- Troppo bene è andato -; e volsesi a' suoi, dicendo: - Io voglio che voi appariate di combattere con li vivi, e non con li morti.

O non fu questa gran justizia? ché sono molti che danno per li faggi e per le mura e nelle cose morte, e fanno del gagliardo, come se avessono vinto Ettore; e oggi n'è pieno il mondo, che in questa forma, o contra minimi o pecorelle, sempre sono fieri; ma per ciascuno di questi tali fosse uno Castruccio che li pagasse della loro follia, come pagò questo suo famiglio.

Assai notabili cose fece ne' suoi dí Castruccio; fra l'altre, dicea a uno, che a sua petizione avesse fatto un tradimento:

- Il tradimento mi piace, ma il traditore no; pagati e vatti con Dio, e fa' che mai tu non mi venga innanzi.

Oggi si fa il contrario, ché se uno signore o Comune farà fare uno tradimento, fa il traditore suo provvisionato e sempre il tiene con lui, facendoli onore. Ma a molti è già intervenuto che quelli che hanno fatto fare il tradimento, dal traditore poi sono stati traditi.

 

 

NOVELLA VI

 

Marchese Aldobrandino domanda al Basso della Penna qualche nuovo uccello da tenere in gabbia, il Basso fa fare una gabbia, ed entrovi è portato a lui.

 

Marchese Aldobrandino da Esti, nel tempo che ebbe la signoria di Ferrara, gli venne vaghezza, come spesso viene a' signori, di avere qualche nuovo uccello in gabbia. Di che per questa cagione mandò un dí per uno Fiorentino che tenea albergo in Ferrara, uomo di nuova e di piacevolissima condizione, che avea nome Basso della Penna. Era vecchio e piccolo di persona, e sempre pettinato andava in zazzera e in cuffia. Giunto questo Basso dinanzi al marchese, il marchese sí gli dice:

- Basso, io vorrei qualche uccello per tenere in gabbia, che cantasse bene, e vorrei che fosse qualche uccello nuovo, che non se ne trovassono molti per l'altre genti, come sono fanelli e calderelli, e di questi non vo cercando; e però ho mandato per te, perché diversa gente e di diversi paesi ti vengono per le mani al tuo albergo; di che possibile ti fia che qualcuno di questi ti metta in via, donde se ne possa avere uno.

Rispose il Basso:

- Signore mio, io ho compreso la vostra intenzione, la quale m'ingegnerò di mettere ad effetto, e cercherò di far sí che subitamente serete servito.

Udendo il marchese questo, gli parve avere già in gabbia la fenice, e cosí si partío. Il Basso, avendo già immaginato ciò che far dovea, giunto che fu al suo albergo, mandò per un maestro di legname, e disse:

- Io ho bisogno di una gabbia di cotanta lunghezza, e tanto larga e tanto alta; e fa' ragione di farla sí forte ch'ella sia sofficiente a un asino, se io ve l'avessi a metter dentro, e abbia uno sportello di tanta grandezza.

Compreso che 'l maestro ebbe tutto, fu in concordia del pregio, e andò a fare la detta gabbia; fatta che l'ebbe, la fe' portare al Basso e tolse i denari.

Il Basso subito mandò per uno portatore, e là venuto entrando nella gabbia, disse al portatore che 'l portasse al marchese. Al portatore parve questa una nuova mercanzia e quasi non volea; se non che 'l Basso tanto disse che pur lo portò. Il qual giunto al marchese, con grande moltitudine di popolo che correa dietro alla novità; il marchese quasi dubitò, non conoscendo ancora che cosa fosse quella. Ma appressatosi la gabbia e 'l Basso ed essendo su portato presso al marchese, il marchese, conoscendo ciò che era, disse:

- Basso, che vuol dir questo?

Il Basso, cosí nella gabbia, con lo sportello serrato, cominciò a squittire, e disse:

- Messer lo marchese, voi mi comandaste pochi dí fa che io trovasse modo che voi avesse qualche nuovo uccello in gabbia, e che di quelli tali pochi ne fossono al mondo; di che, considerando chi io sono e quanto nuovo sono, ché posso dire che nessuno ne sia piú nuovo di me in su la terra, in questa gabbia intrai, e a voi mi rappresento, e mi vi dono per lo piú nuovo uccello che tra' cristiani si possa trovare; e ancora vi dico piú, che non ce n'ha niuno fatto com'io: il canto mio fia tale, che vi diletterà assai; e però fate posare la gabbia da quella finestra.

Disse il marchese:

- Mettetela sul davanzale.

Il Basso dice:

- Oimè, non fate, ché io potrei cadere.

Dice il marchese:

- Mettetelo su, ché 'l davanzale è largo.

E cosí messo su, accennò a un suo famiglio che dondolasse la gabbia, e nientedimeno la sostenesse.

E 'l Basso dice:

- Marchese, io ci venni per cantare, e voi volete ch'io pianga.

E cosí, quando il Basso fu rassicurato, disse:

- Marchese, se mi darete mangiare delle vivande che mangiate voi, io canterò molto bene.

Il marchese li fece venire un pane con un capo d'aglio, e tennelo tutto quel dí su la finestra, facendo a lui di nuovi giuochi; e tutto il popolo era sulla piazza a vedere il Basso nella gabbia; e in fine la sera cenò col signore, e poi si ritornò all'albergo, e la gabbia rimase al marchese, ché mai non la riebbe.

Il marchese da quell'ora innanzi ebbe il Basso piú caro che mai, e spesso l'invitava a mangiare, e facevalo cantare nella gabbia, e pigliava gran diletto di lui. Chi sapesse la disposizione de' signori, quando fossono in buona tempera, ognora penserebbono di cose nuove, come fece il Basso, che per certo ben serví il marchese, e non andò in India per l'uccello; ma essendogli presso presso, fu servito del piú nuovo e unico uccello che si potesse trovare.

 

 

NOVELLA VII

 

 

Messer Ridolfo da Camerino, al tempo che la Chiesa avea assediato Forlí, fa una nuova e notabile assoluzione sopra una questione che aveano valentri uomeni d'una insegna.

 

Messer Ridolfo da Camerino, savissimo signore, con poche parole e notabil judicio, contentò una brigata di valentri uomeni di quello che domandorono sopra una questione, sí come il Basso d'un nuovo uccello contentasse il marchese.

Al tempo che la Chiesa, e messer Egidio di Spagna cardinale per quella, avea per assedio costretta la città di Forlí per gran dimora; e di quella essendo signore messer Francesco Ardelaffi, notabile signore, molti signori notabili e valentri uomeni a petizione della Chiesa erano concorsi al detto assedio; ed essendo in una parte raccolti con una questione quasi quelli che erano i maggiori del campo, e tra loro essendo messer Unghero da Sassoferrato, il quale avea l'insegna del Crocifisso, la quale è quella insegna che è piú degna che alcun'altra; ed essendo gran contesa tra loro, però che quello che avea l'insegna dicea aver caro quel beneficio fiorini duemila; altri diceano: io vorrei innanzi fiorini duecento; e tali diceano fiorini cento, e tali fiorini trecento, e chi dicea di meno e chi di piú; passando per quel luogo messer Ridolfo da Camerino, che andava provveggendo il campo, s'accostò a loro domandando di quello che contendeano; di che per loro gli fu detto la cagione, pregandolo ancora che la loro questione diffinisse, e quello che si dovea prezzare la detta insegna.

Messer Ridolfo, avendo tosto considerata la questione, fece la risposta dicendo che chi tenea che la detta insegna si dovea prezzare e avere cara duecento, o trecento, o mille, o duemila, non potea avere ragione; però che quando il nostro Signore Jesú Cristo fu in questa vita, e di carne e d'ossa, fu venduto trenta danari, e ora ch'egli è dipinto nella pezza e morto e in croce, che si possa o debba ragionevolmente stimar piú, è cosa vana, e per la ragione allegata non potere justamente seguire. Udito che ebbono tutti questa sentenzia, con le risa s'accordorono a por fine alla questione, e dissono tutti, eccetto messer Unghero, messer Ridolfo avere ben detto e giudicato.

Notabile detto e strano fu quello di messer Ridolfo, e come che paresse ostico, raccontando come disse del nostro Signore, a ragione il judicio fu giusto; e mostrò, sanza dirlo, che son molti che fanno maggiore stima delle viste che de' fatti. E quanti ne sono già stati che hanno procacciato d'essere Gonfalonieri e Capitani, e d'avere l'insegna e reale e dell'altre, solo per vanagloria, ma dell'opere non si sono curati! E di questi apparenti ne sono stati, e tutto il dí sono piú che degli operanti. E non pur nelle cose dell'arme ma eziandio di quelli che in teologia si fanno maestrare, non per altro, se non per essere detto Maestro; Dottore di leggi, per essere chiamato Dottore; e cosí in filosofia e medicina, e di tutte l'altre cose: e Dio il sa quello che li piú di loro sanno!

 

 

NOVELLA VIII

 

 

Uno Genovese sparuto, ma bene scienziato, domanda Dante poeta come possa intrare in amore a una donna, e Dante gli fa una piacevole risposta.

 

Questo che seguita non fu meno notabile consiglio che fosse il judicio di messer Ridolfo. Fu già nella città di Genova uno scientifico cittadino e in assai scienze bene sperto, ed era di persona piccolo e sparutissimo. Oltre a questo era forte innamorato d'una bella donna di Genova, la quale, o per la sparuta forma di lui, o per moltissima onestà di lei, o per che che si fosse la cagione, giammai, non che ella l'amasse, ma mai gli occhi in verso lui tenea, ma piú tosto fuggendolo, in altra parte gli volgea. Onde costui, disperandosi di questo suo amore, sentendo la grandissima fama di Dante Allighieri, e come dimorava nella città di Ravenna, al tutto si dispose d'andar là per vederlo e per pigliare con lui dimestichezza, considerando avere da lui o consiglio o aiuto come potesse entrare in amore a questa donna, o almeno non esserli cosí nimico. E cosí si mosse, e pervenne a Ravenna, là dove tanto fece che fu a un convito dove era il detto Dante; ed essendo alla mensa assai di presso l'uno all'altro, il Genovese, veduto tempo, disse:

- O messer Dante, io ho inteso assai della vostra virtú e della fama che di voi corre; potre' io avere alcuno consiglio da voi?

Disse Dante:

- Purché io ve lo sappia dire.

Allora il Genovese dice:

- Io ho amato e amo una donna con tutta quella fede che amore vuole che s'ami; giammai da lei, non che amore mi sia stato conceduto, ma solo d'uno sguardo mai non mi fece contento.

Udendo Dante costui, e veggendo la sua sparuta vista, disse:

- Messere, io farei volentieri ogni cosa che vi piacesse; e di quello che al presente mi domandate, non ci veggio altro che un modo, e questo è che voi sapete che le donne gravide hanno sempre vaghezza di cose strane; e però converrebbe che questa donna che cotanto amate, ingravidasse: essendo gravida, come spesso interviene ch'ell'hanno vizio di cose nuove, cosí potrebbe intervenire che ella avrà vizio di voi; e a questo modo potreste venire ad effetto del vostro appetito: per altra forma sarebbe impossibile.

Il Genovese, sentendosi mordere, disse:

- Messer Dante, voi mi date consiglio di due cose piú forte che non è la principale; però che forte cosa sarebbe che la donna ingravidasse, però che mai non ingravidò; e vie piú forte serebbe che poi ch'ella fosse ingravidata, considerando di quante generazioni di cose ell'hanno voglia, che ella s'abbattesse ad avere voglia di me. Ma in fé di Dio, che altra risposta non si convenía alla mia domanda che quella che mi avete fatto.

E riconobbesi questo Genovese, conoscendo Dante per quello ch'egli era, meglio che non avea conosciuto sé, che era sí fatto che erano poche che non l'avessono fuggito. E conobbe Dante sí che piú dí stette il Genovese in casa sua, pigliando grandissima dimestichezza per tutti li tempi che vissono. Questo Genovese era scienziato, ma non dovea essere filosofo, come la maggior parte sono oggi; però che la filosofia conosce tutte le cose per natura; e chi non conosce sé principalmente, come conoscerà mai le cose fuora di sé? Costui, se si fosse specchiato, o con lo specchio della mente, o col corporale, averebbe pensato la forma sua e considerato che una bella donna, eziandio essendo onesta, è vaga che chi l'ama abbia forma di uomo, e non di vilpistrello.

Ma e' pare che li piú son tocchi da quel detto comune: “E’ non ci ha maggiore inganno che quello di sé medesimo”.

 

 

NOVELLA IX

 

 

Messer Giovanni della Lana chiede a uno buffone che faccia un bel partito: quelli ne fa uno molto nuovo: a colui non piace; fanne un altro, donde messer Giovanni scornato si parte.

 

Non so qual fosse piú sparuto di persona, o il Genovese passato, o messer Giovanni della Lana da Reggio, del quale brievemente dirò in questa novella. Il quale messer Giovanni, non possendo stare in Reggio, stando in Imola, ed essendo in uno cerchio di valentri uomeni, non considerando alla deformità della sua persona (ché era piccolissimo judice, e avea una foggetta in capo foderata d'indisia, che pare' l'erba luccia, ed era troglio, o vero balbo), disse a uno uomo di corte, chiamato maestro Piero Guercio da Imola, piacevole buffone e sonatore di stormenti, il quale era nel detto cerchio:

- Doh, maestro Piero, fate qualche bel partito dinanzi a questi valentri uomeni.

Rispose maestro Piero:

- Io il farò, poiché voi volete. Il partito è questo: qual volete voi pigliare delle due cose l'una, o volete che io cachi in codesta vostra foggia, o voletevi cacare voi?

Disse il maestro Giovanni quasi mezzo imbiancato:

- Io non voglio né l'uno né l'altro; fatene un altro che diletti questa brigata.

Disse il buffone:

- Io lo farò, poiché voi volete; dicendo: “Qual volete voi, messer Giovanni, quando avesse cacato nel vostro cappuccio, o mettervelo in capo voi, o volete che io vel metta in capo io?”

Messer Giovanni udendo questo, se al primo partito era divenuto bianco, a questo secondo diventò rosso e bizzarro, rimanendo scornato, dicendo:

- Mo vi nasca il vermocan, ché vui se' in brutto rubaldo di merda, e cosí di quella vi menate per bocca, ché da altro non se' vui.

Il maestro Piero con motti si difendea e dicea:

- Vo' se' judice, veggiamo a ragione chi ha il torto di noi due -; pigliandolo per lo lembo, acciò che non si partisse, però che era già in cammino; pur con quella poca di forza che avea, si spiccò e andonne rampognando; gli altri rimasono ridendo.

Cosí a messer Giovanni fu insegnato dal maestro Piero una legge che giammai piú non l'avea trovata. Cosí s'acquista spesso con gli uomeni di corte, che spesso s'entra in motti con loro, ed elli vituperano altrui; e però non si potrebbe errare a tacere, e lasciar dire un altro. Per farsi innanzi messer Giovanni, e non considerando a sé, fu beffeggiato da questo buffone con due cosí nobili partiti, come avete udito.

 

 

NOVELLA X

 

 

Messer Dolcibene, essendo con messer Galeotto alla valle di Josafat e udendo che in sí piccol luogo ciascuno ha a concorrere al diejudicio, piglia nuovamente luogo per non affogare allora.

 

Messer Dolcibene fu, secondo cavaliere di corte, d'assai, quanto alcun altro suo pari, e molte novelle assai vaghe e di brutta materia si possono scrivere di lui; e in questa novella, non per via di fare partito, come volea fare il maestro Piero da Imola, ma per altra forma, andando al Sepolcro con messer Galeotto e con messer Malatesta Unghero, trovò nuovo stile per dare diletto a questi due signori.

Andando adunque messer Galeotto e messer Malatesta detti, e messer Dolcibene con loro, al Santo Sepolcro, giugnendo là costoro e passando dalla valle di Josafat, disse messer Galeotto:

- O Dolcibene, in questa valle dobbiamo tutti venire al diejudicio a ricevere l'ultima sentenzia.

Disse messer Dolcibene:

- O come potrà tutta l'umana generazione stare in sí piccola valle?

Disse messer Galeotto:

- Sarà per potenza divina.

Allora messer Dolcibene scese da cavallo, e corre nel mezzo d'un campo della detta valle, e calati giuso i panni di gamba, lasciò andare il mestiere del corpo, dicendo:

- Io voglio pigliare il luogo, acciò che quando sarà quel tempo, io truovi el segno e non affoghi nella calca.

Li due signori diceano ridendo:

- Che vuol dire questo? e che fai tu?

Messer Dolcibene risponde:

- Signori, io ve l'ho detto: e' non si può essere savio, se l'uomo non s'argomenta per lo tempo che dee venire.

Dice messer Galeotto:

- O Dolcibene, lasciavi la parte del nibbio che serà maggiore segnale.

Disse allora messer Dolcibene:

- Signore, se io ci lasciassi el segnale che voi mi dite, e' non sarebbe buono per due cagioni: la prima, ch'e' ne serebbe portato da' nibbi, e 'l luogo rimarrebbe senza segno; e l'altra, che voi perdereste la mia compagnia.

Allora gli fu risposto da quelli signori:

- Per certo, Dolcibene, tu sai ben dire gli argomenti a ogni cosa; sali a cavallo, ché per certo tu hai ben provveduto -; e con questo sollazzo seguirono il loro cammino.

O questi son li trastulli de' buffoni, e' diletti che hanno li signori! Per altro non son detti buffoni, se non che sempre dicono buffe; e detti giucolari, ché continuo giuocono con nuovi giuochi. E’ non fu però questo messer Dolcibene sí scellerato che non componesse in questa andata del Sepolcro in versi vulgari una orazione alla nostra Donna che gli facesse grazia, raccontando tutti i luoghi santi che oltre mare avea vicitato.

 

 

NOVELLA XI

 

 

Alberto da Siena è richiesto dallo inquisitore, ed elli, avendo paura, si raccomanda a messer Guccio Tolomei; e in fine dice che per Donna Bisodia non è mancato che non abbia aúto il malanno.

 

Al tempo di messer Guccio Tolomei fu in Siena uno piacevole uomo e semplice, e non malizioso come messer Dolcibene. Era costui balbo della lingua, e avea nome Alberto; il quale essendo uomo di pura condizione, e usando spesso in casa del detto messer Guccio, però che 'l cavaliere ne pigliava gran diletto, avvenne che uno dí di quaresima, trovandosi messer Guccio con lo inquisitore, di cui era grande amico, compose con lui che l'altro dí facesse richiedere il detto Alberto, e quando fosse dinanzi da lui, gli opponessi qualche cosa di resía, e di questo ne seguirebbe alquanto di piacere e allo inquisitore e a lui.

Come il detto messer Guccio sí desse ordine, tornato che fu a casa, l'altro dí di buon'ora il detto Alberto fu richiesto che subito comparisse dinanzi allo inquisitore. Alberto tutto tremante, e se prima era balbo, a questo punto, avendo quasi perduta la lingua, appena poté dire: - Io verrò -; e andato a trovare messer Guccio, dicendo: - Io vi vorrei parlare -; e messer Guccio comprendendo quello che era, disse:

- Che novelle?

Dice Alberto:

- Cattive per me, ché lo inquisitore mi ha fatto richiedere, forse per paterino.

Dice messer Guccio:

- Averestú detto alcuna cosa contra la fede cattolica?

Dice Alberto:

- Io non so che s'è la fede calonica, ma io mi credo essere cristiano battezzato.

Dice messer Guccio:

- Alberto, fa' come io ti dirò; vattene al vescovo; e di': “Io fui richiesto, e appresentomi dinanzi a voi”; e sappi quello che ti vuol dire: dopo te poco stante verrò io; e lo inquisitore è molto mio amico, e cercherò dello spaccio tuo.

Disse Alberto:

- Ecco io vo, e affidomi in voi. E cosí si partí, e andonne al vescovo.

Il quale là giunto, come il vescovo il vide, con uno fiero viso disse:

- Qual se' tu?

Alberto balbo e tremante di paura disse:

- Io sono Alberto, che fui richiesto che io venisse dinanzi da voi.

- Or ben so, - dice il vescovo, - se' tu quell'Alberto che non credi né in Dio, né ne' santi?

Dice Alberto:

- Signor mio, chi ve l'ha detto non dice il vero, ché io credo in ogni cosa.

Allora dice il vescovo:

- E se tu credi in ogni cosa, dunque credi tu nel diavolo; e questo è quello che a me non bisogna altro ad arderti per paterino.

Alberto mezzo uscito di sé, domandando misericordia; dice il vescovo:

- Sai tu il Paternostro ?

Dice Alberto:

- Messer sí.

- Dillo tosto, - disse lo inquisitore.

Alberto cominciò; e non accordando l'aggettivo col sustantivo, giunse balbettando a uno scuro passo, là dove dice: da nobis hodie ; e di quello non ne potea uscire. Di che lo inquisitore, udendolo, disse:

- Alberto, io l'ho inteso; ché chi è paterino, non puote dire le cose sante; va', e fa' che domattina tu torni a me, e io formerò il processo secondo che meriterai.

Dice Alberto:

- Io tornerò da voi; ma io vi prego per l'amore di Dio che io vi sia raccomandato.

Disse lo inquisitore:

- Va', e fa' che io ti dico.

Allora si partí, e tornando verso casa, trovò messer Guccio Tolomei che allo inquisitore per questa faccenda andava. Messer Guccio, veggendolo tornare, dice:

- Alberto, la cosa dee stare bene, quando tu torni.

Disse Alberto:

- Gnaffe! non istà, però che dice che io sono paterino, e che io torni a lui domattina, e ancora non mancò per quella puttana di donna Bisodia che è scritta nel Paternostro  che non mi facesse morire allotta allotta. Di che io vi prego per l'amore di Dio che andiate a lui e preghiate che io gli sia raccomandato.

Disse messer Guccio:

- Io vo là, e ingegnerommi fare ciò che io potrò al tuo scampo.

E cosí andò messer Guccio, e portando all'inquisitore la novella di donna Bisodia, ne feciono per due ore grandissime risa. E mandando lo inquisitore, innanzi che messer Guccio si partisse, per lo detto Alberto, ed elli con gran timore tornandovi, gli diede lo inquisitore ad intendere che se non fosse messer Guccio, l'averebbe arso; e ben lo meritava, però che di nuovo avea inteso ancora peggio, che d'una santa donna, cioè di donna Bisodia, sanza la quale non si puote cantare messa, avea detto essere una puttana; e ch'egli andasse e tenesse sí fatti modi che non avesse piú a mandare per lui. Alberto, chiamando misericordia, disse non dirlo mai piú, e tutto doloroso della paura che avea aúta, con messer Guccio a casa si tornò. Il quale messer Guccio, avendo condotto la cosa come avea voluto, gran tempo nella sua mente ne godeo, e senza Alberto e con Alberto.

Belle sono le inventive de' gentiluomeni per avere diletto di nuove e di semplici persone; ma piú bello fu il caso che la fortuna trovò in Alberto, essendo impacciato da donna Bisodia; e forse forse, se Alberto fosse stato uno ricco uomo, lo inquisitore gli averebbe dato tanto ad intendere che si serebbe ricomperato de' suoi denari, per non essere arso o cruciato.

 

 

NOVELLA XII

 

 

Come Alberto detto, rimenando uno ronzino restío a casa, risponde a certi, che 'l domandano nuovamente, come nuovo uomo era.

 

Dappoi che io ho messo mano in Alberto da Siena, seguirò ancora di dire di lui una piacevole novelletta, la quale, se la fece per senno, serebbe stata bella a qualunque savio; ma credo piú tosto fosse per semplicità. Costui, avendo bisogno d'andare a un suo luogo fuori di Siena, accattò da un suo vicino un ronzino, sul quale salendo suso, e andando insino alla porta, come là giunse, il ronzino si cominciò a tirare addietro, come se della porta avesse aúto paura, o fosse aombrato, o che si fosse posto in cuore di non volere uscire della terra. Alberto, accennandoli cotale alla trista, non lo poteo mai fare andare; ma cominciandosi a sinistrare, e Alberto avendone grandissima paura, per lo migliore discese in terra, e prese le redine, lo volse indietro e cominciollo a rimenare a casa di chi gli l'avea prestato: là dove il ronzino non ch'egli andasse di passo, ma andava sí di trotto che facea ben trottare Alberto.

E cosí arrivò per lo campo di Siena; al quale quelli Sanesi che v'erano avendo gli occhi, veggendo menare uno ronzino a mano, a gran boci gridavano:

- O Alberto, di cui è cotesto ronzino? O Alberto, dove meni tu questo ronzino?

A quelli che diceano: “Di cui è cotesto ronzino?” rispondea: “Èssi me' suo”. A quelli che diceano: “Dove il meni tu?” rispondea: “Anzi mena elli me”.

E cosí diede che pensare a' Senesi buona pezza, tanto che seppono l'effetto di quello che dicea; e Alberto rendé il ronzino, dicendo a colui:

- To' ti il ronzino suo, dappoi che e' non vuole che io vadi in villa oggi -; e cosí si rimase Alberto, che non andò in villa quel giorno.

Io per me credo che Alberto in questo fosse molto savio; ché sono molti che dicono: “Io vincerei pur la prova”. Quando uno avesse a domare, o scorgere un suo puledro, forse è da consentire; ma vincere la prova d'un cavallo altrui, colui che si mette a questo non corregge il suo cavallo, ma piú tosto puote pericolare sé.

 

NOVELLA XIII

 

 

Come Alberto, essendo per combattere con li Sanesi, si mette il cavallo innanzi, ed elli, smontato, li sta di dietro a piede, e la ragione che elli assegna quello esser il meglio.

 

Similmente questo Alberto in questa sua terza novella, che segue, non mi pare molto sciocco; però che essendo li Sanesi, per certa guerra che aveano co' Perugini, assembrati per combattere, e 'l detto Alberto essendo a cavallo tra la brigata sanese, e bene armato, scese da cavallo, e misesi il cavallo dinanzi, ed egli stava di drieto a piede. Veggendo gli altri che v'erano Alberto stare per questa forma, diceano:

- Che fai tu, Alberto? sali a cavallo, però che noi siamo subito per combattere.

A' quali Alberto rispose:

- Io voglio stare cosí, ché, se 'l cavallo mio fosse morto, serà fatto la menda di lui; ma se io fosse morto, nessuna menda di me serebbe fatta.

E come Dio volle, la gente si recò a battaglia, dove li Sanesi furono sconfitti. Ed essendo molto addietro il detto Alberto cosí a piede, il suo cavallo fu preso, ed elli si fuggí e cogliendolo la notte in certe vie tra boschi, e traendo vento che facea sonare le foglie, gli parea avere mille cavalieri dietro; e come uno pruno il pigliava dicea:

- Oimè! io mi t'arrendo, non mi uccidere -; credendo che fossono nimici che 'l pigliassono: e cosí con gran paura e con grande affanno consumò tutta quella notte, tanto che la mattina su l'alba si trovò presso a Siena.

E giunto a Siena, come che assai avessono da pensare ad altro, pure erano di quelli che domandavono:

- Alberto, come è ita la cosa? tu se' a piede? ove è il cavallo?

E quelli rispondea:

- Egli è perduto: cosí avess'elli fatto come fe' quell'altro d'uno di questi dí, che non avesse voluto uscire fuori della porta.

Ma la cosa andò peggio per Alberto, che domandando la menda, fu detto che non era stato a cavallo come si dovea; e non la poté mai avere.

Fu savio avviso quello di costui, se gli fosse venuto fatto, ché s'averebbe levato spesa da dosso; e arebbe aúto denari, e la persona salva era ritornata a Siena. E qui si puote vedere da quanto prezzo è il sesso umano; ché d'ogni animale è fatto stima di valuta, eccetto che dell'uomo, ma di questo non si domanda menda: benché si potrebbe dire per la sua nobilità eccede tanto agli altri, e per questo non è prezzo che lo possa ricomperare. Ma ancora è piú sicuro in una guerra, e piú forte, l'uomo povero che 'l ricco; se lo ricco è preso, è menato lui e 'l cavallo per li denari suoi; se lo povero è preso a cavallo, è lasciato l'uomo, e 'l cavallo n'è menato. E questo non è altro se non che tutto l'universo è corrotto per la moneta, e per quello a ogni cosa si mette ciascuno.

 

 

NOVELLA XIV

 

Come Alberto, avendo a far con la matrigna, essendo dal padre trovato, allega con nuove ragioni piacevolmente.

 

Non voglio lasciare la quarta novella d'Alberto, di quelle che già udi' di lui, come che molte altre ne facesse. Avea il detto Alberto una matrigna assai giovane e complessa e atticciata, il quale in nessun modo, come spesso interviene, potea avere pace con lei; e di questo suo caso dolendosi spesse volte con alcuni suoi compagni, da loro gli fu dato questo consiglio, dicendo:

- Alberto, se tu non trovi modo d'avere a far di lei, non isperar mai di star con lei se non in battaglia e in mala ventura.

Dice Alberto:

- Credete voi cotesto?

Coloro rispondono:

- Noi l'abbiamo per lo fermo.

Dice Alberto:

- E’ serebbe troppo gran peccato! e pur s'i' 'l facesse, e venisse agli orecchi dello inquisitore, e' m'ha colto animo addosso, leggermente mi farebbe morire.

E quasi come se non vi avesse l'animo, si partí dalle parole di costoro; e da altra parte pensò di mettere il consiglio ad effetto, e nol dissono a sordo; ché un dí, essendo andato il padre fuori e la donna rimanendo in camera, Alberto sanza dire troppe parole ché male le sapea dire, venne a' fatti e in sul letto l'uno e l'altro si condussono, e fu fatta la pace, che parea una casa cheta e riposata, che prima parea tempestosa e indemoniata. Nella qual pace e amore continuando Alberto, aiutando alle fatiche del padre, avvenne un dí che l'uno e l'altro stando di meriggio a giacere, che 'l padre ch'era andato in villa, tornò in quell'ora, e andato su, trovò sul letto sprovveduti la donna e Alberto.

Alberto, veggendo il padre, si gittò alla panca lungo il muro; e 'l padre piglia la mazza del letto per dargli, dicendo: “Sozzo traditore”, e quando: “ria puttana”.

E andando Alberto ora in su e ora in giú, secondo come la mazza del padre si menava, e gridando e l'uno e l'altro, tutta la vicinanza trasse al romore, dicendo:

- Che vuol dire questo?

E Alberto dice:

- E’ questo mio padre, che ebbe a fare cotanto tempo con mia madre, e mai non gli dissi una parola torta; e ora perché mi ha trovato giacer con la moglie, non altro che per buono amore, mi vuole uccidere, come voi vedete.

Gli vicini, udendo la ragione allegata per Alberto, dissono il padre avere il torto; e tirandolo da parte, dissono che non era senno il suo di fare palese quelle cose che si doverriano nascondere, e fecionli credere che, conoscendo eglino la condizione d'Alberto, che egli non era salito su quel letto per alcun male, ma per molta dimestichezza, avendo voglia di dormire. E cosí si dié pace il padre, e la donna si dié pace con Alberto per la domestichezza che avea presa con lei, facendo ciascuno da quell'ora innanzi i fatti loro sí occulti e sí cheti che 'l padre mentre che visse non ebbe piú a giucare del bastone.

Buono fu il rimedio che dato fu ad Alberto a stare in pace con la matrigna, e buona fu la ragione d'Alberto, ch'elli disse a' vicini quando trassono. E cosí credo che assai (non tutte) averebbono pace co' figliastri, se elli facessono quello che costui, e massimamente quelle che son mogli degli antichi padri, come era costei, le quali, essendo giovani, voglion vegliare, e' vecchi mariti voglion dormire.

 

 

 

NOVELLA XV

 

La sorella del marchese Azzo, essendo andata a marito al giudice di Gallura, in capo di cinque anni torna vedova a casa. Il frate non la vuol vedere, perché non ha fatto figliuoli, ed essa con un motto il fa contento.

 

Il marchese Azzo da Esti andò cercando il contrario d'una sua sorocchia. Questo marchese credo fosse figliuolo del marchese Obizzo, e avendo una sua sorocchia da marito che, salvo il vero, ebbe nome madonna Alda, la quale maritò al giudice di Gallura; e la cagione di questo matrimonio fu che 'l detto judice era vecchio e non avea alcun erede, né a chi legittimamente succedesse il suo; onde il marchese, credendo che madonna Alda, o madonna Beatrice come certi hanno detto avesse nome, facesse di lui figliuoli che rimanessono signori del judicato di Gallura, fece queto parentado volentieri: e la donna sapea troppo bene a che fine il marchese l'avea maritata.

Avvenne che, essendo andata a marito, stette cinque anni con lui e mai alcuno figliuolo non fece; e morendo il detto judice di Gallura, la donna tornò vedova a casa del marchese: alla quale né andò incontro il detto marchese, né alcuno sembiante fece, se non come il detto caso mai non fosse intervenuto. La qual donna giunta, e credendo essere dal marchese ricevuta teneramente, e veggendo tutto il contrario, e maravigliandosi di questo, e andando alcuna volta dove era il detto marchese per dolersi della sua fortuna, e fare con lui il debito lamento, nessuno atto facea, ma volgevasi in altra parte.

Continuando questo piú dí, la giovane, desiderosa di sapere la cagione de' modi e del cruccio del marchese, impronta verso lui andando un dí, cominciò a dire:

- Potre' io sapere, fratel mio, perché tanta ira e tanto sdegno tu dimostri verso di me sventurata vedovella, e piú tosto posso dire orfana, venendomi tu meno, che altro ricorso non ho?

Ed elli, volgendosi verso lei con nequitoso animo, rispose:

- O non sai tu la cagione? e perché ti maritai io al judice di Gallura? come non ti vergogni tu di essere stata cinque anni sua mogliera, ed essermi tornata in casa senza avere fatto figliuolo alcuno?

Appena lo lasciò la donna infino a qui dire, come quella che lo intese, e disse:

- Fratel mio, non dire piú, ch'io t'intendo; e giuroti per la fé di Dio che, per adempiere la tua volontà, ch'io non ho lasciato né fante, né ragazzo, né cuoco, né altro, con cui io non abbia provato; ma, se Dio non ha voluto, io non ne posso far altro.

Cosí si rallegrò il marchese di questo, come si fosse rallegrato un altro che, dopo grande abbominio dato a una sua sorella, la trovasse poi senza difetto; e in quell'ora l'abbracciò teneramente, e amandola e avendola piú cara che mai; e maritolla poi a un messer Marco Visconti, o a messer Galeazzo. Ha detto già alcuno ch'ella fece una fanciulla che ebbe nome Joanna, e maritossi a messer Ricciardo da Camino, signore di Trevisi. E questo par che tocchi Dante, capitolo ottavo del Purgatorio, dove dice in parte:

Quando serai di là dalle larghe onde

Di' a Giovanna mia, che per me chiami

Là dove agli innocenti si risponde, ecc.

Come che sia, questa donna contentò il fratello. Vogliono dire alcuni, e io sono colui che 'l credo, che questa fosse savia e casta donna; ma, veggendo la disposizione del fratello, con le sue parole lo volle fare contento di quello che elli avea voglia, e tornare nel suo amore. E cosí si contenta l'animo di quelli che guardano pure alla utilità, e non all'onore; e questa donna se ne avvide, e diegli di quella vivanda che volea, facendolo contento con quello che pochi se ne averebbono dato pace.

 

 

NOVELLA XVI

 

Uno giovene Sanese ha tre comandamenti alla morte del padre: in poco tempo disubbedisce, e quello che ne seguita.

 

Ora verrò a dire di una che s'era maritata per pulzella, e 'l marito vidde la prova del contrario anzi che con lei giacesse, e rimandolla a casa sua, senza avere mai a fare di lei.

Fu a Siena già un ricco cittadino, il quale, venendo a morte, e avendo un figliuolo e non piú, che avea circa a venti anni, fra gli altri comandamenti che li fece, furono tre. Il primo, che non usasse mai tanto con uno che gli rincrescesse; il secondo, che quando elli avesse comprato una mercanzia, o altra cosa, ed elli ne potesse guadagnare, che elli pigliasse quello guadagno e lasciasse guadagnare ad un altro; il terzo, che quando venisse a tòr moglie, togliesse delle piú vicine, e se non potesse delle piú vicine, piú tosto di quelle della sua terra che dell'altre da lunge. Il figliuolo rimase con questi ammonimenti, e 'l padre si morío.

Era usato buon tempo questo giovene con uno de' Forteguerri, il quale era stato sempre prodigo, e avea parecchie figliuole da marito. Li parenti suoi ogni dí lo riprendevano delle spese, e niente giovava. Avvenne che un giorno il Forteguerra avea apparecchiato un bel desinare al giovene e a certi altri; di che li suoi parenti li furono addosso, dicendo:

- Che fai tu, sventurato? vuo' tu spendere a prova col tale che è rimaso cosí ricco, e hai fatto e fai li corredi, e hai le figliuole da marito?

Tanto dissono che costui come disperato andò a casa, e rigovernò tutte le vivande che erano in cucina, e tolse una cipolla, e puosela su l'apparecchiata tavola, e lasciò che se 'l cotal giovene venisse per desinare gli dicessono che mangiasse di quella cipolla, che altro non v'era, e che 'l Forteguerra non vi desinava.

Venuta l'ora del mangiare, il giovene andò là dove era stato invitato, e giugnendo su la sala domandò la donna di lui: la donna rispose che non v'era, e non vi desinava; ma che elli avea lasciato, se esso venisse, che mangiasse quella cipolla, che altro non v'era. Avvidesi il giovene, su quella vivanda, del primo comandamento del padre, e come male l'avea osservato, e tolse la cipolla, e tornato a casa la legò con un spaghetto e appiccolla al palco sotto il quale sempre mangiava.

Avvenne da ivi a poco tempo che, avendo elli comprato un corsiere fiorini cinquanta, da indi a certi mesi, potendone avere fiorini novanta, non lo volle mai dare, dicendo ne volea pure fiorini cento; e stando fermo su questo, al cavallo una notte vennono li dolori, e scorticossi. Pensando a questo, il giovene conobbe ancora avere male atteso al secondo comandamento del padre e, tagliata la coda al cavallo, l'appiccoe al palco allato alla cipolla.

Avvenne poi per caso ancora, volendo elli pigliare moglie, non si potea trovar vicina, né in tutta Siena, giovene che li piacesse, e diési alla cerca in diverse terre, e alla fine pervenne a Pisa, là dove si scontrò in un notaio, il quale era stato in officio a Siena, ed era stato amico del padre, e conoscea lui.

Di che il notaio gli fece grande accoglienza, e domandollo che faccenda avea in Pisa. Il giovene li disse che andava cercando d'una bella sposa, però che in tutta Siena non ne trovava alcuna che li piacesse.

Il notaio disse:

- Se cotesto è, Dio ci t'ha mandato, e serai ben accivito; però che io ho per le mani una giovene de' Lanfranchi, la piú bella che si vedesse mai, e dammi cuore di fare che ella sia tua.

Al giovene piacque, e parveli mill'anni di vederla, e cosí fece. Come la vide, s'accostò al mercato, fu fatto e dato l'ordine quando la dovesse menare a Siena. Era questo notaio una creatura de' Lanfranchi, e la giovene essendo disonesta, e avendo avuto a fare con certi gioveni di Pisa, ella non s'era mai potuta maritare. Di che questo notaio guardò di levare costei da dosso a' suoi parenti e appiccarla al Sanese. Dato l'ordine della cameriera, forse della ruffiana, la quale fu una femminetta sua vicina, chiamata monna Bartolomea, con la quale la donna novella s'andava spesso trastullando di quando in quando; e dato ogni ordine delle cose opportune e della compagnia, tra la quale era alcuno giovene di quelli che spesso d'amore l'avea conosciuta, si mosson tutti col marito e con lei ad andare verso Siena, e là si mandò innanzi a fare l'apparecchio.

E cosí andando per cammino, un giovene de' suoi che la seguía parea che andasse alle forche, pensando che costei era maritata in luogo straniero, e che senza lei gli convenía tornare a Pisa; e tanto con pensieri e con sospiri fece che 'l giovene quasi e di lei e di lui si fu accorto: perché ben dice il proverbio che l'amore e la tosse non si può celare mai. E con questo vedere, preso gran sospetto, tanto fece che seppe chi la giovene era e come il notaio l'avea tradito e ingannato. Di che giugnendo a Staggia, lo sposo usò questa malizia disse che volea cenare di buon'ora, però che la mattina innanzi dí volea andare a Siena, per fare acconciare ciò che bisognava; e disselo sí che 'l valletto l'udisse.

Erano le camere dove dormirono quasi tutte d'assi l'una allato all'altra. Il marito ne avea una, la sposa e la cameriera un'altra, e in un'altra era il giovene e un altro, il quale non fu senza orecchi a notare il detto del Sanese; ma tutta la sera ebbe colloquio con la cameriera, aspettando l'alba del giorno, e cosí s'andorono al letto. E venendo la mattina, quasi un'ora innanzi a dí, e lo sposo si levò per andare a Siena come avea dato ad intendere. E sceso giuso, e salito a cavallo, cavalcò verso Siena quasi quattro balestrate, e poi diede la volta ritornando passo passo e cheto verso l'albergo donde si era partito; e appiccando il cavallo a una campanella, su per la scala n'andò; e giugnendo all'uscio della camera della donna, guardò pianamente e sentí il giovene essere dentro; e pontando l'uscio mal serrato, v'entrò dentro; e accostandosi alla cassa del letto pianamente, se alcun panno trovasse di colui che s'era colicato, per avventura trovò i suo' panni di gamba, e quelli del letto, o che sentissono, e per la paura stessono cheti, o che non sentissono, questo buon uomo si mise le brache sotto, e uscito della camera, scese la scala, e salito a cavallo con le dette brache, camminò verso Siena.

E giunto a casa sua, l'appiccò al palco allato alla cipolla e alla coda.

Levatasi la donna e l'amante la mattina a Staggia, il valletto non trovando le brache, sanza esse salí a cavallo con l'altra brigata, e andorono a Siena. E giunti alla casa, dove doveano essere le nozze, smontorono. E postisi a uno leggiero desinare sotto le tre cose appiccate, fu domandato il giovane quello che quelle cose appiccate significavano. Ed elli rispose:

- Io vel dirò; e prego ognuno che mi ascolti. Egli è piccol tempo che mio padre morí, e lasciommi tre comandamenti: il primo sí e sí, e però tolsi quella cipolla e appicca' la quivi; il secondo mi comandò cosí, e in questo il disubbidi'; morendo il cavallo, taglia' li la coda e quivi l'appiccai; il terzo, che io togliesse moglie piú vicina che io potesse; e io, non che io l'abbia tolta dappresso, ma insino a Pisa andai, e tolsi questa giovene, credendo fosse come debbono essere quelle che si maritono per pulzelle. Venendo per cammino questo giovene, il quale siede qui, all'albergo giacque con lei, e io chetamente fui dove elli erano; e trovando le brache sue, io ne le recai e appicca' le a quel palco: e se voi non mi credete, cercatelo, che non l'ha: - e cosí trovorono. - E però questa buona donna, levata la mensa, vi rimenate in drieto, che mai, non che io giaccia con lei, ma io non intendo di vederla mai. E al notaio, che mi consigliò e fece il parentado e la carta, dite che ne faccia una pergamena da rocca.

E cosí fu. Costoro con la donna si tornorono a piè zoppo col dito nell'occhio; e la donna si fece per li tempi con piú mariti, e 'l marito con altre mogli.

In queste tre sciocchezze corse questo giovene contro a' comandamenti del padre, che furono tutti utili, e molta gente non se ne guarda. Ma di questo ultimo, che è il piú forte, non si puote errare a fare li parentadi vicini, e facciamo tutto il contrario. E non che de' matrimoni, ma avendo a comprare ronzini, quelli de' vicini non vogliamo, che ci paiono pieni di difetti, e quelli de' Tedeschi che vanno a Roma, in furia comperiamo. E cosí n'incontra spesse volte e dell'uno e dell'altro, come avete udito, e peggio.

 

 

NOVELLA XVII

 

Piero Brandani da Firenze piatisce, e dà certe carte al figliuolo; ed elli, perdendole, si fugge, e capita dove nuovamente piglia un lupo, e di quello aúto lire cinquanta a Pistoia, torna e ricompera le carte.

 

Nella città di Firenze fu già un Piero Brandani cittadino che sempre il tempo suo consumò in piatire. Avea un suo figliuolo d'etade di diciotto anni, e dovendo fra l'altre una mattina andare al Palagio del Podestà per opporre a un piato, e avendo dato a questo suo figliuolo certe carte, e che andasse innanzi con esse, e aspettasselo da lato della Badía di Firenze; il quale, ubbidendo al padre, come detto gli avea, andò nel detto luogo, e là con le carte si mise ad aspettare il padre, e questo fu del mese di maggio.

Avvenne che, aspettando il garzone, cominciò a piovere una grandissima acqua: e passando una forese, o trecca, con un paniere di ciriege in capo, il detto paniere cadde; del che le ciriege s'andarono spargendo per tutta la via; il rigagnolo della qual via ognora che piove cresce che pare un fiumicello. Il garzone, volonteroso, come sono, con altri insieme, alla ruffa alla raffa si dierono a ricogliere delle dette ciriege, e infino nel rigagnolo dell'acqua correano per esse. Avvenne che, quando le ciriege furono consumate, il garzone, tornando al luogo suo, non si trovò le carte sotto il braccio però che gli erano cadute nella dett'acqua, la quale tostamente l'avea condotte verso Arno, ed elli di ciò non s'era avveduto; e correndo or giú, or su, domanda qua, domanda là, elle furono parole, ché le carte navicavano già verso Pisa. Rimaso il garzone assai doloroso, pensò di dileguarsi per paura del padre: e la prima giornata, dove li piú disviati o fuggitivi di Firenze sogliono fare, fu a Prato; e giunse ad uno albergo, là dove dopo il tramontare del sole arrivorono certi mercatanti, non per istare la sera quivi, ma per acquistare piú oltre il cammino verso il ponte Agliana. Veggendo questi mercatanti stare questo garzone molto tapino, domandarono quello ch'egli avea e donde era: risposto alla domanda, dissono se volea stare e andare con loro.

Al garzone parve mill'anni, e missonsi in cammino, e giunsono a due ore di notte al pont'Agliana; e picchiando a uno albergo, l'albergatore, che era ito a dormire, si fece alla finestra:

- Chi è là?

- Àprici, ché vogliamo albergare.

L'albergatore rampognando disse:

- O non sapete voi che questo paese è tutto pieno di malandrini? io mi fo gran maraviglia che non sete stati presi.

E l'albergatore dicea il vero, ché una gran brigata di sbanditi tormentavono quel paese.

Pregorono tanto che l'albergatore aperse; ed entrati dentro e governati li cavalli, dissono che voleano cenare; e l'oste disse:

- Io non ci ho boccone di pane.

Risposono i mercatanti:

- O come facciamo?

Disse l'oste:

- Io non ci veggio se non un modo, che questo vostro garzone si metta qualche straccio indosso, sí che paia gaglioffo, e vada quassú da questa piaggia, dove troverrà una chiesa: chiami ser Cione, che è là prete, e da mia parte dica mi presti dodici pani: questo dico perché, se questi che fanno questi mali troverrano un garzoncello malvestito, non gli diranno alcuna cosa.

Mostrato la via al garzone, v'andò malvolentieri, però che era di notte, e mal si vedea. Pauroso, come si dee credere, si mosse, andandosi avviluppando or qua or là, sanza trovare questa chiesa mai; ed essendo intrato in uno boschetto, ebbe veduto dall'una parte un poco d'albore che dava in uno muro. Avvisossi d'andare verso quello, credendo fosse la chiesa; e giunto là su una grande aia, s'avvisò quella essere la piazza; e 'l vero era che quella era casa di lavoratore: andossene là, e cominciò a bussare l'uscio. Il lavoratore, sentendo, grida:

- Chi è là?

E 'l garzone dice:

- Apritemi, ser Cione, ché il tal oste dal ponte Agliana mi manda a voi, che gli prestiate dodici pani.

Dice il lavoratore:

- Che pani? ladroncello che tu se', che vai appostando per cotesti malandrini. Se io esco fuori, io te ne manderò preso a Pistoia, e farotti impiccare.

Il garzone, udendo questo, non sapea che si fare; e stando cosí come fuor di sé, e volgendosi se vedesse via che 'l potesse conducere a migliore porto, sentí urlare un lupo ivi presso alla proda del bosco, e guardandosi attorno vide su l'aia una botte dall'uno de' lati, tutta sfondata di sopra, ed era ritta; alla quale subito ricorse, ed entrovvi dentro, aspettando con gran paura quello che la fortuna di lui disponesse.

E cosí stando, ecco questo lupo, come quello che era forse per la vecchiezza stizzoso, e accostandosi alla botte, a quella si cominciò a grattare; e cosí fregandosi, alzando la coda, la detta coda entrò per lo cocchiume. Come il garzone sentí toccarsi dentro con la coda, ebbe gran paura; ma pur veggendo quello che era, per la gran temenza si misse a pigliar la coda, e di non lasciarla mai giusto il suo podere, insino a tanto che vedesse quello che dovesse essere di lui. Il lupo, sentendosi preso per la coda, cominciò a tirare: il garzone tien forte, e tira anco elli; e cosí ciascuno tirando, e la botte cade, e cominciasi a voltolare. Il garzone tien forte, e lo lupo tira; e quanto piú tirava, piú colpi gli dava la botte addosso. Questo voltolamento durò ben due ore; e tanto, e con tante percosse dando la botte addosso al lupo, che 'l lupo si morí. E non fu però che 'l giovane non rimanesse mezzo lacero; ma pur la fortuna l'aiutò, ché quanto piú avea tenuto forte la coda, piú avea difeso sé stesso, e offeso il lupo. Avendo costui morto il lupo, non ardí però in tutta la notte d'uscire della botte, né di lasciare la coda.

In sul mattino, levandosi il lavoratore, a cui il giovene avea picchiata la porta, e andando provveggendo le sue terre, ebbe veduto appiè d'un burrato questa botte: cominciò a pensare, e dire fra sé medesimo: “Questi diavoli che vanno la notte non fanno se non male, ché non che altro, ma la botte mia, che era in su l'aia, m'hanno voltolata infino colaggiú”; e accostandosi, vide il lupo giacere allato la botte, che non parea morto. Comincia a gridare: - Al lupo, al lupo, al lupo -; e accostandosi, e correndo gli uomini del paese al romore, viddono il lupo morto e 'l garzone nella botte.

Chi si segnò di qua e chi di là, domandando il giovene:

- Chi se' tu? che vuol dire questo?

Il garzone, piú morto che vivo, che appena potea ricogliere il fiato, disse:

- Io mi vi raccomando per l'amore di Dio, che voi mi ascoltiate e non mi fate male.

Li contadini l'ascoltarono, per udire di sí nuova cosa la cagione, il quale disse, dalla perdita delle carte insino a quel punto, ciò che incontrato gli era. A' contadini venne grandissima pietà di costui, e dissono:

- Figliuolo, tu hai aúta grandissima sventura, ma la cosa non t'anderà male come tu credi: a Pistoia è uno ordine che chiunque uccide alcun lupo, e presentalo al Comune, ha da quello cinquanta lire.

Un poco tornò la smarrita vita al giovene, essendoli profferto da loro e compagnia e aiuto a portare il detto lupo; e cosí accettoe. E insieme alquanti con lui, portando il lupo, pervennono all'albergo al pont'Agliana, donde si era partito, e l'albergatore della detta cosa si maraviglioe, come si dee immaginare, e disse che e' mercatanti se ne erano iti, e che egli ed eglino, veggendo non era tornato, credeano lui essere da' lupi devorato, o essere da' malandrini preso. In fine il garzone appresentò il lupo al Comune di Pistoia, dal quale, udita la cosa come stava, ebbe lire cinquanta; e di queste spese lire cinque in fare onore alla brigata, e con le quarantacinque, preso da loro commiato, tornò al padre; e addomandando misericordia, gli contò ciò che gli era intervenuto, e diegli le lire quarantacinque. Il qual padre, come povero uomo, gli tolse volentieri, e perdonògli; e con li detti denari fece copiare le carte, e dell'avanzo piatío gagliardamente.

E perciò non si dee mai alcuno disperare, però che spesse volte, come la fortuna toglie, cosí dà; e come ella dà, cosí toglie. Chi averebbe immaginato che le perdute carte giú per l'acqua fossono state rifatte per un lupo che mettesse la coda per uno cocchiume d'una botte, e sí nuovamente fosse stato preso? Per certo questo è un caso e uno esemplo, non che da non disperarsi, ma di cosa che venga non pigliare né sconforto né malinconia.

 

 

NOVELLA XVIII

 

Basso della Penna inganna certi Genovesi arcatori, e a un nuovo giuoco vince loro quello ch'egli avevano.

 

Come questo giovene acquistò puramente, e con grande simplicità, le lire cinquanta, cosí con grande astuzia il piacevol uomo Basso della Penna, raccontato a drieto, in questa novella vinse a un nuovo giuoco piú di lire cinquanta di bolognini. A questo Basso capitorono all'albergo suo a Ferrara certi Genovesi che andavano arcando con certi loro giuochi; e 'l Basso, avendo compresa la loro maniera, un giorno innanzi desinare si mise allato lire venti di bolognini d'ariento e una pera mézza, ché era di luglio, considerando che dopo desinare, lavate le mani, in su la sparecchiata tavola d'arcare loro, e cosí fece. Ché avendo desinato, ed essendo con loro ragionamenti alla mensa sparecchiata, disse il Basso:

- Io voglio fare con voi a un giuoco che non ci potrà avere malizia alcuna.

E mettesi mano in borsa, e trae fuori bolognini, e dice:

- Io porrò a ciascun di noi uno bolognino innanzi su questa tavola, e colui, a cui sul suo bolognino si porrà prima la mosca, tiri a sé i bolognini che gli altri averanno innanzi.

Costoro cominciorono con gran festa ad essere contenti di questo giuoco, e parea loro mill'anni che 'l Basso cominciasse. Il Basso, come reo, si mette il bolognino sotto con le mani tra gambe sotto la tavola, dove elli avea una pera mézza: e venendo a porre a ciascuno il bolognino innanzi, quello che dovea porre a sé ficcava nella pera mézza, onde la mosca continuo si ponea sul suo bolognino, salvo che delle quattro volte l'una ponea quello della pera dinanzi a uno di loro, acciò che vincendo qualche volta non si avvedesseno della malizia.

E pur cosí continuando, cominciorono a pigliare sospetto, parendo loro troppo perdere, e dissono:

- Messer Basso, noi vogliamo mettere i bolognini uno di noi.

Disse il Basso:

- Io sono molto contento, acciò che non prendiate sospetto.

Allora uno di loro co' suoi bolognini asciutti e aridi, che non aveano forse mai tocca pera mézza, cominciò mettere a ciascuno il suo bolognino. Il Basso lasciava andare sanza malizia alcuna volta che vincessino; quando volea vincere elli, e 'l bolognino gli era posto innanzi, spesse volte il polpastrello del dito toccava il mézzo della pera, e mostrando di acconciare il bolognino che gli era messo innanzi, lo toccava con quel dito, onde la mosca subito vi si ponea, benché gli bisognava durare poca fatica, però che le hanno naso di bracchetto e volavano tutte verso il Basso, sentendo la pera mézza, e ancora il luogo su la tavola dinanzi da lui, dove di prima il bolognino unto del Basso avea lasciato qualche sustanzia; e cosí provando or l'uno or l'altro dei Genovesi, non poterono tanto fare che 'l Basso non vincesse loro lire cinquanta di bolognini con una fracida pera, onde gli arcatori furono arcati, come avete udito.

E molte volte interviene che son molti che con certe loro maliziose arti stanno sempre avvisati d'ingannare, e di tirare l'altrui a loro, e hanno tanto l'animo a quello che non credono che alcun altro possa loro ingannare, e non vi pongono cura.

Se facessono la ragione del compagno, il quale molte volte non è cieco, non interverrebbe loro quello che intervenne a costoro; però che spesse volte l'ingannatore rimane a piede dell'ingannato.

 

 

NOVELLA XIX

 

Basso della Penna a certi forestieri, che domandorono lenzuola bianche, le dà loro sucide, ed eglino dolendosi, prova loro che l'ha date bianche.

 

Questa pera mézza, con la quale il Basso fece cosí bene i fatti suoi, mi reduce a memoria un'altra novella di pere mézze, fatta già per lo detto Basso, nella quale si dimostra apertamente che insino nell'ultimo della sua morte fu piacevolissimo. Ma innanzi che venisse a questo, io dirò due novellette, che fece in meno di due mesi anzi che morisse, avendo continuo o terzana o quartana, che poi lo indusse a morte.

A Ferrara arrivorono alcuni Fiorentini all'albergo suo una sera, e cenato che ebbono, dissono:

- Basso, noi ti preghiamo che tu ci dia istasera lenzuola bianche.

Basso risponde tosto, e dice:

- Non dite piú, egli è fatto.

Venendo la sera, andandosi al letto, sentivano le lenzuola non essere odorose, ed essere sucide. La mattina si levavono, e diceano:

- Di che ci servisti, Basso, che tanto ti pregammo iersera che ci dessi lenzuola bianche, e tu ci hai dato tutto il contrario?

Disse il Basso:

- O questa è ben bella novella; andiamole a vedere.

E giunto in camera caccia in giú il copertoio, e volgesi a costoro e dice:

- Che son queste? son elle rosse? son elle azzurre? son elle nere? non son elle bianche? Qual dipintore direbbe ch'elle fossono altro che bianche?

L'uno de' mercatanti guatava l'altro, e cominciava a ridere dicendo che 'l Basso avea ragione, e che non era notaio che avesse scritto quelle lenzuola essere d'altro colore che bianche. E con queste piacevolezze tirò gran tempo tanto a sé la gente che non si curavono di letto né di vivande.

E questa è una loica piacevole, che sta bene a tutti gli artieri, e massimamente agli albergatori, a' quali molti e di diversi luoghi vengono alle mani. Questa novelletta ha fatti molti, che l'hanno udita, savii; e io scrittore sono uno di quelli che giugnendo a uno albergo, volendo lenzuola nette, addomando che mi dea lenzuola di bucato.

 

 

NOVELLA XX

 

Basso della Penna fa un convito, là dove, non mescendosi vino, quelli convitati si maravigliono, ed egli gli chiarisce con ragione, e non con vino.

 

Questo Basso (ed è la seconda novella di quelle che io proposi in queste di sopra) in questi due mesi di sopra contati, ne' quali era già febbricoso del male che poi morío, parve che volesse fare la cena come fece Cristo co' discepoli suoi; e fece invitare molti suoi amici, che la tal sera venissono a mangiare con lui. La brigata tutta accettoe; e giunti la sera ordinata, essendo molto bene apparecchiate le vivande, postisi a tavola, e cominciando a mangiare, gli bicchieri si stavono, che nessuno famiglio metteva vino.

Quando quelli che erano a mensa furono stati quanto poteano, dicono a' famigli:

- Metteteci del vino.

Gli famigli, come aombrati, guardano qua e là, e rispondono:

- E’ non c'è vino.

Di che dicono che 'l dicano al Basso, e cosí fanno; onde il Basso si fa innanzi, e dice:

- Signori, io credo che voi vi dovete ricordare dell'invito che vi fu fatto per mia parte: io vi feci invitare a mangiare meco, e non a bere, però che io non ho vino che io vi desse, né che fosse buono da voi, e però chi vuol bere, si mandi per lo vino a casa sua, o dove piú li piace.

Costoro con gran risa dissono che 'l Basso dicea il vero, mandando ciascuno per lo vino, se vollono bere.

Il Basso fu loico anco qui, ma questa non fu loica con utile, se non che risparmiò il vino a questo convito; ma se volea risparmiare in tutto, era migliore loica a non gli avere convitati, che arebbe risparmiato anco le vivande; ma e' fu tanta la sua piacevolezza che volle e fu contento che gli costasse per usare questo atto.

 

 

NOVELLA XXI

 

Basso della Penna nell'estremo della morte lascia con nuova forma ogni anno alle mosche un paniere di pere mézze, e la ragione, che ne rende, perché lo fa.

 

Ora verrò a quella novella delle pere mézze, ed è l'ultima piacevolezza del Basso, però che fu mentre che moría. Costui venendo a morte, ed essendo di state, e la mortalità sí grande che la moglie non s'accostava al marito, e 'l figliuolo fuggía dal padre, e 'l fratello dal fratello, però che quella pestilenza, come sa chi l'ha veduto, s'appiccava forte, volle fare testamento; e veggendosi da tutti i suoi abbandonato, fece scrivere al notaio che lasciava ch'e' suoi figliuoli ed eredi dovessino ogni anno il dí di San Jacopo di luglio dare un paniere di tenuta d'uno staio di pere mézze alle mosche, in certo luogo per lui deputato. E dicendo il notaio: “Basso, tu motteggi sempremai”; disse Basso:

- Scrivete come io dico; però che in questa mia malattia io non ho aúto né amico né parente che non mi abbia abbandonato, altro che le mosche. E però essendo a loro tanto tenuto, non crederrei che Dio avesse misericordia di me, se io non ne rendesse loro merito. E perché voi siate certo che io non motteggio, e dico da dovero, scrivete che se questo non si facesse ogni anno, io lascio diredati li miei figliuoli, e che il mio pervenga alla tale religione.

Finalmente al notaio convenne cosí scrivere per questa volta; e cosí fu discreto il Basso a questo piccolo animaluzzo.

Non istante molto, e venendosi nelli stremi, che poco avea di conoscimento, andò a lui una sua vicina, come tutte fanno, la quale avea nome Donna Buona, e disse:

- Basso, Dio ti facci sano; io sono la tua vicina monna Buona.

E quelli con gran fatica guata costei, e disse che appena si potea intendere:

- Oggimai, perché io muoia, me ne vo contento, ché ottanta anni che io sono vissuto mai non ne trovai alcuna buona.

Della qual parola niuno era d'attorno che le risa potesse tenere, e in queste risa poco stante morí.

Della cui morte io scrittore, e molti altri che erano per lo mondo, ne portorono dolore, però che egli era uno elemento a chi in Ferrara capitava. E non fu grande discrezione la sua verso le mosche? Sanza che fu una grande reprensione a tutta sua famiglia; ché sono assai che abbandonano in cosí fatti casi quelli che doverrebbono mettere mille morti per la loro vita, e tale è il nostro amore che non che li figliuoli mettessino la vita per li loro padri, ma gran parte desiderano la morte loro, per essere piú liberi.

 

 

NOVELLA  XXII

 

 

Due frati minori passano dove nella Marca è morto uno; l'uno predica sopra il corpo per forma che tale avea voglia di piagnere che fece ridere.

 

Non fu sí canonizzata la fama del Basso di piacevolezza dopo la sua morte, quanto fu canonizzata la fama d'uno ricco contadino falsamente in santità in questa novella. E’ non è gran tempo che nella Marca d'Ancona morí nella villa un ricco contadino, che avea nome Giovanni; ed essendo, innanzi che si sotterrasse, tutti gli suo' parenti e uomeni e donne nel pianto e ne' dolori, volendoli fare onore, non essendo ivi vicina alcuna regola di frati, per avventura passorono due frati minori, li quali da quelli che erano diputati a fare la spesa furono pregati che alcuna predicazione facessono a commendazione del morto.

Li frati, nuovi sí del paese, e sí d'avere conosciuto il morto, cominciorono tra loro a sorridere, e tiratisi da parte disse l'uno all'altro:

- Vuo' tu predicar tu, o vuogli che io predichi io?

Disse l'altro:

- Di' pur tu.

Ed egli seguí:

- Se io prédico, io voglio che tu mi prometta di non ridere.

Rispose di farlo.

Dato l'ordine e l'ora, e saputo il nome del morto, il valentre frate andò, come è d'usanza, dove era il morto e tutta l'altra brigata; e salito alquanto in alto, propose:

- Que, qui . Per que  s'intende Janni, per qui  s'intende Joanni dello Barbaianni; non ci dico cavelle, perché vola di notte. Signori e donne, io sento che questo Joanni è stato bon peccatore, e quando ha possuto fuggire li disagi, volentiera ce l'ha fatto; ed è ben vivuto secondo il mondo; hacci preso gran vantaggio nel servire altrui, ed ègli molto spiaciuto l'essere diservito: largo perdonatore è stato a ciascuno che bene gli abbia fatto, e in odio ha avuto chi gli abbia fatto male. Con gran diletto ha guardato li santi dí comandati; e secondo ho sentito, gli dí da lavorare s'è molto guardato da' mali e dalle rie cose. Quando li suoi vicini hanno avuto bisogno, fuggendo le cose disutili, sempre gli ha serviti: è stato digiunatore quando ha aúto mal da mangiare: è vissuto casto, quando costato li fosse. Oratore m'è detto che è stato assai: ha detto molti paternostri, andandosi al letto, e l'Ave Maria almeno, quando sonava nel popul suo. Spesso ne' dí fuor di settimana facea elemosine. Venendo alla conclusione, li costumi e le opere sue sono state tali e sí fatte che sono pochi mondani che non le commendassono. E chi mi dicesse: “O frate, credi tu che costui sia in Paradiso?” Non credo. “Credi tu che sia in Purgatorio?” Dio il volesse. “Credi tu che sia in Inferno?” Dio nel guardi. E però pigliate conforto, e lasciate stare li lamenti, e sperate di lui quel bene che si dee sperare, pregando Dio che ci dia grazia a noi, che rimagnamo vivi, stare lungo tempo con li vivi, e li morti co' maglianni, da' quali ci guardi qui vivit et regnat in secula seculorum.  Fate la vostra confessione ecc.

La voce andò tra quella gente grossa e lacrimosa costui avere nobilmente predicato, e che elli avea affermato il morto per la sua santa vita essere salito in sommo cielo.

E’ frati se n'andorono con un buono desinare e con denari in borsa, ridendo di questo per tutto il loro cammino.

Forse fu piú vera e sustanzievole predica questa di questo fraticello che non sono quelle de' gran teologhi, che metteranno con le loro parole li ricchi usurai in Paradiso, e sapranno che mentono per la gola; e sia chi vuole, che se un ricco è morto, abbia fatto tutti e' mali che mai furno, niuna differenzia faranno dal predicare di lui al predicare di San Francesco; però che piagentano per empiersi di quello delli ignoranti che vivono.

 

 

NOVELLA XXIII

 

Messer Niccolò Cancellieri per esser tenuto cortese fa convitare molti cittadini, e innanzi che vegna il dí del convito è assalito dall'avarizia, e fagli svitare.

 

Questo inganno che questo frate fece con coverte parole a fare tenere un uomo santo, che non v'era presso, non volle usare in sé messer Niccolò Cancellieri, cavaliere dabbene, salvo che era avarissimo. Il quale volendo coprire in sé questo vizio, nell'ultimo si penteo, e nol fece.

Questo cavaliero fu da Pistoia, uomo sperto e cortigiano, stato e usato quasi il piú della sua vita con la reina Giovanna di Puglia, e con li signori e baroni di suo tempo e di quello paese. Essendo tornato costui a Pistoia, e facendo là sua dimora, fu stimolato e pinto dalli suoi prossimani, dicendo:

- Deh, messer Niccolò, voi sete un cavaliero d'assai, se non che l'avarizia vi guasta; fate un bello corredo, e mostrate a' Pistolesi non essere avaro come sete tenuto.

Tanto gli dissono che costui fece invitare bene otto dí innanzi tutti li notabili uomeni di Pistoia a mangiare una domenica mattina seco. E cosí fatto, quando giugne al quinto dí, che s'appressava al tempo di comprare le vivande, una notte fra sé medesimo pensò e fondossi pur su l'avarizia, però che il dí vegnente dovea cominciare a sciogliere la borsa, dicendo in sé medesimo: “Questo corredo mi costerà cento fiorini, o piú; e se io ne facesse cinquanta come questo, serebbe uno: non fia che sempre io non sia tenuto avaro. E per tanto, poiché 'l nome dell'avarizia non si dee spegnere, io non sono acconcio per spenderci denaio”.

E cosí prese per partito che la mattina, levato che fu, chiamò quel medesimo famiglio che per sua parte avea invitato li cittadini, e disse:

- Tu hai la scritta con che tu invitasti que' cittadini a desinare meco; recatela per mano, e come tu gl'invitasti, va', e svitali.

Dice il famiglio:

- Doh, signore mio, guardate quello che voi fate, e pensate che onore ve ne seguirà.

Dice il cavaliere:

- Bene sta; onore con danno al diavol l'accomanno; va', e fa' quello che io ti dico; e se alcuno ti domanda la cagione, rispondi che io mi sono pensato ch'io perderei la spesa.

E cosí andò il fante, e cosí fece, laonde molti dí se ne disse in Pistoia, facendo scherne al detto messer Niccolò. Il quale, essendogli manifesto, dicea:

- Io voglio innanzi che costoro dicano male di me a corpo vòto, che a corpo satollo del mio.

Io non so se questa fu maggiore cattività che quella che averebbono fatto gli svitati, quando avessono avuto li corpi pieni, che forse con grandissime beffe di lui averebbono patito quelle vivande, dicendo:

- Ben potrà spendere, e fare conviti, ché cosa sforzata pare e sempre avaro fia tenuto.

El cavaliere si rimase nella sua misertà e fuori della pena del convito, che non li fu piccola. Ebbe questo difetto, il quale nel mondo sopra li piú regna per sí fatta forma ch'egli è forse cagione delli maggiori mali che si commettono nel cerchio della terra.

 

NOVELLA XXIV

 

Messer Dolcibene al Sepolcro, perché ha dato a uno Judeo, è preso e messo in un loro tempio, là dove nella feccia sua fa bruttare i Judei.

 

Se nella precedente novella il cavaliere non volle ingannare altrui e mostrare sé essere quello che non era, cosí in questa messer Dolcibene mostrò e fece credere certamente a certi Judei il falso per lo vero. Come addietro è narrato, messer Dolcibene andò al Sepolcro; e come egli era di nuova condizione, e vago di cose nuove, venendo a parole con uno Judeo, perché dicea contro a Cristo, schernendo la nostra fede; dalle quali parole vennono a tanto che messer Dolcibene diede al Judeo di molte pugna; onde fu preso e menato a gran furore, dove fu serrato in un tempio de' Judei.

Venendo in su la mezza notte, essendo tristo e solo cosí incarcerato, gli venne volontà d'andare per lo bisogno del corpo, e non potendo altro luogo piú comodo avere, nel mezzo del tempio scaricò la soma. La mattina di buon'ora vennono certi Judei, e apersono il tempio, dove nel mezzo dello spazzo trovorono questa bruttura. Come la viddono, cominciano a gridare:

- Mora, mora lo cristiano maladetto, che ha bruttato lo tempio dello Dio nostro.

Messer Dolcibene, essendo da costoro assalito e preso, avendo gran paura, disse:

- Io non fui io; ascoltatemi, se vi piace: stanotte in su la mezza notte io senti' gran romore in questo luogo; e guardando che fosse, e io vidi lo Dio vostro e lo Dio nostro che s'aveano preso insieme e dàvansi quanto piú poteano. Nella fine lo Dio nostro cacciò sotto il vostro, e tanto gli diede che su questo smalto fece quello che voi vedete.

Udendo li Judei dire questo a messer Dolcibene, dando alle parole quella tanta fede che aveano, tutti a una corsono a quella feccia, e con le mani pigliandola, tutti i loro visi s'impiastrarono, dicendo:

- Ecco le reliquie del Dio nostro.

E chi piú si studiava di mettersene sul viso, a quello parea essere piú beato; e lasciando messer Dolcibene, n'andorono molti contenti, con li visi cosí lordi: e ancora procurando per lui, però che la tal cosa con gran verità avea loro revelata, il feciono lasciare.

Molto fu piú contento messer Dolcibene ch'e' Judei; però che fu molto novella da esaltare un suo pari e da guadagnare di molti doni, raccontandola a' signori e ad altri. E io credo ch'ella fosse molto accetta a Dio, e che in quello viaggio non facesse cosa tanto meritoria che quelli increduli dolorosi s'imbruttassino in quelle reliquie che allora meritavano.

 

 

NOVELLA XXV

 

Messer Dolcibene per sentenzia del Capitano di Forlí castra con nuovo ordine uno prete, e poi vende li testicoli lire ventiquattro di bolognini.

 

La seguente novella di messer Dolcibene, della quale voglio ora trattare, fu da dovero, dove la passata fu una beffa.

Nel tempo che messer Francesco degli Ardalaffi era signor di Forlí, una volta fra l'altre v'arrivò messer Dolcibene: e volendo il detto signore per esecuzione fare castrare un prete, e non trovandosi alcuno che 'l sapesse fare, il detto messer Dolcibene disse di farlo elli. Il capitano non averebbe già voluto altro, e cosí fu fatto. E messer Dolcibene fece apparecchiare una botte, e sfondata dall'uno de' lati, la mandò in su la piazza facendo là menare il prete, ed elli col rasoio e con uno borsellino andò nel detto luogo.

Giunti là e l'uno e l'altro, e gran parte di Forlí tratta a vedere, messer Dolcibene avendo fatto trarre le strabule al prete, lo fece salire su la botte a cavalcioni, e li sacri testicoli fece mettere per lo pertugio del cocchiume. Fatto questo, ed elli entrò di sotto nella botte, e col rasoio tagliata la pelle, gli tirò fuora e misseli nel borsellino, e poi gli si mise in uno carniere, però che s'avvisò, come malizioso, di guadagnare, come fece. Il prete doloroso, levato di su la botte, ne fu menato cosí capponato a una stia, e là alquanti dí si fece curare. Il capitano di queste cose tutto godea.

Avvenne poi alquanti dí che uno cugino del prete venne a messer Dolcibene in segreto, pregandolo caramente che quelli granelli gli dovesse dare, ed elli farebbe sí che serebbe contento; però che 'l prete capponato sanza essi dire messa non potea. Messer Dolcibene, aspettando questo mercatante, gli avea già misalti e asciutti, e quanto gli dicesse, e come gli mercatasse, egli n'ebbe lire ventiquattro di bolognini. Fatto questo, con grandissima festa disse al capitano che cosí fatta mercanzia avea venduta; e 'l sollazzo e la festa che 'l capitano ne fece non si potrebbe dire. E in fine, per diletto e non per avarizia, della quale fu nimico, disse che volea questi denari e che elli apparteneano a lui. Messer Dolcibene si poteo assai scuotere, ché convenne che tra le branche di Faraone si cavassono lire dodici di bolognini, dando la metade al detto capitano.

E cosí rimase la cosa che 'l prete se n'andò senza granelli dell'uno de' quali ebbe il capitano lire dodici, e messer Dolcibene altrettanti dell'altro.

Questa fu una bella e nuova mercanzia: cosí delle simili si facessono spesso, ché ne serebbe molto di meglio il mondo; e che fossono tratti a tutti gli altri, acciò che, ricomperandosi, avessono l'uno e l'altro danno, e poi gli si portassono in uno borsellino, che almeno non serebbono li viventi venuti a tanto che bandissono ogni dí le croci sopra le mogli altrui, e che tenessono le femmine alla bandita, chiamandole chi amiche, chi mogli e chi cugine; e li figliuoli che ne nascono, loro nipoti gli battezzano, non vergognandosi d'avere ripieni li luoghi sacri di concubine e di figliuoli nati di cosí dissoluta lussuria.

 

 

NOVELLA XXVI

 

Bartolino farsettaio fiorentino, trovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo, e col maestro Dino da Olena, insegna loro trarre il sangue, ecc.

 

La dottrina che seguita non fu meno maestrevole che quella di messer Dolcibene, la quale usoe Bartolino farsettaio, trovandosi nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo e con maestro Dino da Olena, ragionando d'assai cose da diletto con loro, però che come fossono scienziati, erano non meno piacevoli che Bartolino. Fra l'altre cose che costui disse a questi due medici, fu che gli domandò se sapeano come si traea il sangue al peto. Udendo li due valentri uomeni questo, cominciano ad entrare nelle risa per sí fatta forma che quasi rispondere non poteano; pur in fine dissono che no, ma che volentieri l'apparerebbono.

Disse Bartolino:

- Che volete che vi costi?

Disse il maestro Tommaso:

- Voglio che ogni volta che tu avrai male, esser tenuto di medicarti in dono.

E 'l maestro Dino disse che gli volea essere obbligato che ogni volta si volesse far fare uno farsetto non farlo mai fare per altra mano che per la sua.

Disse Bartolino allora:

- E io sono contento; state attenti, e io ve lo mostreroe testeso.

E subito fece un peto nell'acqua del bagno, il quale immantenente gorgogliando venne a galla e fece una vescica. E Bartolino come vide la vescica:

- Ora vi converrebbe avere la saettuzza e darvi entro

Quanti ne avea nel bagno, delle risa furono presso che affogati, e li medici piú che gli altri.

Io scrittore non so qual fosse meglio, o quello che promissono questi medici a Bartolino, o quello che Bartolino insegnò loro. Come che fosse, onestamente Bartolino riprese l'arte loro, che tanto ne sanno molti quanto Bartolino ne 'nsegnò loro, o meno.

 

 

NOVELLA XXVII

 

Marchese Obizzo da Esti comanda al Gonnella buffone che subito vada via, e non debba stare sul suo terreno; e quello che segue.

 

Il Gonnella piacevole buffone, o uomo di corte che vogliamo dire, mostrò al marchese da Ferrara non meno che Bartolino. Però che avendo il detto buffone commessa alcuna cosa piccola contro al marchese Obizzo, o per avere diletto di lui, gli comandò espressamente che sul suo terreno non dovesse stare; ché se vi stesse, gli farebbe tagliare la testa. Di che il Gonnella, nuovo come egli era, se ne andò a Bologna, e là accattoe una carretta, e su vi misse terreno di quello de' Bolognesi, e detto e accordatosi col guidatore della carretta del pregio, vi salí suso e ritornò in su questa carretta dinanzi al marchese Obizzo. Il quale, veggendo venire il Gonnella in sí fatta maniera, si maravigliò e disse:

- Gonnella, io t'ho detto che tu non debba stare sul mio terreno, e tu mi vieni su una carretta dinanzi. Che vuol dire questo? ha' mi tu per cosí dappoco?

E disse a' famigli suoi che 'l pigliassono a furore.

Disse il Gonnella:

- Signor mio, ascoltatemi per Dio, e fatemi ragione, facendomi impiccare per la gola, se io ho fallato.

Il signore, volonteroso d'udirlo, che ben pensava qualche nuova ragione dirsi per lui, disse:

- Aspettate un poco, tanto che dica ciò che vuole.

Allora il Gonnella disse:

- Signore, voi mi comandaste che io non stesse sul vostro terreno; di che io me ne andai subito a Bologna, e misi su questa carretta terreno bolognese, e su quello sono stato e al presente sono, e non sul vostro, né sul ferrarese.

Il marchese, udendo costui, con gran sollazzo patí questa ragione, dicendo:

- Gonnella, tu se' una falsa gonnella e con tanti colori e sí diversi che non mi vale né ingegno né arte contro alla tua malizia: sta' ove tu vuogli, ch'io te la do per vinta.

E con questa piacevole astuzia rimase a Ferrara, e rimandò la carretta a Bologna, e 'l marchese l'ebbe per da piú che prima.

E cosí con una nuova legge che niuno dottore giammai seppe allegare, il Gonnella allegò sí che a ragione il marchese non seppe contraddire, e 'l Gonnella ne guadagnò una roba.

 

 

NOVELLA  XXVIII

 

Ser Tinaccio prete da Castello mette a dormire con una sua figliuola uno giovene, credendo sia femina, e 'l bel trastullo che n'avviene.

 

Piú nuova e piú archimiata mostra fece colui che si mostrò in questa novella essere femina, ed era uomo. Venendo alla novella, nel mio tempo fu prete d'una chiesa a Castello, contado di Firenze, uno che ebbe nome ser Tinaccio, il quale essendo già vecchio, avea tenuto ne' passati tempi, o per amica o per nimica, una bella giovane dal Borgo Ognissanti, e avea avuto di lei una fanciulla, la quale nel detto tempo era bellissima e da marito: e la fama era per tutto che la nipote del prete era una bella cosa.

Stava non troppo di lungi a questa uno giovane, del cui nome e famiglia voglio tacere, il quale, avendo piú volte veduta questa fanciulla, ed essendone innamorato, pensò una sottile malizia per essere con lei, e venneli fatto. Una sera di tempo piovoso, essendo ben tardi, costui si vestí come una forese, e soggolato che s'ebbe, si mise paglia e panni in seno, facendo vista d'essere pregna e d'avere il corpo a gola, e andossene alla chiesa per addomandare la confessione, come fanno le donne quando sono presso al partorire. Giunta che fu alla chiesa, era presso a un'ora di notte, picchiò la porta, e venendo il cherico ad aprire, domandò del prete. Il cherico disse:

- Elli portò poc'ora fa la comunione a uno, e tornerà tosto.

La donna grossa disse:

- Ohimè, trista, ch'io sono tutta trambasciata.

E forbendosi spesso il viso con uno sciugatoio, piú per non essere conosciuto che per sudore che avesse sul volto, si pose con grande affanno a sedere dicendo:

- Io l'aspetterò, ché per la gravezza del corpo non ci potrei tornare; e anco, se Dio facesse altro di me, non mi vorrei indugiare.

Disse il cherico:

- Sia con la buon'ora.

Cosí aspettando, il prete giunse a un'ora di notte. Il popolo suo era grande: avea assai populane che non le conoscea. Come la vide al barlume, la donna archimiata con grande ambascia, e asciugandosi il viso, gli disse che l'avea aspettato, e l'accidente il perché. E 'l prete la cominciò a confessare. La maschia donna, com'era, fece la confessione ben lunga, acciò che la notte sopravvenisse bene. Fatta la confessione, la donna cominciò a sospirare, dicendo:

- Trista, ove n'andrò oggimai istasera?

Ser Tinaccio disse:

- E’ serebbe una sciocchezza; egli è notte buia e pioveggina e par che sia per piovere piú forte; non andate altrove: statevi stasera con la mia fanciulla, e domattina per tempo ve n'anderete.

Come la maschia donna udí questo, gli parve essere a buon punto di quello che desiderava; e avendo l'appetito a quello che 'l prete dicea, disse:

- Padre mio, io farò come voi mi consigliate, però che io sono sí affannata per la venuta che io non credo che io potesse andare cento passi sanza gran pericolo, e 'l tempo è cattivo e la notte è, sí che io farò come voi dite. Ma d'una cosa vi prego, che se 'l mio marito dicesse nulla, che voi mi scusiate.

Il prete disse:

- Lasciate fare a me

E andata alla cucina, come il prete la invioe, cenò con la sua fanciulla, spesso adoprando lo sciugatoio al viso per celare la faccia.

Cenato che ebbono, se ne andorono al letto in una camera, che altro che uno assito non v'avea in mezzo da quella di ser Tinaccio. Era quasi sul primo sonno che 'l giovane donna cominciò a toccar le mammelle alla fanciulla, e la fanciulla già avea dormito un pezzo; e 'l prete s'udía russare forte; pur accostandosi la donna grossa alla fanciulla, e la fanciulla, sentendo chi per lei si levava, comincia a chiamare ser Tinaccio, dicendo:

- Egli è maschio.

Piú di tre volte il chiamò pria che si svegliassi; alla quarta:

- O ser Tinaccio, egli è maschio.

E ser Tinaccio tutto dormiglioso dice:

- Che di' tu?

- Dico ch'egli è maschio.

Ser Tinaccio, avvisandosi che la buona donna avesse fatto il fanciullo, dicea:

- Aiutalo, aiutalo, figliuola mia.

Piú volte seguí la fanciulla:

- Ser Tinaccio, o ser Tinaccio, io vi dico ch'egli è maschio.

E quelli rispondea:

- Aiutalo, figliuola mia, aiutalo, che sie benedetta.

Stracco ser Tinaccio, come vinto dal sonno si raddormentoe, e la fanciulla ancora stracca e dalla donna grossa e dal sonno, e ancora parendoli che 'l prete la confortasse ad aiutare quello di cui ella dicea, il meglio che poteo si passò quella notte. E presso all'alba, avendo il giovene adempiuto quanto volle il suo desiderio, manifestandosi a lei, che già sanza mandorle s'era domesticata, e chi egli era, e come acceso del suo amore s'era fatto femina, solo per essere con lei come con quella che piú che altra cosa amava, e per arra, levatosi, in sul partire gli donò denari che aveva allato, profferendoli ciò che avea essere suo; ed ancora ordinò per li tempi avvenire come spesso si trovassono insieme; e fatto questo con molti baci e abbracciamenti pigliò commiato, dicendo:

- Quando ser Tinaccio ti domanderà “che è della donna grossa”, dirai: “Ella fece istanotte un fanciul maschio, quando io vi chiamava, e istamane per tempo col detto fanciullo s'andò con Dio”.

Partitosi la donna grossa, e lasciata la paglia, che portò in seno, nel saccone di ser Tinaccio; il detto ser Tinaccio, levandosi, andò verso la camera della fanciulla, e disse:

- Che mala ventura è stata questa istanotte, che tu non mi hai lasciato dormire? Tutta notte ser Tinaccio, ser Tinaccio : ben, che è stato?

Disse la fanciulla:

- Quella donna fece un bel fanciul maschio.

- O dove è?

Disse la fanciulla:

- Istamane per tempissimo, credo piú per vergogna che per altro, se n'andò col fanciullo.

Disse ser Tinaccio:

- Deh dagli la mala pasqua, ché tanto s'indugiano che poi vanno pisciando li figliuoli qua e là. Se io la potrò riconoscere, o sapere chi sia il marito, ché dee essere un tristo, io gli dirò una gran villania.

Disse la fanciulla:

- Voi farete molto bene, ché anco me non ha ella lasciato dormire in tutta notte.

E cosí finí questa cosa, ché da quell'ora innanzi non bisognò troppo archimia a congiugnere li pianeti, che spesso poi per li tempi si trovorono insieme; e 'l prete ebbe di quelle derrate che danno altrui. Cosí, poiché non si può far vendetta sopra le loro mogli, intervenisse a tutti gli altri, o sopra le nipote, o sopra le figliuole, come fu questa, simile inganno, che per certo e' fu bene uno de' maggiori e de' piú rilevati che mai si udisse.

E credo che 'l giovene facesse piccolo peccato a fallire contro a coloro che, sotto la coverta della religione, commettono tanti falli tutto dí contro alle cose altrui.

 

 

NOVELLA XXIX

 

Uno cavaliero di Francia, essendo piccolo e grasso, andando per ambasciadore innanzi a papa Bonifazio, nell'inginocchiare gli vien fatto un peto, e con un bel motto ramenda il difetto.

 

Io uscirò ora alquanto di quelle materie e inganni ragionati di sopra, e verrò a uno piacevole motto che uno cavaliere francesco gittò dinanzi a papa Bonifazio ottavo.

Uno cavaliere valente di Francia fu mandato per ambasciador con alcun altro dinanzi a papa Bonifazio, che avea nome messer Ghiriberto, il quale era bassetto di sua persona, e pieno e grasso quanto potea. E giunto il dí che costui dovea sporre questa ambasciata, come uomo non usato a simil faccenda, domandò alcuno che reverenzia si costumava fare quando un suo pari andava dinanzi al Papa. Fugli detto che convenía che s'inginocchiasse tre volte per la tal forma. Essendo il cavaliere di tutto informato, andò il dí medesimo dinanzi al Papa per disporre l'ambasciata; e volendo fare destramente piú che non potea la sua persona, s'inginocchiò la prima volta; come che gli fosse fatica, pur n'uscío; venendo alla seconda inginocchiazione, la fatica della prima aggiugnendosi con la seconda, e 'l volere fare presto e non potere, lo costrinse a far sí che la parte di sotto si fe' sentire. El cavaliere, veggendo esser vituperato, subito soccorse, dandosi delle mani nell'anche, dicendo:

- Lascia parlare moi, che mala mescianza vi don Doi.

Papa Bonifazio, che ogni cosa avea sentito, e ancora il piacevole motto dello ambasciadore, disse:

- Dite ciò che voi volete, che io v'intenderò bene.

E giugnendo appiè del Santo Padre, con grande sollazzo il ricevette; ed elli seguío la sua ambasciata, e per averla sposta con due bocche ebbe meglio dal Papa ciò che domandò.

Molto fu da gradire il tostano rimedio di questo cavaliero, il quale, sentendosi contra il suo volere caduto in tal vergogna, subito ricorse a quello, ché altro rimedio non vi era, né piú piacevole. Altri scientifichi uomeni già sono stati, che dicendo una ambasciata dinanzi al Papa, sanza che caso sia occorso loro di vergogna, sono cascati, non sappiendo perché, in sí fatta maniera che sono penati una gran pezza a ritornare in loro.

 

 

NOVELLA XXX

 

Tre ambasciadori cavalieri sanesi e uno scudiere vanno al Papa. Fanno dicitore lo scudiere, e la cagione perché, e quello che con piacere ne seguío.

 

Non fu meno coraggioso questo ambasciadore sanese a dire arditamente la sua ambasciata dinanzi al Papa, che fosse il cavaliero di Francia.

Fu in Siena al tempo di Gregorio papa decimo ordinato di mandarli una solenne ambasciata, ed elessono tre cavalieri e uno che non era cavaliere, il quale era il migliore dicitore di Siena, quando tre o quattro volte avesse bevuto d'un buon vino prima che disponesse l'ambasciata: e non beendo per lo modo detto, non averebbe saputo dire una gobbola. E questa condizione, o natura, a me scrittore mi pare che fosse delle strane e delle diverse che mai s'udissono.

Mossonsi questi quattro ambasciadori sanesi, e andarono a Corte: ed essendo la mattina che doveano sporre l'ambasciata, tiratisi da parte all'albergo, cominciò a dire alcuno de' cavalieri:

- Chi dirà?

Disse uno di loro:

- Cioè? E chi nol sa chi dee dire? dica il tale.

Costui si cominciò a difendere, che non era cavaliere; e che, dicendo egli, era fare vergogna agli altri compagni ambasciadori, che erano cavalieri; e quella per niun modo volea fare.

Brievemente, e' si poteo ben dire di Berta e di Bernardo, che costui pinto da' tre convenne che fosse il dicitore. E col modo usato fu mandato per lo migliore vino della terra e per li confetti. Beúto che n'ebbe il dicitore tre volte, andorono a disporre l'ambasciata, la quale fu per lo scudiere tanto ben disposta, quanto altra che disponesse mai. Fatto questo, ed essendo per quella mattina dal papa licenziati, tornorono all'albergo. Ed essendo alquanto ristretti insieme, disse il dicitore a' cavalieri:

- Io non so se io dissi bene, e a vostro modo.

Dissono li cavalieri:

- Per certo tu dicesti meglio che tu dicessi mai.

Rispose il dicitore e presto:

- Per lo santo sangue di Dio, che se io avesse beúto un altro tratto io gli averei dato nel viso.

Quanto li cavalieri del detto di questo loro compagno risono, non si potrebbe dire. E 'l dicitore mostrò che, chi non ha cuore, lasciando ogni temerità, giammai non può ben dire.

E cosí è veramente, che 'l dicitore, quando parla, conviene che sia sicuro e coraggioso, però che 'l dire sempre manca per lo timore; e chi è ben pronto e ardito dinanzi al sommo pontefice, rade volte o non mai avviene che dinanzi ad ogni signore non dica arditamente.

 

 

NOVELLA  XXXI

 

 

Due ambasciadori di Casentino sono mandati al vescovo Guido d'Arezzo; dimenticano ciò che è stato commesso, e quello che 'l vescovo dice loro, e come tornati hanno grande onore per aver ben fatto.

 

Se lo passato ambasciadore ampliava il suo dire, o la sua rettorica per bere il vino, in questa mostrerrò come due ambasciadori per lo bere d'un buon vino, come che non fossono di gran memoria, ma quella cotanta che aveano quasi perderono.

Quando il vescovo Guido signoreggiava Arezzo, si creò per li Comuni di Casentino due ambasciadori, per mandare a lui addomandando certe cose. Ed essendo fatta loro la commessione di quello che aveano a narrare, una sera al tardi ebbono il comandamento di essere mossi la mattina. Di che tornati la sera a casa loro, acconciarono loro bisacce, e la mattina si mossono per andare al loro viaggio imposto. Ed essendo camminati parecchie miglia, disse l'uno all'altro:

- Hai tu a mente la commessione che ci fu fatta?

Rispose l'altro che non gliene ricordava.

Disse l'altro:

- O io stava a tua fidanza.

E quelli rispose:

- E io stava alla tua.

L'un guata l'altro, dicendo:

- Noi abbiàn pur ben fatto! O come faremo?

Dice l'uno:

- Or ecco, noi saremo tosto a desinare all'albergo, e là ci ristrigneremo insieme, non potrà essere che non ci torni la memoria.

Disse l'altro:

- Ben di' -; e cavalcando e trasognando pervennono a terza all'albergo dove doveano desinare, e pensando e ripensando, insino che furono per andare a tavola, giammai non se ne poterono ricordare.

Andati a desinare, essendo a mensa, fu dato loro d'uno finissimo vino. Gli ambasciadori, a cui piacea piú il vino che avere tenuta a mente la commessione, si comincia ad attaccare al vetro; e béi e ribei, cionca e ricionca, quando ebbono desinato, non che si ricordassino della loro ambasciata ma e' non sapeano dove si fossono, e andarono a dormire. Dormito che ebbono una pezza, si destaron tutti intronati. Disse l'uno all'altro:

- Ricorditi tu ancora del fatto nostro?

Disse l'altro:

- Non so io; a me ricorda che 'l vino dell'oste è il migliore vino che io beessi mai; e poi ch'io desinai, non mi sono mai risentito, se non ora; e ora appena so dove io mi sia.

Disse l'altro:

- Altrettale te la dico; ben, come faremo? che diremo?

Brievemente disse l'uno:

- Stiànci qui tutto dí oggi; e istanotte (ché sai che la notte assottiglia il pensiero) non potrà essere che non ce ne ricordi.

E accordaronsi a questo; e ivi stettono tutto quel giorno, ritrovandosi spesso co' loro pensieri nella Torre a Vinacciano. La sera essendo a cena e adoperandosi piú il vetro che 'l legname, cenato che ebbono, appena intendea l'uno l'altro. Andaronsi al letto, e tutta notte russorono come porci. La mattina levatisi, disse l'uno:

- Che faremo?

Rispose l'altro:

- Mal che Dio ci dia, ché poi che istanotte non m'è ricordato d'alcuna cosa, non penso me ne ricordi mai.

Disse l'altro:

- Alle guagnele, che noi bene stiamo, che io non so quello che si sia, o se fosse quel vino, o altro, che mai non dormi' cosí fiso, sanza potermi mai destare, come io ho dormito istanotte in questo albergo.

- Che diavol vuol dir questo? - disse l'altro. -

Saliamo a cavallo, e andiamo con Dio; forse tra via pur ce ne ricorderemo.

E cosí si partirono, dicendo per la via spesso l'uno all'altro:

- Ricorditi tu?

E l'altro dice:

- No, io.

- Né io.

Giunsono a questo modo in Arezzo, e andorono all'albergo; dove spesso tirandosi da parte, con le mani alle gote, in una camera, non poterono mai ricordarsene. Dice l'uno, quasi alla disperata:

- Andiamo, Dio ci aiuti.

Dice l'altro:

- O che diremo, che non sappiamo che?

Rispose quelli:

- Qui non dee rimanere la cosa.

Misonsi alla ventura, e andorono al vescovo; e giugnendo dove era, feciono la reverenzia, e in quella si stavano senza venire ad altro. Il vescovo, come uomo che era da molto, si levò e andò verso costoro, e pigliandoli per la mano, disse:

- Voi siate li ben venuti, figliuoli miei; che novelle avete voi?

L'uno guata l'altro:

- Di' tu.

- Di' tu.

E nessuno dicea. Alla fine disse l'uno:

- Messer lo vescovo, noi siamo mandati ambasciadori dinanzi alla vostra signoria da quelli vostri servidori di Casentino, ed eglino che ci mandano, e noi che siamo mandati, siamo uomeni assai materiali; e ci feciono la commessione da sera in fretta; come che la cosa sia, o e' non ce la seppono dire, o noi non l'abbiamo saputa intendere. Preghianvi teneramente che quelli Comuni e uomeni vi siano raccomandati, che morti siano egli a ghiadi che ci mandorono, e noi che ci venimmo.

Il vescovo saggio mise loro la mano in su le spalle, e disse:

- Or andate, e dite a quelli miei figliuoli, che ogni cosa che mi sia possibile nel loro bene, sempre intendo di fare. E perché da quinci innanzi non si diano spesa in mandare ambasciadori, ognora che vogliono alcuna cosa, mi scrivino, e io per lettera risponderò loro.

E cosí pigliando commiato, si partirono.

Ed essendo nel cammino, disse l'uno all'altro:

- Guardiamo che e' non c'intervenga al tornare, come all'andare.

Disse l'altro:

- O che abbiamo noi a tenere a mente?

Disse l'altro:

- E però si vuol pensare, però che noi averemo a dire quello che noi esponemmo, e quello che ci fu risposto. Però che s'e' nostri di Casentino sapessono come dimenticammo la loro commessione, e tornassimo dinanzi da loro come smemorati, non che ci mandassono mai per ambasciadori, ma mai offizio non ci darebbono.

Disse l'altro, che era piú malizioso:

- Lascia questo pensiero a me. Io dirò che sposto che avemo l'ambasciata dinanzi al vescovo, che egli graziosamente in tutto e per tutto s'offerse essere sempre presto a ogni loro bene, e per maggiore amore disse che per meno spesa ogni volta che avessono bisogno di lui, per loro pace e riposo scrivessero una semplice lettera, e lasciassono stare le 'mbasciate.

Disse l'altro:

- Tu hai ben pensato; cavalchiamo pur forte, che giunghiamo a buon'ora al vino che tu sai.

E cosí spronando, giunsono all'albergo, e giunto un fante loro alla staffa, non domandorono dell'oste, né come avea da desinare, ma alla prima parola domandorono quello che era di quel vino.

Disse il fante:

- Migliore che mai.

E quivi s'armorono la seconda volta non meno della prima, e innanzi che si partissono, però che molti muscioni erano del paese tratti, il vino venne al basso, e levossi la botte. Gli ambasciadori dolenti di ciò la levorono anco ellino, e giunsono a chi gli avea mandati, tenendo meglio a mente la bugia che aveano composta che non feciono la verità di prima, dicendo che dinanzi al vescovo aveano fatto cosí bella aringhiera, e dando ad intendere che l'uno fosse stato Tulio e l'altro Quintiliano, e' furono molto commendati, e da indi innanzi ebbono molti officii, che le piú volte erano o sindachi, o massai.

Oh quanto interviene spesso, e non pur de' pari di questi omicciatti, ma de' molto maggiori di loro, che sono tutto dí mandati per ambasciadori, che delle cose che avvengono hanno a fare quello che 'l Soldano in Francia; e scrivono e dicono che per dí e per notte mai non hanno posato, ma sempre con grande sollecitudine hanno adoperato, e tutta è stata loro fattura; che attagliono e intervengono, ed eglino seranno molte volte con quel sentimento che un ceppo; e fiano commendati da chi gli ha mandati, e premiati con grandissimi officii e con altri guiderdoni perché li piú si partono dal vero e spezialmente quando per essere loro creduto se ne veggiono seguire vantaggio.

 

 

NOVELLA XXXII

 

Uno frate predicatore in una terra toscana, di quaresima predicando, veggendo che a lui udire non andava persona, truova modo con dire che mostrerrà che l'usura non è peccato, che fa concorrere molta gente a lui e abbandonare gli altri.

 

Meglio seppe comporre una sua favola uno frate, del quale parlerò in questo capitolo, che non seppono comporre la loro gli ambasciadori di Casentino. Però che in una terra delle grandi di Toscana, predicandosi nel tempo di quaresima, come è d'usanza, in piú luoghi, uno frate predicatore veggendo che agli altri che predicavono, come spesso interviene, andava molta gente, e a lui quasi non andava persona, disse uno mercoledí mattina in pergamo:

- Signori, egli è buona pezza che io ho veduto tutti gli teologhi e predicatori in un grande errore; e questo è ch'egli hanno predicato che 'l prestare sia usura e grandissimo peccato, e che tutti i prestatori vanno a dannazione. E io per quello che io posso comprendere, e che io ho trovato, ho veduto che 'l prestare non è peccato. E acciò che voi non crediate che io dica da beffe, o che io faccia stremi argomenti di loica, io vi dico ch'egli è tutto il contrario di questo, ch'egli hanno sempre predicato. E perché non crediate che io dica favole, perché la materia è grande, se io averò il tempo, io ne predicherò domenica mattina; e se io non avesse il tempo, un altro dí che mi venga a taglio, sí che ne anderete contenti, e fuori d'ogni errore.

La gente udendo questo, chi mormora di qua, e chi borboglia di là. Finita la predica, escono della chiesa; la boce va qua e là; ciascuno pensa: “Che vuol dire questo?” Gli prestatori stanno lieti, e gli accattatori tristi; e tale non avea prestato, che comincia a prestare. Chi dice: “Costui dee essere un valentissimo uomo”; e chi dice che dee essere una pecora; questo non si disse mai piú.

E in brieve tutta la terra aspettava la domenica mattina, la quale, venuta che fu, come li popoli son sempre vaghi di cose nuove, tutti corsono a pigliare luogo, e gli altri predicatori poterono predicare alle panche. Costui avea prima gli uditori sí radi che dall'uno all'altro avea parecchie braccia; ora v'erano sí stretti che affogava l'un l'altro; e questo era quello che elli avea desiderato. Giugnendo il frate in pergamo, e detta l'Avemaria, per non guastare la sua predicazione, propuose sopra l'Evangelio, e disse:

- Io dirò prima certe cose morali; poi dirò la storia dell'Evangelio; e ultimamente alcune parti a nostro ammaestramento, come la materia richiede, e dopo questo dirò dell'usura, come io vi promisi di dire.

E predicando per grande spazio questo valentre frate, mise gran tempo su le parti dell'Evangelio; e venendo a quella dell'usura, era molto tarda l'ora, però che era passata terza, e ciò avea fatto in prova per tranquillare la gente. Di che disse:

- Signori, questo Evangelio mi ha ingannato in questa mattina, però che egli è di grande sustanzia, e la midolla sua è profonda, come avete udito, e sono per questo sí trascorso oltre che in questa mattina non avrei tempo di dire quello che io v'ho promesso; ma abbiate pazienzia, ché in queste mattine che verranno non serà sí lungo il predicare; e quando mi vedrò il tempo, io ve ne predicherò, che mi pare mill'anni, per trarvi di questo errore.

E cosí gli pasceo d'oggi in domane insino all'altra domenica, nella quale concorse maggior populo che prima. Essendo salito in pergamo e avendo predicato, disse:

- Signori, io so che la cagione che tanta moltitudine è qui è solo per udire quello che piú volte v'ho detto, cioè del prestare. Di che io mi vi scuso, ché io sono stato un poco riscaldato di febbre; e pertanto m'abbiate stamane per iscusato; ma il tal dí venite, e se Dio mi farà grazia, ve ne predicherò.

E ora facendo una scusa, e ora un'altra, tutta Quaresima fece venire gente a sé, tenendoli sospesi insino a domenica d'olivo. Allora disse:

- Io vi ho promesso tante volte di dire la tal cosa che io non voglio trapassare questa mattina che io non vi dica ciò che io v'ho promesso. Voi sapete, signori, che la carità è accetta a Dio, quanta altra virtú che sia, o piú. E la carità non è altro che sovvenire al prossimo, e 'l prestare è sovvenimento; adunque, dico che 'l prestare si può fare, e ch'egli è licito; e ancora piú, che chi presta, merita. Ma dove sta il peccato, e dove è? Il peccato è nel riscuotere; e però il prestare, e non riscuotere, non che sia peccato, ma egli è grandissima mercè, ed essere accetto a Dio. E ancora dico piú che 'l riscuotere si può fare con modo, che non che sia peccato, ma è grandissima carità. Verbigrazia, uno presta a un altro fiorini cento, riscuote a certo dí li fiorini cento, e non piú; questo prestare e questo riscuotere è licito, e molto piace a Dio, e ancora piacerebbe piú, se per via d'amore o di carità non si riscotessono, ma liberamente si lasciassono al debitore. Sicché avete che l'usura sta nel riscuotere piú che la vera sorta, però che 'l peccato nel tenimento non sta ne' fiorini cento, ma sta in quello che si dà piú che la vera sorta; e questa piccola quantità fa perdere tutta la carità che serebbe ne' fiorini cento, e ancora il servigio e bene che averebbe fatto al buon uomo che gli accattoe, e torna in cosa inlicita e di restituzione. E però conchiudendo, fratelli miei, io vi dico e affermo che 'l prestare non è peccato, ma il gran peccato è il riscuotere oltre la vera sorta; e con questo ve ne andate, e gagliardamente prestate, ché sicuramente potete prestare per lo modo che ho predicato; e guardatevi di riscuotere, e cosí facendo serete figliuoli del vostro padre, qui in coelis est.

E fece la confessione, la quale non fu né intesa né udita per lo grande mormorío e bisbigliare che vi era; e chi facea grandissime risa, dicendo:

- Questi ce n'ha ben fatto una, e tutta quaresima ci siamo venuti per udire questa predica, e istamane ci venimmo che non era dí. Deh morto sie egli a ghiado, che dee essere uno ciurmatore.

Chi stiamazza di qua e chi di là, piú giorni per la terra non si disse altro. Questo frate poté essere uno valentre uomo, però che egli avea mostrato, o voluto mostrare al populo, quanto era leggiero, e che correano piú tosto alle frasche e alle cose nuove che a quelle della Santa Scrittura; e ancora andavano volentieri a udire chi dicesse cose secondo gli appetiti loro.

Corse a questa predica prestatori, e chi avea voglia di prestare; e questi rimasono scherniti come meritavano; come ch'egli hanno preso tanto del campo che da loro hanno fatto un concetto, che Dio non veggia e non intenda, e hanno battezzata l'usura in diversi nomi, come dono di tempo, merito, interesso, cambio, civanza, baroccolo, ritrangola e molti altri nomi: le quali cose sono grandissimo errore, però che l'usura sta nell'opera e non nel nome.

 

 

NOVELLA XXXIII

 

Lo vescovo Marino scomunica messer Dolcibene, e ricomunicandolo poi, dando della mazzuola troppo forte, messer Dolcibene si leva, e cacciandolsi sotto, gli dà di molte busse.

 

Come il frate predicatore nella passata novella fece scherne di un gran populo, cosí in questa parve che messer Dolcibene volesse fare la vendetta contra un vescovo.

Essendo adunque costui arrivato in una terra de' Malatesti in Romagna, uno vescovo Marino, o per eccesso commesso per lui, o per averne diletto, l'avea scomunicato o fatto vista. E di ciò avendone piú di que' signori gran diletto, questo vescovo, non volendolo ricomunicare, il tenea accannato, ed elli avea gran bisogno di ritornare a Firenze, e cercava la ricomunica. Avvenne che alcuno de' signori, come aveano ordinato, li disse:

- Io ho tanto fatto col vescovo che ti ricomunicherà; fa' che tu sia domattina nella cotal chiesa, ed elli farà verso te quello che fia da fare.

Ed elli disse di farlo.

E 'l signore, che avea ordinato che 'l vescovo gli desse che gli dolesse, andò anco là la mattina, e non parea suo fatto, standosi nel coro. E messer Dolcibene giunse nel detto luogo per accozzarsi con lui. E in quell'ora era entrato il vescovo in una cappella, e aspettava che l'amico andasse a lui, e 'l signore disse a messer Dolcibene:

- Il vescovo è là: va', spàcciati.

Ed elli cosí andò; e giunto che fu nel luogo dinanzi dal vescovo, ponendosi inginocchione; e 'l vescovo, che avea un buono camato in mano, fatta che gli ebbe la confessione sopra il capo, disse:

- Di', Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam.

E quelli dicendolo piú volte, come si fa; e 'l vescovo menando la bacchetta che parea che facesse una sua vendetta; come dice: “Di', Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam ”; e mena la mazza; e messer Dolcibene si leva, e pigliando il vescovo, e dicendo a un tratto: “Et secundum magnam multitudinem pugnorum ”; e darli, e cacciarselo sotto, fu tutt'uno.

E quando gli ha dato quanto volle, corre nel grembo del signore, che era presso, e tutto avea veduto. La famiglia del vescovo correndogli drieto per pigliarlo, il signore mostrandosi turbato disse:

- Menatelo a casa mia, ché questa punizione voglio fare io.

E questo disse per consolare il vescovo e levarlo dalle sua mani. Mandatone messer Dolcibene preso, e 'l signore si accostò al vescovo, dicendo:

- Come sta questa cosa?

E 'l vescovo rispose:

- Per Corpus Christi, quod cacavit eum Sathana.

E cosí forbottato il vescovo si tornò al vescovado, e messer Dolcibene stette rimbucato piú dí. E in fine il signore diede ad intendere al vescovo che gli avea fatto dare tanta colla che forse mai non serebbe sano delle braccia; e feceli mettere uno sciugatoio al collo, e allenzare il braccio; e 'l vescovo per questo parea tutto aumiliato. E forse in capo d'otto dí messer Dolcibene, avvisandone il signore, e dovendo dire il vescovo una messa piana, essendo alla chiesa il signore da parte, andò alla detta messa quasi in sul celebrare, e fattosi innanzi quanto poteo, prendendo il vescovo il corpo di Cristo, e messer Dolcibene esce:

- Né mica disse istamane cotestui il paternostro di san Giuliano.

Il vescovo, sentendo questo diavolo ivi, e udendo il motto, avendo il calice nelle mani, gli venne sí fatte risa, che fu presso che 'l calice non gli cadde di mano. E detta la messa, che già messer Dolcibene s'era partito col signore, gli perdonò quella medesima mattina, e fu poi sí grande suo amico che appena il vescovo sapea vivere sanza lui. E 'l signore vidde andare questo fatto come egli avea voglia, e rimase contento.

E cosí una pensa il ghiotto, un'altra il tavernaio. Il vescovo s'avvisò di mazzicare, e non fece ragione d'essere ingoffato, come avete udito. E forse, perché fosse vescovo, avea bisogno di disciplina, come messer Dolcibene. E non si dee ancora, né da beffa, né da dovero, aspreggiare uno peccatore, quando viene a contrizione, però che nelle cose sacre non si vuole scherzare; ché per menare la bacchetta oltre al debito modo, n'acquistò un bene gli sta che mai non gli venne meno.

 

NOVELLA  XXXIV

 

Ferrantino degli Argenti da Spuleto, essendo al soldo della Chiesa a Todi, cavalca di fuori, e poi, essendo tornato tutto bagnato di pioggia, va in una casa, dove truova al fuoco di molte vivande e una giovene, nella quale per tre dí sta come li piace.

 

Altro gastigamento diede Ferrantino degli Argenti da Spuleto a uno calonaco di Todi; però che, essendo il cardinale del Fiesco per la Chiesa in Todi, e avendo condotti soldati, fu tra questi uno che avea nome Ferrantino degli Argenti da Spuleto, il quale io scrittore e molti altri viddono esecutore in Firenze nel MCCCXC o circa, per tal segnale che cavalcava uno cavallo con uno paio di posole di sí smisurata forma che le loro coregge erano molto bene un quarto di braccio larghe.

Essendo stato tolto uno castello nel Todino da uno gentiluomo di Todi, convenne che tutti li soldati vi cavalcassino, fra' quali fu questo Ferrantino; e fatto intorno al castello quel danno che poterono sanza riaverlo, tornandosi verso Todi, venne grandissima piova, di che tutti si bagnarono, e fra gli altri si bagnò Ferrantino piú che nessuno, perché li suoi panni pareano di sadirlanda, tanto erano rasi.

Essendo costui cosí bagnato, entrò in Todi, e andò a smontare ad una casetta che tenea a pigione, e disse ad uno suo paggetto acconciasse i cavalli nella stalla, ed egli andò cercando per la casa se fuoco o legne d'accenderlo trovasse: niuno bene vi trovò, però che era povero scudiere, e la sua magione parea la Badía a Spazzavento.

Come costui vidde questo, e che era tutto bagnato e agghiacciava, dice: “Cosí non debb'io stare”. Subito se n'uscío fuori, e d'uscio in uscio mettendo il capo, e salendo le scale, si mise andare cercando l'altrui case, e fare dell'impronto per asciugarsi, se fuoco vi trovasse. Andando d'una in altra, per fortuna capitò ad una porta, là dove intrato e andando su, trovò in cucina uno grandissimo fuoco con due pentole piene, e con uno schidone di capponi e di starne, e con una fante assai leggiadra e giovene, la quale volgea il detto arrosto. Era perugina, e avea nome Caterina. Costei veggendo cosí di subito venire Ferrantino nella cucina, tutta venne meno, e disse:

- Che vuoi tu?

E quelli disse:

- Io vegno testeso di tal luogo, e sono tutto bagnato, come tu vedi: in casa mia non ha fuoco, e indugiare non mi potea, ché io mi serei morto: io ti prego che mi lasci rasciugare, e poi me n'andrò.

Disse la fante:

- O asciugati tosto, e vatti con Dio, ché se messer Francesco tornasse, che ha una gran brigata a cena con lui, non l'averebbe per bene, e a me darebbe di molte busse.

Disse Ferrantino:

- Io 'l farò, chi è questo messer Francesco?

Ella rispose:

- E’ messer Francesco da Narni, che è qui calonaco, e sta in questa casa.

Disse Ferrantino:

- O io sono il maggior amico ch'egli abbia -; (e non lo conoscea però).

Disse la fante:

- Deh spàcciati, ché io sto tuttavia con le febbri.

Ferrantino dicea:

- Non temere, ché io serò tosto asciutto.

E cosí stando, messer Francesco tornò, e andando in cucina a provvedere le vivande, vidde Ferrantino che s'asciugava, e dice:

- Che ci fa' tu? Chi è costui?

E Ferrantino dice chi è, come è.

Disse messer Francesco:

- Mal che Dio ti dia; tu déi essere un ladroncello, a entrare per le case altrui; escimi testè di casa.

Dice Ferrantino:

- O Pater reverende, patientia vestra , tanto che io m'asciughi.

Dice il calonaco:

- Che Pater merdente ? io ti dico escimi di casa per lo tuo migliore.

E Ferrantino fermo, e dice:

- Io mi asciugo forte.

- Io ti dico che tu m'esca di casa, se non ch'io t'accuserò per ladro.

E Ferrantino dice:

- O prete Dei, miserere mei -; e non si muove.

Quando messer Francesco vede che costui non si parte, va per una spada, e dice:

- Al corpo di Dio, che io vedrò se tu mi starai in casa a mio dispetto -; e corre con la spada verso Ferrantino.

Veggendo questo, Ferrantino si leva in piede, e mette la mano alla sua, dicendo:

- Non truffemini.

E tratta della guaina si fa incontro al calonaco, tanto che lo rinculò nella sala, e Ferrantino incontrogli, e cosí amendue si trovorono in sala, facendo le scaramucce sanza toccarsi.

Quando messer Francesco vede che non lo può cacciar fuori, eziandio avendo presa la spada, e come Ferrantino digrigna con la sua, disse:

- Per lo corpo di Dio, ch'io andrò testeso ad accusarti al cardinale.

Disse Ferrantino:

- Io voglio venire anch'io.

- Andiamo, andiamo.

E scendendo amendue giú per la scala, giunti alla porta, dice messer Francesco a Ferrantino:

- Va' oltre.

Dice Ferrantino:

- Io non andrei innanzi a voi, che sete officiale di Cristo.

E tanto disse, che messer Francesco uscí fuori prima.

Come fu uscito, e Ferrantino pigne l'uscio, e serrasi dentro; e subito, come su è, quante masserizie poté trovare da ciò gittò giú per la scala, acciò che l'uscio dentro fusse ben puntellato; e cosí n'empié tutta la scala, tanto che due portatori non l'arebbono sgombra in un dí; e cosí s'assicurò che l'uscio si potea ben pignere di fuori, ma aprire no. Veggendosi il calonaco di fuori cosí serrato, gli parve essere a mal partito, veggendo in possessione della carne cotta e della cruda uno che non sapea chi si fosse; e stando fuori, molto piacevolmente chiamava gli fosse aperto.

E Ferrantino fassi alle fenestre, e dice:

- Vatti con Dio per lo tuo migliore.

- Deh apri, - dicea il calonaco.

E Ferrantino dicea:

- Io apro -; e apriva la bocca.

Veggendo costui esser fuori della sua possessione e dell'altre cose, e ancora esser beffato, se n'andò al cardinale, e là si dolse di questo caso.

In questo, venendo l'ora della cena, la brigata che dovea cenare con lui, s'appresentano e picchiano l'uscio. Ferrantino si fa alle fenestre:

- Che volete voi?

- Vegnamo a cenare con messer Francesco.

Dice Ferrantino:

- Voi avete errato l'uscio; qui non sta né messer Francesco, né messer Tedesco.

Stanno un poco come smemorati, e poi pur tornano e bussano. E Ferrantino rifassi alle fenestre:

- Io v'ho detto che non istà qui; quante volte volete ch'io vel dica? Se voi non vi partite io vi getterò cosa in capo che vi potrà putire, e serebbe meglio che voi non ci foste mai venuti -; e comincia a gittare alcuna pietra in una porta di rincontro perché facesse ben gran romore.

Brievemente, costoro per lo migliore se n'andorono a cenare a casa loro, là dove trovorono assai male apparecchiato; e 'l calonaco, che s'era ito a dolere al cardinale, e che avea cosí bene apparecchiato, convenne si procacciasse d'altra cena e d'altro albergo: e non valse che 'l cardinale mandasse alcuno messaggio a dire ch'egli uscisse di quella casa; ma come alcuno picchiava l'uscio, gli gittava presso una gran pietra; di che ciascuno si tornava tosto a drieto.

Essendo ognuno di fuori stracco, dice Ferrantino alla Caterina:

- Fa' che noi ceniamo, ché io sono oggimai asciutto.

Dice la Caterina:

- Me' farai d'aprire l'uscio a colui di cui è la casa, e andarti a casa tua.

Dice Ferrantino:

- Questa è la casa mia; questa è quella che Dio misericordioso m'ha istasera apparecchiato. Vuo' tu che io rifiuti il dono che m'ha dato sí fatto signore? Tu hai peccato mortalmente pur di quello che tu hai detto.

Ella la poté ben sonare che Ferrantino n'uscisse; e' convenne, o per forza o per amore, ch'ella mettesse le vivande in tavola, e ch'ella sedesse a mensa con Ferrantino, e cenorono l'uno e l'altro molto bene: poi rigovernato l'avanzo delle vivande, disse Ferrantino:

- Qual'è la camera? andiànci a dormire.

Dice la Caterina:

- Tu se' asciutto, e ha' ti pieno il corpo, e or ci vogli dormire? in buona fé tu non fai bene.

Dice Ferrantino:

- Doh, Caterina mia, se per questa mia venuta qui io avesse peggiorata la tua condizione, che mi diresti tu? io ti trovai che cocevi per altrui in forma di fante, e io t'ho trattata come donna; e se messer Francesco e la sua brigata fosse venuta a cena qui, la tua parte serebbe stata molto magra, là dove tu l'hai avuta molto doppia, e hai acquistato paradiso a sovvenire me, che era tutto molle e affamato.

La Caterina dice:

- Tu non déi essere gentiluomo, ché tu non faresti sí fatte cose.

Dice Ferrantino:

- Io sono gentiluomo, e ancora conte, la qual cosa non sono quelli che doveano cenar qui; e tanto hai tu fatto maggior bene: andiànci a dormire.

La Caterina disdicea, ma pur nella fine si coricò con Ferrantino, e non mutò letto, però che in quello medesimo dormía col calonaco; e cosí tutta notte si rasciugò con lei Ferrantino, e la mattina levatosi, tanto stette in quella casa quanto durorono le vivande, che fu piú di tre dí, ne' quali messer Francesco andò per Todi, e guardando alcun'ora da lungi verso la sua casa, parea uno uomo uscito di sé, mandando alcuna volta spie a sapere se Ferrantino ne fosse uscito; e se alcuno v'andava, le pietre dalle fenestre erano in campo. Nella fine, consumate le vivande, Ferrantino se n'uscío per un uscio di drieto, ché per quello dinanzi per le molte masserizie gittate dentro non poteo; e andossene alla casa sua povera e mal fornita, là dove il paggio e due sua cavalli aveano assai mal mangiato, e ivi fece penitenza; e messer Francesco tornò a casa sua per l'uscio di drieto, ed ebbe a trassinare e racconciare di molte masserizie in iscambio della cena.

E la Caterina li diede ad intendere che ella avea sempre conteso, e difesosi da lui, e come di lei alcuna cosa non avea aúto a fare. Poi il cardinale, per lo richiamo del calonaco, mandò e per l'uno e per l'altro, dicendo a Ferrantino che si scusasse d'uno processo che gli avea formato addosso. Ferrantino scusandosi dicea:

- Messer lo cardinale, voi non ci predicate altro se non che noi abbiamo carità verso il prossimo: essendo io tornato dell'oste tutto bagnato, in forma che io era piú morto che vivo, in casa mia non trovando né fuoco, né altro bene, morire non volea. Abbatte'mi, come volle Iddio, in casa questo valentre religioso, il quale è qui, trovandosi uno gran fuoco con pentole e con arrosti intorno; mi puosi a rasciugare a quello, sanza fare o molestia o rincrescimento a persona. Costui giunse là, e cominciommi a dire villania, e che io gli uscisse di casa. Io continuo con buone parole, pregandolo mi lasciasse asciugare: non mi valse alcuna cosa, ma con una spada in mano mi corse addosso per uccidermi. Io, per non esser morto, misi mano alla mia per difendermi da lui infino alla porta da via, là dove uscendo elli fuori, per poter menarla alla larga, e uccidermi com'io uscisse dell'uscio, io mi serrai dentro e lui di fuori, solo per paura della morte; e là sono stato per questa paura, sa Dio come, infino ad oggi. Se mi vuol far condennare, egli ha il torto; io non ci ho che perdere alcuna cosa, e posso andare e stare a casa mia: io non ci uscirò, che io non sappia perché; ché quanto io, mi tengo offeso da lui.

Udendo il cardinal questo, chiamò il calonaco da parte, e disse:

- Che vuoi tu fare? tu vedi quello che costui dice, e puoi comprendere chi egli è; facendo pace fra voi, credo che sia il meglio, innanzi che tu ti voglia mettere a partito con un uomo di soldo: - di che elli consentío.

E simigliantemente chiamò Ferrantino da parte, e insieme li pacificò, e non sí che 'l calonaco non guardasse a stracciasacco Ferrantino un buon pezzo.

Cosí Ferrantino, asciutto che fu, ed empiutosi il corpo tre dí, e con la femina del calonaco aúto quel piacere che volle, ebbe buona pace; la qual vorrei che avesse ogni laico o secolare, adoperando le cose morbide e superflue de' cherici, e a loro intervenisse sempre delle loro vivande e conviti e femine, quello che intervenne a questo nobile calonaco, che sotto apparenza onesta di religione, ogni vizio di gola, di lussuria e degli altri, come il loro appetito desidera, sanza niuno mezzo usano.

 

 

NOVELLA XXXV

 

Uno chericone, sanza sapere gramatica, vuole con interdotto d'uno cardinale, di cui è servo, supplicare dinanzi a papa Bonifazio uno benefizio, là dove dispone che cosa è il terribile.

 

E per mostrare bene quanto gran parte de' cherici vengono avere li beneficii sanza scienza e discrizione, dirò qui una novelletta, che tu, lettore, il potrai molto ben conoscere. Al tempo di papa Bonifazio, essendo servo d'uno de' suoi cardinali uno chericone, che, non che sapesse gramatica, appena sapea leggere, volendo il detto cardinale di lui fare qualche cosa, gli fece fare una supplicazione per impetrare alcuno beneficio dal santo padre. E conoscendolo bene grossolano, disse:

- Vie' qua. Io t'ho fatto fare una supplicazione, la qual voglio che tu dea innanzi al santo padre, e io ti menerò dinanzi da lui. Va' arditamente, però che ti domanderà alcuna cosa per gramatica; se sai rispondere da te a quello che ti domanda, rispondi e non temere; se non lo intendi, e non sapessi rispondere, guarderai a me, che sarò da costa al papa, ed io t'accennerò quello che tu debba dire, sí che mi potrai intendere; e secondo comprenderai da me, cosí risponderai.

Disse il chericone, che averebbe meglio saputo mangiare uno catino di fave:

- Io lo farò.

Lo cardinale trovò la supplicazione, e datogliele, il menò dinanzi al papa, raccomandandolo alla sua santità; e 'l chericone, gittandosi ginocchione, glie la porse; e 'l cardinale si mise ritto da lato al papa, e volto verso il chericone, solo per accennarli quello che dovesse dire se bisognasse. Come il papa ebbe la supplicazione, la lesse; e guardato questo cherico, considerando che fosse chi egli è, lo domandò:

- Quid est terribilis?

Il cherico, udendo questo nome cosí terribile, e non sapendo che rispondere, guardava il cardinale, il quale menava il braccio, come quando si dà lo 'ncenso col terribile. E 'l cherico, pensando a quello che gli accennava, disse a lettere grosse:

- Il tale dell'asino, quando egli è ritto, padre santo.

Il papa, udendo questo, parve che dicesse: “Egli ha meglio risposto che potesse. E qual'è piú terribile cosa che quella?” E disse:

- Fiat, fiat  -; e volto al cardinale ridendo, disse: - Menalo via; fiat, fiat.

E cosí fu fatto.

Quanto fu grosso questo chericone, che non considerò quello che disse, né innanzi a cui, facendo cosí bella sposizione! e per questo ebbe il beneficio; ché avendo saputo qualcosa, forse non l'arebbe aúto. E forse fu questa sua grossezza cagione di farlo venire a maggiore dignità, come spesso interviene a molti, a cui viene il nostro Signore tra le mani, li quali hanno meno discrizione che gli animali irrazionali.

 

 

NOVELLA XXXVI

 

Tre Fiorentini, ciascuno di per sé, e con nuovi avvisi per la guerra tra loro e' Pisani, corrono dinanzi a' Priori, dicendo che hanno veduto cose che niuna era presso a cento miglia; e cosí ancora che avevano fatto, e non sapeano che.

 

Molto seppono meno quello che dicessono tre Fiorentini in questo capitolo, che 'l cherico passato. Nel tempo che l'ultima volta li Fiorentini ebbono guerra co' Pisani, essendo gl'Inghilesi, che erano dalla parte de' Pisani, cavalcati verso il terreno fiorentino, uno Geppo Canigiani, il quale era a un suo luogo a San Casciano, spaventato da uno romore o d'acqua, o di vento, come interviene quando viene mal tempo, s'avvisò quello poter esser l'esercito de' nimici, e portar la novella a' Signori da Firenze, per venire in grazia. E cosí salito a cavallo, a spron battuti n'andò al palagio de' Priori a smontare; e andato dinanzi a' Signori, disse che venía da San Casciano, e ch'e' nimici con grandissimo romore ne veníano verso Firenze.

Li Signori domandano se gli ha veduti; colui dicea di no, ma che gli avea sentiti.

- Come gli sentisti?

E quelli dicea che avea udito un gran romore.

Dicono li Priori:

- O che sai tu che quel romore fossono li nimici? Rispose:

- O egli erano cavalieri, o ell'era acqua.

Strinsono le spalle e ringrazioronlo, e andossi con Dio.

Il secondo fu uno che avea nome Giovanni da Pirano il quale essendo fuori della porta a San Niccolò su uno suo cavallaccio, certi buoi fuggendo verso la porta detta, elli credendo avere li nimici al gherone, diede delli sproni alla giumenta, e fuggendo nella terra dinanzi a' detti buoi, non restò mai che egli fu dinanzi a' detti Priori, dicendo:

- Mercè per Dio, che tutti i buoi digiogati fuggono dentro per la porta San Niccolò.

E’ Priori notano costui con l'altro di sopra, e dissono che stesse attento, e spesso recasse loro novelle.

Il terzo fu uno che avea nome Piero Fastelli, il quale, benché fosse mercatante, avea per usanza con uno balestro e con le corazzine andarsi in tempo di guerra cosí a piede, quando un miglio e quando due. Avvenne che, essendo gl'Inghilesi col campo pisano nel piano di Ripole presso due miglia a Firenze, e per uno pessimo tempo piovoso e nebbioso, durato molti dí, essendo ito Piero una mattina forse una balestrata fuori della detta porta, saettoe uno verrettone verso il greto d'Arno; tornò a Firenze, e subito andò a' detti Priori, e disse:

- Signori miei, io vegno presso presso al campo de' nimici, e ho saettato un gran verrettone in gran danno di loro; ma la folta nebbia non m'ha lasciato discernere.

Li Signori, guatano l'uno l'altro, e dicono:

- Piero, de' tuoi pari ci vorrebbe assai, ché con meno di cinquanta verrettoni si sconfiggerebbono li nimici: va' e ingegnati di saettarne, e recaci novelle spesso.

Cosí furono avvisati questi signori in pochi dí da tre valentri uomeni di guerra di tre cose sí fatte che 'l Dabuda n'averebbe scapitato. E però chi è uso alla mercanzia non può sapere che guerra si sia; però si disfanno le comunità, quando non istanno in pace; che standosi a fare l'arte loro, dicono: “Noi abbiamo sconfitto li nimici”; come fa la mosca, che è in sul collo del bue, quando gli fosse detto: “Che fai, mosca?” e quella dice: “Ariamo”.

 

 

NOVELLA XXXVII

 

Bernardo di Nerino, vocato Croce, venuto a questione a uno a uno con tre Fiorentini, confonde ciascuno di per sé con una sola parola.

 

Seppe meglio quello che disse in tre cose a tre uomeni, essendo a contesa con loro, costui di cui parlerò al presente. Bernardo di Nerino, vocato Croce, fu nel principio barattiere, e in questo tempo fu di sí forte e disprezzata natura che si metteva scorpioni in bocca, e con li denti tutti gli schiacciava, e cosí facea delle botte e di qual ferucola piú velenosa. S'egli era di diversa natura, ciascuno il pensi, che per accesa, continua e mortal febbre, sfidato da' medici, veggendolo molto ardere, vollono fare notomia di sí fatta natura, addomandandola elli: il feciono mettere nudo in una bigoncia d'acqua fredda, come esce del pozzo, e preso costui cosí ardente e nudo, ve l'attufforono dentro, il quale cominciando a tremare e schiacciare li denti, stato un pezzo, lo rimisono nel letto, e subito cominciò a migliorare, e spegnersi l'arsione in forma che guerío.

Ora, tornando alla materia, costui prestando in Frioli di barattiere nudo tornò ricco a Firenze, e venendo spesso a parole con altrui, porgea detti nel quistionare che confondea ognuno; e io scrittore fui presente a tre volte, le quali a piedi si diranno. La prima fu, che avendo parole con uno stato barattiere, com'elli, assai disutile uomo, chiamato Fascio di Canocchio, il detto Fascio disse al Croce:

- E’ ti pare essere un gran maestro, e' mi darebbe cuore di venderti sul ponte a Sorgano.

E 'l Croce rispose:

- Io ne sono molto certo, ed è segnale, quando si trovasse il compratore di me, che vaglio qualche cosa; ma e' non mi darebbe cuore di vendere te in sul ponte al Rialto, tenendoviti suso tutto il tempo della vita mia, tanto se' tristo e doloroso.

Costui ammutoloe e rimase confuso.

La seconda volta il detto Croce ebbe questione su la piazza di mercato nuovo con uno chiamato Neri Bonciani, il quale parea piú tapino che Fascio di Canocchio, era sparuto e avarissimo, ed eranvi molti cittadini tratti al romore. Quando vedde assai gente là corsa, e quelli si volge a loro, dicendo contra il detto Neri:

- Deh guardate, signori, per cui fu morto Cristo, che è cosa da non esser mai lieto né contento.

La brigata tutta comincia a ridere, e a Neri si turò la strozza in sí fatta forma che si partí, e mai non disse parola.

La terza fu che Giovanni Zati, non essendo ancora cavaliero, essendo molto piccolo e sparuto, e avendo il padre prestato in Frioli, volle mordere il Croce dell'anima nel prestare che avea fatto, e lui mettea in parole nel paradiso; e 'l Croce disse dopo molte parole:

- Giovanni, io ti vorrei fare una piccola questione; e questa è che io vorrei saper da te, se tu andassi al luogo comune, e fatto el mestiero del corpo, e avessi bisogno d'adoperare la pezza, e in quel luogo fosse dall'un lato sciamiti, dall'altro drappi, da un'altra parte fossono pezze per quello mestiero, qual piglieresti per nettarti?

Rispose:

- Piglierei le pezze da quel mestiero.

E 'l Croce disse presto:

- E cosí farà il diavolo di te.

Costui sentendosi cosí mordere, e la sparuta vista e l'opere sue, che ancora non meritavono paradiso, come si dava a credere, mai né allora né poi si stese in simil ragionamenti con lui.

E cosí questo Croce cavò d'errore questi tre errati di loro medesimi, li quali sono molti come costoro che s'ingannono sí forte che credono che tutti gli altri siano ciechi, e a loro pare avere gli occhi del lupo cerviere, non pensando chi siano, né quanto vaglino l'opere loro, essendo peggiori che tali con cui contendono, si vogliono fare di buona terra, mostrandosi buoni, essendo il contrario. E per questo nacque quel proverbio: “Lo sbandito corre drieto al condennato”. Ma a tutti intervenisse che s'abbattessono al Croce, il quale non essendo Socrate, non Pittagora, non Origene, né degli altri filosofi ch'ebbono profonde sentenzie, ma uno omicciatto disutile, con cosí nuove ragioni che gli confondesse come confuse questi tre con cui venne a questione: questo non gli diede scienza, ma sottigliezza e ingegno di natura.

 

NOVELLA XXXVIII

 

Messer Ridolfo da Camerino con una bella parola confonde il dire de' Brettoni suoi nimici, facendosi beffe di lui, perché fuor di Bologna non uscía.

 

Le notabil parole e i brevi detti di messer Ridolfo da Camerino la passata novella mi reduce a memoria; de' quali ne dirò alcuni qui dappiè. Però che io scrittore, trovandomi in Bologna buon tempo con lui, quando era generale capitano di guerra de' Fiorentini, e di tutta l'altra lega per la guerra della Chiesa, quando il cardinale di Genèva, che poi ebbe nome papa Clemente in Vignone, era venuto con li Brettoni alle porte della detta terra, e uno nipote del detto messer Ridolfo nato di sua sorella, chiamato Gentile da Spuleto, andando per guadagnare, come fanno gli uomeni d'arme, facendo scaramucce coi detti Brettoni, fu preso da loro. E sapiendo gli Brettoni ch'egli era nipote di messer Ridolfo, con disprezzamento gli diceano:

- Noi aspettiamo il capitano vostro: perché non esc'elli fuori? noi sentiamo che si sta pur nel letto: venga fuori, venga.

Gentile rispose ch'egli aspettava gente, e che ben gli andrebbe a vedere a luogo e a tempo. Puosonli ducati cinquanta di taglia, e lasciaronlo alla fede che gli andasse a procacciare. Tornato in Bologna, e andando a messer Ridolfo, disse messer Ridolfo:

- Che dicono li Brettoni?

- Dicono: “Che fa questo vostro capitano, che si sta pur dentro? Che non esc'egli fuori? noi l'aspettiamo”.

Disse messer Ridolfo:

- Come rispondesti?

Disse Gentile:

- Risposi che tosto usciresti fuori, però che voi aspettavate gente.

Disse messer Ridolfo:

- Mal dicesti, che Dio mal ti faccia.

E Gentile disse:

- Perché, messere?

Disse messer Ridolfo:

- Se' per tornarci?

Disse Gentile:

- Signor sí, però che ho portare loro cinquanta ducati per la taglia che m'hanno posta.

Dice messer Ridolfo:

- Se ti dicono piú: “Perché non esce fuori messer Ridolfo?” e tu rispondi: “Perché voi non c'entriate dentro”; e d'altro non t'impacciare.

Or non fu bella parola questa a uno capitano di guerra? per certo bella e notabile, come se l'avesse detta Scipione o Annibale: e troppo maggiore prova fu a' nimici questa riposta (se Gentile la disse loro) di mostrare loro chi messer Ridolfo era, e da quanto, che se due volte gli avessi sconfitti in battaglia campale. Altri poco sperti e pratichi nella maestria dell'arme si sarebbono andati incastagnando di parole, e quante piú ne avessono dette, da meno serebbono stati reputati.

 

 

 

NOVELLA XXXIX

 

Agnolino Bottoni da Siena manda un cane da porci a messer Ridolfo da Camerino, ed egli lo rimanda in dietro con parole al detto Agnolino con dilettevole sustanza.

 

Molto fu da ridere quest'altro motto che segue del detto messer Ridolfo. Francesco, signore di Matelica, ebbe un tempo guerra col detto messer Ridolfo; e morendo il detto Francesco, rimasono suoi figliuoli, li quali, per istare sicuri e per difendersi da lui, uno Foscherello da Matelica, che era gran caporale in una compagna d'uno che avea nome Boldrino, facea sua camera in Matelica per provvisione ch'avea Boldrino a tutta sua brigata da' figliuoli di Francesco. E come s'usa per le guerre, questo Foscherello, come cordiale nimico di messer Ridolfo, fece una cavalcata con gente d'arme sul terreno di messer Ridolfo, per la quale menoe e predoe ottocento porci, e condusseli a Matelica.

Stando per alcuni dí, non potendo messer Ridolfo vendicarsi sopra i nimici, sopravvenne uno famiglio d'Agnolino Bottoni da Siena con uno bellissimo cane alano a mano, e andato dinanzi a messer Ridolfo, e fatta la reverenza, disse che Agnolino Bottoni gli presentava quel cane. Messer Ridolfo, guardando il cane e 'l famiglio, domandò da quello che quel cane era buono. Il famiglio gli rispose:

- Da porci, signor mio.

E messer Ridolfo disse:

- E come ne piglia?

Il famiglio disse:

- Quando uno, e quando due per dí, secondo come l'uomo gli truova.

Disse allora messer Ridolfo:

- Amico mio, questo non è cane da me, rimenalo ad Agnolino, e di' che io l'ho per ricevuto, ma che questo cane non è per li fatti mia, se non piglia piú che un porco per volta. Se gli ne venisse alle mani uno di quelli di Foscherello da Matelica, che ne piglia ottocento per volta, priegalo che me lo mandi.

Il famiglio, udendo costui, e veggendo che dono non ricevea, si partí quasi scornato, rapportando il cane e la 'mbasciata ad Agnolino, il quale, intendendo il fatto disse che messer Ridolfo dicea molto bene, dappoi che elli avea aúta sí poca considerazione che, essendoli stati tolti in quelli dí ottocento porci, gli mandava un cane che forse non avvenia del mese una volta che ne pigliasse uno.

Quanto fu piacevole il detto di messer Ridolfo! ché rade volte interverrebbe che, essendo presentato uno dono a uno, e quelli non lo volessi e rimandassilo in drieto, che non ne portasse cruccio o sdegno quelli che l'ha mandato. E 'l dire suo fu sí piacevole che non che Agnolino ne portasse, ma e' confessò aver fallato, solo per la perdita delli ottocento porci di messer Ridolfo.

 

 

NOVELLA XL

 

 

Il detto messer Ridolfo a un suo nipote, tornato da Bologna da apparare ragione, gli prova che ha perduto il tempo.

 

E questa che segue non fu meno bella novella, né meno bel detto, il quale disse a un suo nipote, il quale era stato a Bologna ad apparar legge ben dieci anni; e tornando a Camerino, essendo diventato valentrissimo legista, andò a vicitare messer Ridolfo. Fatta la vicitazione, disse messer Ridolfo:

- E che ci hai fatto a Bologna?

Quelli rispose:

- Signor mio, ho apparato ragione.

E messer Ridolfo disse:

- Mal ci hai speso il tempo tuo.

Rispose il giovene, che gli parve il detto molto strano:

- Perché, signor mio?

E messer Ridolfo disse:

- Perché ci dovei apparare la forza, che valea l'un due.

Il giovene cominciò a sorridere, e pensando e ripensando egli e gli altri che l'udirono, viddono esser vero ciò che messer Ridolfo avea detto. E io scrittore, essendo con certi scolari che udiano da messer Agnolo da Perogia, dissi che si perdeano il tempo a studiare in quello che faceano. Risposono:

- Perché?

E io segui':

- Che apparate voi?

Dissono:

- Appariamo ragione.

E io dissi:

- O che ne farete, s'ella non s'usa?

Sí che per certo ella ci ha poco corso; e abbia ragione chi vuole, che se un poco di forza piú è nell'altra parte, la ragione non v'ha a far nulla. E però si vede oggi, che sopra poveri e impotenti tosto si dà iudizio e corporale e pecuniale; contra i ricchi e potenti rade volte, perché tristo chi poco ci puote.

 

 

NOVELLA XLI

 

Molte novellette, e detti del detto messer Ridolfo piacevoli, e con gran sustanza.

 

E’ mi conviene in questa novella, poi che io sono entrato a dire di questo valentre uomo, dire certi suoi detti; però che, al mio parere, e' fu filosofo naturale di pochissime parole. Dico adunque che un suo amico, che era stato gran tempo che non l'avea veduto, disse:

- Messer Ridolfo, voi siete ringiovenito dieci anni, poi che io non vi vidi.

E messer Ridolfo guarda costui con la coda dell'occhio, dicendo:

- Di quello che dici, ne prendo conforto, ma saccio che non ci dici lo vero.

Dicea il detto messer Ridolfo che non volea ch'e' servi suoi del suo avessono meglio di lui. Quando era il freddo grande, dicea:

- Andate accendere il fuoco, e là vi scaldate, e quando egli ha fatta la bracia, mi chiamate.

Volea ch'e' fanti avessono il fummo e non lo volea elli.

Essendo il detto messer Ridolfo al servigio del re Luigi di Cicilia, andando con certa gente d'arme, fu assalito; di che convenne che tutti si fuggissono a sproni battuti, e camporono. Tornato poi messer Ridolfo nel cospetto del re, e lo re gli disse:

- Ridolfo, per quanto aresti dato quelli sproni?

E quelli rispose:

- Di cotesto non saccio: ma ben saccio per quanto ci sarei rattenuto a fare lo patto.

Le candele della cera facea volgere alla mensa sua capo piede, mettendo di sopra il lato piú grosso della cera verde, dicendo che alli servi suoi volea che toccasse poi il sottile e non a lui; e da questo si cominciorono a fare delle candele mozze.

Essendo a Bologna il detto messer Ridolfo capitano di guerra per li Fiorentini, quando ebbono guerra con la Chiesa, gli fu detto che 'l papa avea venduto o impegnato Vignone per voler far gran guerra; ed egli disse:

- Molto c'è savio lo papa nostro; vuol vendere quello ch'egli ha, per acquistar quello che non sa.

Quando messer Ridolfo fu con la reina e con gli altri a dare ordine che fosse fatto il papa da Fondi, tornando a casa sua, trovò messer Galeotto suo genero, il quale dicendoli quanto era contra a Dio e all'anima sua quello ch'egli avea fatto, rispose:

- Aiolo fatto perché abbiano tanto a fare de' fatti loro ch'e' nostri lascino stare.

Essendo il detto messer Ridolfo andato a vicitare messer Gian Auguth, che era con lo esercito suo fuori di Perogia, e andando poi a vicitare l'abate di Mon maiore che per lo papa signoreggiava Perogia, e in quelli dí era fatto cardinale, gli disse:

- Avendoci fatto male, se' fatto cardinale; se ci avessi fatto peggio, saresti fatto papa.

Avendo maritata una sua figliuola giovane a messer Galeotto, che era già vecchio, molti suoi prossimani e uomeni e donne gli diceano:

- Doh, messer Ridolfo, che avete voi fatto a dare una giovane a un vecchio?

Rispondea:

- Hoccelo fatto per noi, e non per lei.

Fu dipinto a Firenze, quando venne in disgrazia del comune, per farli vergogna; essendoli detto, disse:

- E’ si dipingono li santi: sonci fatto santo.

Ancora per questa cosí fatta cosa essendo a una sua terra, e trovando un suo suddito che tornava d'acconciare sue vigne e suoi terreni, lo domandò onde venía; disse che venía d'acconciare vigne e altri suoi fatti.

Disse a certi che erano con lui:

- Pigliate costui, e andatelo ad impiccare pe' piedi

Costoro ed elli domandano:

- Signore, perché?

Ed elli rispose:

- Perché li Fiorentini m'hanno fatto impiccare pe' piedi perché io ci ho fatto i fatti miei; secondo quella ragione e quella legge (ché si dee credere ch'e' Fiorentini ne veggano assai) costui dee essere impiccato; andate e impiccatelo.

E stante un poco lo licenziò; e per questo scusava sé, e accusava altrui.

Dicea che de' santi si facea come del porco: quando il porco muore, tutta la casa e ciascuno ne fa festa, e cosí per la morte de' santi tutto il mondo e tutti i cristiani ne fanno festa.

Ancora spesso dicea: “Tristo a quel figlio, che l'anima del suo padre ne va in paradiso”.

Quando li Fiorentini nel MCCCLXII ebbono guerra co' Pisani, essendo elli capitano di guerra, e avendo posto il campo in Valdera, avendo due consiglieri fiorentini, forse mercatanti o lanaiuoli, li quali una notte pensarono che 'l campo non stava bene in quel luogo e che egli starebbe meglio su uno monte ivi vicino; e levatisi la mattina con questo pensiero, tirorono messer Ridolfo da parte e dissono che parea loro che 'l campo stesse molto meglio nel tal luogo; messer Ridolfo, come gli ebbe uditi, ghignando e guardandogli disse:

- Iate, iate, iate sí alle botteghe a vennere i panni.

Se dicea il vero ogni uomo il pensi, quello che ha a fare la mercatanzia o l'arte meccanica con la industria militare.

Non tenendosi quelli del reggimento di Fiorenza contenti di lui nella fine della guerra della Chiesa, lo feciono dipignere, come a drieto è detto. Di che, dappoi a certo tempo, essendo stato spinto, furono mandati a lui certi ambasciadori fiorentini a' quali fece due cose. La prima, che essendo a tavola del mese di luglio da lui convitati, era di drieto a loro a uno camino cosí acceso un gran fuoco, come se fosse stato del mese di gennaio. Gli ambasciadori, sentendo alle spalle il fuoco penace per lo sollione, domandorono messer Ridolfo che cagione era il perché di luglio tenesse il fuoco acceso alla mensa. Messer Ridolfo rispose che ciò facea perché quando i Fiorentini l'aveano dipinto, l'aveano dipinto sanza calze in gamba; di che per quello avea sí infrigidite le gambe, che mai da là in qua non l'avea possute riscaldare, e però gli convenía tenere il fuoco presso per riscaldarle. Gli ambasciadori sorrisono un poco, ma quasi ammutolorone. Poi seguendo alle vivande vennono capponi lessi, e le lasagne, le quali messer Ridolfo ordinò che la sua scodella fosse minestrata tanto innanzi ch'ella fosse tiepida, e quelle degli ambasciadori venissono bollenti e caldissime in tavola. E cosí alla tavola gionte, messer Ridolfo comincia sicuramente pigliarne pieno il cusoliere. Gli ambasciadori, cosí veggendo, ebbono per fermo poterle pigliare altresí sicuramente; onde al primo boccone tutto il palato si cossono, sí che l'uno cominciò a lagrimare, e l'altro cominciò a guatare il tetto, e a singhiozzare.

Messer Ridolfo dice:

- Che miri?

E quelli dice:

- Guardo questo tetto, che fu cosí ben fatto: chi lo fece?

Dice messer Ridolfo:

- Fecelo maestro Súffiaci; nol conosci tu?

Gli ambasciadori intesono il tedesco, e lasciorono affreddare le lasagne; e fra loro poi dissono:

- E’ ci sta molto bene, che corriamo subito a dipignere gli signori come fossono portatori ed elli ci ha ben dimostrato quel che ben ci sta.

E cosí quasi scornati si tornorono a Firenze, dove saputa la novella, fu tenuto messer Ridolfo avere renduto pan per focaccia.

Avea mandato un fante con lettere, e preso da un suo nimico, gli fa tagliare le mani. E tornando al detto messer Ridolfo con le mani mozze, disse:

- Signor mio, questo ho aúto per voi.

Ed elli rispose:

- All'abbottonar te n'avvedrai, se l'avrai aúto o per te o per me.

Essendo ripreso da Messer Galeotto ch'egli era vecchio sanza figliuoli maschi... maritare e tenea certe terre altrui, rispose:

- Saccio che ognora...

E lo re Carlo mandò a dolersi di lui, che avea dato aiuto al duca... per venirli addosso. Rispose:

- Hogli messo il calderugio nella gabbia; ora sta, se lo sa pigliare.

 

 

NOVELLA  XLII

 

 

Messer Macheruffo da Padova fa ricredenti i Fiorentini di certe beffe fatte contro a lui da certi gioveni sciagurati, e con opere ancora il dimostra.

 

Messer Macheruffo de' Macheruffi da Padova, antico cavaliere d'anni, e anticamente venuto podestà di Firenze, in questa novella tiene molto bene la lancia alle rene a messer Ridolfo. Però che, venendo podestà di Firenze, come è detto, con uno tabarro e co' batoli dinanzi in forma da parere piú tosto medico che cavaliere, fu ragguardato e considerato da tutti, e massimamente da certi nuovi uomeni e sollazzevoli, li quali piú che gli altri facendosene beffe, proposono di fare sopra lui qualche cosa; e come che 'l fatto s'andasse, il primo dí che entrò in officio, venente la notte, gli fu appiccato con certi chiovi un buon numero d'orinali alla porta, ciascuno con orina dentro. La mattina seguente per tempo, aprendosi lo sportello, ché volea andare il cavaliere alla cerca, tirando lo sportello il portinaro, vidde ben dieci orinali essere appiccati ad esso. Di che maravigliandosi e facendosi fuora a guardare la porta, vidde tutto il rimanente, e subito corre a dirlo al podestà; il quale, inteso che l'ebbe, disse:

- Va', e fagli tutti venire su e fagli venir ben salvi, che non se ne rompa alcuno.

E per questo fare, convenne che 'l cavaliere adoperasse tutta la famiglia, che era apparecchiata d'andar con lui alla cerca, a portare li detti orinali dinanzi al podestà. Veggendoli il podestà se gli cominciò a uno a uno a recare in mano, e guardando l'acque, gli diede poi a' fanti che gli appiccassino intorno alla sala grande, e se non v'era dove, fece conficcare degli aguti. Cosí comandato, fu fatto; avendo considerato questo valentre uomo quelle tante e diverse acque, né piú né meno che facesse un medico.

L'altro dí seguente, o che 'l consiglio si facesse come anticamente in quella sala si facea, o che 'l podestà mandasse per molti nobili cittadini; gli quali giugnendo sanza sapere il fatto, tutti, veggendo quelli orinali, si maravigliavano; e cosí essendo ragunati, il podestà giunse fra loro, e cominciò a dire:

- Signori fiorentini, io ho sempre udito dire che voi sete li piú savi uomeni del mondo; e poi che io venni qui, in sí piccolo tempo conosco voi sete molto piú savi che non ci si crede; e la prova il manifesti: che essendo io venuto qui vostro podestà, e voi, come savi, considerando che 'l rettor della terra conviene che purghi li vizii e' malori di quelli che ha a reggere, né piú né meno come il medico conviene che curi le infirmità de' suoi infermi, mi avete in questa notte appresentato le vostre acque, li vostri segni in questi orinali che vedete d'intorno appiccati, li quali orinali mi sono stati confitti alla porta; e io avendoli proccurati, come che molto sofficiente in medicina non sia, veggio e ho compreso in questi vostri cittadini grandissime infirmità, le quali con la grazia di Dio penserò di curar sí che io vi creda lasciare piú sani, e in migliore stato che io non vi truovo.

Quando costui ebbe cosí parlato, li cittadini si tirorono da parte, e feciono uno risponditore per tutti; il quale disse al podestà che non potea essere che nelle gran terre non fossono diverse condizioni di genti, e semplici e sciocchi e matti; e che lo confortavono che cercasse chi avesse quelli orinali appiccati, e che ne facesse sí fatta punizione che a tutti gli altri fosse esemplo, e molte altre cose.

E 'l podestà disse loro:

- Voi mi dite che ci sono diverse genti e ignoranti e stolti; per quelli tali e io e gli altri rettori siamo eletti: ché, se tutti li populi fossono savi, non bisognerebbe ci andasse rettori e oficiali.

E cosí presono commiato e partironsi.

Il qual podestà rimaso, come che fosse valentre uomo, mosso ancora dallo sdegno, non dormío; ma con informazioni e con gran sollecitudini segretamente seppe chi erano quelli che erano di mala condizione e di cattiva vita; e cominciò ora uno per ladro, ora due per micidiali, e quando tre e quando quattro, e mettitori di mali dadi e d'altre pessime condizioni, a spacciare e mandarli nell'altro mondo, e ancora fu in questo numero di quelli che aveano appiccati gli orinali. E in brieve tanti ne impiccò, e tanti ne decapitò e justiziò per ogni forma, che nella fine del suo officio lasciò sí sanicata e sí guerita la nostra città che si riposò molto bene per assai tempo.

E però non si dee mai giudicare secondo le apparenze, e fare scherne d'altrui, e massimamente de' rettori; però che l'apparenza mostra molte volte quello che è d'assai, dappoco, e quello che è dappoco, mostra d'assai. Come che io credo che questa fosse permissione di Dio, volendo che ciò avvenisse perché li cattivi fossono puniti, e che quella mala erba fosse diradicata per forma che quella città ne rimanesse in migliore stato.

 

 

NOVELLA  XLIII

 

Un cavaliero di piccola persona da Ferrara andò podestà d'Arezzo: quando entra nella terra s'avvede essere sghignato, e con una parola si difende.

 

Meglio s'avvide degli atti, che gli Aretini faceano contro a lui, uno cavaliere piccolo e sparutissimo da Ferrara, quando entrò capitano d'Arezzo, che non fece messer Macheruffo, però che nel principio del suo officio al giuramento tagliò la via a chi avesse animo d'appiccare orinali o fare simili frasche. Però che, avveggendosi nel suo entrare in Arezzo che molti ghignavano e sghignazzavono della sua sparuta personcina, tutto sdegnoso n'andò alla maggiore chiesa, dove gli anziani e' rettori erano presenti, a farli leggere li capitoli e dare il giuramento. Quando il cancelliere ebbe letto ciò che dovea, gli porse il libro e disse:

- E cosí giurate a le sante die Vangele?

E 'l capitano guardando dattorno verso il populo disse

- Io giuro ciò che è...

 

NOVELLA XLVII (frammento)

 

... Tasso se la guerisse. Però che io sono stato con lei quarantatré maladett'anni, e ora dice che mi vuol venir drieto. Non sia, per l'amor di Dio. Arrogete ancora al maestro Giovan dal Tasso il maestro Tommaso del Garbo, e a loro due per egual parte lascio li fiorini duecento in quanto la guariscano.

Li parenti furono tutti suso, e spezialmente li fratelli della donna.

- O Jacopo, che volete voi fare? volete voi lasciare a' medici il vostro? ove rimarrebbe la vostra fama? ché ciascuno dirà: “Jacopo ha voluto lasciare piú tosto a due medici, che l'hanno forse sí mal curato che se n'è morto, che lasciare a una sua moglie che l'ha servito quarantatré anni, che non gli tocca per anno, lasciandole fiorini ducento, fiorini cinque”. Or pensate bene.

E quelli rispose, che appena si potea intendere:

- O che so io chi m'ha piú tosto morto, o' medici, o ella?

E brievemente tanto fu combattuto che quasi come vinto, o col dire “sí” con parole o con cenni, il testamento ritornò che lasciasse alla donna fiorini duecento, e questo fece a grandissima pena: e poco stante si morí. E la donna fece il pianto grandissimo, come tutte fanno, perché costa loro poco; e sotterrato il marito, e rasciutto le lacrime, se avea difetto, si fece curare gagliardamente, e poi intese ad acconciarsi per sí fatta maniera che, con la dota sua e col lascio, in meno di due mesi uscío de' panni vedovili e rimaritossi.

Se la donna fece dello infingardo, molto gli stava bene, che gli andasse drieto: ma io credo ch'ella concepea nella sua mente di mostrarsi nelle parole e negli atti che 'l marito li lasciasse acciò che, morto lui, si potesse meglio rimaritare com'ella fece.

Niuna cosa si passa e dimentica, quanto la morte; e la femmina che piú si percuote e nel pianto e nel lamento è quella creatura che piú tosto la dimentica; e questa ne fa la prova, ché appena era sotterrato il marito che pensò d'averne un altro; e 'l marito andò forse a torre una moglie in inferno, per aver fatti lasci che espettavano piú al corpo che all'anima; e quella ch'egli avea lasciata, non accese mai una candela per l'anima sua.

Per questa donna si può notare leggiermente questi tre versetti:

Donna non è, che non adori Venere

Tal in sua deità, e qual è vedova

Non si cura di quel ch'è fatto cenere.

 

 

NOVELLA  XLVIII

 

 

 

Lapaccio di Geri da Montelupo a la Ca' Salvadega dorme con un morto: caccialo in terra dal letto, non sappiendolo: credelo avere morto, e in fine trovato il vero, mezzo smemorato si va con Dio.

 

Tanto avea voglia questa contata donna d'andar drieto al morto marito quanto ebbe voglia di coricarsi allato a un morto in questa novella Lapaccio di Geri da Montelupo nel contado di Firenze. Fu a' miei dí, e io il conobbi, e spesso mi trovava con lui, però che era piacevole e assai semplice uomo. Quando uno gli avesse detto: “Il tale è morto”, e avesselo ritocco con la mano, subito volea ritoccare lui; e se colui si fuggía, e non lo potea ritoccare, andava a ritoccare un altro che passasse per la via, e se non avesse potuto ritoccare qualche persona, averebbe ritocco o un cane, o una gatta; e se ciò non avesse trovato, nell'ultimo ritoccava il ferro del coltellino; e tanto ubbioso vivea, che se subito, essendo stato tocco, per la maniera detta non avesse ritocco altrui, avea per certo di far quella morte che colui per cui era stato tocco, e tostamente. E per questa cagione, se un malfattore era menato alla justizia, o se una bara o una croce fosse passata, tanto avea preso forma la cosa che ciascuno correa a ritoccarlo; ed elli correndo or drieto all'uno or drieto all'altro, come uno che uscisse di sé; e per questo quelli che lo ritoccavono, ne pigliavono grandissimo diletto.

Avvenne per caso che, essendo costui per lo comune di Firenze mandato ad eleggere uno podestà ed essendo di quaresima, uscío di Firenze, e tenne verso Bologna e poi a Ferrara, e passando piú oltre, pervenne una sera al tardi in un luogo assai ostico e pantanoso che si chiama la Ca' Salvadega. E disceso all'albergo, trovato modo d'acconciare i cavalli e male, però che vi erano Ungheri e romei assai, che erano già andati a letto; e trovato modo di cenare, cenato che ebbe, disse all'oste dove dovea dormire. Rispose l'oste:

- Tu starai come tu potrai; entra qui che ci sono quelle letta che io ho, e hacci molti romei; guarda se c'è qualche proda; fa' e acconciati il meglio che puoi, ché altre letta o altra camera non ho.

Lapaccio n'andò nel detto luogo, e guardando di letto in letto cosí al barlume, tutti li trovò pieni salvo che uno, là dove da l'una proda era un Unghero, il quale il dí dinanzi s'era morto. Lapaccio, non sapiendo questo (ché prima si serebbe coricato in un fuoco che essersi coricato in quel letto), vedendo che dall'altra proda non era persona, entrò a dormire in quella. E come spesso interviene che volgendosi l'uomo per acconciarsi, gli pare che il compagno occupi troppo del suo terreno, disse:

- Fatti un poco in là, buon uomo.

L'amico stava cheto e fermo, ché era nell'altro mondo. Stando un poco, e Lapaccio il tocca, e dice:

- O tu dormi fiso, fammi un poco di luogo, te ne priego.

E 'l buon uomo cheto.

Lapaccio, veggendo che non si movea, il tocca forte:

- Deh, fatti in là con la mala pasqua.

Al muro: ché non era per muoversi. Di che Lapaccio si comincia a versare, dicendo:

- Deh, morto sia tu a ghiado, che tu déi essere uno rubaldo.

 E recandosi alla traversa con le gambe verso costui, e poggiate le mani alla lettiera, trae a costui un gran paio di calci, e colselo sí di netto che 'l corpo morto cadde in terra dello letto tanto grave, e con sí gran busso, che Lapaccio cominciò fra sé stesso a dire: “Oimè! che ho io fatto?” e palpando il copertoio si fece alla sponda, appiè della quale l'amico era ito in terra: e comincia a dire pianamente:

- Sta' su; ha' ti fatto male? Torna nel letto.

E colui cheto com'olio, e lascia dire Lapaccio quantunche vuole, ché non era né per rispondere, né per tornare nel letto. Avendo sentito Lapaccio la soda caduta di costui, e veggendo che non si dolea, e di terra non si levava, comincia a dire in sé: “Oimè sventurato! che io l'avrò morto”. E guata e riguata, quanto piú mirava, piú gli parea averlo morto: e dice: “O Lapaccio doloroso! che farò? dove n'andrò? che almeno me ne potess'io andare! ma io non so donde, ché qui non fu' io mai piú. Cosí foss'io innanzi morto a Firenze che trovarmi qui ancora! E se io sto, serò mandato a Ferrara, o in altro luogo, e serammi tagliato il capo. Se io il dico all'oste, elli vorrà che io moia in prima ch'elli n'abbia danno”. E stando tutta notte in questo affanno e in pena, come colui che ha ricevuto il comandamento dell'anima, la mattina vegnente aspetta la morte.

Apparendo l'alba del dí, li romei si cominciano a levare e uscir fuori. Lapaccio, che parea piú morto che 'l morto, si comincia a levare anco elli, e studiossi d'uscir fuori piú tosto che poteo per due cagioni che non so quale gli desse maggior tormento: la prima era per fuggire il pericolo e andarsene anzi che l'oste se ne avvedesse; la seconda per dilungarsi dal morto, e fuggire l'ubbía che sempre si recava de' morti.

Uscito fuori Lapaccio, studia il fante che selli le bestie; e truova l'oste, e fatta ragione con lui, il pagava, e annoverando li danari, le mane gli tremavono come verga. Dice l'oste:

- O fatti freddo?

Lapaccio appena poté dire che credea che fosse per la nebbia che era levata in quel padule.

Mentre che l'oste e Lapaccio erano a questo punto, e un romeo giunge, e dice all'oste che non truova una sua bisaccia nel luogo dove avea dormito; di che l'oste con uno lume acceso che avea in mano, subito va nella camera, e cercando e ricercando, e Lapaccio con gli occhi sospettosi stando dalla lunga, abbattendosi l'albergatore al letto dove Lapaccio avea dormito, guardando per terra col detto lume, vidde l'Unghero morto appiè del letto. Come ciò vede, comincia a dire:

- Che diavolo è questo? chi dormí in questo letto?

Lapaccio, che tremando stava in ascolto, non sapea s'era morto o vivo, e uno romeo, e forsi quello che avea perduto la bisaccia, dice:

- Dormívi colui, - accennando verso Lapaccio.

Lapaccio ciò veggendo, come colui a cui parea già aver la mannaia sul collo, chiamò l'oste da parte dicendo:

- Io mi ti raccomando per l'amor di Dio, che io dormii in quel letto, e non potei mai fare che colui mi facessi luogo, e stesse nella sua proda; onde io, pignendolo con li calci, cadde in terra; io non credetti ucciderlo: questa è stata una sventura, e non malizia.

Disse l'oste:

- Come hai tu nome?

E colui glilo disse. Di che, seguendo oltre, l'oste disse:

- Che vuoi tu che ti costi, e camperotti?

Disse Lapaccio:

- Fratel mio, acconciami come ti piace e cavami di qui. Io ho a Firenze tanto di valuta, io te ne fo carta.

Veggendo l'oste quanto costui era semplice, dice:

- Doh, sventurato! che Dio ti dia gramezza; non vedestú lume iersera? o tu ti mettesti a giacere con un Unghero che morí ieri dopo vespro.

Quando Lapaccio udí questo, gli parve stare un poco meglio, ma non troppo; però che poca difficultà fece da essergli tagliato il capo ad esser dormito con un corpo morto; e preso un poco di spirito e di sicurtà, cominciò a dire all'oste:

- In buona fé che tu se' un piacevol uomo; o che non mi dicevi tu iersera: egli è un morto in uno di quelli letti? Se tu me l'avessi detto, non che io ci fosse albergato, ma io sarei camminato piú oltre parecchie miglia, se io dovessi essere rimaso nelle valli tra le cannucci; ché m'hai dato sí fatta battisoffia che io non sarò mai lieto, e forse me ne morrò.

L'albergatore, che avea chiesto premio se lo campasse, udendo le parole di Lapaccio, ebbe paura di non averlo a fare a lui; e con le migliori parole che poteo si riconciliò insieme col detto Lapaccio. E 'l detto Lapaccio si partí, andando tosto quanto potea, guardandosi spesso in drieto per paura che la Ca' Salvadega nol seguisse, portandone uno viso assai piú spunto che l'Unghero morto, il quale gittò a terra del letto; e andonne con questa pena nell'animo, che non gli fu piccola, per un messer Andreasgio Rosso da Parma che aveva meno un occhio, il quale venne podestà di Firenze; e Lapaccio si tornò, rapportando aver fatta elezione al detto podestà, ed esso l'avea accettata. Tornato che fu il detto Lapaccio a Firenze, ebbe una malattia che ne venne presso a morte.

Io credo che la fortuna, udendo costui essere cosí obbioso e recarsi cosí il ritoccare de' morti in augurio, volesse avere diletto di lui per lo modo narrato di sopra, che per certo e' fu nuovo caso, avvenendo in costui: in un altro non serebbe stato caso nuovo. Ma quanto sono differenti le nature degli uomeni! ché seranno molti che non che temino gli augurii, ma elli non vi daranno alcuna cosa di giacere e di stare tra' corpi morti; e altri seranno che non si cureranno di stare nel letto dove siano serpenti, dove siano botte, scorpioni, e ogni veleno e bruttura e altri sono che fuggono di non vestirsi di verde, che è il piú vago colore che sia; altri non principierebbono alcun fatto in venerdí, che è quello dí nel quale fu la nostra salute; e cosí di molte altre cose fantastice e di poco senno, che sono tante che non capirebbono in questo libro.

 

 

NOVELLA  XLIX

 

Ribi buffone, tornando da uno paio di nozze con certi gioveni fiorentini, è preso di notte dalla famiglia: giunto dinanzi al podestà, con un piacevole motto dilibera lui e tutta la brigata.

 

Molto fu piú ardito e piú coraggioso Ribi buffone incontro a uno cavaliere d'uno podestà che 'l prese, e ancora col podestà, che non fu Lapaccio vile e timido, per essere stato in un letto con un uomo morto. Questo Ribi fu piacevolissimo, e fu fiorentino, e molto si ridusse, come fanno li suoi pari, nelle Corte de' signori lombardi e romagnuoli, perché con loro facea bene i fatti suoi, ché dava parole, e ricevea robe e vestimenti; e quando venía in Firenze, non guadagnando, ricorrea alcuna volta alle nozze, dove pur alcuna cosa leccava.

Essendo costui in Firenze una volta, e facendosi là verso Santa Croce un bello paio di nozze, egli vi stette quasi tutto il dí, e vegnente la notte, avendo ciascun uomo e donna e cenato e ballato, e coricatosi lo sposo e la sposa, il detto Ribi con una brigata di gioveni di buone famiglie si partí per andare albergo con loro.

Avvenne che, passando questa brigata da San Romeo, s'abbatterono nel cavaliero del podestà che andava alla cerca; il quale comincia a dire:

- Che gente siete voi?

Risposono:

- Amici, messere.

- Passate innanzi; quanti siete voi?

Dissono:

- Vedetelo.

E fra 'l noverare, e dire: “Tanti uomeni, tanti torchi”, al cavaliere venne veduto un torchio, la cui cera non era sei once.

Disse il cavaliere:

- Quello torchio non è di peso.

Ribi fassi innanzi:

- Messer sí, è.

Disse il cavaliero:

- E’ dee pesare tre libbre, e non è quattro once.

Ribi rispose e subito:

- L'avanzo aveste voi in culo.

Come il cavaliero ode questo:

- Za, famiglia, pigliate costui; piglia za, e piglia là, menategli tutti al palazzo.

Ribi dicea:

- Perché, messere, omè! perché?

- Come perché? - dice il cavaliere - dunque credi che io sia un bambarottolo: io ci ho impeso gli uomeni per minor parola che quella che in vituperio della Corte ci hai detta tu.

Dicea Ribi:

- Doh, messer lo cavaliere, noi venghiamo dalle nozze e siamo caldi; quello che noi diciamo, diciamo per sollazzare.

- Per sollazzare nella malora; - dice il cavaliere - e dite che sete caldi; altrimenti vi ci farò riscaldare, per le chiabellate di Dio; se giunghiamo a palazzo, ci parlerete d'altro verso su la colla; menateli oltre.

E con questo busso furioso la famiglia condusse la brigata in palagio: e giugnendo dentro nella corte, il podestà, che credo era da Santo Gemino, andando per lo verone in capo della scala, però che era di state, e 'l caldo grande, veggendo costoro, disse che gente era quella. Il cavaliere, che ratto andava verso lui, disse se volea gli menassi dinanzi da lui. Rispose di sí; e cosí tutti vennono dinanzi al podestà. Il quale addomandò il cavaliere perché coloro fossono presi. A cui il cavaliere rispose, volgendosi verso Ribi, e dice:

- Signor mio, questo rubaldo ha fatto gran vergogna a voi e a tutta la vostra Corte.

- E che ci ha fatto? - dice il podestà.

Dice il cavaliere:

- Hacci fatto cosa che mai non ce la direi.

E 'l podestà dice:

- Che ha detto nella malora?

Disse il cavaliero:

- La piú laida cosa, e la piú vituperosa che tu udissi mai; piacciati, signor mio, non la volere udire, ché c'è troppo abbominevole.

Il podestà al tutto dice:

- Io ce la voglio sapere; e se mi ci metti a ira, quello doverrò fare a loro, farò a te ipso.

E 'l cavaliere, alla maggior pena del mondo, gli disse:

- Podestà mio questo cattivo uomo, essendo con questa brigata, che è qui, a luogana, avea questo torchio che qui vedete che non è sei once; io ci dicea che non era al peso secundum formam statuti : esso dicea pur di sí; e io dissi: “Come di' tu di sí, ché non è quattr'once?” e quello disse: “L'avanzo avestú in culo”.

Disse Ribi:

- Messer lo podestà, io non dissi con l'aste.

Disse il cavaliero:

- E che ci hanno a fare l'aste, che t'affranga Dio e la Matre?

Allora il podestà, che, come savio, avea già compreso il fatto e pigliavane diletto, si volse al cavaliero, e disse:

- Se costui non disse con l'aste, e la cera è poca, come tu di' e vedi, essendo intervenuto ciò che ti disse, non te ne serebbe venuto né debilimento di membro, né altro male; avesse detto con l'aste, serebbe stato cassale e mortale.

Disse il cavaliero, quasi sdegnato:

- Facci che ti piace, per le budella di Dio, se ce l'avesse a punire, la lingua con che lo disse gli farei trarre dalla canna.

Disse il podestà:

- Io ti dico, cavaliero, che si vuole aver discrizione: se costui non disse con l'aste, non mi pare che meriti alcuna pena.

Disse uno judice del maleficio che era col podestà, ed era fratello di quello messer Niccola da San Lupidio, a cui Ribi altra volta trasse le brache, come si narra nel libro di messer Giovanni Boccacci:

- Questi Toschi ci sono tutti gavazzieri, deasi lo sacramento a isso, se disse con l'aste.

E 'l podestà disse:

- E cosí si faccia.

E datoli il juramento, Ribi, alzando la mano, dice:

- Io giuro per quello Dio, cui adoro, che io non dissi con l'aste. Doh, messer lo podestà, sere' io sí fuori della memoria? ché so che se io l'avessi detto, n'andrebbe il fuoco, o la mitera.

Disse il podestà:

- Vacci con Dio; per questa fiata t'aio perdonato, e guàrdate bene per un'altra volta, quando la cera del torchio fosse di piú peso, ad un altro cavaliero non dicessi simili parole; però che, benché tu non dicessi con l'aste, e la cera fosse tanta quanto vuole lo statuto che sia, ed ella entrassi al cavaliere dove tu dicesti, e' serebbe sí pericoloso che tu potresti aver la mala ventura.

Ribi ringraziò il podestà della licenzia e dell'ammaestramento, e partissi con tutta la brigata; e 'l podestà ne rimase in gran sollazzo con li judici suoi; e 'l cavaliero dicea che di ciò la Corte si era vituperata, e rimase tutto scornato, e non volea fare officio, e molti dí combatté il podestà, volendosi pur partire, dicendo che mai in quello officio non credea aver altro che vergogna, poiché non s'era fatta justizia di sí vituperato delitto.

Alla per fine pur si reconciliò, e la novella si comprese sí per la terra che quando quel cavaliero era veduto, andando alla cerca, era detto da' garzoni:

- Quello è il cavaliero del torchio con l'aste.

Gran gentilezza usò questo rettore, che considerò alla qualità e al modo, e all'uomo chi era, e grande disperazione fu quella del cavaliere; ma pur procedea da justizia e da buon animo. Ma pur considerando quello che dovea considerare, e chi Ribi era, di quello che avea detto si dovea dar pace, però che a' loro pari pare che debba essere lecito ciò che dicono e ciò che fanno. Bella e nuova allegazione fece Ribi, e ragionevolmente da non potervi apporre, però che quanto piú dicea il cavaliero, quella cera essere di piccolo peso, tanto era la colpa di Ribi minore, e piú allegava per lui.

 

 

 

NOVELLA L

 

Ribi buffone, vestito di romagnuolo, essendo rotta la gonnella, se la fa ripezzare con iscarlatto alla donna di messer Amerigo Donati, e quello che rispondea a chi se ne facea beffe.

 

Troppo fece rappezzare meglio una sua gonnella un'altra volta questo Ribi, e a suo utile, che non ripezzò la scusa del torchio con l'aste. Però che, avendo in dosso una gonnella romagnuola, ed essendo vecchia, avea una rottura nel petto e una nel gomito. Ed essendo una mattina a desinare con messer Amerigo Donati di Firenze, andò alla donna sua in camera, però che avea contezza con le donne de' cavalieri, come sempre hanno, e disse:

- Madonna tale, averesti voi un poco di scarlatto?

Disse la donna:

- Ribi, se' tu per motteggiare?

Disse Ribi:

- Madonna no, anzi dico dal migliore senno ch'io ho, però che io vorrei volentieri che voi mi rappezzaste questa gonnella.

Disse la donna:

- O che buona ventura! vuo' tu ripezzare il romagnuolo con lo scarlatto?

Disse Ribi:

- Deh, non ve ne caglia: madonna, se voi l'avete, fatemi questo servigio.

La donna, vaga di veder questa novità, disse:

- Io n'ho bene, e acconcerottela, poiché tu vuogli; ma una nuova cosa fia a vederla.

Disse Ribi:

- Madonna, voi dite il vero: e perché io vo cercando cose nuove, come nuovo che io sono, però fo questo; e quando fia fatto, non starete tre dí che, sapiendo la cagione, serete contenta.

E brievemente, preso alquanto di rispitto, che come ebbe desinato con messer Amerigo, egli diede una mezza volta, e con un'altra gonnella in dosso recò quella sotto il braccio alla detta donna, la quale in quel dí la ripezzò con due pezzetti di scarlatto di colpo nuovi. Avendo Ribi la gonnella ripezzata, se la misse addosso l'altra mattina, e uscí fuori, andando in mercato nuovo, dove piú gente credea trovare. Chi lo vedea, dicea:

- O Ribi, che è questo? o tu hai ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto!

E Ribi rispondea:

- Tal fosse l'avanzo!

E cosí con questa gonnella e con questo motto diede piacere parecchi dí a' Fiorentini, avendo con loro buone cene e desinari. Dappoi (che fu piú nuova cosa) n'andò in Lombardia, portando questa gonnella cosí fatta nella valigia, e dinanzi a piú signori comparío con essa. E quando li diceano:

- Che vuol dir questo, Ribi? perché hai tu ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto?

E quelli dicea:

- Tal fosse l'avanzo -; aggiugnendo un'altra particella: - Gli uomeni di Firenze che non sono signori di terre, veggendomi vestito cosí male di romagnuoli, e che la gonnella era rotta qui e qui, mi cominciorono a farla di scarlatto in due luogora, come vedete. Pensai e penso che, vegnendo con essa dove fossono de' signori, che l'avanzo, che è molto piú, per loro si compiesse.

E cosí dicea a tutti, dov'elli andava: tanto che quel romagnuolo gli fu tutto coperto di scarlatto e ancora n'ebbe parecchie belle robbe. Quando la donna di messer Amerigo sentí quello che due pezzuole di scarlatto, poste sul romagnuolo, erano valute a Ribi, ebbe per certo lui essere savio e avveduto quanto altro buffone.

Questa parola o motto di Ribi viene spesse volte a proposito d'allegare, benché oggi non so se quello ripezzare fosse tenuto o povertà, o leggiadria; però che, non che i panni di dosso con molti cincischi e colori si frastaglino e ripezzino, ma le calze non basta si portino una d'un colore e l'altra d'un altro; ma una calza sola dimezzata e attraversata di tre o quattro colori; e cosí per tutto si tagliano e stampano i panni che con gran fatica sono tessuti.

 

 

NOVELLA LI

 

Ser Ciolo da Firenze, non essendo invitato, va ad un convito di messer Bonaccorso Bellincioni; èlli detto; e quelli, essendo goloso, risponde sí che e allora e poi mangiovvi spesso.

 

Ser Ciolo non ebbe minore volontà d'empiersi il corpo che avesse Ribi di vestirlo; però che, essendo in questi tempi vecchietto assai goloso e ingordo, facendo messer Bonaccorso Bellincioni, cavaliere famoso fiorentino, uno corredo a notabili cavalieri e altri, il detto ser Ciolo, avendo sentita la grida, deliberò di appresentarsi tra gli altri al detto convito; e se per forza non ne fossi cacciato, porsi alla mensa, e di quello mangiare ch'eglino. Movendosi con questo pensiero, si misse in via, e andò verso la casa del detto messer Bonaccorso, là dove, veduto nella via dinanzi all'uscio suo ragunarsi i cavalieri, e gli altri valentri uomeni, come è d'usanza, e quelli affretta i passi, e giugne e mescolasi tra loro.

E cosí stando, venuta che fu tutta la brigata, e detto loro che passino su, e ser Ciolo ne va su per le scale con loro insieme. Giunti in su la scala, ciascun si trae il mantello; e ser Ciolo prestamente si trae il suo. Dice uno de' famigli della casa a un altro:

- Che diavol ci fa ser Ciolo?

Dice l'altro:

- Non so io; e' fa una gran villania, ché io so bene che e' non fu su la scritta.

E accostansi a lui e dicono:

- Ser Ciolo, voi non fuste invitato; voi farete bene d'andarvene a casa.

Dice ser Ciolo:

- Io farei un bell'onore a messer Bonaccorso! ché direbbe ogni uomo che per avarizia m'avesse fatto cacciare. Io per me ci sono venuto per bene, e non per far vergogna a persona: se io non sono stato invitato, non è mio difetto; la colpa è stata di chi l'ha aúto a fare; - e accostasi al bacino, accozzandosi con un altro, e toglie l'acqua alle mani.

E’ poterono assai dire e con parole e con cenni, che ser Ciolo si serrò sí con gli altri che, come furono per andare a tavola, si ficcò tra loro, e puosesi a sedere a mensa. Messer Bonaccorso, che ogni cosa avea considerata, mangiato che ebbe, domandò li suoi donzelli che cagione era stata, o di cui interdotto, che ser Ciolo fosse venuto quivi a desinare, e di quello che con loro contendea. Egli risposono che 'l domandavono chi l'avea invitato, e quello che rispose, e la cagione perch'egli era venuto. Di che messer Bonaccorso, udendo come ser Ciolo avea risposto a' famigli, fu piú contento e del modo e della novella di ser Ciolo, e del desinare che ebbe, che di quello che ebbono tutti gli altri: e compiuta questa festa, l'altro dí mandò messer Bonaccorso per ser Ciolo, che desinasse con lui; e ripetendo le cose del dí dinanzi, con lui ne prese gran piacere, e chiamò li suoi famigli e in sua presenza e' disse a loro:

- Ogni festa ch'io do mangiare altrui, fate che voi provveggiate di uno tagliere piú per ser Ciolo; e voglio ch'egli possa e debba sempre venire a mangiare ad ogni mio convito -; e voltossi a ser Ciolo, e disse: - E cosí v'invito.

E ser Ciolo accettò molto volentieri.

E per questo messer Bonaccorso il misse in tale andare che nessuno facea in Firenze convito che ser Ciolo non vi si rappresentasse, e che non facesse un tagliere d'avanzo per ser Ciolo, se vi venisse; e con questa preeminenza visse nella sua vecchiezza.

E però è uno volgare che dice: “Or va' tu, e non fare dell'impronto.” Questo mondo è delli impronti, e 'l vizio della gola fa gli uomeni molto impronti; ma rade volte se ne arriva bene, come arrivoe ser Ciolo, il quale, mosso da questo vizio, udendo le vivande che messer Bonaccorso apparecchiava per lo detto corredo, bramoso di mangiare di quelle, si mise a pericolo di avere di molte mazzate, ed esserne cacciato con vergogna; ed egli si dice che fu il primo che disse, tornando dal desinare di messer Bonaccorso a casa sua, queste parole, o questo motto che vogliàn dire: “Chi va lecca, e chi sta si secca”.

 

 

NOVELLA LII

 

Sandro Tornabelli, veggendo che uno il vuol fare pigliare per una carta, della quale avea fine, s'accorda col messo a farsi pigliare, e ha il mezzo guadagno dal messo.

 

E questa che segue fu una astuta malizia ad empiersi la borsa, cosí bene come ser Ciolo s'empié il corpo. E’ non è molti anni che in Firenze fu un cittadino chiamato Sandro Tornabelli, il quale era sí vago d'acquistare moneta che sempre stava con l'arco teso per veder se potesse fare un bel tratto, e sempre andava in gorgiera. Costui, essendo già antico d'anni, sentendo che un giovane il volea far pigliare per una carta antica già pagata al suo padre, e 'l giovane non lo sapea, e 'l detto Sandro avea la fine; onde Sandro ciò sapendo, non posoe mai che s'accozzoe col messo che avea questa trama, e la commissione in mano, il quale ebbe nome Totto Fei, e disse:

- Fratel mio, io so che 'l tale vuole che tu mi pigli a sua petizione, e vuolti dare fiorini dodici, o piú. La carta, per che mi vuol fare pigliare, è pagata, e io ho la fine in casa; di che io ti voglio dire cosí: “Tu se' bisognoso, e anco io non sono il piú ricco uomo del mondo, io voglio che tu segua questa faccenda, e tu fa' patto con lui d'avere piú denari che tu puoi, e poi mi piglia, ché io sono contento, con questo: che e' denari, i quali averai da lui, sieno mezzi tuoi e mezzi miei; e preso che tu mi averai e aúto il pagamento, e io mostrerrò la fine a quell'ora che fia di bisogno”.

Questo messo, udendo il detto Sandro, s'accordò piú tosto di pigliarlo con questo inganno che senza esso: però che la sua condizione era cattiva, per tal segnale che elli avea mozza la mano; e la cagione fu che, avendo detta una testimonianza falsa in servigio d'un suo amico, fu condennato in lire otto, o nella mano: di che colui, in cui servigio l'avea detta, gli mandò alla prigione lire otto, e disse che la ricomperasse, però che innanzi volea quel danno che a sua cagione li fosse mozza. Costui, veggendosi questi denari su un desco, che erano tutti grossi d'ariento, e guardandoli fiso, dall'altra parte mettendo sul desco la mano che dovea perdere, cominciò a dire in sé medesimo: “Qual è meglio che io parta da me, o la mano, o' danari? e' mi rimane una mano, essendomi tagliata l'altra, e con l'una mi notricherò ben troppo, e vie meglio, avendo le lire otto che con le due, non avendole, e stando povero e mendico come sono”; e poi pensava averne veduti assai sanza alcuna mano, ed esser vissuti; di che al tutto s'attenne a' danari, e lasciossi tagliar la mano.

Ho voluto dir questo, per dimostrare la condizione di questo messo. Accordatosi costui col detto Sandro, e molto volentieri, però che egli era assai gran cittadino, e massimamente che tutti, o la maggior parte degli officii di Firenze avea aúti, sí che pochi messi, non essendo di suo volere tra per gli officii, e perché era di diversa condizione, serebbono stati contenti di porli le mani addosso. Avendo adunque il detto Sandro ogni cosa composta e ordinata con questo cosí fatto messo, da ivi a pochi dí fu preso dal detto Totto Fei, e per la detta cagione è menato in palagio del podestà, e messo nella Bolognana.

Colui che l'avea fatto pigliare, avendoli il messo fatto sentire la presura subito venne al detto palagio a raccomandarlo, e fare scrivere la cattura, come è d'usanza.

Sandro era a una finestra ferrata della prigione che risponde su la corte, e crollava il capo contro al detto messo come con lui avea ordinato; e 'l messo s'accostava e domandava fiorini sedici al giovane, li quali gli avea promessi di dare. E Sandro dalla finestra avea gli occhi e gli orecchi a ogni cosa; e 'l giovane dava parole al messo:

- Ben te gli darò.

Il messo comincia a dire:

- Oimei! o è questa mercanzia da dire “io te gli darò”, ché essendo in prigione, mi minaccia, che ne sarò ancora forse morto a ghiado?

E andava poi in qua e 'n là, accostandosi spesso appiè della finestra, dove era il detto Sandro preso, e come il messo s'accostava, e Sandro dicea, sí che l'udía il giovene e ogni altro:

- Per lo corpo di Dio, che io te ne pagherò -; e poi dicea piano al messo: - hatt'egli pagato?

Il messo accennava di no; e Sandro usciva dicendo forte:

- Non poss'io mai aver cosa che buona mi sia, se io non te ne pago e se questa presura non ti costa amara.

Totto col suono di Sandro andava volteggiando verso il giovane, e diceva:

- Deh, pagami, ché io vorrei piú volentieri della mia povertà averne dati altrettanti a te, e non averlo preso; ché egli mi minaccia, come tu odi, per forma che mi leverà di terra, sí che non mi stentare, e priegotene.

E quelli rispondea:

- Aspettami un poco; e' pare che io me ne sia per andare per debito.

E 'l messo, come cruccioso e adirato, tirando in su le spalle, andava verso la finestra; il quale quando Sandro sel vedea presso, lo domandava pianamente se gli avea aúti; e dicendo di no, vie piú aspramente minacciava il messo, facendo tanto cosí che 'l messo ebbe fiorini sedici. Come Sandro seppe da Totto che 'l pagamento era fatto, fece vista di mandare uno a casa sua; e come tornò, cominciò a dire:

- E’ ci ha una brigata di buon fanciulli che fanno pigliare di carte pagate: per lo corpo e per lo sangue! che si vorrebbono impiccare per la gola -; e in presenza di tutti quelli della corte che v'erano, e di chi l'avea fatto pigliare, appresentò la carta della fine, la quale veggendo il giovane, rimase tutto scornato e addomandò perdonanza a Sandro, però che di ciò non sapea alcuna cosa.

Sandro disse:

- Se tu nol sapei, e tu l'appara: chi mi rende l'onore mio della vergogna che tu m'ha' fatta?

E brievemente e' misse su e parenti e amici per essere in pace con Sandro, e a gran pena gli venne fatto: e rimasesi fuori di fiorini trecento, che credea dovere avere come Ughetto dell'Asino, e de' fiorini sedici che diede a Totto Fei.

Una sottile e cattiva malizia fu questa, che questo Sandro volesse usare tant'arte, e avere tanta vergogna per pochi denari; ma piú nuova cosa fu che, quando uno è preso per debito, colui che l'ha fatto pigliare aspetta che paghi, e a lui par mill'anni d'aver pagato per uscir di prigione: questo era tutto il contrario; ché colui che era preso aspettava che il creditore, che l'avea fatto pigliare, pagasse sí che elli uscisse di prigione.

E perciò non si vorrebbe mai risparmiare la penna. Il padre lasciò al giovane la carta accesa, e niuno ricordo lasciò che n'avesse fatto fine, o che fosse pagato, e perciò questo gl'intervenne. E anco se Sandro avesse aúto un figliuolo, o parente folle, gli potea intervenire peggio.

 

 

NOVELLA LIII

 

Berto Folchi, essendo in una vigna congiunto con una forese, alcuno viandante passando di sopra un muro, non accorgendosi, gli salta addosso, il quale credendo sia una botta, fuggendo grida accorr'uomo, e mette tutto il paese a romore.

 

Ben venne ad avere il suo intendimento d'uno amorazzo Berto Folchi, e ancora il priore Oca con sottile inganno a godere una vigna, cosí bene come ad effetto del suo volere venisse Sandro Tornabelli. Questo Berto Folchi fu uno piacevole cittadino della nostra città, e leggiadro e innamorato ne' suoi dí. Costui, avendo piú tempo dato d'occhio con una forese nel populo di Santo Felice ad Ema, nella per fine un dí, essendo la detta forese in una vigna, il detto Berto non abbandonando questo suo amore, ne venne alla sua, e appiè d'un muro a secco che cingea la vigna, dietro al quale passava una via, si puosono. Era nel sollione per un gran caldo, che passando due contadini che veníano da Santa Maria Impruneta, disse l'uno all'altro:

- Io ho una gran sete; vuo' tu andare in quella vigna per un grappolo d'uve, o vuogli che vi vadia io?

Disse l'altro:

- Vavi pur tu.

Di che l'uno, saltato con una lancia sul muro, e gittatosi di là co' piedi su l'anche di Berto che era addosso alla detta forese, fu tutt'uno: del quale colpo ebbe maggiore paura e danno Berto che la forese, però che ella si sentí meglio calcata. Il contadino che avea saltato, sentendosi giugnere co' piedi su una cosa molliccia, sanza volgersi addietro comincia a fuggire per la detta vigna, fracassando e pali e viti, gridando: “Accorr'uomo, accorr'uomo” con le maggiori voci che aveva in testa.

Berto nientedimeno si studiava di fare li fatti suoi, come che gli paresse essere nel travaglio. Al romore del contadino chi correa qua e chi là:

- Che è? che è?

E quelli dicea:

- Oimè! che io ho trovata la maggior botta che mai si trovasse.

Il romore crescea; ed elli li diceano:

- Se' tu impazzato, che tu metti il paese a romore per una botta?

E quelli pur gridava:

- Oimè! fratelli miei, ch'ella è maggiore che un vassoio. Io vi saltai suso, e parvemi saltare come su uno grandissimo polmone, o fegato di bestia; oimè! che io non tornerò mai in me.

D'altra parte il suo compagno, o parente che fosse, che aspettava l'uve, temendo forse per briga che aveano, udendo il romore, che colui non fosse assalito e morto, comincia a gridare anco elli: “Accorr'uomo” e fugge indietro quanto puote. Le campane di Santo Felice cominciano a sonare a martello, e quelle da Pozzolatico, e di tutto quel paese. Chi trae dall'un lato e chi dall'altro, e ciascun corre:

- Che è? che romore è questo, e in quest'ora?

La donna s'era spiccata da Berto, fugge verso la casa del marito, gridando:

- Oimè trista! che romore è questo?

E abbattesi al marito, il quale come gli altri verso la piazza di Santo Felice correa, dicendo:

- Oimè! marito mio, che vuol dir questo? ché sallo Dio con quanto diletto facea erba nella vigna per lo bue nostro, ed elli si levò questo busso, che son quasi mezza morta.

Berto giugne da un altro lato della piazza, e dice:

- Che novella è questa? che buona ventura è?

Disse il lavoratore che gli avea saltato addosso:

- Come, che è? o non l'avete voi sentito? non credo che niuno vedesse o trovasse mai sí gran botta come io trovai nella tal vigna; e peggio fu che io gli saltai addosso; che è maraviglia ch'ella non mi schizzò il veleno; e pur cosí non so se io me ne morroe.

Disse Berto:

- In buona fé che tu se' un piacevol uomo; o se tu avessi trovato un diavolo, che avresti tu fatto?

Disse colui:

- Vorrei innanzi trovare un diavolo che una botta a quel modo.

In questo, l'altro compagno giunse alla piazza trambasciato, gridando; e veggendo il compagno corre ad abbracciarlo, dicendo:

- Oimè! compagno mio, che hai tu aúto? chi t'ha assalito? io credetti che tu fosse stato morto.

E quelli, mezzo smemorato, dicea di questa botta. E Berto Folchi verso costoro si volge ancora, e dice:

- Che cortesi uomeni siete voi? avete con questo vostro romore scioperato quanti uomeni ha in questo paese, e io era sopra a fare una mia faccenda, e sono stato sí bestia che io ci son corso anch'io.

E rispondendo e dicendo, chi di qua e chi di là, e Berto dice:

- Egli è buon pezzo che io usai in questo paese, e già fa buon tempo udi' dire che uno trovò una gran botta in quella vigna; forse è questa dessa.

Tutti a una voce affermarono che cosí dovea essere, però che v'erano li muri a secco, e certe muricce di sassi rovinati; egli è possibile che ella vi sia ancora molto cresciuta.

Tutti con questo si tornorono a casa. E appena erano compiuti di partirsi, e Berto tornando verso Firenze, che 'l priore Oca, priore del detto luogo, uomo piacevolissimo, tornando da Firenze, non di lungi una balestrata dalla piazza si scontrò in lui, il quale salutandolo come molto suo domestico, il rimenò addietro, volendo che quella sera si stesse con lui. E accettato Berto e tornando insieme col priore, dice il priore:

- Io ho udito tra via che ci è stato un gran romore; che cosa è stata questa?

Disse Berto:

- Priore mio, se voi mi terrete credenza, io vi dirò la piú bella novella che fosse poi che voi nasceste.

Il priore dice:

- Berto, ponla su (e porgegli la mano) e cosí ti giuro, e anco sai che io sono prete.

Di che Berto gli disse il principio, mezzo, e fine di ciò ch'era stato. Il priore era grasso; egli stette un gran pezzo che non potea ricogliere l'alito, tanto ridea di voglia. E cenato, e albergato con gran festa di ciò insieme, il detto Berto la mattina seguente si tornò a Firenze; e 'l priore, dopo la messa, pensò di far sí che quella novella gli valesse qualche cosa, dicendo a' suoi popolani e del caso intervenuto, e del romore, ammonendoli tutti che non si accostassino a quella vigna, però che cosí fatta botta era di gran pericolo, pur guardando altrui, non che schizzando il veleno. Di che pochi erano che vi fossono arditi di entrare entro, se già non fosse stato Berto e la forese.

E 'l priore, veggendo che non era alcuno che la volesse lavorare, s'accordò con colui di cui ell'era, di torla a fitto, dicendo:

- Io metterò a rischio, e so alcuna orazione, e alcuno incanto che è buono a ciò; e anche quel mio fante è uno mazzamarone che non se ne curerà.

Abbreviando la novella, e' tenne la detta vigna a fitto parecchi anni per una piccola cosa, e traevane l'anno, quando cogna otto e quando cogna diece di vino, e a colui di cui ell'era, pur ch'ella non rimanesse soda, ma fosse lavorata, parea guadagnare la detta vigna. E cosí tirò l'aiuolo il priore Oca, andando spesso Berto a bere di quel vino con lui, facendo sí che alla botta mai non fu piú saltato addosso.

Che diremo adunque de' casi e degli avvenimenti che amore conduce? Tra quanti nuovi ne furono mai, non credo che ne fosse nessuno simile a questo, e con tutta la fortuna a suono di campane a martello, e a romore di popolo, Berto condusse a fine il suo lavorío; e 'l priore Oca, per dare una buona ammonizione a' suoi popolani, ne guadagnò in parecchi anni forse quaranta cogna di vino: e fugli bene investito, però che era goditore e volentieri facea cortesia altrui.

 

 

NOVELLA LIV

 

Ghirello Mancini da Firenze dice alla moglie quello che ha udito di lei, e quella scusandosi, fa a littera quello di che è stato ragionato in una brigata.

 

La moglie di Ghirello Mancini usò mercatanzia d'un'altra man paniccia, pagando il marito di quella moneta ch'elli andava cercando. Alla piazza di San Pulinari nella città di Firenze sempre usò nuova generazione di gente, e di diverse contrade. Avvenne un dí per caso che, essendo adunato un cerchio d'uomeni nel detto luogo, tra' quali era uno che avea nome ser Naddo, e Ghirello Mancini, e altri; di che una mala lingua di quelli del cerchio, cominciò a dire di nuove cose della moglie, per metterli in giuoco a dire delle loro e dell'altrui. Onde dicendo l'uno e dicendo l'altro e pro e contro delle loro mogli, disse ser Naddo a Ghirello che contro alla moglie di ser Naddo dicea:

- Ghirello, la tua monna Duccina è sí grassa ch'ella non si dee poter forbire la tal cosa, quando è ita al luogo comune.

E cosí avendo detto e delle loro e dell'altre ciò che vollono, la notte e l'ora da tornarsi a casa gli partí dal ragionamento. E tornato Ghirello in casa e cominciato a spogliare, che era di giugno e caldo grande, s'accostò alla camera; e andato al letto, standosi cosí a sedere prima che entrasse sotto, e la sua moglie monna Duccina essendo per la camera in camicia, racconciando sue bazzicature, e Ghirello vedutala, ricordandosi di quello che ser Naddo avea la sera detto, disse:

- Duccina, o non sai tu quello che mi fu detto dianzi al canto di San Pulinari?

Disse la Duccina:

- Qualche male: o che?

Disse Ghirello:

- Fu detto che quando tu hai fatto el mestiero del corpo, che tu non ti déi poter forbire la cotal cosa.

La Duccina, udendo questo, comincia a dire:

- Deh davi il malanno a la mala pasqua, ché mai non fate altro che dire male di altrui.

E con un impeto grandissimo d'ira, subito chinandosi cosí in camicia in mezzo dello spazzo, disse:

- Guata, se io mi posso chinare.

E pignendo la mano verso il cocchiume, come se l'avesse a forbire, tirò uno peto sí grande che parve una bombarda.

Ghirello, avendo veduto prima l'atto, e poi sentito il tuono, disse:

- Duccina, a cotesto non ti risponderei io, se non ci fosse ser Naddo.

E la Duccina, volendosi ricoprire, disse:

- Sí che fu ser Naddo; deh dàgli tanti maglianni quanti mai ne vennono a creatura, vecchio rimbambito ch'egli è; ché se io lo truovo, gli dirò tanta villania quanta ad asino.

Disse Ghirello:

- Tu hai fatta la pruova, e adiriti: o se tu non l'avessi fatta, che diresti tu?

Ed ella disse:

- Che pruova nella malora? che siete tutti piú tristi che 'l tre asso.

Disse Ghirello:

- Donna, or va', dormi oggimai, va'. Io ci menerò domani ser Naddo, e vedremo quello che dee essere di questo fatto, e che ne vuole la ragione.

Disse la Duccina:

- Che ragione? ben che voi sete ragione. Alla croce di Dio che se tu cel meni, che io gli getterò un mortaio in capo. Sa' tu com'egli è del fatto, Ghirello? E’ vide ben ser Naddo a cui sel dire; ché, se tu fussi quello che tu dovessi, non avrebbe avuto ardire di dire male d'una tua donna, ove tu fussi.

Belli ragionamenti che sono i vostri! lasciate stare li fatti miei e dell'altre donne, e ragionate de' vostri, che tristi siate voi dell'ossa e delle carni! ché ben vorrei che ser Naddo e gli altri cattivi fossono stati qui, come ci se' tu, e avessi fatta la pruova in sul viso loro, come io l'ho fatta innanzi a te, che d'altro non eravate degni.

E cosí se ne andò la Duccina al letto, e non sanza borbottare, tanto che s'addormentoe; e la mattina levatosi Ghirello, e stato un pezzo fuori, si ritrovoe con ser Naddo e con gli altri, e predicorono la pruova che la Duccina avea fatta, e dissono tutti ch'ella avea ragione, e ch'ella tirerebbe un balestro non che un peto, quando bisognasse.

Nuova cosa è quello che usano spesse volte li mariti disonesti, che spesso in cerchio diranno di cose vituperose delle loro donne, e piú ancor dell'altre, e chi venisse bene considerando, elle ne potrebbon far dire forse piú degli uomeni; e hanno tanta discrezione che nol fanno; e gli uomeni, dove dee essere piú virtú e piú savere, sono meno discreti di loro; ché non bastò a Ghirello d'essere a udire e dire forse male della Duccina; ma egli lo ridisse perché ella il sapesse.

 

 

NOVELLA LIX (frammento)

 

 

... e presso a quel luogo era fatta una fossa per sotterrare un pellegrino. Il signore, veggendo questo, dice:

- Che questione è questa?

Dicono i contadini:

- Signor nostro, egli è morto qui un pellegrino, il quale alcuna cosa non troviamo ch'egli abbia di che si possa sotterrare. Noi, per meritare a Dio, abbiamo fatta la fossa; preghiamo il prete rechi la croce e' doppieri, acciò che lo sotterriamo; e' dice che vuol denari, e mai non lo farà altramente; e 'l cherico dice peggio di lui, e hacci voluto quasi dare.

Disse il signore:

- Venite cià, o messer lo prete, e voi messer lo cherico; è vero quello che costoro dicono?

Dice il prete e 'l cherico a un tratto:

- Signore, noi dobbiamo avere el debito nostro.

Disse il signore:

- E chi vel de' dare? il morto che non ha di che?

Ed e' risposono:

- Noi dobbiamo pur avere il debito nostro, chi che ce lo dia.

Disse il signore:

- E io vel darò io: debito vostro è la morte; dov'è il morto? adugélo qua; mettetel nella fossa: pigliate 'l prete; cacciatel giú: dov'è il cherico? mettetel su; mo tira giú la terra.

E cosí fece sotterrare il prete e 'l cherico sul morto pellegrino, e andò a suo viaggio.

E stato alcun dí a questo suo luogo, ritornò a Melano; e tornando per una via, dov'era un'altra delle sue prigioni ed era su l'ora di terza, gli prigioni, che aveano sentito il beneficio ch'egli avea dato agli altri, sentendo il signore passare, cominciorono a gridare:

- Misericordia, misericordia.

Quelli ristette, dicendo:

- Che è quello?

Il guardiano si fece innanzi.

- Signore, sono li prigionieri, che vi domandono misericordia.

Disse il signore:

- Sí, hanno apparato dagli altri.

Chiamò uno de' suoi famigli da cavallo, e disse:

- Va', metti in prigione questo guardiano cogli altri, e guarda la prigione tu, e fa' che tu non déi né mangiare né bere ad alcuno di loro, se io non torno da Chiaravalle, là dove io andrò com'io avrò desinato; e guarda che tu faccia ciò che io dico, ch'altrimenti io t'impiccherò per la gola.

Come detto, cosí fatto. Il signore andò a desinare, e come ebbe desinato, montò a cavallo e andò a Chiaravalle, dove è una gran badía, e uno bellissimo abituro per lo signore: e stato là tutto quel dí e l'altro, alla reina venne grandissimo male; di che subito gli fu mandato a dire. Come lo sentí, che cosí avea d'usanza, benché fosse di notte, subito fu mosso per vicitar la reina; e questo credo fosse fattura di Dio, perché quelli prigioni non morissono, ch'erano già stati quarantadue ore sanza mangiare e sanza bere, avendovi di quelli già che cominciavono a balenare. Tornato che fu, ebbono tutti mangiare e bere, come poteano, ringraziando tutti il loro Creatore.

Or queste tre cose avvennono, si può dire, in un piccol viaggio: la prima fu di gran carità, e volle che fosse sí valida ch'ella valesse eziandio a chi v'era per debito: la seconda fu mossa da justizia, e fu seguita con gran crudeltà: la terza fu sdegno, e tòr materia che ogni dí non avessi avvenire.

Non notando quelli comuni queste cose che sempre stanno in cacciare l'uno l'altro, e non vogliono vicino, non conoscendo il bene che Dio ha dato loro.

 

 

 

NOVELLA LX

 

 

Frate Taddeo Dini, predicando a Bologna il dí di Santa Caterina, mostra un braccio contro a sua volontà, gittando un piacevol motto a tutta la predica.

 

Molte volte interviene che delle reliquie si truovano assai inganni, come poco tempo intervenne a' Fiorentini. Avendo aúto di Puglia un braccio, il quale fu dato loro per lo braccio di santa Reparata, e facendolo venire con gran cerimonia, e mostrandolo parecchi anni per la sua festa con gran solennità, nella fine trovorono il detto braccio esser di legno.

Era adunque frate Taddeo Dini dell'ordine de' Predicatori, valentissimo uomo, il dí di Santa Caterina a Bologna; e al monistero di Santa Caterina per la festa la mattina predicando, avvenne che, compiuta la predicazione, anzi che scendesse del pergamo e pervenisse alla confessione, con molti torchi gli fu recato un forzieretto di cristallo, coperto con drappi, dicendo:

- Mostrate questo braccio di santa Caterina.

Frate Taddeo, che non era smemorato, dice:

- Come il braccio di santa Caterina! Io sono stato al Monte Sinai, e ho veduto il suo corpo glorioso, intero con le due braccia e con tutte l'altre membra.

Dissono quei pretoni:

- Bene sta; noi tegnamo che questo sia veramente il suo braccio.

Frate Taddeo con chiare ragioni diceva non esser da mostrarlo. La Badessa, sentendo questo, lo mandò pregando il dovesse mostrare; però che, se non si mostrasse, la devozione del monastero si perderebbe. Veggendo frate Taddeo che pur mostrare gli lo convenía, aprí il forzierino, e recatosi in mano il detto braccio, disse:

- Signori e donne, questo braccio che voi vedete dicono le suore di questo monastero che è il braccio di santa Caterina. Io sono stato al Monte Sinai, e ho veduto il corpo di santa Caterina tutto intero, e massimamente con due braccia; s'ella ne ebbe tre, quest'è il terzo -; cominciando con esso a segnare in croce, come si fa, tutta la predica.

Gl'intendenti di questo risono, parlando tra loro; molti uomini e feminelle semplici si segnarono devotamente, come quelli che non intesono frate Taddeo, né avvidonsi mai di quello che avea detto.

La fede è buona e salva ciascuno che l'ha; ma veramente solo il vizio dell'avarizia fa di molti inganni nelle reliquie; che è a dire che non è cappella che non mostri aver del latte della Vergine Maria! ché se fusse come dicono, nessuna sarebbe piú preziosa reliquia, pensando che del suo corpo glorioso alcuna cosa non rimase in terra; ed e' si mostra tanto latte per lo mondo, dicendo esser del suo, che se fosse stata una fonte ch'avesse piú dí rampollato, quello si basterebbe. Se se ne potesse far prova, come frate Taddeo fece del detto braccio, ciò non avverrebbe. Ora la fede nostra ci fa salvi; e chi archimia sí fatte cose, ne porta pena in questo o nell'altro mondo.

 

 

NOVELLA LXI

 

 

Messer Guglielmo da Castelbarco, perché un suo provvisionato mangia maccheroni col pane, gli toglie ciò che con lui molti anni ha guadagnato.

 

Nelle contrade di Trento fu già un signore, chiamato messer Guglielmo da Castelbarco, il quale, avendo seco uno (secondo ch'io già udi') a provvisione, ch'avea nome Bonifazio da Pontriemoli, e volendoli sommo bene, però che lo meritava, come valente uomo ch'avea guidato suo' dazi e gabelle; e per questa sua provvisione, e per l'utile delli officii, facendo pur lealmente, era divenuto ricco di forse sei mila lire di bolognini; essendo un venerdí costui a tavola col signore, e con altra sua brigata, essendo recati maccheroni e messi su per gli taglieri innanzi a ciascheduno, essendo venuto il cosso al signore, e veggendo il detto Bonifazio mangiare li maccheroni col pane, ed era carestia ne' detti paesi, subito comandò a' suoi sergenti che 'l detto Bonifazio fusse preso; li quali mossi, subito il presono. Costui, maravigliandosi, dice:

- Signor mio, che cagione vi muove a farmi pigliare cosí furiosamente?

Dice il signore:

- Tu 'l saprai bene: dunque mangi tu il pane col pane? e guardi d'affamare il mondo, che vedi il caro esser sí grande? e credi che io sia un matto, e non me ne avveggia?

Bonifazio, udendo la cagione, credette il signore facesse per aver diletto, e quasi cominciò a sorridere.

Disse il signore:

- Tu ridi, ah? io ti farò ben rider d'altro verso. Menatelo là alla prigione, e guardate non fuggisse.

Fu menato costui e messo nella prigione; e ivi a pochi dí fu condennato in lire sei mila di bolognini, per aver voluto turbare lo stato, non che di lui, ma di tutta la sua provincia, e spezialmente per fame. Convenne che costui rimettesse ciò che mai avea acquistato con lui, e quello che egli avea a casa sua, e pagò i detti danari, gittandogli il signore parole, come grandissima grazia gli aveva fatta di non averli tolta la vita.

Stia dunque co' signori a bastalena chi vuole; che per certo, chi non si sa partir da loro, e sta con essi a bastalena, rade volte ne capita bene, come a molti è intervenuto, come contar si potrebbe. Questo messer Guglielmo ancora tolse ciò avea un suo famiglio o sottoposto perché avea fatto metter l'arme sua in una pietra da camino, opponendo che l'aveano messa al fumo, perché l'affogasse. Poi ebbe quello che e' meritava... il feciono morire in prigione.

 

 

 

NOVELLA LXII

 

Messer Mastino, avendo tenuto uno provisionato a far sua fatti, e parendogli che fusse arricchito, domanda veder ragione da lui, il quale con nuova malizia fa ch'egli è contento non rivederla.

 

Ne' tempi che messer Mastino signoreggiava Verona, gli capitò alle mani uno ch'era come uno per fante a piede, a fare suoi servigi; il quale come pratico ed esperto stato ben venti anni, facendo ancora molto bene i fatti del signore, diventò ricco. A messer Mastino venne l'appetito che venne a messer Guglielmo nella precedente novella; e pensossi di domandare di veder ragione da costui, e cosí fece; ché lo chiamò una mattina e disse:

- Vien cià, va', apparecchia tutte tue scritture de' fatti miei che ti sono pervenuti per le mani, poi che tu fusti nella corte mia.

Al buon uomo parve essere impacciato, pensando non poter mai mostrare al signore quello che dimandava; ma pure rispose:

- Datemi respitto, e io penserò di soddisfare al vostro comandamento.

Ed egli disse:

- Va', e quando hai le cose preste, vieni; e io darò ordine chi debba per me esser con teco a vedere le dette ragioni.

 Rispose costui:

- E’ sarà fatto, signor mio.

Tornasi a casa e partesi dal signore, e pensando e ripensando, quanto piú pensava piú gli pareva essere impacciato; e guardando per casa, ebbe veduta la rotella, la cervelliera, uno lanciotto, uno farsettaccio con un coltello, con le quali cose era venuto di prima, quando s'era acconcio al servigio di detto signore. E vestitosi nel modo ch'era venuto, e prese quelle medesime arme appunto, in quella forma l'altra mattina senza piú aspettare s'appresentò innanzi a messer Mastino.

Il quale veggendolo, si maravigliò, dicendo:

- Che vuol dir questo, che tu se' cosí armato?

- Signor mio, - disse quello, - voi m'avete comandato che io vi mostri ragione di ciò c'ho aúto a far de' vostri fatti, poi che io fui servitore di vostra signoria; io vi dico cosí, signor mio, che io non veggio modo nessuno ch'io ve la potessi mai mostrare, se non questo che voi vedete. Voi sapete, signor mio, che quando io venni al vostro servigio, io era povero mascalzone, con quello in dosso, e con quelle povere armicelle, con le quali mi vedete al presente. E per tanto la ragione è fatta; nessuna altra cosa, che quello che io ci recai, me ne porterò; e cosí me n'andrò povero, com'io ci venni: tutto l'altro mio rimanente, e la casa, con ciò che v'è dentro, lascio alla vostra signoria.

Messer Mastino, come savio signore, considerando l'avvedimento e modo di costui, disse:

- Non voglia Dio, che io ti tolga quello che hai con me guadagnato; va', e fa' lealmente e' fatti miei, e da mo innanzi non aver pensiero che io ti vegna mai meno.

Costui ringraziò el signore; e parvegli aver avuto buon modo a mostrar la detta ragione; e stette nella corte di messer Mastino tutto il tempo della vita sua, e fugli piú caro che altro uomo ch'egli avesse.

Or considera, lettore, quant'è ignorante chi fa lunga dimora nella corte d'uno signore, e come in uno punto e' si volgono e disfanno altrui.

E guarda s'egli è pericoloso, ché, sognando che un servo l'uccida, sel reca a vero e disfallo. E però chi si può levar dal giuoco, quando ha piena la tasca, non vi stia a guerra finita; però che la maggior parte ne rimangon disfatti, come apertamente per molti si poría vedere.

 

 

NOVELLA LXIII

 

A Giotto gran dipintore è dato uno palvese a dipingere da un uomo di picciolo affare. Egli facendosene scherne, lo dipinge per forma che colui rimane confuso.

 

Ciascuno può aver già udito chi fu Giotto, e quanto fu gran dipintore sopra ogni altro. Sentendo la fama sua un grossolano artefice, e avendo bisogno, forse per andare in castellaneria, di far dipignere uno suo palvese, subito n'andò alla bottega di Giotto, avendo chi gli portava il palvese drieto, e giunto dove trovò Giotto, disse:

- Dio ti salvi, maestro; io vorrei che mi dipignessi l'arme mia in questo palvese.

Giotto, considerando e l'uomo e 'l modo, non disse altro, se non:

- Quando il vuo' tu? - e quel glielo disse.

Disse Giotto:

- Lascia far me.

E partissi. E Giotto, essendo rimaso, pensa fra sé medesimo: “Che vuol dir questo? serebbemi stato mandato costui per ischerne? sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere: e costui che 'l reca è uno omicciatto semplice, e dice che io gli facci l'arme sua, come se fosse de' reali di Francia; per certo io gli debbo fare una nuova arme”. E cosí pensando fra sé medesimo, si recò innanzi il detto palvese, e disegnato quello gli parea, disse a un suo discepolo desse fine alla dipintura; e cosí fece. La qual dipintura fu una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello, e una lancia.

Giunto il valente uomo che non sapea chi si fosse, fassi innanzi e dice:

- Maestro, è dipinto quel palvese?

Disse Giotto:

- Sí bene; va', recalo giú.

Venuto il palvese, e quel gentiluomo per procuratore il comincia a guardare, e dice a Giotto:

- O che imbratto è questo, che tu m'hai dipinto?

Disse Giotto:

- E’ ti parrà ben imbratto al pagare.

Disse quelli:

- Io non ne pagherei quattro danari.

Disse Giotto:

- E che mi dicestú che io dipignessi?

E quel rispose:

- L'arme mia.

Disse Giotto:

- Non è ella qui? mancacene niuna?

Disse costui:

- Ben istà.

Disse Giotto:

- Anzi sta mal, che Dio ti dia, e déi essere una gran bestia, che chi ti dicesse: “chi se' tu?” appena lo sapresti dire; e giungi qui, e di': “Dipignimi l'arme mia”. Se tu fussi stato de' Bardi, serebbe bastato. Che arma porti tu? di qua' se' tu? chi furono gli antichi tuoi? deh, che non ti vergogni! comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d'arma, come stu fussi il Dusnam di Baviera. Io t'ho fatta tutta armadura sul tuo palvese; se ce n'è piú alcuna, dillo, e io la farò dipignere.

Disse quello:

- Tu mi di' villania, e m'hai guasto un palvese.

E partesi, e vassene alla grascia e fa richieder Giotto.

Giotto comparí, e fa richieder lui, addomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le ragioni gli officiali, che molto meglio le diceva Giotto, giudicarono che colui si togliesse il palvese suo cosí dipinto e desse lire sei a Giotto, però ch'egli avea ragione: onde convenne togliesse il palvese, e pagasse, e fu prosciolto.

Cosí costui, non misurandosi, fu misurato; ché ogni tristo vuol fare arma e far casati; e chi tali, che li loro padri seranno stati trovati agli ospedali.

 

 

NOVELLA LXIV

 

Agnolo di ser Gherardo va a giostrare a Peretola, avendo settanta anni, e al cavallo è messo un cardo sotto la coda; di che movendosi con l'elmo in testa, il cavallo non resta, che corre insino a Firenze.

 

Non è gran tempo che in Firenze fu un nuovo pesce, il quale ebbe nome Agnolo di ser Gherardo, uomo quasi giullare, che ogni cosa contraffacea: e usando con assai cittadini, che di lui pigliavono diletto, ed essendo andazzo di giostrare, andando con certi a Peretola che andavano per ciò fare, giostrò anco elli, e avea accattato un cavallaccio di quelli della Tinta di Borg'Ognissanti, che era una buscalfana, alto e magro, che parea la fame. Giunto a Peretola, el brigante si fece armare, ed era dalla parte di là dalla piazza sí che veniva a correre verso Firenze. E messogli l'elmo in testa, e data l'asta, e appiccatogli un cardo sotto la coda, fu tutt'uno. Era la sella altissima: altro non era a vederlo, se non un elmo nella sella, che parea colui, cui elli piú volte in brigata raccontava.

Mosso la scuccumedra con Agnolo suvvi, e sentendo il cardo, si comincia a lanciare e a percuotere Agnolo or qua or là negli arcioni, sí che l'asta si rassegnò in terra, e 'l cavallo, scagliandosi e traendo, comincia a correre verso Firenze. Tutti quelli dattorno scoppiavono delle risa. Agnolo non tenea ridere, però che si sentía dare i maggior colpi del mondo negli arcioni, e cosí essendo lacerato ad ogni passo e percosso, giunse alla Porta del Prato, ed entrò dentro, correndo e nabissando che fece smemorare e' gabellieri; e giú per lo Prato, che ogni uomo e femina per maraviglia diceano: “Che vuol dir questo?”, entrò nel Borgo Ognissanti.

Or quivi era la fuggita e da' lanci e da' calci del cavallo! ognun fuggendo e gridando:

- Chi è questi? che fatto è questo?

E cosí non restette mai il cavallo che giunse alla Tinta, dov'era il suo albergo, là dove il cavallo fu preso per le redine e menato dentro.

Essendo domandato: “Chi se' tu?”, colui soffiava e doleasi: dilacciarongli l'elmo, e quel grida e duolsi:

- Oh me, fate piano.

E cosí trattogli l'elmo, il capo di Agnolo parea uno teschio, o uno uomo morto di piú dí.

Fu tratto della sella con fatica d'altrui, e con dolor di lui; ed egli, pur dolendosi, per nessun modo si potea sostenere in piede; onde fu condotto su uno letto; e giunto di fuori colui di cui era e la casa e 'l cavallo, quando tutto seppe, scoppiava di risa. E giugnendo dove Agnolo era, dice:

- Oh, io non credea, Agnolo, che tu fussi Gian di Grana, e che tu giostrassi, almeno me l'avestú detto quando tu accattasti el mio cavallo, che mel déi aver guasto, però che non era da giostra.

Disse Agnolo:

- Guasto ha egli me, che mi par restío: s'io avessi aúto un buon cavallo, io avrei dato a colui una grande scigrignata, e avrei aúto onore, dove io sono vituperato. Io ti prego per Dio che tu mandi per li panni mia a Peretola, e fa' dire a que' giovani che io non m'ho fatto mal niuno, però che la buon'arme m'ha campato.

E cosí fu mandato per li suoi panni, che vennono con essi tutti quelli che di lui avevono aúto in ciò diletto. E giunti ad Agnolo dicono:

- Oimè, ser Benghi (ché cosí era chiamato) se' tu vivo?

- O fratelli miei, - dicea quelli, - io non vi credetti mai rivedere: io sono tutto lacero; quel maladetto cavallo m'ha morto; io non provai mai peggior bestia; quando io v'era su, mi parea esser la secchia de' vasgellai; io debbo aver rotta tutta la sella e le corazze; dell'elmo non ti dico, che talora si percotea su la sella per forma che de' esser tutto rotto.

Se la brigata rideva, non è da domandare. Alla perfine il vestirono la sera al tardi, e a braccia il condussono a casa sua; là dove correndo la donna all'uscio, cominciò il pianto, come se fusse morto, dicendo:

- Oimè, marito mio, chi t'ha fedito?

Agnolo non dicea alcuna cosa; la moglie pur domandava:

- Che è questo?

Dicevano i compagni:

- Non è cosa che vi bisogni piagnere.

- E lasciatolo, s'andarono con Dio; e la donna abbracciando Agnolo, comincia a dire:

- Marito mio, dimmi quel che tu hai.

E Agnolo chiese d'entrar nel letto; il quale la donna spogliandolo e veggendolo tutto livido, disse:

- Chi t'ha cosí bastonato?

E’ parea il corpo suo o di profferito o di marmorito, tanto era percosso.

Alla fine ritornato l'alito ad Agnolo, disse:

- Donna mia, io andai con una brigata a Peretola, e convenne che ciascuno giostrasse; io, per non esser piú tristo che li altri, e pensando a' miei passati da Cerretomaggio, volli giostrare anch'io; e se 'l cavallo ch'era restío, e hammi concio come tu vedi, fusse stato buono, io avea oggi maggior onore che uomo che portassi mai lancia già fa parecchi anni.

La donna, ch'era savia, e conoscea le frasche d'Agnolo, comincia a dire:

- Sí, che tu se' uscito della memoria affatto, o vecchio mal vissuto; che maladetto sia il dí ch'io ti fu' data per moglie, che mi consumo le braccia per nutricar li tuo' figliuoli, e tu, tristanzuolo, di settanta anni vai giostrando: o che potrestú fare, che a ragione di mondo non pesi dieci once? Va' va', che ora serai tu messo nel sacco de' priori, che n'ha' pisciato cotanti maceroni. Ed è peggio, che, perché tu se' chiamato ser Benghi, di' che tu vi se' per notaio. Doh tristo, non ti conosci tu? e se questo pur fosse, quanti notai ha' tu veduto giostrare? Se' tu fuori della memoria? Non consideri tu, che tu se' lavorante di lana, e altro non hai, se non quello che tu guadagni? Se' tu impazzito? Deh, va', ricollicati, sventurato; ch'e' fanciulli ti verranno oggimai drieto co' sassi.

Agnolo con voce lena dice:

- Donna mia, tu di' che io mi ricolichi; dolente sono, che m'è convenuto collicare; io ti prego che tu stia cheta, se tu non vuoi ch'io muoia affatto.

E quella dice:

- Or fustú morto, innanzi che vivere con tanto vituperio.

Dice Agnolo:

- O son io il primo, a cui venga sciagura ne' fatti d'arme?

- Deh, va' col malanno, - disse la moglie - va', scamata la lana, come tu se' uso, e lascia l'arte a quelli che la sanno fare.

E non restette insino a notte la contesa; e la notte pure si rabbonacciorono come poterono. Agnolo mai non giostrò piú.

Molto fu piú savia questa donna che il marito; però che ella conoscea lo stato suo, e quello del marito; ed elli non conoscea solo sé: se non che la moglie gli disse tanto che giovò.

 

 

NOVELLA LXV

 

Messer Lodovico da Mantova per una piccola parola, che per sollazzo dice un suo provisionato, gli toglie ciò ch'egli ha.

 

Ancora mi viene innanzi come piccola cagione muove un signore a dar la mala ventura altrui. Essendo messer Lodovico di Gonzaga signore di Mantova, uno suo provisionato avea detto con certi altri, piú per diletto che per altro “Signore è vino di fiasco, la mattina è buono, e la sera è guasto”. La detta parola fu rapportata al signore; sí come spesso interviene, per venire in grazia del signore sempre vi sono li rapportatori. Udendo ciò messer Lodovico, fece chiamare a sé quel provisionato, e disse:

- Mo mi di'; ha' tu detto le ta' parole?

Quel rispose:

- Signor mio, sí; ma le parole mie non furon dette se non per motto, però che altra volta l'udi' dire a un valente uomo.

Disse il signore:

- Sí che tu di' che dicesti per motto, e non ti pare avere detto alcun male; e ha' mi nominato e appareggiato con un fiasco di vino. In fé di Dio, io ho voglia di farti giuoco, che sempre te ne verrebbe puzza; ma acciò che tu lo possa ben dire da dovero, spogliati in farsetto, come quando tu venisti a far con mi: e vatti con Dio.

Costui si dileguò in ora, che mai non apparí a Mantova; e lasciò il valer di due mila lire di bolognini, il quale avere tutto si tolse el signore. Cosí intervenne che signore e vin di fiasco, l'uno era vino e l'altro l'ha disfatto.

 

 

NOVELLA LXVI

 

 

Coppo di Borghese Domenichi da Firenze, leggendo una storia del Titolivio, gli venne sí fatto sdegno che, andando maestri per danari a lui, non gli ascolta, non gli intende, e cacciagli via.

 

Fu un cittadino già in Firenze, e savio, e in istato assai il cui nome fu Coppo di Borghese, e stava dirimpetto dove stanno al presente i Leoni, il quale faceva murare nelle sue case; e leggendo un sabato dopo nona nel Titolivio, si venne abbattuto a una storia; come le donne romane, essendo stata fatta contra loro ornamenti legge di poco tempo, erano corse al Campidoglio, volendo e addomandando che quella legge si dirogasse. Coppo, come che savio fosse, essendo sdegnoso, e in parte bizzarro, cominciò in sé medesimo muoversi ad ira, come il caso in quella dinanzi a lui intervenisse; e percuote e 'l libro e le mani in su la tavola, e talora percuote l'una con l'altra mano, dicendo:

- Oimè, Romani, sofferrete voi questo, che non avete sofferto che re o imperadore sia maggior di voi?

E cosí si nabissava, come se la fante in quell'ora l'avesse voluto cacciare di casa sua.

In questa cosí fatta furia stando il detto Coppo, ed ecco venir li maestri e manovali che uscivano d'opera, e salutando Coppo, domandarono denari, come che molto il vedessino adirato. E Coppo come uno serpente volgesi a costoro, dicendo:

- Voi mi salutate, e io vorrei volentieri essere a casa il diavolo; voi mi chiedete danari delle case che mi acconciate, io vorrei volentieri ch'elle rovinasseno testeso, e rovinassonmi addosso.

Costoro si volgeano l'uno all'altro, maravigliandosi, dicendo:

- Che vorrebb'egli?

E dissono:

- Coppo, se voi avete cosa che vi spiaccia, noi siamo malcontenti; se noi possiamo fare alcuna cosa, che vi levassi dalla noia che avete, ditecelo, e farenlo volentieri.

Disse Coppo:

- Deh, andatevi con Dio oggi al nome del diavolo, ch'io vorrei volentieri non esser mai stato al mondo, pensando che quelle sfacciate, quelle puttane, quelle dolorose, abbiano aúto tanto ardire ch'elle sieno corse al Campidoglio per rivolere gli ornamenti. Che faranno li Romani di questo? ché Coppo, che è qui, non se ne puote dar pace: e se io potessi, tutte le farei ardere, acciò che sempre chi rimanesse se ne ricordasse: andatevene, e lasciatemi stare.

Costoro per lo migliore se n'andorno, dicendo l'uno all'altro:

- Che diavolo ha egli? e' dice non so che di romani: forse da stadera.

E l'altro dicea:

- E’ conta non so che di puttane: avrebbegli la donna fatto fallo?

E uno manovale disse:

- A me pare che dica del capo mi doglio ; forse gli duole il capo.

Disse un altro manovale:

- A me pare che si dolga che gli sia versato un coppo d'oglio.

- Che che si sia, - dicon poi - noi vorremmo e' danari nostri, e poi abbia quel vuole.

E cosí deliberarono di non andare piú a lui per allora, ma di tornarvi la domenica mattina; e Coppo si rimase nella battaglia, della quale essendo la mattina raffreddo, e tornandovi e' maestri, diede loro ciò che doveano avere, dicendo che la sera avea altra maninconia.

Savio uomo fu costui, come che nuova fantasia gli venisse; ma ogni cosa considerata, ella si mosse da giusto e virtuoso zelo.

 

 

NOVELLA LXVII

 

 

Messer Valore de' Buondelmonti è conquiso e rimaso scornato da una parola che un fanciullo gli dice, essendo in Romagna.

 

Molti sono che viddono e udirono già messer Valore, e sanno, come che fusse reputato matto, quanto fu reo e malizioso. Egli erano poche cose di che non s'intendesse e ragionasse, con uno atto quasi di stolto. Essendo pervenuto a una terra una sera in Romagna, e favellando dov'erano Signori e gentili uomini, o che gli fusse fatto in prova fare, o che da sé lo facesse, venne un fanciullo, il quale era d'età forse di quattordici anni, e accostandosi a messer Valore, il cominciò a guatare in viso, dicendo:

- Vo' siete un grande calleffadore.

Messer Valore con la mano pignendolo da sé, dice:

- Va', leggi.

Costui fermo; e messer Valore dicendo per sollazzo con costoro dicea:

- Quale avete voi che sia la piú preziosa pietra che sia?

Chi dicea il balascio, chi 'l rubino, e chi l'elitropia di Calandrino, e chi una, e chi un'altra.

Dice messer Valore:

- Voi non ve ne intendete; la piú preziosa pietra è la macina del grano; e s'ella si potesse legare e portarla in anello, ogni altra pietra passerebbe di bontà.

Dice il fanciullo (e tira messer Valore per lo gherone):

- Mo qual volete voi piú, e qual val piú, o un balascio, o una macina?

Messer Valore guata costui, e scostagli la mano da sé, e dice:

- Vanne a casa, pisciadura.

E que' fermo. La brigata comincia a ridere e sí della macina da grano, e sí del detto del fanciullo. Messer Valore dice:

- Voi ridete? Io vi dico tanto, che io ho trovato esser maggior virtú in un piccolo sasso che non è macina da grano, che io non ho trovato né in pietre preziose, né in parole, né in erbe, e pur l'altro dí ne feci la sperienza, e sapete che si dice che in quelle tre cose lasciò Dio la virtú, e udite come, e credo che voi stessi il confesserete. Egli era l'altro dí un giovanetto su uno mio fico, e facevami danno, cogliendo que' fichi che v'erano su. Io cominciai a provar la virtú delle parole, dicendo: “Scendi giú, vanne”; e infine minacciando quanto potei, e' non si mosse mai per le mie parole. Veggendo che le parole non valeano, cominciai a cogliere dell'erbe, e facendo di quelle mazzuoli, le gittava, e davagli con esse alcuna volta, e le furono novelle, che mai si partisse. Veggendo che ancora non mi valevano l'erbe, misi mano alle pietre, e cominciai a gittare verso lui, dicendo: “Scendi giú”. Com'egli vedde pur ricorre la seconda pietra, avendo gittata la prima, subito scese a terra del fico, e andossi con Dio. Questo non averebbe fatto quanti rubini e quanti balasci furono mai.

La brigata tutta con grande sollazzo dissono messer Valore aver ragione, e dire il vero; e 'l fanciullo guarda messer Valore con un atto malizioso, e dice:

- In fé di Dio, questo gentiluomo è molto amico delle pietre, e ne deve avere piena la scarsella.

E pongli mano a un carniere ch'egli avea. Messer Valore si volge, e dice:

- Vanne col malanno; chi diavol è questo fanciullo? Serebb'egli Anticristo?

Dice il fanciullo:

- Io non so che Anticristo; s'io potessi far quello che possono gli signori di Romagna, in fé di Dio, che io vi darei tante di queste pietre, che hanno sí gran virtú che portandole in Toscana voi ne andreste ben fornito.

Messer Valore quasi tutto scornato, udendo le parole di questo fanciullo, dice verso la brigata:

- E’ non fu mai nessun fanciullo savio da piccolino che non fusse pazzo da grande.

Il fanciullo, udendo questo, disse:

- In fé di Dio, gentiluomo, voi dovest'essere un savio fantolino.

Messer Valore, strignendosi nelle spalle, disse:

- Io te la do per vinta.

E rimase quasi tutto smemorato, dicendo:

- Non trovai mai nessun uomo che mi mattasse, e uno fanciullo m'ha vinto, e matto.

Il piacere che quelli dattorno ebbono di ciò non è da domandare; e quanto piú ridevano, messer Valore piú imbiancava. Nella fine disse messer Valore:

- Chi è questo fanciullo?

Fugli detto come era figliuolo d'un uomo di corte, chiamato o Bergamino, o Bergolino. Disse messer Valore:

- E’ m'ha sí bergolinato, che io non ho potuto dir parola, che non m'abbia rimbeccato.

Dice alcuno:

- Messer Valore, menatelo con voi in Toscana.

Dice messer Valore:

- Non che io lo meni in Toscana, io fuggirei di stare là, quando egli vi fusse: fatevi con Dio, e bastivi questo, ché se gli altri Romagnuoli sono della razza di questo fanciullo, e' non ne fia mai nessuno ingannato.

E cosí a Firenze si tornò scornato e beffato da uno fanciullo colui che tutti gli altri beffava.

 

 

NOVELLA LXVIII

 

 

Guido Cavalcanti, essendo valentissimo uomo e filosofo, è vinto dalla malizia d'un fanciullo.

 

La passata novella mi fa venire a mente questa che seguita, la quale fu in questa forma. Giucando a scacchi uno d'assai cittadino, il quale ebbe nome Guido de' Cavalcanti di Firenze, uno fanciullo con altri facendo lor giuochi, o di palla o di trottola come si fa, accostandosegli spesse volte con romore, come le piú volte fanno, fra l'altre, pinto da un altro questo fanciullo il detto Guido pressò; ed egli, come avviene, forse venendo al peggiore del giuoco, levasi furioso e dando a questo fanciullo, disse:

- Va', giuoca altrove.

E ritornossi a sedere al giuoco delli scacchi. Il fanciullo tutto stizzito piagnendo, crollando la testa s'aggirava, non andando molto da lunga, e fra sé medesimo dicea: “Io te ne pagherò.” E avendo uno chiovo da cavallo allato, ritorna verso la via con gli altri, dove il detto Guido giucava a scacchi; e avendo un sasso in mano, s'accostò drieto a Guido al muricciuolo o panca, tenendo in su essa la mano col detto sasso, e alcuna volta picchiava; cominciando di rado e piano, e poi a poco a poco spesseggiando e rinforzando, tanto che Guido voltosi disse:

- Te ne vuoi pur anche? Vattene a casa per lo tuo migliore, a che picchi tu costí cotesto sasso?

E quello dice:

- Voglio rizzare questo chiovo.

E Guido agli scacchi si rivolge, e viene giucando.

Il fanciullo a poco a poco, dando col sasso, accostatosi a un lembo di gonnella o di guarnacca, la quale si stendea su la detta panca dal dosso di detto Guido, su essa accostato il detto chiovo con l'una mano, e con l'altra col sasso conficcando il detto lembo, e con li colpi rinforzando, acciò che ben si conficcasse e che 'l detto Guido si levasse; e cosí avvenne come il fanciullo pensò; ché 'l detto Guido essendo noiato da quel busso, subito con furia si lieva, e 'l fanciullo si fugge, e Guido rimane appiccato per lo gherone. Sentendo questo, e quel tutto scornato si ferma, e con la mano minacciando verso il fanciullo che fuggiva, dicendo:

- Vatti con Dio; che tu ci fusti altra volta!

E volendo spastoiarsi, e non potendo, se non volea lasserare il pezzo della guarnacca, gli convenne cosí preso aspettare tanto che venissono le tanaglie.

Quanto fu questa sottil malizia a un fanciullo, che colui che forse in Firenze suo pari non avea per cosí fatto modo fusse da un fanciullo schernito e preso e ingannato!

 

 

NOVELLA  LXIX

 

 

Passera della Gherminella, credendo trovare gente grossa per arcare, ne va in Lombardia, e trovandoli piú sottili che non volea, ritorna a fare il suo giuoco a Firenze.

 

Passera della Gherminella fu quasi barattiere, e sempre andava stracciato e in cappellina, e le piú volte portava una mazzuola in mano a modo che una bacchetta da Podestà, e forse due braccia di corda come da trottola, e questo si era il giuoco della gherminella, che tenendo la mazzuola tra le due mani e mettendovi su la detta corda, dandogli alcuna volta, e passando uno grossolano dicea:

“Che l'è dentro, che l'è di fuori?”, avendo sempre grossi in mano per metter la posta.

Il grossolano veggendo che la detta corda stava, che gli parea da tirarla fuori, dicea di quello “che l'è di fuori”, e 'l Passera dicea: “E che l'è dentro”.

Il compagno tirava, e la corda, come che si facesse, rimanea e fuori e dentro come a lui piacea; e spesse volte si lasciava vincere per aescare la gente e dar maggior colpo. Quando con questo giuoco ebbe consumato quasi ogni uomo, e spezialmente sul canto de' Marignolli dove si vende la paglia, gli disse un dí uno che di questa sua arte con lui alcuna volta si trovava alla taverna:

- Passera, io m'ho pensato che, se tu vai in Lombardia, la gente v'è grossa, tu guadagnerai ciò che tu vorrai, e spezialmente a Como e Bergamo, che vi sono gli uomini che paiono montoni, sí sono grossi; e se tu vuogli, me ne verrò con teco.

Disse il Passera:

- Sie fatto; quando vogliamo?

- Andiamo in tal dí.

Venuto el dí posto, el Passera col suo consigliere si mosse, e giugnendo a Bologna, dove dall'albergo di Felice Ammannati erano molti e Fiorentini e Bolognesi, come Felice il vede, dice:

- Buon buono! Legatevi le borse, brigata, che ecco il Passera.

Il Passera si partí da giuoco il meglio che poté, e non gli parve di stare in Bologna, né di perdersi la fatica. L'altro dí pervenne a Ferrara; là fu ancora sí conosciuto che non vi approdò alcuna cosa. Andossene a Modona, e quivi in su la piazza tese la rete, là dove non pigliò alcuna cosa. Come va, o come sta, inteso che aveano el giuoco, ciascun s'andava con Dio. Andò a Reggio, e quivi misse innanzi il giuoco, e chiamando a sé gente.

- Che volete voi dire? Guardate questo giuoco.

L'uno tirava una reggiaria e l'altro un'altra: e 'l Passera si volge al consigliero e dice:

- Tu m'hai pur condotto bene.

E quel dice:

- Non ti sgomentare; andiamo pur oltre a Parma.

Provorono; chi dicea:

-E’tira quella cordella.

L'altro dicea:

- E’ se la tiri, ché io non voglio apparare testeso giuoco nuovo.

E cosí o peggio a Piacenza, che ben lo piagentavano, dicendo:

- O barba, e che giuoco è questo?

E’ poteva assai dire, ch'egli era quivi uccellato. A Lodi su la piazza lodavono il giuoco, e domandovonlo onde egli era. Giunto a Melano, dov'erano le buone borse, gli era detto:

- Mo guarda chi crede arcare li Melanesi!

E in tutte le terre passate non guadagnò soldi venti, che gli scotti gli erano costati piú di cento novanta.

Andaronsene a Como tosto tosto, credendo trovar quelli Comasini grossissimi; e là in su la piazza cacciò il Passera fuori la mazzuola e la cordella.

- Chi mette? e che l'è dentro?

Giugne l'uno e dice:

- A mi che fa?

E quel dice:

- E che l'è di fuori?

E un altro giugne, e dice:

- E che fa a mi?

Mai non gli fu fatta altra risposta.

Andaronsene a Bergamo, a Brescia, a Verona, a Mantova, a Padova e in molte altre terre, e non trovorono chi dicesse, se non: “A me che fa?” e “Che fa a mi?” o peggio tanto che, tornati a Firenze, il Passera trovò aver guadagnato lire quattro e soldi otto, e trovò avere speso in lui e nel consigliero lire quarantasette e soldi. Onde, per rifarsi, cominciò a tender la trappola in Firenze al luogo usato. Il primo dí che vi fu, correvano le genti come se mai non l'avessino veduto, credendo che 'l Passera fusse morto, e ciascuno gli facea festa; e chi piú era caduto alle sue reti per li tempi passati, piú di nuovo vi cadea, e guadagnò co' fatappi in pochi dí ciò ch'egli avea in Lombardia messo al di sotto: dicendo con assai poi questa novella, affermando che tra quanti luoghi avea cerchi, e in Lombardia e altrove, mai non avea trovata gente paolina come là dov'egli era nato.

 

 

NOVELLA LXX

 

Torello del Maestro Dino con uno suo figliuolo si mettono a uccidere dua porci venuti da' suo' poderi, e in fine, volendogli fedire, li porci si fuggono e vanno in un pozzo.

 

Nella nostra città fu uno pratico e avvisato uomo chiamato Torello del maestro Dino, al quale essendo venuto per le feste di Pasqua due porci da' suo' luoghi da Volognano, che pareano due asini di grandezza; e convenendo che cercasse chi gli uccidesse, acconciasse e insalasse, pensò che ciò non si potea fare senza buon costo; e pertanto disse al figliuolo:

- Ché non uccidiàn noi questi porci noi, e conciànli? noi abbiamo il fante, e risparmierenci i danari che vorrebbe chi gli acconciasse; e credo che noi farèn bene come loro.

E dice al figliuolo:

- Che di'?

E que' risponde:

- Dico che noi il facciamo.

- Or bene, troviamo due invoglie e uno coltellino bene appuntato, e metteremo l'uno in terra; e io - disse Torello - l'ucciderò, e voi lo terrete che non fugga.

Risposono che ben lo farebbono. Torello, recatosi in concio che era gottoso e debole, si mette il grembiule, e chinasi e fa chinare gli altri a pigliare il detto porco per le gambe, e fannolo cadere in terra: come gli è in terra, Torello che avea attaccato il coltellino alla coreggia, se lo reca in mano, e volendo fedire il porco per ucciderlo, e standoli col ginocchio addosso e senza brache, e 'l figliuolo essendo andato per un catino per la dolcia, appena era il ferro entrato nella carne un'oncia, che 'l porco cominciò a gridare; l'altro che era sotto una scala, sentendo gridare il compagno, corre e dà tra' calonaci di Torello. Come il ferito sente il compagno venuto alla riscossa, furiosamente dà un guizzo sí fatto che caccia Torello in terra. In questo giugne il figliuolo, e Torello dice:

- Tu se' stato tu che non torni mai.

- Anzi tu.

- Anzi tu.

E con questa tenzione, il porco uscito lor tra le branche, corre per uno androne, e l'altro porco drietoli, e dànno su per una scala. Torello levatosi, e 'l figliuolo, dicono:

- Ohimè! male abbiamo fatto.

Dànno su per la scala dietro a' porci, là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di qua, caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria tra bicchieri e orciuoli, per forma e per modo che pochi ve ne rimasono saldi.

Alla perfine il porco s'accostò al pozzo ch'era su la sala e gittòvisi dentro, e l'altro porco drietogli.

Quando Torello vede questo, dàssi delle mani su l'anche dicendo:

- Oimè, or siàn noi diserti -; e fassi alle sponde guardando nel pozzo. - Che faremo e che diremo?

Alla per fine voltosi al suo fante, il pregò per amor di Dio che si collasse nel pozzo, e togliesse un buon coltello appuntato e una fune, e o vivi o morti pensasse di legarli; ed egli e 'l figliuolo tirerebbon su la fune del pozzo, alla quale accomandasse li detti porci. Il fante bestia volle servire Torello, e preso il detto fornimento s'attaccoe alla fune del pozzo, e còllavisi entro. Come fu giunto giuso, e 'l porco ferito gli dà di ciuffo alla gamba, e quanto ne prese tanto ne levò.

Sentendo il fante il dolore del morso, comincia a gridare: “Accorr'uomo, oimè, oimè!” a sí alte voci che la vicinanza trasse, e truovano cosí fortunoso caso; e saputo come il fatto era ito, dicono a Torello:

- In buona fé, tu hai fatto un bel risparmio; quando tu riaverai questi porci, fara'celo assapere, e peggio è ch'egli averanno morto questo buon uomo che v'entrò dentro.

E fassi alcuno alla sponda dicendo:

- Se' tu vivo?

E quello dice:

- Oimè, per Dio! tirate la fune e io m'atterrò a essa per uscire di qui.

E 'l porco in quell'ora anco l'assanna; ed egli si volge in su:

- Oimè, tirate, ché, se voi non tirate, io son morto.

Alla fine tirarono la fune, come se attignessero acqua; ed eccoti il tristo su con una gamba guasta e tutta stracciata, che piú mesi ne penò a guarire, e gridava:

- Oimè! Torello, a che partito me avete messo? io non serò mai piú uomo.

Torello dicea:

- Sta' cheto; io ti farò medicare al maestro Banco che è molto mio amico, ma de' porci come si fa?

Dice il fante:

- Il pensiero sia vostro, che volete tòr l'arte a' tavernai.

Alla per fine e' s'andò per due beccai che desseno e consiglio e aiuto: e dissono voleano d'ogni porco fiorini uno a trargli del pozzo. Torello, veggendosi mal parato, disse:

- Sie fatto.

E domandorono se gli volea uccidere, però che laggiú convenía s'uccidessino. Disse di sí:

- Fate tosto, e fate come voi volete.

Allora l'uno s'armò come se andasse a combattere, e con uno coltello appuntato a spillo andò giuso, e brieve, dopo gran pena, gli uccise, e legati prima l'uno e poi l'altro alle funi del pozzo, gli tirorono fuori: dell'acconciatura poi gli pagò quello se ne venía, che fu forse un altro fiorino. L'acqua del pozzo rossa di sangue umano e di sangue porcino, convenne che in poco tempo si rimondasse, e lavasse il pozzo piú di otto volte, e costò bene fiorini tre. I porci non ebbono dolce, la carne fu tutta livida e percossa, e fu assai di peggio. Or questo risparmio fece questo valente uomo ch'e' porci valeano forse dieci fiorini ed egli ne spese poi forse altrettanti, senza le beffe che furono via piú.

La novella detta, per alcuno giovane fu già scritta, e molto piú lungamente, però che mette ch'e' porci andorono in cucina e in quella tempestorono ciò che v'era. E questo non fu vero; però che quello della cucina avvenne a uno gentiluomo de' Cerchi, vicino di Torello, che, sentendosi piú giovane e meglio in gambe di lui, volle provare d'uccidere un suo porco; il quale da lui fedito, come questo, sí gli uscí tra mani, e correndo su per la scala, imbrattando ogni cosa col sangue, n'andò in cucina, e là fece gran danno, tempestando ciò che v'era. Questi porci mi fanno ricordare d'alcun'altra novella, per lo serrarsi insieme, quando sono offesi, la quale racconterò qui da piede.

 

 

NOVELLA LXXI

 

 

Uno Frate romitano di quaresima in pergamo a Genova ammaestra ch'e' Genovesi debbano fare buona guerra.

 

E’ non è molt'anni che trovandom'io in Genova di quaresima, e andando, com'è d'usanza, la mattina alla chiesa, fui alla chiesa di Santo Lorenzo, dove predicava in quell'ora un frate romitano, ed era la guerra tra Genovesi e Viniziani; e in quelli dí li Viniziani aveano forte soprastato a' Genovesi. Ora, accostandomi e porgendo gli orecchi per udire alquanto, le sante parole e' buoni esempli che io gli udi' dire furono questi. E diceva:

- Io sono Genovese, e se io non vi dicessi l'animo mio, e' mi parrebbe forte errare; e non abbiate a male, ché io vi dirò il vero. Voi siete appropiati agli asini; la natura dell'asino è questa: che quando molti ne sono insieme, dando d'uno bastone a uno, tutti si disserrano, e qual fugge qua, e qual fugge là, tanto è la lor viltà; e questa è proprio la natura vostra. Li Viniziani sono appropiati a' porci, e sono chiamati Viniziani porci, e veramente egli hanno la natura del porco, però che essendo una moltitudine di porci stretta insieme, e uno ne sia o percosso o bastonato, tutti si serrano a una, e corrono addosso a chi gli percuote; e questa è veramente la natura loro: e se mai queste figure mi parvono proprie, mi paiono al presente. Voi percotesti l'altro dí li Viniziani: e' si sono serrati verso voi a lor difesa e a vostra offesa; e hanno cotante galee in mare con le quali v'hanno fatto e sí e sí; e voi fuggite chi qua e chi là, e non intendete l'uno l'altro; e non avete se non cotante galee armate: egli n'hanno presso a due tanti. Non dormite, destatevi, armatene voi tante che possiate, se bisogna, non che correre il mare, ma entrare in Vinegia.

Poi fa fine a queste parole, dicendo:

- Non l'abbiate a male, ché io serei crepato, s'io non mi fusse sfogato.

Or questa cotanta predica udi' io, e torna' mi a casa; l'avanzo lasciai udire agli altri. Avvenne per caso quel medesimo dí che nel luogo de' mercatanti, essendo io dov'erano in un cerchio e Genovesi, e Fiorentini, e Pisani, e Lucchesi, e ragionandosi de' valenti uomini, disse uno savio Fiorentino che ebbe nome Carlo degli Strozzi:

- Per certo voi Genovesi siete gli migliori guerrieri e piú prod'uomini che siano al mondo: noi Fiorentini siamo da fare l'arte della lana, e nostre mercanzie.

Ed io risposi:

- E’ c'è ben la ragione.

Il perché tutti dissono:

- Come?

E io rispondo:

- Li nostri frati, quando predicano a Firenze, ci ammaestrano del digiuno e dell'orare, e che dobbiamo perdonare, e che dobbiamo seguire la pace e non far guerra; li frati che predicano qui insegnano tutto il contrario; però che in questa mattina ritrovandomi in Santo Lorenzo, io porsi gli orecchi a un frate romitano che predicava; gli ammaestramenti e gli esempli che il populo qui poté udire furono questi: - e raccontai ciò che avea udito.

Tutti si maravigliorono: e allora da chi aveva udito com'io, ne seppono la verità, e ciò udito, dissono che io aveva ragione; e parve a tutti una nuova predica.

E cosí siamo spesse volte ammaestrati, tanto è ampliata la nostra fede, salendo tale in pergamo che Dio il sa quanta sia la loro prudenza, o la loro discrezione.

 

 

NOVELLA LXXII

 

Un Vescovo dell'ordine de' Servi al luogo della chiesa loro di Firenze, dicendo le piú nuove cose del mondo, e le piú stolte, tira a sé di molta gente.

 

La novella passata mi tira a dire quello che, fra l'altre nuove predicazioni che facea, disse un dí un Vescovo dell'ordine de' Servi nella loro chiesa in Firenze in sul pergamo predicando. Questo Vescovo lavaceci, vogliendo ammaestrare nel vizio della gola, riprendea gli Fiorentini dicendo:

- Voi siete molto golosi; e' non vi basta magnare le pastinache fritte, ché voi le mettete ancora nell'agliata cotta; e quando mangiate li ravazzuoli, non vi basta, quando hanno bollito nel pignatto, mangiarli con quel buglione, ché voi gli traete del loro proprio brodo e friggeteli in un altro pignatto, e poi gli minestrate col formaggio.

E molte altre cose simili che tutte veníano dalla sua profonda celloria.

E in questa medesima predica, che credo fosse quel dí della Assunzione, venendo a dire come Cristo n'andò in cielo, comincia a dire:

- E’ n'andò ratto piú che cosa che si potesse dire. Come n'andò ratto? andonne come uccello che volasse? piú; andonne come freccia che uscisse d'arco? piú; o come strale che uscisse di balestro? piú; come n'andò? Come se mille paia di diavoli ne l'avessino portato.

Udendo questa cosí bella predica, mi ritrovai in quel dí col Priore dell'ordine, e domandolo qual scrittura dicesse quello che quel Venerabile Mellone aveva detto in pergamo; ed egli rispose ch'egli era de' piú valenti uomini che avesse l'ordine, ma ch'elli credea che per infirmità ch'egli avea aúto fusse alcun'ora impedito nella mente; e io risposi che quella infirmità era continua e ch'ella durava troppo, però che in ogni predica che facea, dicea cose simili a quelle o vie piú nuove, per sí fatta forma che la gente correa piú al detto frate per avere diletto delle sue dolci parole, che non andavono per divozione alla Nunziata per avere da lei grazia. Riconobbono il loro errore, che 'l faceano predicare, e la stoltizia di colui che predicava; e disposono lui della predica, e feciono predicare un altro. E pensa tu, lettore, che frate costui potea essere; ché passando io scrittore poi ad alcun dí per Mercato Vecchio, costui era sopra un paniere di fichi, e dicea alla forese:

- O donna, quante fiche date vui per un dinaro?

E comprandole le mangiava in piazza.

Le cose stratte fuori di forma, e nuove di scienza, e con sciocchezza adornate nelle sue prediche, furono tante che lingua appena le potrebbe contare, non che io scrivere. Tanto dico che, essendo costui cosí scorto, la gente lasciava l'altre predicazioni, e correano alla sua; essendogli fatte alcuna volta di nuove cose, e fra l'altre gli vidi un dí conficcare la cappa su le sponde del pergamo, e altre cose assai; e tanto se n'avvedea dell'altrui beffe quanto farebbe una bestia.

E questi tali ci ammaestrano spesse volte, e noi cosí appariamo che manco fede abbiamo l'un dí che l'altro.

Questo frate tenea oppinione che quando il nostro Signore andò in cielo che n'andasse cosí veloce e ratto come avete udito. Uno mio amico veggendo il dí dell'Ascensione all'ordine de' frati del Carmine di Firenze, che ne faceano festa, il nostro Signore su per una corda andare in su verso il tetto, e andando molto adagio, dicendo uno:

- E’ va sí adagio che non giugnerà oggi al tetto.

E quel disse:

-                                 Se non andò piú ratto, egli è ancor tra via.

 

 

 

NOVELLA LXXIII

 

Maestro Niccolò di Cicilia, predicando in Santa Croce, gittò un motto verso il Volto santo, il qual è... , e fa rider tutta la gente.

 

Avendo narrato le dua precedenti novelle di quelli due smemorabili frati, mi si fa innanzi a dire una novelletta de un valentissimo maestro in teologia dell'ordine di Santo Francesco, il quale ebbe, o ancora ha (però che non so s'egli è vivo) nome maestro Niccola di Cicilia. E acciò che questa novelletta mostri il suo fondamento, è da sapere che questi valenti frati minori che sono stati, o ancora che sono in Cicilia, giammai non soffersono, dove abbiano possuto, che 'l Volto santo si dipinga in alcun luogo loro, e sono stati malvoglienti di chi mai n'ha fatto dipignere alcuno.

Capitò questo maestro Niccola nella nostra città per una questione che aveva mosso contro a lui uno Inquisitore de' frati predicatori in Cicilia; e andavasi a diffinire in Corte dinanzi al Sommo Pontefice, nel tempo ch'e' Fiorentini ebbono guerra co' pastori della Chiesa. E sentendosi per Firenze la profonda scienza del maestro Niccola, fecionlo pregare dovesse predicare qualche dí, egli predicò tre feste, l'una dello Spirito Santo, l'altra della Trinità, la terza del Corpo di Cristo; tutte altissime materie e da non meno valente uomo che fusse elli.

Essendo una di queste feste in pergamo il dí dopo desinare, ed essendovi moltissima gente, fra l'altre cose, giugnendo in una parte, volendo dare ad intendere l'essenzia del nostro Signore Jesu Cristo, dice:

- Com'è fatta la faccia di Cristo?

E furioso si volge verso il Volto santo dicendo:

- Non è fatta come la faccia del Volto santo che è colà che ben ci vegno a crepare, se Cristo fu cosí fatto.

E detto questo, si ritorna a quello che avea a dire.

La predica comincia a ridere, e ridi e ridi, tanto che per buona pezza né il detto Maestro poteo dire, né altri ascoltare. E io scrittore mi trovai con un altro valente frate maestro in teologia, che avea nome maestro Ruggieri di Cicilia nella detta chiesa; vidi certi che 'l pregavano se volea acconciare una questione, mandasse per Dino di Geri Tigliamochi (questo Dino avea fatto fare quello Volto santo); rispose maestro Ruggieri:

- Questo Dino che voi dite che io mandi per lui, è quello Dino che ci ha posto quel Volto santo colae?

Dissono di sí; e que' disse:

- Se tutti gli pianeti avessono disposto che questo accordo si facesse, adoperandosi questo Dino in ciò, lo farebbe discordare, immaginando ch'el ci abbia fatto porre questo Volto santo in questo luogo.

E mai non volle mandare per lui.

E cosí questi due valenti uomini con cosí fatta piacevolezza vollono mostrare e mostravono a chi andava alle loro camere che del nostro Signore avevano figure assai, senza cercare di cose nuove; e che il nostro Signore e di viso e d'ogni membro fu il piú bel corpo che fusse mai e che questo Volto santo che parea uno mascherone era il contrario.

 

 

NOVELLA LXXIV

 

Messer Beltrando da Imola manda un notaio per ambasciadore a messer Bernabò, il quale, veggendolo piccolino e giallo, il tratta come merita.

 

Egli è poco tempo che, essendo messer Beltrando degli Alidosi signore d'Imola, mandò un notaio per ambasciadore a messer Bernabò signore di Melano, il qual notaio avea nome ser Bartolomeo Giraldi, omicciuolo sparuto, piccolissimo, tutto nero e giallo, con gli occhi giallissimi, che parea se gli fosse sparto su il fiele. Giugnendo costui dove era il signore, trovò che era su una scala, per salire a cavallo, e 'l cavallo era ivi, e' famigli già alla staffa. Fatta la riverenza questo ambasciadore cosí fatto, e messer Bernabò dalla prima volta in su, non che lo guardasse, ma tenea volto il viso in altra parte, e dicea:

- Di' pur via ciò che tu vuogli.

E cosí, costui dicendo, e messer Bernabò mostrandoli le rene, chiamò a sé un suo famiglio e disse:

- Va', sella il tale cavallo, e allungali le staffe quanto puoi, e menalo subito qui.

Il famiglio andò presto, e menò il cavallo nella forma che il signore avea detto. Come 'l signore vide il cavallo, chiamò il famiglio, e disse:

- Quando io vel dico, o accennerò, aiutate porre a cavallo questo ambasciadore, e non raccorciate le staffe.

E come disse, cosí fu fatto; ché messer Bernabò disse:

- Messer l'ambasciadore, sali su quel cavallo, e verra' con mi parlando.

E detto questo, salí il signore a cavallo, e l'ambasciadore ciò veggendo, volendo salire sul cavallo delle staffe lunghe, e non potendo, fu da' famigli postovi su, come un fanciullo. El signore cavalca tosto; e costui, non avendo modo né d'acconciarsi, né da raccorciar le staffe, cavalca come puote. Questo cavallo, che 'l signore avea fatto venire, sempre andava aizzato e intraversando; e messer Bernabò dicea:

- Dite ciò che voi volete; lasciate pure andare il cavallo.

E non lo guardava però in viso, se non poco. Costui s'andava con le gambucce spenzolate a mezzo le barde, combattendo e diguazzando; e quello cotanto che diceva, lo dicea con molte note, come se dicesse uno madriale, secondo le scosse che avea, che non erano poche. E messer Bernabò quanto piú il vedea diguazzare, piú dicea:

- Di' pur oltre i fatti tuoi, ché io t'intenderò bene.

Brievemente egli il menò quattr'ore a questa maniera, che assai volte fu l'ambasciadore per rassegnarsi in terra, e mai non poté mettersi e' panni sotto, né acconciarsi, sí che le cosce, non che le gambe, non portasse scoperte. Alla fine tutto lacero, come quello che avea poco prosperità, ritornò col signore alla corte, donde s'era partito, piú giallo e piú cattivelluccio che mai; e 'l signore, sceso che fu, disse che ben gli risponderebbe, e andò suso.

Quando l'ambasciadore ne scese, s'attaccoe agli arcioni, lasciandosi spenzolare; e non giugnendo a un braccio a terra, fu, per una volta che 'l cavallo diede, presso che caduto. Alla fine assai debolmente si posò in terra ferma; e mai non poté andare innanzi al signore, stando in Melano piú di quindici dí; e, s'ebbe risposta, gli fu fatta per altrui, e tornossi al signore che l'avea mandato.

Il quale, udito dal giallo ambasciadoruzzo come era stato trattato, s'avvisò che messer Bernabò aveva ciò fatto per la strutta e dolorosa apparenza del suo ambasciadore, il quale parea uno rigogolo piú tosto che persona.

Molto si dovrebbe piú guardare, quando l'uomo manda gli ambasciadori, che non si fa. Vogliono essere attempati e savi, e apparenti; altrimenti chi gli manda n'ha poco onore, e vie meno eglino che sono mandati. E cosí intervenne a questo ambasciadore giallo detto di sopra.

 

 

NOVELLA LXXV

 

 

A Giotto dipintore, andando a sollazzo con certi, vien per caso che è fatto cadere da un porco; dice un bel motto; e domandato d'un'altra cosa, ne dice un altro.

 

Chi è uso a Firenze, sa che ogni prima domenica di mese si va a San Gallo; e uomini e donne in compagnia ne vanno là su a diletto, piú che a perdonanza. Mossesi Giotto una di queste domeniche con sua brigata per andare, ed essendo nella via del Cocomero alquanto ristato, dicendo una certa novella, passando certi porci di Sant'Antonio, e uno di quelli correndo furiosamente, diede tra le gambe a Giotto per sí fatta maniera che Giotto cadde in terra. Il quale aiutatosi da sé e da' compagni, levatosi e scotendosi, né biastemò i porci, né disse verso loro alcuna parola; ma voltosi a' compagni, mezzo sorridendo, disse:

- O non hanno e' ragione? ché ho guadagnato a mie' dí con le setole loro migliaia di lire, e mai non diedi loro una scodella di broda.

Gli compagni, udendo questo, cominciorono a ridere, dicendo:

- Che rileva a dire? Giotto è maestro d'ogni cosa; mai non dipignesti tanto bene alcuna storia quanto tu hai dipinto bene il caso di questi porci.

E andaronsene su a San Gallo; e poi tornando da San Marco, e da' Servi, e guardando, com'è usanza, le dipinture, e veggendo una storia di nostra Donna e Josefo ivi da lato, disse uno di costoro a Giotto:

- Deh dimmi, Giotto, perché è dipinto Josef cosí sempre malinconoso?

E Giotto rispose:

- Non ha egli ragione, che vede pregna la moglie, e non sa di cui?

Tutti si volsono l'uno all'altro, affermando, non che Giotto fusse gran maestro di dipignere, ma essere ancora maestro delle sette arti liberali. E tornatisi a casa, narrorono poi a molti le due novelle di Giotto, le quali furono tenute parole proprio di filosofo dagli uomini che avevono intendimento. Grande avvedimento è quello di uno vertuoso uomo, come fu costui.

Molti vanno e guardano piú con la bocca aperta, che con gli occhi corporei, o mentali; e però qualunche vive non può errare d'usare con quelli che piú che lui sanno, però che sempre s'impara.

 

 

NOVELLA LXXVI

 

Matteo di Cantino Cavalcanti stando su la piazza di Mercato con certi, uno topo gli entra nelle brache, ed egli tutto stupefatto se ne va in una tavola, dove si trae le brache, ed è liberato dal topo.

 

E’ non è molt'anni, che in casa Cavalcanti fu un gentiluomo chiamato Matteo di Cantino, il quale io scrittore e molti altri già vedemmo. Era stato il detto Matteo di Cantino ne' suoi dí e giostratore e schermitore; e ogni altra cosa com'altro gentiluomo seppe fare; era sperto e pratico com'altro suo pari e costumato. Essendo d'età di settant'anni, e molto prosperoso, ed essendo il caldo grande (però che era di luglio), e avendo le calze sgambate, e le brache all'antica co' gambuli larghi in giuso, dicendosi novelle in un cerchio, dov'erano e gentiluomini e mercatanti in su la piazza di Mercato Nuovo; e 'l detto Matteo essendo nel detto cerchio, venne per caso che una brigata di fanciulli di quelli che servano a' banchieri, che là sono, con una trappola, dove aveano preso un topo, e con le granate in mano si fermano in sul mezzo della piazza e pongono la trappola in terra, e quella posta in terra, aprono la cateratta; aperta la cateratta, il topo esce fuori, e corre per la piazza: li fanciulli con le granate menando, correndogli dietro per ucciderlo, ed egli volendosi rimbucare, e non veggendo dove, corre nel cerchio, dov'era il detto Matteo di Cantino, e accostatoglisi alle gambe, salendo su subito verso il gambule, entrò nelle brache. Sentendo ciò Matteo, pensi ciascuno come gli parve stare. Egli uscí tutto fuor di sé, li fanciulli l'aveano perduto di veduta:

- Ov'è? dov'è?

L'altro dicea:

- E’ l'ha nelle brache.

La gente trae; le risa son grandi. Matteo, come fuori della memoria, se ne va in una tavola; gli fanciulli con le granate drietogli, dicendo:

- Caccial fuori; e' l'ha nelle brache.

Matteo agguattasi dietro all'appoggio del banco, e cala giú le brache. De' fanciulli erano dentro con le granate, gridando:

- Caccial fuori, caccial fuori.

Giunte le brache in terra, il topo schizza fuori. Li fanciulli gridano:

- Eccolo, eccolo: al topo, al topo: e' l'avea nelle brache; alle guagnele! E’mandò giú le brache.

Gli fanciulli uccidono il topo, Matteo rimane che parea un corpo morto; e piú dí stette, che non sapea dove si fosse. E’ non è uomo, che non fosse scoppiato di risa, che l'avesse veduto, com'io scrittore che 'l vidi. Brievemente e' si botò alla Nunziata di non portare mai in tutta la sua vita piú le calze sgambate, e cosí attenne.

Che diremo de' diversi casi che avvengono? Per certo che mai non credo n'avvenisse nessuno cosí nuovo, né cosí piacevole. Starà l'uomo con gran pompa e superbia, e una piccola cosa il metterà a dichino; anderà sgambato per le pulci, e uno sorgo l'assalisce in forma che esce di sé. E’ non è sí piccola ferucola che non dea che fare all'uomo: e l'uomo anco le vince tutte, quando si dispone.

 

 

NOVELLA LXXVII

 

Due hanno una quistione dinanzi a certi officiali, e l'uno ha dato all'un di loro un bue, e l'altro gli ha dato una vacca, e l'uno e l'altro s'ha perduta la spesa.

 

In una città di Toscana, la quale per onestà non dirò qual fusse né ancora dirò quali officiali, né in tutto né in parte, fu già, e forse ancor dura, un grande officio di valenti cittadini, i quali aveano grandissima balía e di ragione e di fatto a terminar le questioni che interveniano e tra' cittadini, e tra' contadini; avvenne per caso che due ricchi uomini mercatanti di bestie aveano quistione di lire trecento o piú tra loro; e venne la quistione dinanzi a questo officio: e non terminandosi tosto a modo che l'uno di loro volea, e avendo paura non gli fusse fatto torto, pensò fare qualche dono a uno di quelli del detto officio, il quale fusse da piú e meglio il potesse aiutare. Ebbe considerato quello che egli immaginava. Aveva una possessione, la quale era bella e buona, ma l'uomo non era addanaiato sí che di buoi la tenesse ben fornita; e pensò di scoprirglisi, e andare a lui, e raccomandandosi perché lo mantenesse e favellasse nelle sue ragioni, e donargli un bue, ché molti n'avea; e come ebbe pensato, cosí fece. E l'amico non si fece molto dire, che si tolse il detto bue.

L'altro, che avea la quistione con questo che avea donato il bue, non sapiendone alcuna cosa, gli fu venuto un medesimo pensiero, dicendo: “Il tale è il maggior uomo dell'officio; io gli vorrei fare qualche bel dono, acciò che mi sostenesse nelle mie ragioni”; e pensò lo stato suo, e ch'egli avea un luogo bello da tener bestie grosse; e per non essere abbiente di danari, non ve le tenea. E però andò a raccomandarsi a lui, e donògli una vacca, dicendo:

- Io voglio che voi la tenghiate per mio amore nel vostro luogo.

Costui se la tolse, e ha avuto il bue e la vacca, e niuno non sa dell'altro alcuna cosa: se non che da ivi a pochi dí essendo li due boattieri con la quistione dinanzi al detto officio, e rovesciandosi quasi la cosa addosso a quello che avea donato il bue; e li compagni diceano a quello da piú dell'officio:

- Ciò che te ne pare, quello parrà a noi.

E quelli stava cheto, e non facea parola. Colui che avea dato il bue a costui, che stava mutolo, aspettando da lui avere soccorso, e vedea che non dicea parola, esce fuori con la voce, e dice:

- O che non favelli, bue?

E quei risponde:

- Perché la vacca non mi lascia.

L'uno si volge di qua e l'altro di là.

- Che vuol dire quello che costui ha detto?

E domandandolo, e' diede loro a credere che dicea a sé medesimo; e l'officiale, che avea detto della vacca, disse loro che gli era uno proverbio, che sempre questi mercatanti di bestie usavano quando aveano quistione, ponendo nome a chi avea il migliore della quistione, bue, e a chi avea il peggiore, vacca.

Avvenne poi, come che s'andasse, che quello della vacca vinse il piato; forse ne fu cagione che la vacca, quando fu donata, era pregna, e in quel tempo che si diede la sentenzia, fece un vitello.

Ora cosí spesse volte gli animali inrazionali sottopongono quelli che sono razionali, a confusione di molti comuni, dove non si può aver ragioni, se lepri, o capriuoli, o porci salvatichi non compariscono. E io per me, veggendo questa gelosa consuetudine, farei innanzi un mio figliuolo cacciatore, che legista. E non dirò quello che seguita, per vantarmi d'averlo detto per grandissima virtú, ma averlo detto come uomo, aiutato da maggiore signore; ché la parola non fu mia, ma sua. Io era podestà d'una terra dov'io descrissi le predette novelle; e venendo uno terrazano di quella a domandare di grazia alcuna cosa, la quale, avendola fatta, era e mia disgrazia e mia vergogna, io gliela negai, e non la feci.

Partitosi costui da me, disse alcuno:

- Messer lo Podestà, voi avete perduta una lepre; però che colui che non avete servito in quella sua domanda, è uno buon cacciatore, e avea disposto di mandarve una lepre, se voi l'aveste servito.

E io risposi:

- Se mi avesse data la lepre, io l'arei mangiata e patita; ma la vergogna non si sarebbe mai patita.

E cosí è veramente, come che io mi confesso essere in ciò peccatore come gli altri; ma egli è una gran miseria che una piccola cosa, che all'appetito diletti e dura un attimo, e subito è corrotta, sottoponga e vinca la ragione d'onore, che dura sempre. Ora ne cogliesse e incontrasse a tutti, come incontrò a quel mercatante che donò il bue: e a chi o per avarizia o per gola sottopone la ragione, giú pel palato fusse saziato con quello fu saziato Crasso.

 

 

NOVELLA LXXVIII

 

Ugolotto degli Agli si lieva una mattina per tempo, ed essendoli poste le panche da morti all'uscio, domanda chi è morto égli risposto che è morto Ugolotto, onde ne fa gran romore per tutta la vicinanza.

 

E’ non è vent'anni che fu un Ugolotto degli Agli nella città di Firenze, il quale era magro, asciutto e grande, e avea bene ottant'anni; e sempre, perché era uso nella Magna, volea favellar tedesco; e sempre gli dilettò tenere sparviere, ed era pauroso della morte piú che altro uomo. E come spesso avviene, che nelle gran terre è di nuovi uomini, cosí fra gli altri uno, che avea nome... del Ricco, vocato Ballerino di Ghianda, andò una notte, ché spesso andava attorno, e picchiò l'uscio d'Ugolotto. Ugolotto, che avea la camera sopra l'uscio, si destò, e levatosi, si fece alla finestra. Ballerino tirasi a drieto, e Ugolotto dice:

- Chi è la?

Dice Ballerino:

- Sete voi Ugolotto, voi?

Dice Ugolotto:

- Sí, sono.

Dice Ballerino:

- Sia col malanno, e con la mala pasqua, che Dio sí vi dia.

Dice Ugolotto:

- Aspetta un poco, aspetta un poco -; e piglia una sua spada rugginosa e antica, e scende giú per la scala, percotendo sí la detta spada che Ballerino l'udisse, acciò che si fuggisse.

Ballerino, che ogni cosa udía, e sentiasi bene in gambe, si ferma, e aspetta quello che Ugolotto dee fare. E cosí Ugolotto apre l'uscio, e stropiccia la spada al muro.

- Chi è la? ove se', ladroncello?

Ballerino comincia a latrare, o baiare come un cane, e fare come quando al cane sono tirati gli orecchi. Ugolotto fassi innanzi, e dice:

- Aspetta un poco, aspetta -; e colui fassi in drieto, e continuo l'aizzava, tanto facendo cosí che la famiglia d'uno esecutore, giunto di poco in officio, sopravvenne. Ballerino, che era bene in gambe, levala; e Ugolotto con la spada riman preso, ed ènne menato a furore. E giunto a Palagio l'esecutore domanda; la famiglia dice che 'l trovorono fuori con la spada gnuda. Parve all'esecutore una nuova cosa, e subito il volea mettere alla colla, se non che uno gli disse:

- Costui è vecchio, come vedete; lasciatelo stare di qui domattina, e saprete la verità.

E cosí fece, e con tutto che lo esecutore udisse quello per che Ugolotto era uscito di casa con la spada, non c'era modo (però che egli era de' grandi, e 'l detto esecutore è sopra loro con gli ordini della Justizia) che non lo volesse condennare per turbare il pacifico stato. Alla per fine con molte preghiere se ne levò e fece pagare al detto Ugolotto per la spada lire cinquantadue e mezzo; e tornossi a casa, rammaricandosi, quando in latino e quando in tedesco, di questa noia a lui fatta e della sventura che gli era occorsa. Ma egli stette poco che gl'intervenne peggio che peggio.

L'altra mattina seguente fu andato alla campana da casa Tornaquinci, dove sempre stanno beccamorti alla bottega d'uno speziale, e appena che si vedesse lume, fu bussato, e detto che mandassino a casa gli Agli, che era morto Ugolotto; quanto io, credo che costui fusse anco Ballerino di Ghianda, o Pero del Migliore, che con lui usava.

Come i beccamorti sentirono questo, subito furono presti, e mandorono a spazzare a casa gli Agli e porre le panche.

Ugolotto, levandosi per tempo, però che non potea dormire per la malenconia delle lire cinquantadue e mezzo che avea pagate, giugne all'uscio per uscir fuori, e veggendo queste panche poste, dice a quelli che le poneano:

- O chi è morto?

E que' rispondono:

- E morto Ugolotto degli Agli.

E Ugolotto dice:

- Come, diavol, morto Ugolotto degli Agli! ècci piú Ugolotto di me?

- Noi non ne sappiamo nulla, - rispondono coloro, - né conosciamo Ugolotto; noi facciamo quello che c'è detto.

Ugolotto grida:

- Portate via le panche, che siate mort'aghiado.

Costoro senza toccarle se ne vanno, e diconlo a' beccamorti; li quali, ciò udito, ne vanno là, e come veggono Ugolotto nella via, tutti spaventano:

- Che vuol dir questo?

E Ugolotto fassi incontro a loro, e dice:

- Qual Ugolotto è morto, che siate tagliati a pezzi? per lo corpo di Dio, s'io fussi giovane, come già fui, che voi non faresti mai metter piú panche ad uomo che morisse.

Quelli diceano:

- Voi avete ragione; se colpa ci è, ell'è di chi cel venne istamane a dire.

- O chi fu? - dice Ugolotto.

Dicono coloro:

- Egli era sí per tempo che noi non lo potemmo scorgere.

Dice Ugolotto:

- Serà stato un ladroncello, che mi fece pagare ieri lire cinquantadue e soldi dieci.

Dicono quelli:

- E se voi il sapete, non ne riputate noi.

Dice Ugolotto:

- Io non lo so, chi fosse non posso sapere; ma io me n'andrò testeso all'esecutore -; e messosi in via, cosí fece.

I beccamorti, che aveano tese le panche per beccare, sanza alcun utile se le riportorono a casa; ed Ugolotto si dolse allo esecutore, e del primo caso e del secondo. L'esecutore, avendo la cosa scorta, fra sé medesimo ne cominciò a pigliar diletto; e voltosi a Ugolotto, disse:

- Gentiluomo, avvisiti tu di nessuno che queste cose ti faccia?

Dice Ugolotto:

- Io non mi posso immaginare chi sia.

Disse l'esecutore:

- Pensaci suso, e se nessuno indizio mi darai, lascia fare a me.

Ugolotto disse di farlo, e partissi, pensando e ripensando, tanto che per lo pensare e la vecchiezza e' stette buon pezzo che parea tralunato; e nella fine si diede pace, e innanzi che passassino quindici mesi, le panche si posono da dovero, e fussene fuori.

Perché questo Ugolotto era ubbioso di temer la morte, però trassono nuovi uccelli aver diletto di lui. E veramente ella fu cosa da un suo pari, da darsene e pena e fatica; e a quelli che 'l feciono, fu il contrario; ché se fussi stato un uomo paziente dovea lasciare andare e ridersene, e al pagare de' beccamorti se n'avrebbe riso anco elli.

 

 

NOVELLA LXXIX

 

Messer Pino della Tosa, essendo a uno corredo in casa di messer Vieri de' Bardi, ha una quistione con uno cavaliere, e messer Vieri l'assolve e fa rimanere il cavaliere contento.

 

Al tempo che messer Vieri de' Bardi vivea a un suo corredo andorono a mangiar con lui molti notabili cittadini cavalieri, tra' quali fu messer Pino della Tosa, uomo grandissimo della nostra città. Il quale messer Pino con un altro cavaliere vennono a ragionare de' fatti di Firenze; ed è vero che 'l detto messer Pino sempre cavalcava una mula, la quale avea tenuta gran tempo. E cosí, ragionando, di parole in parole, vennono in una questione, che 'l cavaliere dicea:

- Con quante barbute si correrebbe Firenze?

Dicea messer Pino:

- Correrebbesi con duecento.

Dicea il cavaliere:

- Non si correrebbe con cinquecento.

E messer Pino ridea, e dicea:

-  E’mi darebbe cuore di correrla con centocinquanta.

E l'altro se ne facea beffe, e dicea cose assai, volendo tener fermo el numero suo. Abbattessi messer Vieri alla detta questione, e dice:

- Di che contendete voi?

- Contendiamo cosí e cosí.

Dice messer Vieri:

- Che dice messer Pino?

Risponde il cavaliero:

- Dice che correrebbe Firenze con centocinquanta barbute.

Dice messer Vieri:

- Io l'ho molto per certo, che correrebbe Firenze, e con assai minor quantità, però che egli ha fatto via maggior fatto, che l'ha signoreggiata con una mula già fa cotant'anni -; e contò un gran numero.

Gli altri cavalieri, che questo udirono, dissono veramente che messer Vieri avea dato buon judizio, e che egli credeano che per la ragione che messer Vieri avea detta, non che messer Pino corresse con centocinquanta lance Firenze, ma che la correrebbe con un asino, quando elli volesse.

E oggi si può molto piú credere questa novella, però che sono assai, che senza cavallo, o asino, e senza correrla, la signoreggiano; e ancora dirò una cosa piú forte, che la signoreggiano senza fare iustizia.

 

 

NOVELLA LXXX

 

Boninsegna Angiolini, essendo in aringhiera bonissimo dicitore, su quella ammutola come uomo balordo, e tirato pe' panni, mostra agli uditori nuova ragione di quello.

 

Anticamente nella città di Firenze si ragunava il consiglio in San Piero Scheraggio, e ivi si ponea o era di continuo la ringhiera; di che, essendo nel detto luogo ragunato una volta il consiglio ed essendo fatta la proposta, com'è d'usanza, Boninsegna Angiolini, savio e notabile cittadino, si levò, e andò su la ringhiera, e cominciando il suo dire bene e pulitamente, com'era uso, come fu a un passo dove conchiudere dovea quello ch'egli avea detto, e quel subito, com'uomo aombrato, non dice piú; ma sta su la ringhiera buona pezza, e alcuna cosa non dicea. Maravigliandosi gli uditori, e spezialmente gli signori Priori che erano di rincontro a lui, mandorono un loro comandatore a Boninsegna a dirli che seguisse il suo dire; e 'l comandatore subito va appiè della ringhiera, e tirando Boninsegna pel gherone, dice per parte de' Signori, che segua il suo dire. E Boninsegna, un poco destatosi, dice:

- Signori miei, e savi consiglieri, io venni in questo luogo per dire il mio parere su le vostre proposte, e cosí avea fatto insino che io giunsi al passo dov'io ammutolai. E dicovi, Signori, che non che io mi ricordi di cosa che io dovessi dire, ma io sono quasi uscito di me medesimo, veggendo i goccioloni che in quello muro che m'è dirimpetto sono dipinti; ché per certo e' sono i maggiori goccioloni che io vedessi mai. E ancora c'è peggio, che morto sia a ghiado il dipintore che gli dipinse, che dovett'esser forse Calandrino che fece loro le calze vergate e scaccate; sappiate, Signori, chi mai portò calze cosí fatte? di che io vi dico, Signori, che mi si sono sí traversati nel capo, che se non escono, né ora né mai non potrò dire cosa che io voglia.

E scese della ringhiera.

A' Signori e a quelli del consiglio parve questa nuova cosa, e ciascuno ridendo guatava quelli goccioloni. Chi dice:

- O bene! non è egli una nuova cosa a vederli?

L'altro dicea:

- Io non vi posi mai piú mente; chi sono elli?

L'altro dicea:

- E’ si potrebbe dire di quelle, che disse una volta uno Sanese sul campo di Siena. Passando uno, che era vestito mezzo bianco e mezzo nero, tutto da capo infino a piede, eziandio coreggia e scarpette; e l'uno disse: “Chi è quello?”, e 'l Sanese rispose: “E’ tel dice”; io non so chi costoro siano, ma e' tel dicono.

L'altro dicea:

- E’ sono profeti.

E l'altro dicea:

- E’ sono patriarchi

Come che si sia, e' sono lunghissimi, come ancora oggi si vede, dallo spazzo insino al tetto; e considerandogli ciascuno, come gli considerò Boninsegna, forse che quello che intervenne a lui interverrebbe a molt'altri, e spezialmente veggendogli con le calze vergate e scaccate.

E però veramente al dicitore, che ha a dire bene alcuna cosa, non gli conviene avere l'animo né il pensiero se non solo a quello che dé' dire, però che ogni piccola cosa, che viene alla mente fuori della sua diceria, lo impedisce per forma che spesse volte rimane in su le secche, ed è incontrato già a perfetti dicitori.

 

 

NOVELLA LXXXI

 

Uno Sanese, stando da casa i Rossi in Firenze, avendo prestato danari a uno di loro, va dov'e' giuoca e colui, veggendolo, e avendo vinto, comincia a biastemare, e 'l Sanese dice che non gli de' dar nulla.

 

Nel tempo che molti gentiluomini, avendo perduta la signoria di Siena, furono confinati molti di loro chi qua e chi là, fu confinato tra gli altri uno Nastoccio o Minoccio de' Saracini, il quale tolse una casa a pigione da casa i Rossi; e là dimorando, era usante, come sono li Sanesi, ed era giucatore di tavole bonissimo. Aveva prestato costui a un Borghese de' Rossi circa fiorini dieci, ed era passato ben due mesi che riavere non gli potea. Ora questo Sanese, essendo da alcuni vicini invitato di bere, dice l'uno:

- Io ho fatto venire un fiasco di vino di villa, andianne a bere.

Dice il Sanese:

- Per lo santo sangue di Dio, che non potrebbe esser buono Iddio, se fusse in fiasco; e ancora si laverebbe prima un ventre che un bicchiere casereccio: andiàncene alla taverna, ché è qui presso un buon vino al Canto a' quattro paoni.

La brigata, udendo li piacevoli motti del Sanese, non seppono disdire. Andarono a bere con lui alla taverna; e avendo quasi beúto quello che piacea loro, venne un suo compagno a dirli che colui che gli dovea dare dieci fiorini giucava a tavole da casa i Gucciardini, e che avea vinto ben trenta fiorini. Udendo il Sanese questo, disse a' compagni:

- Deh, andiamo di quassú dal pozzo Toscanegli, e torneremo in giú verso il ponte, ché m'è detto che 'l tale giuoca, e ha vinto; forse mi renderà dieci fiorini.

Mossonsi, dicendo:

- Fa' la via a tuo senno, e noi seguiremo.

E cosí andando, come costui si venne appressando, e Borghese, veggendolo, comincia adirarsi e percuotere le tavole, come se mai non avesse vinto; e come il Sanese gli fu presso, piú mostrava Borghese l'ira, volgendo il viso al cielo, e biastemando tutta la corte del paradiso.

Giunto il Sanese, e veggendo gli atti dolorosi di Borghese, e immaginando che ciò facea ad arte, per non aver materia di pagare, dice a Borghese:

- Ciòe, non biastemare, tu non mi dee dare cavelle.

Borghese col busso delle tavole, e col furore, fece orecchi di mercatante, onde il Sanese s'andò con Dio, con intenzione di non addomandarli e di non averli mai.

Avvenne da ivi a certi dí che Borghese, giucando e avendo perduto, volea accattare denari, ed essendovi il Sanese, lo richiese di prestanza, dicendo:

- Io ti debbo dare dieci fiorini; prestamene cinque, e fieno quindici.

Il Sanese risponde:

- A me non déi tu dar cavelle.

Dice Borghese:

- Come? Io ti debbo pur dar dieci fiorini; al corpo e al sangue, che io te gli darò domane.

Il Sanese dice:

- Io ti dico che non debbo avere da te nulla.

E colui pur rimettesi. E 'l Sanese mai non disse altro, che:

- A me non déi tu dare cavelle.

E cosí si rimase la cosa; e non credo che mai gli riavesse; ché se quel gentiluomo de' Rossi avesse aúto conoscimento, se non gli dovesse mai aver renduti al Sanese, gli dovea rendere, per la piacevolezza delle parole usate verso lui.

 

 

 

NOVELLA LXXXII

 

 

Uno Genovese quasi uomo di corte per una festa che si fa a Melano, giugne dinanzi a messer Bernabò, il quale, volendo vedere come sostiene al bere, il fa provare con un gran bevitore suo famiglio; e 'l Genovese il vince.

 

Quando messer Marco Visconti primogenito di messer Bernabò menò la donna sua che avea nome madonna Isabetta della casa di Baviera, o di quelle maggiori della Magna, capitò a questa corte, com'è d'usanza, uno Genovese piacevolissimo, ed era come uno uomo di corte, bevitore era grandissimo e mai il vino non gli facea noia. Avvenne che costui andò a vicitare messer Bernabò, e stando dinanzi a lui inginocchioni, e dicendo sue novelle, e messer Bernabò, considerando, come colui che conoscea gli uomini all'alito, il lasciò star piú d'un'ora, che mai non disse che si levasse. Alla per fine, dolendo al Genovese le ginocchia, da sé stesso si levò, dicendo:

- Signor mio, io non posso piú stare inginocchioni.

Il signore guarda costui, e dice:

- Tu déi essere uno obbriaco.

Dice il Genovese:

- Io non sono obbriaco, Signore; ma beo volentieri.

Dice messer Bernabò:

- Se tu bei cosí volentieri, vuo' tu bere a prova con un mio famiglio?

Dice il Genovese:

- Utinam, Domine.

Dice messer Bernabò:

- Aspetta un poco -; e fa chiamare il bevitore suo.

Il qual, subito fu dinanzi a lui, dice il signore:

- Vien za; vuo' tu fare a prova di bere con costui?

E quegli risponde:

- Signore, volentiera.

- Or mo via, - dice il signore, - qualunche vincerà, io gli farò un dono com'io crederrò che lo meriti; e colui che perderà, converrà che bea dodici tratti della mia malvasía.

- Sia con Dio, - dissono i bevitori.

Allora il signore dice a' servi:

- Andà addurre uno boccale d'Orlando.

E vanno, e recono uno quarto di un vino bianco, o di Creti, o donde che si fosse, che era sí grande che pochi uomini erano che n'avessono beúto tre volte che non rimanesseno ammazzati. E perché questo vino era cosí grande, e cosí vincea ciascuno, e però il signore il chiamava Orlando. Ora, apparecchiato il vino, e molti bicchieri lavati, dice il signore:

- Pigliàve per la mano, e cominciate a ballare.

E quelli cosí fanno. E 'l signore gli chiama, e dice:

- Date bere a ciascuno tre muiuoli.

E cosí feciono; poi gli facea ballare. Il Genovese ballava molto piú destro.

Chiamatigli la seconda volta, dice:

- Date sei bicchieri a bere a ciascuno.

E cosí beono: poi fa loro ripigliare il ballo.

Il Genovese salta, che parea un beccherello. Il bevitore di messer Bernabò comincia a innaspare da piede. Sono chiamati la terza volta, e dato nove bicchieri per uno; ripigliano il terzo ballo. Il Genovese fa scambietti, lanciandosi in alto piú destro che se fosse stato una lontra; il bevitore del signore non si poteva azzicare, e andava a onde, come se fosse in fortuna. La quarta volta beve il Genovese dodici bicchieri; quel del signore, che era nell'altro mondo, appena gli poté bere; pur gli bevve, sforzandosi quanto poteo.

Ed entrando nel quarto ballo, nel quale il Genovese facea cose maravigliose, l'altro ogni passo era per cadere, e nella fine cadde in terra disteso. Com'elli cadde, il Genovese a cavalcioni li salí addosso; e pregò il signore che lo dovesse far cavaliere in sul corpo di quello obbriaco; e 'l signore disse che lo meritava bene, e fecelo cavaliere in su l'ubbriaco.

Fatto cavaliere, il Genovese guarda il signore, e dice:

- Con vostra licenza, volete voi che io facci lui cavaliere bagnato sí come merita?

Dice il signore:

- Fa' ciò che tu vuogli.

Il Genovese mette mano alle brache, e scompisciò l'obbriaco con piú orina che non avea beúto malvagía, che ne avea bevuto trenta bicchieri; e scompisciato che l'ebbe, col mazzapicchio gli dié tale in su la gota che s'udí come se fussi stata una gran gotata, e disse:

- Questa è la gotata ch'io ti do; e voglio che per mio amore tu abbi nome messer Cattivo.

E cosí fu sempre chiamato.

Quando messer Bernabò ebbe assai di queste cose riso, fece portare il corpo di messer Cattivo dal cortile, dov'erano le stalle de' cavalli suoi, e feciolo gittar su un monte di letame, dicendo:

- Tu l'hai fatto cavalier pisciato, e io lo farò cavalier sconcacado; e te, che meriti d'avere onore, voglio che sia a mia provvisione per quello che tu domanderai (e fa venire due bellissime robbe, e donògliele), e come tu hai battezzato lui messer Cattivo, e io voglio battezzar te messer Vinci Orlando.

E cosí fu sempre chiamato.

A cui vien fatta una cosa o bella o laida, dinanzi a un signore, quando è ben disposto, li vien ben fatto, come venne a questo Genovese: ma a molti è incontrato già il contrario, perché l'animo d'un signore parrà talora cheto, e tra sé medesimo combatte con diverse genti e in diverse parti. Piú sicuro saria, a chi 'l può fare, di non s'impacciare, e non sarà impacciato.

 

 

NOVELLA LXXXIII

 

 

A Tommaso Baronci, essendo de' Priori, sono fatte da' Priori tre piacevoli beffe.

 

Essendo de' Priori ne' loro tempi Marco del Rosso degli Strozzi, e Tommaso Federighi, e Tommaso Baronci, e altri, avvenne, come spesso interviene, che volendo pigliare il detto Marco e Tommaso Federighi alcuno piacere d'alcuno de' compagni, ebbono procurato Tommaso Baronci esser quello di cui gran piacere si potea pigliare. Essendo il detto Tommaso Baronci Proposto, uno suo paio di scarpette co' becchetti grosse (essendo andato al letto) gli arrovesciorono una sera; e la mattina, levandosi, e sonando in fretta a' collegi, mettendosi le dette scarpette al buio, essendo sollecitato, n'andò nella udienza; e là postosi a sedere, statovi gran pezza, tanto che tutti i collegi v'erano, Marco guardando a' pie' di Tommaso, disse:

- Che è questo Proposto? Vuo' tu andare a cacciare con coteste scarpette?

Quelli guatale e dice:

- Come! che mala ventura è questa? Elle non paiono le mia, benché io non le veggo bene, se io non ho gli occhiali.

E cavossi gli occhiali da lato, e misseseli, e con essi si chinava quanto potea, facendosi verso la finestra; ciascun guatava che scarpette son quelle.

Dicea Tommaso:

- Elle non sono le mie, ch'ell'aveano i becchetti, e queste non l'hanno.

Alla per fine se n'andò alla camera sua, e là se le cavò, e guata e riguata; il Toso famiglio, che v'era presente, disse:

- Tommaso, queste scarpette sono state arrovesciate -; e mostrògli i becchetti, ch'erano dentro.

Dice Tommaso:

- Toso, tu di' vero; che serebbe stato questo?

Quel rispose:

- Io non so; il meglio che ci sia è dirizzarle.

E tra egli e 'l Toso ebbono che fare, anzi che l'avessino addirizzate, ben insino a terza; e pur si passò Tommaso senza darsi piú briga. Marco e Tommaso il dí medesimo feciono un altro giuoco, che gli fororono l'orinale, dove, stando in sul letto ritto, orinava la notte, e riposonlo nel luogo suo; e la sera a cena, essendo su la mensa di molti capponi arrosto, Tommaso Baronci, come Proposto, diede uno cappone al Toso, e disse:

- Va', mettilo nella cassa mia; e domattina il porterai alla Lapa, - cioè alla moglie.

Toso cosí fece. Marco, e Tommaso Federighi, veduto questo, quando ebbono cenato, segretamente feciono pigliare una gatta di quelle della casa, e tolto il cappone, che era nella cassa, vi missono la gatta, e dentro ve la serrarono. E cosí disposto e l'orinale e la gatta, aspettarono il tempo che la detta loro faccenda ordinata venisse a quel fine che desideravono.

Andatisi al letto tutti li signori, su la mezza notte e Tommaso si rizza sul letto, pigliando l'orinale, facendo quello che era usato. Marco, che era desto, dice:

- O Proposto, tu ci desti ogni notte con questo tuo orinare.

Tommaso stillava su per lo letto, e fece orecchi da mercatante, e appiccando l'orinale s'avvide ogni cosa esser ita su per lo letto, e colicandosi, appena trovò un poco d'asciutto. Levandosi la mattina, venendo il Toso ad aiutarlo vestire, dice Tommaso:

- Toso mio, io sono vituperato, e non so che mi fare; la cotal cosa m'è intervenuta; l'orinale mostra che sia rotto; istanotte, orinandovi entro, com'io soglio, tutta l'orina è ita per lo letto, e se i miei compagni veggono, diranno v'abbia pisciato.

Disse il Toso:

- Io v'ho detto piú volte che sarebbe meglio uscire un poco fuore del letto, però che 'l vetro scoppia molte volte, e spezialmente per l'orina, e ciò che v'è dentro s'esce di fuori.

Dice Tommaso:

- Ben la pisceremo! o perché terre' io l'orinale, s'io dovesse uscir del letto?

Dice il Toso:

- E’ mi pare che ci sia pisciato troppo: - e stende il copertoio - ecco, io porterò le lenzuola a casa vostra, e dirò che me ne dia un altro paio.

Dice Tommaso:

- Non fare; se la Lapa le vedesse cosí conce, io non arei poi pace con lei; ma fa' com'io ti dirò: portera'le a casa tua, e da'le a qualche feminetta, che le lavi in acqua fresca e asciughile, e non dire di cui siano, e poi le porterai a casa, ma fa' che oggi siano asciutte, e poi le porterai, e allora vorrò che porti il cappone.

E Toso cosí fece, che portò le lenzuola, e fecele lavare, e subito le pose ad asciugare, e asciutte che furono, el Toso le rapportò a Tommaso, il quale el commendò della sollecitudine che aveva aúta, di far fare un bucato senza fuoco, e disse:

- Vie' qua, andiamo per quel cappone, che la Lapa è una donna diversa, e s'ella dicesse nulla delle lenzuola, veggendo il cappone, si rattempererà un poco.

E cosí ragionando Tommaso col Toso, giunsono alla camera, e Tommaso aprendo la cassa, dov'era il cappone, e la gatta schizza fuori, e dàgli nel petto; il quale impaurito lascia cadere il coperchio, e fuggesi fuori tutto smarrito, che quasi era per perdersi affatto. Marco, e l'altro Tommaso, passeggiavano di rincontro per vedere a che la novella dovesse riuscire, e giunti dov'era Tommaso, dicono:

- Che avesti, che tu fuggisti fuor della camera?

Dice Tommaso:

- Io credo che fusse il nimico di Dio; e serà stato quello che m'arrovesciò le scarpette.

Disse il Toso:

- A me parve egli una gatta.

Disse Tommaso:

- Ben, che fu gatto maschio: e' mi parve tre cotanti che una gatta.

Disse il Toso:

- Andiamo alla cassa, e datemi il cappone, ch'io il porti.

E tornano ad aprirla; e apertala, sul tagliere non era alcuna cosa.

Dice Tommaso:

- Oimè! che 'l Toso arà detto il vero, ch'ella s'ha manicato il cappone.

Dice Marco e 'l compagno:

- Onde v'entrò la gatta? ha la cassa gattaiuola?

E 'l Baroncio trae fuora le masserizie, e guatando dice:

- Io non ci veggo né gattaiuola, né buca.

Dice Tommaso Federighi:

- E’ m'avvenne una volta, ch'io fui de' signori, com'ora, simil caso; e brievemente, quando io mandai il famiglio col tagliere, che 'l mettesse nella cassa, una gatta v'era entro a dormire: e' non se n'avvedde, e mangiossi quello ch'era sul tagliere, e poi se n'uscí in questa forma che questa.

- Mala ventura, che cosí nuova fortuna non m'avvenne mai piú, e credo che da ieri in qua sia dí ozíaco per me. Or ecco, io non credo mai compiere questo officio che io ritorni alla Lapa mia, che con lei non ho mai paura; e qui ci starò oggimai con gran temenza, però che io credo che tra queste camere sia qualche mala cosa.

Vo' dite pur: gatta, gatta: arrovesciommi la gatta le scarpette, e anco altro, che fu peggio?

Dice Marco:

- E’ può ben essere: a cotesto vagliono molte orazioni e paternostri; abbine consiglio con questi maestri in teologia.

E mandò tre dí per certi teologhi, li quali li dierono consiglio ch'egli orasse e dicesse paternostri otto dí dalle quattro ore insino a mattutino; e questo consiglio fu fattura de' due compagni.

Il detto Tommaso, come invilito dalla paura, cosí fece che otto notti quasi non dormí, armandosi con molti paternostri, acciò che 'l nimico non entrasse piú nella cassa, e scemato quaranta libbre, finí l'officio, e tornossi alla Lapa, nelle cui braccia prese gran sicurtà, dicendole che non volea mai piú esser de' Priori, però che 'l demonio era in quelle camere, e a lui avea fatto le cose scritte di sopra, raccontandogliele a una a una: e con questa credenza stette finché visse, che fu poco.

Per le simplicità di molti si muovono spesso de' savi a fare cose da trastulli, per passar tempo; ché benché gli uomini siano signori, perché spesso hanno malinconie, pare che non si disdica fare simili cose per sollazzare la mente.

 

 

NOVELLA LXXXIV

 

Uno dipintore sanese, sentendo che la moglie ha messo in casa un suo amante, entra in casa e cerca dell'amico, il quale trovando in forma di crocifisso, volendo con un'ascia tagliarli quel lavorío, il detto si fugge, dicendo: “Non scherzare con l'ascia”.

 

Fu già in Siena uno dipintore, che avea nome Mino, il quale avea una sua donna assai vana, ed era assai bella, la quale un Sanese buon pezzo avea vagheggiata, e anco avea aúto a fare con lei, e alcuno suo parente piú volte gliel'avea, detto, e quel nol credea. Avvenne un giorno che, essendo Mino uscito di casa, ed essendo per alcuno caso andato di fuori per vedere certo lavorío, soprastette la notte di fuori. L'amico della donna, di ciò avvisato, la sera andò a stare con la moglie del detto dipintore a suo piacere. Come il parente sentí questo, che avea messo le spie per farnelo una volta certo, subito andò di fuori dove Mino era, e tanto fece che, dicendo per certa cagione dovere andare e tornare dentro, fu mandato uno con le chiavi dello sportello: e questo parente, uscendo fuori, lasciò quello delle chiavi dello sportello che l'aspettasse, e andò a Mino, el quale era a una chiesa presso a Siena; e giunto là disse:

- Mino, io t'ho detto piú volte della vergogna che mogliera fa a te e a noi, e tu non l'hai mai voluto credere; e però, se tu ne vuogli esser certo, vienne testeso e troverra'loti in casa.

Costui subito fu mosso e intrò in Siena per isportello; e 'l parente disse:

- Vattene a casa, e cerca molto bene, però che, come ti sentirà, l'amico si nasconderà, come tu déi credere.

Mino cosí fece, e disse al parente:

- Deh, vienne meco; e se non vuogli entrare dentro, statti di fuori.

E quel cosí fece.

Era questo Mino dipintore di crocifissi piú che d'altro, e spezialmente di quelli che erano intagliati con rilevamento; e aveane sempre in casa, tra compiuti e tra mani, quando quattro e quando sei; e teneagli, com'è d'usanza de' dipintori, in su una tavola, o desco lunghissimo, in una sua bottega appoggiati al muro l'uno allato all'altro, coperti ciascuno con uno sciugatoio grande; e al presente n'avea sei, li quattro intagliati e scolpiti, e li due erano piani dipinti, e tutti erano in su uno desco alto due braccia, appoggiati l'uno allato all'altro al muro, e ciascuno era coperto con gran sciugatoi o con altro panno lino. Giugne Mino all'uscio della sua casa, e picchia. La donna e 'l giovane, che non dormiano, udendo bussare l'uscio, subito sospettano che non fosse quello che era; e la donna, senza aprire finestra o rispondere, cheta cheta va a uno piccolo finestrino, o buco che non si serrava, per vedere chi fosse; e scorto che ebbe essere il marito, torna allo amante, e dice:

- Io son morta: come faremo? il meglio ci sia è che tu ti nasconda.

E non veggendo ben dove, ed essendo costui in camicia, capitorono nella bottega dov'erano li detti crocifissi.

Disse la donna:

- Vuo' tu far bene? sali su questo desco e pònti su uno di quelli crocifissi piani con le braccia in croce, come stanno gli altri, e io ti coprirrò con quel panno lino medesimo, con che è coperto quello; vegna cercando poi quanto vuole che io non credo che in questa notte e' ti truovi, e io ti farò un fardellino de' panni tuoi e metterògli in qualche cassa, tanto che vegna il dí; poi qualche santo ci aiuterà.

Costui, come quello che non sapea dove s'era, sale sul desco e leva lo sciugatoio, e in sul crocifisso piano si concia proprio, come uno de' crocifissi scolpiti, e la donna piglia el panno lino e cuoprelo, né piú né meno, com'erano coperti gli altri, e torna a dirizzare un poco il letto che non paresse vi fusse dormito se non ella; e tolto le calze, e scarpette, e farsetto, e gonnella e l'altre cose dello amante, subito n'ebbe fatto un assettato fardellino e mettelo tra altri panni. E ciò fatto, ne va alla finestra, e dice:

- Chi è?

E que' risponde:

- Apri, io son Mino.

Dice quella:

- O che otta è questa? - e corre ad aprirli.

Aperto l'uscio, e Mino dice:

- Assai m'ha' fatto stare, come colei che se' stata molto lieta che io ci sia tornato.

Disse quella:

- Se tu se' troppo stato, è defetto del sonno, però che io dormiva e non t'udía.

Dice il marito:

- Ben la faremo bene.

E toglie uno lume e va cercando ciò che v'era insino a sotto il letto.

Dice la moglie:

- O che va' tu cercando?

Dice Mino:

- Tu ti mostri nuova; tu 'l saprai bene.

Dice quella:

- Io non so che tu ti di': sapera'tel pur tu.

Andando costui cercando tutta la casa, pervenne nella bottega, dov'erano li crocifissi. Quando il crocifisso incarnato lo sente ivi, pensi ciascuno come gli parea stare; e gli convenía stare come gli altri che erano di legno; ed egli avea il battito della morte. Aiutollo la fortuna, ché né Mino né altri mai averebbe creduto essere in quella forma colui che era nascoso. Stato che Mino fu nella bottega un poco, e non trovandolo, s'uscí fuori. Era questa bottega con una porta dinanzi, la quale si serrava a chiave di fuori, però che uno giovene che stava col detto Mino, ogni mattina l'apriva come s'aprono l'altre, e dalla parte della casa era uno uscetto là, donde il detto Mino entrava nella bottega; e quando ne uscía della bottega e andavane in casa, serrava il detto uscetto a chiave, sí che il vivo crocifisso non se ne poteva uscire, se avesse voluto.

Essendosi combattuto Mino il terzo della notte, e non trovando alcuna cosa, la donna s'andò al letto, e disse al marito:

- Va' tralunando quantunche tu vuogli; se tu ti vuogli andare al letto, sí ti va'; e se no, va' per casa come le gatte, quanto ti piace.

Dice Mino:

- Quand'io arò assai sofferto, io ti darò a divedere che io non sono gatta, sozza troia, che maladetto sia il dí che tu ci venisti.

Dice la moglie:

- Cotesto potre' dir'io: è bianco, o vermiglio quello che favella?

- Io tel farò bene assapere innanzi che sia molto.

Dice quella:

- Va' dormi, va', e farai il tuo migliore, o tu lascia dormir me.

Le cose per istracca si rimasono per quella notte; la donna s'addormentò, e ancora egli andò a dormire. Lo parente, che di fuori aspettava come la cosa dovesse riuscire, standovi insino passata la squilla, se n'andò a casa, dicendo: “Per certo, in tanto che io andai di fuori per Mino, l'amante se ne sarà andato a casa sua”.

Levatosi la mattina Mino molto per tempo, e ancora ragguardando per ogni buco, nella fine, avendo assai cercato, aprí l'uscetto e venne nella bottega: e 'l suo garzone aperse la porta di fuori da via della detta bottega.

E in questo, guardando Mino questi suoi crocifissi, ebbe veduto due dita d'uno piede di colui che coperto stava.

Dice Mino fra sé stesso: “Per certo che quest'è l'amico”. E guardando fra certi ferramenti, con che digrossava e intagliava quelli crocifissi, non vidde ferro esser a lui piú adatto che un'ascia che era tra essi. Presa quest'ascia, e accostatosi per salire verso il crocifisso vivo, per tagliargli la principal cosa che quivi l'avea condotto, colui, avvedutosi, schizza con un salto, dicendo:

- Non ischerzar con l'asce.

E levala fuori dell'aperta porta; Mino drietoli parecchi passi, gridava: “Al ladro, al ladro”; colui s'andò per li fatti suoi.

Alla donna, che tutto avea sentito, capitò un converso de' frati predicatori che andava con la sporta per la limosina per lo convento. Andato su per le scale, come talora fanno, disse:

- Frate Puccio, mostrate la sporta, e io vi metterò del pane.

Quegli la diede. La donna, cavato il pane, vi misse il fardellino che l'amante avea lasciato, e sopra esso gittò suso il pane del frate e quattro pani de' suoi, e disse:

- Frate Puccio, per amor d'una donna che recò qui questo fardellino dalla Stufa, dove pare che il tale ier sera andasse, io l'ho messo sotto il pane nella vostra sporta acciò che nessuno male si potesse pensare; io v'ho dato quattro pani; io vi priego (ché egli sta presso alla vostra chiesa) quando n'andate, che voi glielo diate a lui, che 'l troverrete a casa; e ditegli che la donna della Stufa gli manda i suoi panni.

Dice Fra Puccio:

- Non piú! lasciate far me.

E vassi con Dio; e giugnendo all'uscio dell'amante, mostrando chieder del pane, domandava:

- Ècci il tale?

Colui era nella camera terrena; udendosi domandare, si fece all'uscio, e dice:

- Chi è là?

Il frate va a lui, e dàgli i panni, dicendo:

- La donna della Stufa ve li manda.

E colui gli dié duo pani, e 'l frate partissi. E l'amante considera bene ogni cosa, e subito ne va al campo di Siena, e fu quasi de' primi vi fusse quella mattina, e là facea de' suoi fatti, come se mai tal caso non fusse avvenuto. Mino quando ebbe assai soffiato, essendo rimaso scornato del crocifisso, che s'era fuggito, ne va verso la moglie dicendo:

- Sozza puttana, che di' che io sono gatta, e che io ho beúto bianco e vermiglio, e nascondi i bagascioni tuoi in su' crocifissi; e' convienne che tua madre il sappia.

Dice la donna:

- Di' tu a me?

Dice Mino:

- Anche dico alla merda dell'asino.

- E tu con cotesta ti favella, - disse la donna.

Dice Mino:

- E anche non hai faccia, e non ti vergogni? che non so ch'io mi tegno che io non ti ficchi un tizzon di fuoco nel tal luogo.

Dice la donna:

- Non saresti ardito, s'io non ho fatto l'uomperché; ché alla croce di Dio! stu mi mettessi mano addosso non facesti mai cosa sí caro ti costasse.

Costui dice:

- Deh, troia fastidiosa, che facesti del bagascione uno crocifisso, che cosí gli avess'io tagliato quello che io volea com'egli s'è fuggito.

Dice la donna:

- Io non so che tu ti beli: qual crocifisso si poté mai fuggire? non sono egli chiavati con aguti spannali? e se non fusse stato chiavato, e tu te ne abbi il danno, se s'è fuggito però che egli è tua colpa, e non mia.

Mino corre addosso alla donna e cominciala a 'ngoffare:

- Dunque m'hai tu vituperato e anco m'uccelli?

Come la donna si sente dare, che era molto piú prosperevole che Mino, comincia a dare a lui; da' di qua, da' di là, eccoti Mino in terra e la donna addossoli, e abburattalo per lo modo. Dice la donna:

- Che vuoi tu dire? Pigliala comunche tu vuoi, che vai inebbriando di qua e di là, e poi ne vieni in casa e chiamimi puttana; io ti concerò peggio che la Tessa non acconciò Calandrino: che maladetto sia chi mai maritò nessuna femina ad alcuno dipintore, ché siete tutti fantastichi e lunatichi, e sempre andate inebbriando e non vi vergognate.

Mino, veggendosi mal parato, priega la donna che lui lasci levare, e ch'ella non gridi, acciò che i vicini non sentino, che, traendo al romore, non trovassino la donna a cavallo. Quando la donna udí questo, dice:

- Io vorrei volentieri che tutta la vicinanza ci fosse.

E levossi suso, e cosí si levò Mino col viso tutto pesto; e per lo migliore disse alla donna che gli perdonasse, ché le male lingue gli avevano dato a creder quello che non era, e che veramente quello crocifisso s'era fuggito per non essere stato confitto. E andando il detto Mino per Siena, era domandato da quel suo parente che l'avea indotto a questo:

- Come fu? come andò?

E Mino gli disse che tutta la casa avea cerco e che mai non avea trovato alcuno; e che, guatando tra' crocifissi, l'uno gli era caduto sul viso, e avealo concio come vedea. E cosí a tutti e' Sanesi che domandavano: “Che è quello?” dicea che uno crocifisso gli era caduto sul viso.

Ora cosí avvenne, che per lo migliore si stette in pace dicendo fra sé medesimo: “Che bestia son io? io avea sei crocifissi e sei me n'ho: io avea una moglie e una me n'ho; cosí non l'avess'io! a darmi briga, potrò arrogere al danno, come al presente m'è incontrato; e s'ella vorrà esser trista tutti gli uomini del mondo non la potrebbono far esser buona”; se non intervenisse già come intervenne a uno nella seguente novella.

 

 

 

NOVELLA LXXXV

 

Uno Fiorentino toglie per moglie una vedova stata disonestissima di sua persona, e con poca fatica la gastiga sí ch'ella diviene onesta.

 

Nella città di Firenze fu già uno, secondo che io udi', che ebbe nome Gherardo Elisei, il quale tolse per moglie una donna vedova; la quale essendo disonesta e vana con l'altro marito, era stata tenuta assai cattiva di sua persona; e avea nome monna Ermellina. Ora, come questo Gherardo tolse questa donna per moglie, molti suoi parenti e amici, anzi che consumasse il matrimonio, dicono:

- Gherardo, che hai tu fatto? tu sei savio, e hai tolto cui tu hai: che fama ti fie questa? - e molte altre cose.

Dice Gherardo:

- Io vi fo certi che io so chi costei, che io ho tolto, è stata: e so che, s'ella non mutasse modo, io averei mal fatto; ma con la grazia di Dio io credo far sí che con meco ella non fia com'ella è stata, ma fia tutto il contrario; e però di questo non ne prendete piú pensiero che me ne prenda io.

La brigata si strignea nelle spalle, e tra loro se ne facean beffe, dicendo:

- Dio ti dia bene a fare.

E cosí dopo alquanti dí monna Ermellina ne venne una sera a marito, e avendo cenato, ed essendo l'ora d'andarsene al letto, n'andò alla camera, là dove Gherardo ancora si rappresentò, com'è d'usanza; e serrato, monna Ermellina, accostandosi al leccone, comincia a ragionare amorosamente col detto Gherardo; e Gherardo si comincia a spogliare in farsettino, e monna Ermellina in giubba. Ed essendo le cose tutte ben disposte a tal vicenda dalla parte di monna Ermellina detta, e Gherardo esce dall'uno de' canti della camera con un bastone in mano, e dà, e dà, e dà alla sposa novella. Costei comincia a gridare, e quanto piú gridava e Gherardo piú bastonava. Quando ebbe un pezzo cosí bastonato, e la donna dicendo:

- Oimè, fortuna, dove m'hai tu condotto? ché, senza saper perché, la prima sera io sono cosí acconcia da colui con cui io credea aver sommo piacere; volesse Dio che io mi fosse ancora vedova, ché io era donna di me, e ora sono sottoposta in forma e a cui io non sarò mai piú lieta.

E Gherardo rifà il giuoco; e bussato insino dove volle, e la donna dicendo pur: “Perché mi fa' tu questo?”; e Gherardo gli dice:

- Io non voglio che tu creda, Ermellina, che io t'abbia tolta per moglie che io non abbia molto ben saputo che femina tu se' stata; e bene so, e ho udito che costumi sono stati e' tuoi e quanta onestà è stata nella tua persona; e credo che, se 'l marito che avesti t'avessi gastigata di quello che ora t'ho gastigat'io, queste battiture non bisognavono. E però considerando, ora che se' mia moglie, gli tuoi passati costumi le tue disonestà e' tuoi vituperi non essere stati gastigati, io, innanzi ch'io abbia voluto teco consumare il matrimonio, ho voluto purgare ciò che tu hai fatto da quinci addietro con le presenti battiture; acciò che, considerando tu se per li passati falli da te commessi quando non eri mia moglie io t'ho data disciplina, pensa quella che io farò e che battiture serebbono quelle che da me averai, se da quinci innanzi, essendo mia moglie, di quelli non ti rimarrai, e piú non ti dico: tu se' savia e 'l mondo e grande.

Brievemente, questa buona donna si lagnò assai, e avea di che, facendo scuse di quello che Gherardo dicea. Alla fine s'andò al letto, e non che quella notte, ma durante un mese o piú non gli giovò trovarsi col marito, come quella che era tutta pesta. Di tempo in tempo, rabbonacciandosi con Gherardo, queste battiture ebbono tanta virtú che, com'ella era stata per li passati tempi dissoluta e vana, cosí da indi innanzi fu delle care, delle compiute e delle oneste donne della nostra città.

Oh quanti sono li dolorosi mariti che fanno cattive mogli! piú ne sono cattive per difetto de' mariti che per lo loro. Da' una fanciulla a uno fanciullo e lascia far loro. Che dottrina imprenderà ella dall'ignorante giovane? e quella via ch'ella piglia, per quella corre.

E non si truova sempre il bastone di Gherardo né quello che si conterà nella seguente novella.

 

 

 

NOVELLA LXXXVI

 

 

Fra Michele Porcelli truova una spiacevole ostessa in uno albergo, e fra sé dice: “Se costei fusse mia moglie, io la gastigherei sí, che ella muterebbe modo”. Il marito di quella muore; Fra Michele la toglie per moglie e gastigala com'ella merita.

 

Passati sono circa a trent'anni, che fu uno Imolese, chiamato Fra Michele Porcello, il quale era chiamato Fra Michele, non perché fosse frate, ma era di quelli che hanno il terzo ordine di Santo Francesco, e avea moglie, ed era un uomo malizioso e reo, e di diversa maniera; e andava facendo sua mercanzia di merce per Romagna e per Toscana; poi si tornava ad Imola, come vedea che per lui si facesse. Tornando costui una volta tra l'altre verso Imola, giunse una sera a Tosignano, e smontò a un albergo d'uno che avea nome Ugolino Castrone, il quale Ugolino avea per moglie una donna assai spiacevole e smancerosa, chiamata monna Zoanna: sceso che fu Fra Michel da cavallo, e venendosi rassettando, disse all'oste:

- Fa' che noi abbiàn ben da cena; hai tu buon vino?

- Sí bene, voi starete bene.

Disse Fra Michele:

- Deh, fa' che noi abbiamo una insalata.

Disse Ugolino:

- Zoanna, - chiamando la moglie, - va', cògli una insalata.

La Zoanna torce il grifo, e dice:

- Va', co' tela tu.

Il marito dice:

- Deh va' vi.

Ella risponde:

- Io non vi voglio andare.

Fra Michele, veggendo i modi di costei, si rodea tutto di stizza. Ancora, avendo Fra Michele voglia di bere, dice l'albergatore alla moglie:

- Deh va' per lo tal vino.

E porgeli l'orciuolo.

Dice madonna Zoanna:

- Va' tu, che tornerai piú tosto, e hai l'orciuolo in mano, e sai meglio la botte di me.

Fra Michele, veggendo la spiacevolezza in moltissime cose di costei, dice all'oste:

- Ugolino Castrone, tu se' ben castrone, anco pecora; per certo, s'io fosse come te, io farei che questa tua moglie farebbe quello ch'io gli dicesse.

Disse Ugolino:

- Fra Michele, se voi fuste com'io, fareste quel che fo io.

Fra Michele si consumava di nequizia, veggendo i modi fecciosi della moglie d'Ugolino, e fra sé stesso dicea: “Signore Iddio, stu mi facessi tanta grazia che morisse la donna mia e morisse Ugolino, per certo e' converrebbe che io togliessi costei per moglie, per gastigarla della sua follia”. Passossi Fra Michele la sera come poteo, e la mattina se n'andò ad Imola.

Avvenne che l'anno seguente in Romagna fu una mortalità, per la quale morí Ugolino Castrone e la donna di Fra Michele. Da ivi a parecchi mesi, cessata la pestilenza, e Fra Michele adoprò tutti gl'ingegni ad avere per moglie madonna Zoanna; e in fine fu adempiuto il suo intendimento. Venuta questa buona donna a marito, e andandosi la sera a letto, dov'ella si credea esser vicitata con quello che sono le novelle spose, e Fra Michele che non avea sgozzato ancor la 'nsalata da Tosignano, la vicita con un bastone, e cominciagli a dare, e sanza restare tanto gli diede che tutta la ruppe; e la donna gridando, egli era nulla, ché costui gliene diede per un pasto, e poi s'andò a dormire.

Da ivi a due sere, e Fra Michele disse ch'ella ponesse dell'acqua a fuoco, che si volea lavare i piedi; e la moglie, che non dicea: “Va', ponla tu”, cosí fece; e poi levandola dal fuoco, e messala nel bacino, Fra Michele si cosse tutti e' piedi, sí era calda. Com'egli sente questo, non dice: che ci è dato? ; rimette l'acqua nell'orciuolo, e riposela al fuoco, tanto ch'ella levò il bollore.

Come questo fu fatto, toglie il bacino, e mettevi l'acqua, e dice alla moglie:

- Va', siedi, che io voglio lavare i piedi a te.

Costei non volea; alla fine per paura di peggio le convenne volere. Costui lavala con l'acqua bollente, la donna squittisce: “oimè”; e tira i piedi a sé. Fra Michele gli tira nell'acqua, e dàgli un pugno e dice:

- Tieni i piè fermi.

La donna dice:

- Trista, io mi cuoco tutta.

Dice Fra Michele:

- E’ si dice: “Togli moglie che ti cuoca”; e io t'ho tolta per cuocer te, innanzi ch'io voglia che tu cuoca me.

E brievemente, e' la cosse sí, che piú di quindici dí stette che quasi non potea andare, sí era disolata. E un altro dí gli disse Fra Michele:

- Va' per lo vino.

La donna che non potea appena metter li piedi in terra, tolse la 'nghestara, e andava a stento come potea. Com'ella è in capo della scala, e Fra Michele di dietro gli dà un pugno, dicendoli:

- Va' tosto -; e gettala giú per la scala; e poi aggiunge: - Credi tu che io sia Ugolino Castrone, che quando ti disse: “Va' per lo vino”; e tu rispondesti: “Va'vi tu”?

E cosí questa donna Zoanna, cotta, livida e percossa, convenía che facesse quello che quando ell'era sana non volea fare.

Avvenne che un dí Fra Michele Porcello serrò gli usci della casa per fare l'ottava con lei; questa, avvedendosi, fuggí di sopra, e per una finestra d'in sul tetto se n'andò fuggendo di tetto in tetto, tanto che giunse a una vicina di Fra Michele, alla quale venendognene pietà, se la ritenne in casa; e poi alcuno e vicino e vicina, venendo a pregar Fra Michele che ritogliesse la sua donna, e che stesse con lei come dovesse, egli rispose che com'ella se n'era ita cosí ritornasse; s'ella se n'era andata su per le tettora, per quella medesima via ritornasse, e non per altra; e se ciò non facesse, non aspettasse mai di ritornare in casa sua. La vicinanza sappiendo chi era Fra Michele, feciono che su per le tetta, come le gatte, la donna ritornò al macello. Com'ella fu in casa, e Fra Michele comincia a sonare le nacchere. La donna macera e tormentata, dice al marito:

- Io ti priego che innanzi che tu mi tormenti ogni dí a questo modo, senza saper perché, che tu mi dia morte.

Dice Fra Michele:

- Poiché tu non sai ancora perché io fo questo, e io tel voglio dire. Tu ti ricordi bene quando io venni una sera allo albergo a Tosignano, che tu eri moglie d'Ugolino Castrone; e ricorditi tu quando egli ti disse che tu andassi a cogliere la insalata per mi, e tu dicesti: “Va' vi tu”? - E su questa, gli diede un grandissimo pugno; e poi dice:

- E quando disse: “Va' per lo tal vino”; e tu dicesti: “Io non vi voglio andare”? - E dàgliene un altro.

- Allora me ne venne tanto sdegno che io pregai Iddio che desse la morte a Ugolino Castrone e alla moglie che io avea, acciò che io ti togliesse per moglie. Egli, come pietoso esauditore de' miei prieghi, gli mandò ad esecuzione; e ha fatto sí che tu se' mia moglie, acciò che quello gastigamento che 'l tuo Castrone non ti dava, io te lo dea io; sí che ciò che t'ho fatto infino a qui è stato per punirti de' falli e de' fastidiosi tuoi modi, quando eri sua moglie. Or pensa che, essendo tu da quinci innanzi mia moglie, se tu vorrai tener quelli modi, quello che io farò; per certo, ciò che io ho fatto fino a qui ti parrà latte e mele; sí che a te stia oggimai, se tu con le prove e io co' bastoni e con li spuntoni, se bisognerà.

La donna disse:

- Marito mio, se io ho fatto per li tempi passati cosa che non si convegna, tu m'hai ben data la pena. Dio mi dia grazia che da quinci innanzi io faccia sí che tu ti possa contentare; io me ne 'ngegnerò e Dio me ne dia la grazia.

Fra Michele disse:

- Messer Batacchio te n'ha fatta chiara; a te stia.

Questa buona donna si mutò tutta di costumi, come s'ella rinascesse; e non bisognò che Fra Michele adoperasse, non che le battiture, ma la lingua, ch'ella s'immaginava quello che egli dovesse volere, e non andando, ma volando per la casa, e fu bonissima donna.

Io per me, come detto è, credo ch'e' mariti siano quasi il tutto di fare e buone e cattive mogli. E qui si vede che quello che 'l Castrone non avea saputo fare, fece il Porcello. E come che uno proverbio dica: buona femmina e mala femmina vuol bastone; io sono colui che credo che la mala femmina vuole bastone, ma alla buona non è di bisogno; però che se le battiture si danno per far mutare i cattivi costumi in buoni, alla mala femmina si vogliono dare perch'ella muti li rei costumi; ma non alla buona, perché s'ella mutasse li buoni, potrebbe pigliare li rei, come spesso interviene, quando li buoni cavalli sono battuti ed aspreggiati, diventano restii.

 

NOVELLA LXXXVII

 

 

Maestro Dino da Olena medico, cenando co' Priori di Firenze una sera, essendo Dino di Geri Tigliamochi gonfaloniere di justizia, fa tanto che 'l detto Dino non cena, volendo dar poi i confini al detto maestro Dino.

 

Dino di Geri Tigliamochi fu uno cittadino di Firenze mercatante, uso molto ne' paesi di Fiandra e d'Inghilterra. Era lunghissimo e maghero, con uno smisurato gorgozzule; ed era molto schifo d'udire o di vedere brutture, e per questo, favellando mezzo la lingua di là, avea un poco del nuovo. Essendo gonfaloniere di justizia, fece invitare maestro Dino a cena, e 'l detto maestro Dino era vie piú nuovo che 'l detto Dino. Essendosi adunche posti a tavola, il detto gonfaloniere in capo di tavola, e 'l maestro Dino allatogli, e poi era Ghino di Bernardo d'Anselmo, che era priore, e forse componitore col maestro Dino di quello che seguí della presente novella, posta la tavola, fu recato un ventre di vitella in tavola; e cominciandosi a tagliare, dice il maestro Dino a Dino:

- Per quanto mangereste in una scodella, dove fosse stata la merda parecchi mesi?

Dino guarda costui, e turbatosi, dice:

- È mala mescianza a chi è mal costumato; porta via, porta.

Dice il maestro Dino:

- Che è questo che è venuto in tavola? è ancor peggio.

Dino sconvolge il suo gorgozzule:

- E che parole son queste?

Dice il maestro Dino:

- Sono secondo quello che è venuto in tavola per la prima vivanda: confessatemi il vero; non è questo ventre il vasello dove è stata la feccia di questa bestia, poi ch'ella nacque? E voi sete il signore che voi sete, e pascetevi di sí lorda vivanda?

- È mala mescianza, è mala mescianza; levate via, - dice a' donzelli, - e 'n fé del Criatore vo' non ci mangerè plus.

Dino infino a qui non mangiò né del ventre, né alcuna cosa. Levata questa vivanda, vennono starne lesse; e maestro Dino dice:

- Quest'acqua delle starne pute -; e dice allo spenditore: - Dove le comperasti tu?

Dice lo spenditore:

- Da Francesco pollaiuolo.

E maestro Dino dice:

- Egli ne sono venute molte a questi dí, e alcuno mio vicino n'ha comperate, credendo siano buone, poi l'ha trovate tutte verminose; e queste fiano di quelle.

E Dino dice:

- È mala mescianza, mala mescianza, nell'ora mala a tanto scostume -; e dà la sua scodella al famiglio, e dice:

- To' via.

Dice maestro Dino:

- E’ mi conviene pur pur mangiare, s'io voglio vivere; lascia stare.

E Dino in gote, e non mangia, e parea il Volto santo.

Levata questa vivanda, vennono sardelle in tocchetto. Dice il maestro Dino:

- Gonfaloniere, e' mi risovviene quando e' miei fanciulli erano piccoli, che uscivano loro i bachi da dosso.

E Dino levasi:

– È mala mescianza a chi è mal costumato; per Madonna di Parigi, che non m'avete lasciato mangiar stasera con sí laida maniera di parlare; ma per mie foi non verrete piú a questo albergo.

Maestro Dino ridea e pregavalo tornasse a tavola, e non ci fu mai modo, ché se ne andò tra le camere, dicendo:

- Nostro Signore vi doni ciattiva giornea; un poltroniere venuto in tal magione, e tiensi esser gran maestro di musica, e le sue parlanze sono piú da rubaldi che votono li giardini che da quelli che debbon dare esempli e dottrine, come doverrebbe dar elli, che si può dire esser vecchio mal vissuto.

Ghino di Bernardo, e gli altri signori, che di ciò avevono grandissimo piacere, si levarono da tavola e andorono dove Dino era, e trovaronlo molto in gran mescianza, e non voler vedere il maestro Dino; pur tanto feciono, che un poco si raumiliò: e maestro Dino con lui a' versi, tanto che si conciliò con lui. Ma poco duroe, però che stando un pezzo, e maestro Dino volendosi partire, disse Ghino di Bernardo:

- Maestro, pigliate commiato da Dino e fategli reverenza.

E 'l maestro Dino piglia per la mano Dino, e dice:

- Messer lo gonfaloniere, con la grazia vostra, datemi licenzia -; e quel li porge la mano; e 'l maestro Dino, pigliandola, subito si volge, e mandate giú le brache, a un tratto gli scappuccia il culo e 'l capo.

Or non piú; Dino si comincia afferrare:

- Pigliatelo, pigliatelo.

Ghino e gli altri diceano:

- O Dino, non gridate; anderemo nell'udienza, e là faremo quello che fia da fare.

Maestro Dino dice:

- Signori, io mi vi raccomando che per aver fatta debita reverenza io non perisca -; e pur scendendo le scale si va con Dio.

Dino, rimaso furioso, la sera medesima va nell'audienza, raguna i compagni, e mette il partito, ché era Proposto, di mandare uno bullettino allo esecutore, e che 'l maestro Dino abbia i confini. Metti il partito, e metti e rimetti, non si poté mai vincere. Veggendo Dino questo, col gorgozzule gonfiato chiama li donzelli che facciano accendere i torchi, ché se ne volea andare a casa. Li compagni scoppiavono delle risa, e diceano:

- Doh, Dino, non andare istasera.

E Dino, brievemente, non rattemperandosi, n'andò a casa, e la mattina fu mandato per lui; e non c'ebbe mai modo che lo dí seguente tornasse in Palagio; tanto che uno de' signori, con uno carbone, nella minore audienza ebbe dipinto nel muro proprio Dino con uno gorgozzule grande, e con la gola lunga, che parea proprio desso. Essendo la sera di notte, che Dino non era voluto tornare in Palagio, vi mandorono li signori ser Piero delle Riformagioni, pregandolo dovesse tornare acciò che e' fatti del comune non remanessino senza governo; e ancora per provvedere che 'l maestro Dino fosse punito del fallo commesso. Dopo molte parole, Dino si lasciò vincere e la mattina seguente tornò al Palagio, e come sul dí giunse nell'udienza minore, ebbe veduto, essendo con Ghino di Bernardo insieme, il viso ch'era stato dipinto nel muro; e guardando quello, cominciò a soffiare: e Ghino dice:

- Deh, lasciate andare queste cose, non ve ne combattete piú.

Dice Dino:

- Come diavolo mi di' tu questo, che m'ha ancora dipinto in questo muro? E se tu non mi credi, vedilo.

Ghino, che scoppiava dentro sí gran voglia avea di ridere, dice:

- Come, buona ventura, vi recate voi a noia questo viso, e dite che sia dipinto per voi? Questo fu dipinto, già fa piú tempo, per lo viso del re Carlo primo, che fu magro e lungo, col naso sgrignuto. E perdonatemi, Dino, che io ho udito dire a molti cittadini che 'l vostro viso è proprio quello del re Carlo primo.

Dino a queste parole diede fede, e ancora si racconsolò, sentendosi assomigliare al re Carlo primo: e stando alquanto, ritornò in sul maestro Dino, e tiratosi nell'audienza, mette a partito el bullettino e' confini, e non si vince, e disperavasene forte. Alla per fine disse Ghino:

- Poiché questo partito non si vince, commettete in due di noi che mandino per lo maestro Dino, e dicangli quello che si conviene, facendogli una gran paura -; e cosí feciono.

E fu Ghino e un altro, che mandorono per lo maestro Dino: e come fu venuto, e Ghino comincia a ridere, e in fine gli disse che Dino il voleva pur per l'uomo morto, e che tutte l'altre cose averebbe dimesse, e datosene pace, salvo che del trarre delle brache. Dice il maestro Dino:

- Egli è una parte del mondo che è grandissima, ed èvvi un re che è il maggiore, e ha molti principi sotto sé, e chiamasi il re di Sara: quando uno fa reverenza a uno di quelli principi, si trae il cappuccio; e quando si fa reverenza allo re maggiore, si cava a un tratto il cappuccio e le brache; e io, considerando il gonfaloniere della justizia essere il maggior signore, non che di questa provincia, ma di tutta l'Italia, volendogli far reverenza, feci il simile che s'usa colàe.

Udendo li due priori questa ragione, risono ancora vie piú, e tornorono a Dino e agli altri, e dissono come aveano vituperato il maestro Dino, e fattogli una gran villania; e che s'era scusato con la tale usanza che è in tal paese; e se cosí era, non aver elli tanto errato; pregando Dino che non se ne desse pensiero, e che a loro lasciassono questa faccenda. Brievemente, a poco a poco Dino venne dimenticando la ingiuria del maestro Dino, ma non sí che non gli tenesse favella parecchi anni; e 'l maestro Dino di ciò ne godea, e dicea:

- Se non mi favellerà, e io non andrò a medicarlo, quando avrà male -; e cosí stettono buon tempo, infino a tanto che 'l maestro Tommaso del Garbo, dando loro a cena una sera un ventre e delle starne, fe' loro far pace.

Sempre conviene che tra' signori officiali e brigate sia uno che pe' suoi modi gli altri ne piglino diletto. Questo Dino fu di quelli: non già per vizio, ma per costume, era biasimevole delle cose lorde, e non volea udire; e perché maestro Dino ebbe piacere, e' dienne a' signori. E però è grazia a Dio d'avere sí fatto stomaco che ogni cosa patisca.

 

 

NOVELLA LXXXVIII

 

 

Uno contadino da Decomano viene a dolersi a messer Francesco de' Medici che uno suo consorto gli vuol tòrre una vigna, e allega si piacevolmente che messer Francesco fa ch'ella non gli è tolta.

 

Fu a Decomano, non è molt'anni, uno contadino assai agiato, e avea possessione insino in su quello di Vicchio; là dove tenea a sue mani una bella vigna, la quale uno de' Medici gli volea tòrre, ed era presso che per aversela. Veggendosi costui, che Cenni credo avea nome, a mal partito, pensò d'andarsene a dolersene a Firenze al maggiore della casa; e cosí fece; ché salito una mattina a cavallo, andò a Firenze, e saputo che messer Francesco era il maggiore, se n'andò a lui, e giunto là, disse:

- Messer Francesco, io vengo a Dio e a voi, a pregarvi per l'amor di Dio, che io non sia rubato, se rubato non debbo essere. Uno vostro consorto mi vuol tòrre una vigna, la quale io fo perduta, se da voi non sono aiutato. E dicovi cosí, messer Francesco, che se egli la dee avere, io voglio che l'abbia; e dirovvi in che modo. Voi dovete sapere, che sete molto vissuto, che questo mondo corre per andazzi, e quando corre un andazzo di vaiuolo, quando di pestilenze mortali, quando è andazzo che si guastano tutti e' vini, quando è andazzo che in poco tempo s'uccideranno molt'uomini, quando è andazzo che non si fa ragione a persona: e cosí quando è andazzo d'una cosa, e quando d'un'altra. E però, tornando a proposito, dico che contro a quelli non si pote far riparo. Similmente quello di che io al presente vi vo' pregare per l'amor di Dio, è questo: che s'egli è andazzo di tòr vigne, che il vostro consorto s'abbia la mia vigna segnata e benedetta, però che contro all'andazzo non ne potrei, né non ne voglio far difesa; ma, se non fusse andazzo di tòr vigne, io vi prego caramente che la vigna mia non mi sia tolta.

Udendo messer Francesco la piacevolezza di costui, il domandò come avea nome; e quel gliel disse; e poi dice:

- Buon uomo, il mio consorto con teco non potrebbe aver ragione, e sie certo che, andazzo o non andazzo che sia, la vigna tua non ti fia tolta -; e disse: - Non t'incresca di aspettare un poco.

E mandò per quattro i maggiori della casa; e dice loro questa piacevol novella; e piú, che chiama Cenni e dice:

- Di' a costoro ciò che hai detto a me -; e quelli 'l disse a littera.

Costoro tutti di concordia mandarono per lo loro consorto che già s'avea messo a entrata la vigna, e riprendonlo del fatto, e brievemente liberarono la vigna dalle mani di Faraone, e dissongli che Cenni avea allegato la ragione degli andazzi, per forma che non potea avere il torto; e che di ciò facesse sí che mai non ne sentissino alcuno richiamo. E cosí promesse loro, poiché andazzo non era, di liberare la vigna, e di non seguire piú la sua impresa.

Per certo la legge non arebbe in molto tempo fatta fare quella ragione a Cenni, che l'allegare suo piacevole dell'andazzo fece. E non se ne faccia alcuno beffe; ché chi vi porrà ben cura, da buon tempo in qua, mi pare che 'l mondo sia corso per andazzi, salvo che d'una cosa, cioè d'adoprare bene, ma di tutto il contrario è stato bene andazzo, ed è durato gran tempo.

 

 

 

NOVELLA LXXXIX

 

 

Il prete da Mont'Ughi, portando il corpo di Cristo a uno infermo, veggendo uno su uno suo fico, con parole nuove e disoneste lo grida, poco curandosi del sacramento che avea tra le mani.

 

Alla chiesa di San Martino a Mont'Ughi presso a Firenze, fu poco tempo fa un prete che avea nome Ser... il quale era poco devoto, ma piú tosto scellerato; e fra l'altre cose, tutta la chiesa tenea mal coperta, e sopra l'altare peggio che in altro luogo era coperto, per tal segnale, che 'l dí della sua festa, piovendo su l'altare, e' vicini e gli altri diceano:

- Doh, prete, perché non cuopri tu che non piova su l'altare?

E quelli rispondea:

- Tal sia di lui, se vuole che gli piova addosso. E’ disse fiat , e fu fatto il mondo; ben può dir cuopri, e fia coperto, e non gli pioverà addosso.

E cosí era di diversa condizione in ogni cosa.

Avvenne per caso che, essendo ammalato a morte un suo populano nel tempo di state, fu mandato per lui acciò che portasse la comunione; ed egli pigliando il corpo di Cristo, andò per comunicare lo infermo; e non essendosi molto dilungato dalla chiesa, guardando per un suo campo, vide su uno fico uno garzone che mangiava e coglieva de' fichi suoi; e come uomo non cattolico, né che andasse con la comunione nelle mani, ma come uno malandrino disperato, voltosi a quello, disse gridando:

- Se il diavol mi dà grazia ch'io ponga giú costui, io ti concerò sí che cotesti saranno i peggiori fichi che tu manicassi mai.

Il garzone, che avea del reo, e anco forse avea voglia di farli dir peggio, dice:

- O Domine , voi portate il Signore, et ego vado in tentatione ficorum.

Dice il prete:

- Io fo boto a Dio che m'uccella! Che dirai? Scendine, che sie mort'a ghiado.

Il garzone, avendo il corpo pieno, disse:

- Or ecco, io scendo, e' fichi tuoi ti rendo.

E tirò un peto che parve una bombarda; e 'l prete se n'andò al suo viaggio tutto gonfiato; e 'l nostro Signore tra 'l prete discreto, e 'l ghiottoncello che era sul fico, cosí fu onorato; e l'infermo dal venerabile prete cosí ben disposto fu comunicato.

Che diremo che fosse quella ostia da sí devoto cherico sacrata e portata? Io per me non credo che cattivo arbore possa fare buon frutto. E tutto il mondo n'è pieno di tali, che Dio il sa tra cui mani è venuto.

 

 

NOVELLA XC

 

Un calzolaio da San Ginegio tratta di tòrre la terra a messer Ridolfo da Camerino, al quale essendo venuto agli orecchi, con belle parole lo fa ricredente del suo errore, e perdonagli.

 

Ancora mi conviene tornare a una delle novelle di messer Ridolfo da Camerino, la quale sta in questa forma. Uno calzolaio della terra di San Ginegio, la qual tenea il detto messer Ridolfo, fu una volta sí presuntuoso che cominciò a parlare e a trattare per via di stato contro al detto messer Ridolfo; di che gli venne agli orecchi. Essendo il detto messer Ridolfo nella detta terra, e saputo che ebbe il convenente del fatto, non corse a furia, come molti stolti fanno; e non volle che queste cose paressino, se non come da calzolaio. E ancora non volendo mostrare viltà, ma piú tosto magnanimità, mostrò d'andare a sollazzo per la terra; e andando dove questo calzolaio stava con la sua stazzone, e messer Ridolfo si ferma e dice:

- Perché fa' tu quest'arte? - E quelli dice: - Signor mio, per poter vivere - . E messer Ridolfo dice: - Non ci puoi vivere con essa, non è tua arte e non è tuo mestiero, e non la sai fare -; e toglie le forme e falle portar via.

Il calzolaio poté assai dire, che non si trovasse senza le forme; e non sapendo che si fare, e non potendo pensare quello che questo volesse dire, se ne va piú volte a messer Ridolfo a richiedere le sue forme. Alla per fine v'andò una volta, e trovò messer Ridolfo con una brigata di valentri uomini; e avvisandosi, se chiedesse le forme dinanzi a tanti, gli verrebbe meglio fatto di riaverle, considerando il detto messer Ridolfo per vergogna piú tosto gliene rendesse; e fattosi innanzi, in presenza di tutti dice:

- Signor mio, io vi priego mi rendiate le mia forme, ché io non posso lavorare, né far l'arte mia.

E messer Ridolfo guarda costui, e dice:

- Io ci t'ho detto, che non è l'arte tua di cucire ciabatte e fare calzari.

E 'l calzolaio disse:

- O se questa non è l'arte mia, che sempre ce l'ho fatta qual è la mia?

Disse messer Ridolfo:

- Ben ci hai domandato; l'arte tua è di stare per questo bello palazzo, e darti alle cose piú alte; e io voglio tener quelle forme, per imprender di cucire, e di fare le scarpe e' calzari, se mi bisognassi.

Questo calzolaio, continuando le sue domande, e messer Ridolfo facendo risposte strane e chiuse, e gli omeni che qui erano pareano come smemorati a udire il calzolaio domandare le forme e le risposte che 'l signor facea. Stati per alquanto spazio, e messer Ridolfo dice:

- Questo ciabattino che voi vedete qui, ha trattato di tormi la signoria; e io, sappiendo ciò, e veggendo che l'animo suo de' esser grandissimo, e non da tirare li cuoi con li denti, ma piú tosto da esser signore in questi palazzi, gli ho tolto le forme, però che, se cerca questo mestiero e parli che questo debba essere il suo, di quello non ha a fare alcuna cosa, però che non è suo mestiere, ma è molto vile e basso al suo grand'animo.

Questo calzolaio si scusava, e cominciorongli a tremare li pippioni: e messer Ridolfo dice:

- Nella tua mal'ora, non ti pure scusare, ch'io so ogni cosa, e voglioti condannare in presenza di costoro -; e disse a uno che andasse per le forme.

Quando il calzolaio udí questo, s'avvisò che con le dette forme il dovesse fare uccidere. Giunte le forme, dice messer Ridolfo:

- Dappoi che ci hai detto innanzi a costoro che questo è il tuo mestiero, e io ti voglio credere, e rendoti le forme; ma lascia stare il mio mestiero che non è da te, né da tuo pari, e torna a tagliare e a cucire le scarpe nella tua mal'ora; e va' e fammi lo peggio che puoi.

Al calzolaio cominciò a tornare lo spirito; e disse:

- Signor mio, - inginocchiandosi, - io prego Dio che vi dia lunga e buona vita; e della grazia che mi avete fatta vi dia quel merito che alla vostra virtú e alla vostra misericordia si richiede. Io per me non sono da tanto che mai ve lo potesse meritare; ma bene siate certo d'una cosa che l'animo mio, e ciò che io posso, è tutto dato a voi.

E cosí si partí in quell'ora, che mai non pensò, né in detto né in fatto, se non ad esaltazione del suo signore. E 'l detto messer Ridolfo per questo ne divenne al suo populo sí amato che tutti parve che... con un fervente amore ad ogni suo bisogno.

Oh quanto egli è da commendare uno signore quando per uno vile uomo gli è fatto simile offensa, che egli se ne curi come curò costui, mostrando la sua magnanimità e l'animo liberale, il quale il fa grande e montare fino alle stelle, per aver annullate e fatto poca stima di quelle cose le quali molti vili fanno maggiori, temendo che ogni mosca non gli offenda.

 

 

NOVELLA XCI

 

Minonna Brunelleschi, essendo cieco, di notte guida altrui ad imbolare pesche; e alcun altro furto per lui piacevolmente fatto.

 

Minonna Brunelleschi da Firenze fu ne' miei dí, e fu cieco, come che in molte cose passava gli alluminati, per tale che niuno suo vicino era che, se aveva a mettere cannella in botte di vino, non mandasse per lo Minonna che la mettesse; e io piú volte il vidi che mai non versava gocciola di vino, giucava a zara e andava solo sanza niuna guida. Avea costui un suo luogo alle Panche, e avea per vicino un Giovanni Manfredi, vocato Giogo. Avea appostato il Minonna nella vigna di questo Giogo certi peschi carichi di bonissime pesche; e una sera di notte ebbe due compagni, e disse:

- Volete voi venire meco in tal luogo per le pesche?

Dissono costoro, ch'erano capitati a casa sua, ed erano fiorentini:

- O noi non sappiamo il luogo noi.

Dice il Minonna:

- Non ve ne caglia; verrete, come io vi guiderò, e recate questo sacco.

Costoro due guardano l'un l'altro, dicendo:

- Questa è ben gran cosa, che gli alluminati sogliono guidar e' ciechi, e questo cieco vuol guidare gli alluminati.

Infiammorono via piú d'andare, e dissono:

- Andiamo, per vedere tanto nuova cosa.

Andorono, e troppo bene di campo in campo il Minonna gli ebbe guidati; e giugnendo per entrare nella vigna, dov'erano li peschi, questa era molto bene affossata, e con buona siepe. Dice il Minonna:

- Lasciate andare me innanzi; venite in quaggiú, ché ci dee essere una cotale callaietta nascosa -; e coloro dietro.

Quando fu alla callaia, dice il Minonna:

- Or passate qui, e tenete da man ritta, e vedrete i peschi.

Costoro cosí fanno, e cosí truovono ciò che dice; e 'l Minonna con tutto ciò fu a' peschi quand'eglino; e coglievane egli per amendue loro: in fine egli empierono 'l sacco; e 'l Minonna volea che gliel mettessono in collo. Costoro non vollono, e pigliono questo sacco il meglio che possono, e tornansi a casa e vannosi a letto.

La mattina il Minonna ed ellino se ne vanno a Firenze, e questi due non potendosi tenere che la detta novella non divolgassino, pervenne la detta cosa agli orecchi di Giovanni Manfredi. Non potendosi il detto dar pace, sanza dir alcuna cosa, la seguente notte se ne va con alcuno nell'orto del Minonna, e tagliato molti belli cavoli che v'erano, e colti quelli frutti che poté portare, e fare danno, fece.

Arriva la novella al Minonna, e subito si pensa essere stato Giovanni Manfredi; e comincia a soffiare che parea un porco fedito, con un naso sgrignuto e con un leggío di drieto per ispalle, che parea un dalfino quando sopra il mare si getta soffiando a indovinare tempesta. Subito si mette la via fra gambe, e caccia il capo innanzi con la foggia, come andava, per andare alle Panche; e passando con questo impeto dalla bottega di Caperozzolo, di fuori nella via era uno bariglione su uno desco con non so che cose da fare o lattovari o savori in molle, e davvi si fatta entro che 'l bariglione e 'l desco, con ciò che v'era, andò per terra; e va pur oltre a suo cammino.

Caperozzolo, o suo lavoratore, che pestava dentro, vedendo questo, esce fuori e guata dietro al Minonna, gridando:

- Morto sie tu a ghiado, o non vedi tu lume? che perdere postú gli occhi.

Il Minonna fece vista di non udire, e va pur via, e giugne alle Panche, ed entra nell'orto, e va tastando li cavoli con ciò che v'è, dolendosi forte, e massimamente de' cavoli de' quali spesso mangiava gran minestre; e stette alcun dí, mostrando non sapere chi ciò gli avesse fatto. Alla per fine pensò che la cosa non rimanesse qui. Una sera ebbe due contadini, e pregolli fussino con lui, e cosí fu; ché venuta la notte, con due sacca e con coltellini andorono all'orto di Giovanni Manfredi, dove era un campo d'agli di smisurata bellezza, e de' quali il detto Giovanni sempre ragionava, e questi agli divegliendo a uno a uno, tagliarono li capi e mettevano ne' sacchi, e 'l gambo rificcavono nella terra, e cosí tutti gli ebbono divelti e portati i capi e lasciati i gambi nel luogo loro.

Da ivi a due dí, essendo e Giovanni e Minonna al Trebbio, dove usavono, il Minonna si dolea de' cavoli suoi. Dice Giovanni Manfredi:

- Io vorrei che mi fussino stati innanzi tolti gli agli miei, che si guastassino come pare che si guastino.

Dice il Minonna:

- Come? egli erano cosí belli.

E quelli dice:

- E’ sono tutti appassati da ieri in qua.

Dice il Minonna:

- Saranno forse bruciolati.

Costui se ne va, e comprende troppo bene che 'l Minonna abbia fatto qualche cosa; ed entrato nell'orto, tira uno aglio, tirane due, e' poté assai tirare che trovasse il capo a niuno. Subito immaginò quel che era; e l'altro dí, essendo al Trebbio, non si poté tenere il Giogo che non dicesse:

- Minonna, almeno ne avestú lasciato qualche uno.

Disse il Minonna:

- Ha' tu il farnetico?

Disse il Giogo:

- Io l'ho bene, quando tu m'hai tolto gli agli miei.

Dice il Minonna:

- Di' tu de' cavoli miei? mandastegli tu a vendere alla Ciacca?

- Che Ciacca, che sia mort'a ghiado?

- Anzi sia tu.

- Anzi tu -; e vanno l'un contro all'altro per darsi.

Aveano centocinquant'anni tra amendue, e uno era cieco, e l'altro avea gli occhi arrovesciati che pareano foderati di scarlatto. La gente fu su, feciono fare la pace; al Minonna rimasono gli agli, al Giogo i cavoli... e mai non si vollono bene, e sempre borbottavano... niuno per ammendarsi, aveano i piè nella fossa, e imbolavano agli e cavoli: averebbono ben tolto altro, perché cane che lecchi cenere non gli fidar farina.

 

 

NOVELLA XCII

 

Soccebonel di Frioli, andando a comprare panno da uno ritagliatore, credendolo avere ingannato nella misura, e 'l ritagliatore ha ingannato lui grossamente.

 

Fu in Frioli nel castello di Spilinbergo già uno ritagliatore fiorentino; e andando uno friolano, che avea nome Soccebonel, a comprare panno, cominciò a domandare del panno di qualche bel colore, però che volea fare una cioppa da barons. Lo ritagliatore dice:

- Vuo' tu celestrino?

- No.

- Vuogli verde?

- No.

- Vuogli sbiadato?

- No.

- Vuogli cagnazzo?

- No.

- Vuogli una cappa di cielo?

- Sí, sí, sí.

Avvisossi al nome, che vi fosse il sole e la luna, e le stelle, e forse gran parte del Paradiso. Fatto venire questo cappa di cielo, furono in concordia del pregio per quattro canne. Il ritagliatore truova la canna, e dice a Soccebonel:

- Piglia costí, e comincia a metter su la canna.

Il friolano metteva, e tirava il panno piú su che la canna, quando uno sommesso, e quando piú, e stavasi tanto attento che ad altro non guatava. Il fiorentino, che nel principio subito se ne fu avveduto, quando mettea il panno su la canna lasciava mezzo braccio della canna a drieto, e quando piú, sí che ogni quattro braccia tornavano al buon uomo forse tre e mezzo. Misurate le quattro canne, e pagato, il friolano se ne fa portare il panno; e perché lo 'nganno s'occultasse, dice il venditore:

- Vuo' tu far bene? attuffalo in una bigoncia d'acqua e lascialo stare tutta notte, sí che bea bene, e vedrai poi panno ch'el fa.

Costui cosí fece; e la mattina lo scola alquanto dall'acqua, e mandalo al cimatore, che l'asciughi nella soppressa e che lo cimi. Cimato il panno, e Soccebonel va per esso, e dice:

- Che de' tu avere?

Dice el cimatore:

- E’ mi par nove braccia; da' nove soldi.

Dice costui:

- Come nove braccia? oimè! che di' tu?

Il cimatore il truova, e dice:

- Vedilo, misuralo tu.

Rimisuralo, e non lo truova piú; e dice:

- Per lo corpo della madre di Jesu Cristo, che mi serà stato furato.

E va al ritagliatore, e va di qua, e va di là; l'uno gli dicea:

- Questi panni fiorentini non tornano nulla all'acqua.

E il ritagliatore dicea:

- Guarda dov'egli stette la notte che 'l mettesti in molle, che chi che sia non l'avesse imbolato.

Un altro dicea:

- Questi cimatori sono tutti ladri.

E un compagno del ritagliatore, che forse sapea il fatto, dicea:

- Vuo' ti dica il vero, gentiluomo? Ché non è molto che io udi' dire che uno levò un braccio di panno fiorentino, e la sera l'attuffò, come tu facesti questo, in uno bigonciuolo d'acqua, e lasciovvelo stare tutta notte, la mattina quando andava per trarlo dell'acqua, egli lo trovò tanto rientrato che non vi trovò nulla.

Dice Soccebonel:

- Au, può esser cest?

E que' rispose:

- Sí, può esser canestre.

Or cosí costui credendo ingannare, rimase ingannato, e fu per impazzarne; e la cappa di cielo tornò che non arebbe coperto un ciel d'un piccol forno; e la cappa da barons si convertí in un mantellino, che parea un saltamindosso.

E cosí avviene spesse volte che tanto sa altri quant'altri.

 

 

NOVELLA XCIII

 

 

Maso del Saggio fa una gran ragunata di cittadini che abbiano grandi nasi in Santo Piero Scheraggi, e poi con piacevolezza dimostra loro ch'egli hanno grandissimi nasi.

 

In Firenze fu già uno piacevole e sollazzevole uomo, che ebbe nome Maso del Saggio, e fu sensale. Veggendo costui per la nostra terra una brigata di cittadini che aveano grandissimi nasi, pensò di ragunarli insieme tutti una mattina, e preso tempo d'uno dí, a uno a uno gli andò invitando, dicendo:

- Uno cittadino molto dabbene ti priega, che tu sie domattina con gli altri che vi fiano in San Piero Scheraggio. E perché tu non sappi al presente chi sia il cittadino, non te ne caglia, però che non si dice chi, per alcuna cagione.

E cosí a uno a uno disse a tutti. Costoro udendo cosí nuova...

 

 

NOVELLA XCVII( frammento)

 

 

... bocca, facendo: Sciu, u, u, u. Il prete, o frate che vogliamo dire, come la vede con quest'atti, dice in verso la ciovetta:

- E tu l'ha' tue?

E scagliando il calice verso lei con tutto il vino disse:

- E tu t'abbi or questo al nome del diavolo.

Come ebbe scagliato il calice, e quelli vede l'ostia in su l'altare, e non comprendendo ch'ella fosse stata sotto il calice, dice:

- Ecco che ci ha aúto paura, e perciò l'ha reportato qui -; e volgendosi al popolo disse per miracolo come la ciovetta avea furata l'ostia, e che per paura della gittata di quel calice verso li suoi occhi strabuzzanti l'avea renduta, e riposta su l'altare, e aveasi ritenuto il vino.

La ciovetta parea che intendesse queste cose, guardando ora il prete, ora il cherico, ora il populo, continuo, ora chinando il capo a terra, e ora levandolo in alto, schiacciando col becco, facea: Sciu, u, u, u. Quelli che erano con qualche intendimento ivi alla messa, non poteano tenere le risa. Altri villani croi e grossi diceano:

- O nella mal'ora, a che ci tiene frate Sbrilla la ciovetta presso all'altare, s'ella ci fura il corpo di Cristo?

E troppo bene lo credeano.

Frate Sbrilla, minacciata la ciovetta che non starebbe piú in quel luogo, fecesi dare le ampolluzze al cherico, e riforní il calice col vino, e compieo la messa.

E a questo modo, e tra cosí fatte mani, e cosí discreti sacerdoti è condotto il nostro Signore; che spegnere se ne possa il seme!

 

 

NOVELLA XCVIII

 

Benci Sacchetti trae ad una brigata un ventre della pentola e mandaselo a casa per il fante, e in iscambio di quello mette nella pentola una cappellina.

 

Nella città di Vinegia furono già certi mercatanti fiorentini, i quali per lunga dimora aveano presa amistà e compagnia insieme, per tale che le piú volte mangiavano insieme, e spesso recava ciascuno la parte sua, e accozzavano insieme, e faceano tanisca, e per quello che io udisse già io scrittore da mio padre, il quale fu principio della presente novella, egli era uno Giovanni Ducci, Tosco Ghinazzi, Piero di Lippo Buonagrazia, Giovannozzo di Bartolo Fede, Noddo d'Andrea, ch'ancora è vivo, e Michel Cini, e Benci del Buon Sacchetti, e certi altri. Avvenne per caso che Giovanni Ducci, el Tosco, e Piero di Lippo, facendosi una vitella grandissima e bella, feciono borsa, e comperorono il ventre per mangiarlo la seguente domenica a cena, e fra loro puosono che niente se ne dicesse: ché, se gli altri compagni il sapessono, non lo potremmo avere in pace, poco ne toccherebbe per uno.

Disse il Tosco:

- Cosí si vuol fare, ché io n'ho aúto voglia un gran pezzo: io intendo farne corpacciata.

E cosí tennono il segreto, e messer Gherardo Ventraia fu portato a casa Giovanni Ducci.

Quella medesima mattina, che era sabato, andando, com'è d'usanza, Benci e Noddo a vedere la beccheria, per comperare per la domenica, capitorono al desco dove la detta vitella si vendea.

Dice l'uno:

- O questa è bella carne.

- Ben di' vero.

- Quanto la libbra?

E comperaronne una pezza. E pesandola il beccaio, dice:

- Gnaffe! i compagni vostri ebbono poco fa il ventre.

Dice Benci:

- O chi?

E 'l beccaio dice:

- Giovanni Ducci, e tale, e tale.

- E a casa cui andò il ventre?

Dice il beccaio:

- A casa Giovanni Ducci; e là pare a me, che lo mangeranno doman da sera.

Dicono costoro:

- Or sia con Dio.

Tolgono la carne, e partonsi; e tornando a casa, dice l'uno all'altro:

- Questa cosa non vuole andare a questo modo.

Dice Noddo:

- Gnaffe! io piglierò la tenuta doman da sera a buon'otta.

Dice Benci:

- Noddo, e' la non vuole andare a cotesto modo; vuo' tu lasciar fare a me?

Dice Noddo:

- Sí bene.

Dice Benci.

- Non dir nulla; io credo far sí che noi aremo il ventre, ed egli avranno la broda; sta' cheto, e non dir nulla: fa' ch'io ti truovi domane due ore innanzi ora di cena, e farai com'io ti dirò, e vedrai il piú bel giuoco che tu vedessi mai -; e cosí si fermarono.

Benci, tornato a casa, va cercando d'uno fodero di cappellina vecchio bianco, e per avventura n'ebbe trovato una cappellina, la quale avea usato già il padre della donna sua che era grandissima e sucida; levonne il panno e tolse il fodero, e apparecchiò una bisaccia, e dentro vi misse il detto fodero; e trovò uno aguto di mezzo braccio, e feceli dalla punta un poco d'oncino, e misse nella bisaccia. Trovate queste masserizie, l'altro dí su l'ora imposta si trovò con Noddo, ed ebbono Michele Cini, che era sensale di mercatanzia, e strettisi insieme, dice Benci:

- Io non so, Michele, se tu sai questo fatto; la cosa sta sí e sí.

Michele fu tosto accordato. Dice Benci:

- Tu anderai un poco innanzi, e chiamerai la Benvegnuda, che ti rechi la chiave del fondaco, e che tu voglia vedere qualche balla di mercatanzia; Noddo e io intreremo dentro, e tu la tieni a bada quanto puoi; volgi e rivolgi le balle, e digli che t'aiuti; e andremo su alla cucina, e lascia fare a noi.

E cosí ordinorono, menando Benci un suo fante in mantello con la bisaccia e con l'altre masserizie. E Michele Cini giugne, e picchia l'uscio, e chiama la Benvegnuda, che rechi la chiave del fondaco. La Benvegnuda viene subito con le chiavi. Dice Michele:

- Va' apri, ché voglio veder certe balle per farle vendere a Giovanni.

Dice la Benvegnuda:

- Serrate l'uscio.

Dice Michele:

- Giovanni è presso, che ne viene co' mercatanti; lascialo pur stare aperto.

E cosí fece.

Andato ella per aprire il fondaco, la brigata della bisaccia entrano dentro, e vanno alla cucina. Quando Michele vede andato su Benci con gli altri, va nel fondaco, che la Benvegnuda avea aperto, e quivi volgi e rivolgi, aiutandogli la fante per buon spazio. Benci e gli altri, ch'erano in cucina, trovorono messer Gherardo che bollia forte, e Benci subito recasi in mano le masserizie, che parea volesse travagliare, e cava fuori l'aguto uncinuto e lo fodero della cappellina; e cacciato nella pentola il detto uncino, piglia messer Gherardo con la sua donna monna Muletta; e traendolo fuori del laveggio, il mise nella bisaccia, e diello al fante, e disse:

- Vanne a casa, e non dir nulla.

Andato il fante, Benci caccia il fodero della cappellina arrovesciato nella pentola, e pisciovvi entro, e coperta com'ella stava, s'uscirono della cucina, e scendendo la scala, per l'uscio ancora aperto se n'uscirono fuori. Michele, che era con la Benvegnuda nel fondaco, quando crede essere stato assai dice:

- Per certo Giovanni Ducci ha aúto qualche storpio; serra il fondaco, e io anderò a saper quello che fa.

La Benvegnuda cosí fece. Michele s'andò con Dio, e sul Rialto trovato Noddo, che scoppiava di risa, dice:

- Ov'è Benci?

Dice Noddo:

- È ito a casa a far trarre il ventre della bisaccia, e metterlo in una pentola a fuoco, perché se avesse manco di cotto, che si cuoca; e dissemi, quando fosse ora, noi andassimo là a cena.

E cosí feciono: ché su l'ora della cena Noddo e Michele con la maggior festa del mondo andarono a manicare il detto ventre, aspettando la gran festa che doveano avere di questa novella. Dall'altra parte la brigata che avea comperato il ventre, s'avviano andare a cena. Dicea Piero per la via:

- Io ho aúto voglia d'un ventre ben un anno, e non m'è venuto fatto d'averlo.

Dice il Tosco:

- Altrettal te la dico.

Dice Giovanni:

- Istasera ce ne caveremo la voglia -; e cosí ragionando, giunsono a casa: - O Benvegnuda, fa' che noi ceniamo.

Data l'acqua alle mani, si posono a tavola. La Benvegnuda avea subito fatta la suppa, come si fa, con le spezie e tutto; e caccia il manico del romaiolo nella pentola, trae fuori, e mette in uno catino sí subito che avveduta non si fu di quello che era; ma subito porta a tavola quello e la suppa; e costoro cominciano a manomettere la suppa, e manicando truovano i taglieri, e fatto venire dell'aceto, e tutti scoperto il catino, e prese le coltella per tagliare un pezzo del ventre, mena il coltello, partire non si potea, e stettono buon pezzo.

Alla per fine dice uno:

- O che è cotesto?

Dice l'altro:

- Non so io, piglialo, e tiralo su.

- Buon buono! o che diavolo è questo? a me par'egli una cappellina.

- Una cappellina?

Chi avea della suppa in bocca, getta fuori:

- Alle guagnele, che noi ce n'abbiamo una...

Chiama la Benvegnuda; ed ella giugne:

- Buon pro vi faccia.

- Tu sia la malvenuta, - dice Giovanni Ducci, - o che ci hai tu recato in tavola?

Dice quella:

- Hovvi recato un ventre che voi mi mandaste.

Dice il Tosco, ch'era levato ritto, e stava dal lato di fuori:

- Guata se egli è ventre.

E levalo suso alto.

Dice la Benvegnuda:

- Oimè, che vuol dir questo?

Dice il Tosco:

- Vuol dir panico pesto -; e aperta questa cappellina, essendo la fante volta per tornar nella cucina, gli lo cacciò in capo.

La fante gettalo in terra:

- Che diavolo è questo che voi fate?

Dice Giovanni:

- Vie' qua: dimmi il vero, chi c'è venuto?

Ed ella dice:

- Venneci Michele Cini.

Dicono costoro:

- I nostri compagni ce l'hanno calata.

E sappiendo come Michele era venuto, e ciò che avea fatto e detto, l'ebbono per lo fermo; dicendo Piero:

- Io ho ben veduto Noddo molto ridere da dianzi in qua.

Dice l'altro:

- Come che ci abbiano fatto la piú sucida beffa che noi avessimo mai, io credo ci abbiano fatto molto bene; avevamo diviso la compagnia per un ventre.

Dice Giovanni:

- Truovaci qualche marzolino; e metti questa cappellina in bucato, ché io la vorrò rendere al Benci, che debb'essere stato il principio di tutto questo fatto.

Dissono gli altri:

- Me' faremo a mandarlilo ora -; e tolgono uno piattello, e coprono; e dicono: - Va', di' a Benci che Giovanni Ducci gli manda del ventre della vitella.

E cosí giugnendo a Benci con l'ambasciata e col presente, dice Benci:

- Di' che gran merzè; ma che 'l tavernaio l'ingannò, ché cotesto è di pecora, e non è di vitella.

Ritorna il fante, e dice quello che Benci e gli altri hanno detto, e ch'egli era di pecora. Dice il Tosco:

- Ed egli ben ci ha trattato come pecore.

E con tutto questo, quelli che l'ebbono, e quelli che 'l doveano mangiare, furono troppo contenti di sí bella beffa; e poi, trovandosi l'uno con l'altro, tutti rideano a un modo, per tale che tutta Vinegia otto dí n'ebbe piacere.

Oggi se ne ucciderebbono gli uomini; e nota che da questo si dice: “Egli ha fatto una sucida beffa” però che quella cappellina era sucidissima.

E cosí si davano i mercatanti diletto, e insieme, di ciò che si faceano, erano contenti, e aveanlo a caro. Ma io credo bene che poi sia intervenuto il contrario; però che le risa son quasi per tutto convertite in pianto per li difetti umani, o per li iudicii divini.

 

 

NOVELLA XCIX

 

Bartolino farsettaio, veggendo la sua donna esser molto nera, con belle parole la morde, come ch'ella non mostrasse intenderle.

 

Bartolino farsettaio menò moglie una donna vedova, la quale era nerissima; e la sera andando al letto, questa donna era tutta spogliata, e sedea sul letto, segnandosi, dicendo sue orazioni. Bartolino era già coricato, e non coricandosi la donna, e quelli la guata, e pareagli ch'ella fosse in gonnella monachina, però che le carne sua aveano quel colore. Dice Bartolino:

- Spogliati, e vatti al letto.

Dice la donna:

- Io sono spogliata.

Bartolino la tocca; ed ella squittisce.

- O di' tu di vero? entra sotto.

Ed ella entrò.

Questo ho detto per tanto ch'ella era nerissima, tanto che fra l'altre volte Bartolino desinando una mattina carne di castrone, e oltre disse facesse molto bene della salsa, ché n'era vago. Venneli innanzi piccola scodellina di salsa. Dice Bartolino:

- O che vuol dir questo, che io ho sí poca salsa?

La donna disse:

- E’ non si trovorono dell'erbe.

Dice Bartolino:

- E’ mi pare bene che se ne trovassino, che tu te l'hai mangiata, per tal segnale che tu hai il viso tutto verde.

Dice la donna:

- E’ non è quel che tu credi.

- O che è?

- È che io mi voglio levare questa carne salvatica di sopra, che per lo stare in contado è arrozzita.

Dice Bartolino:

- Datte ben fatica, che poi che tu foste mia moglie t'ha' fatto piú volte il dibuccio, come che tu creda che io non me ne sia avveduto; e quanto piú cavi, piú mi pare che truovi il nero; e però per lo mio amore, donna mia, non cavare piú, però che tu potrai trovare lo 'nferno, tanto anderai giú.

La donna disse:

- Deh, ben istà; io voglio pur comparire come l'altre, e non voglio parere una manimorcia.

Dice Bartolino:

- Or fa' che ti piace, ch'egli è meglio a mio parere che tu cuopra il tristo, anzi che tu lo scuopra.

La donna disse:

- Non so che tristo; se io sarò trista, io me n'avrò il danno.

E se mai si fece uno dibuccio, da questa volta in là se ne fece quattro, tanto che ella diventò un'aringa nera, e col suo senno s'andò sempre al mercato, parendoli esser bellissima; e Bartolino stette contento, e alla mostarda e alla salsa.

Molto è ingannata la donna di sé per lo vizio della vanagloria; e quanto piú si vede nello specchio sozza, meno si conosce; ma con nuove arti s'ingegna pur di comparire, non lasciando stare né 'l viso, né alcuno membro come Dio l'ha creato; e non pensa che la piú bella che sia, in piccol tempo, come un fiore, vien meno, e diventa secca nell'ultima vecchiezza, e in fine diventa uno testio.

 

 

NOVELLA C

 

Romolo del Bianco dice al frate in Santa Reparata, predicando dell'usura, che predichi di quelli che accattono, però che ivi erano tutti poveri.

 

Una piccola novelletta m'è venuto voglia di raccontare di uno vecchierello fiorentino, il quale ha bene ottant'anni, ed è ancora vivo, e ha nome Romolo del Bianco. Costui ha le piú nuove parole del mondo alle mani, e la maggior parte come filosofiche. Andando di quaresima costui alla predica che si fa la sera alla chiesa maggiore di Santa Reparata, alla qual predica vanno tutti poveri lavoranti di lana, poi che sono usciti, e serrate le botteghe, e fanti e fante e servigiali ancora a quella vanno; uno giovane frate romitano ogni sera predicava dell'usura, e che ciascuno si guardasse dal prestare, però ch'ell'era quella cosa che conducea l'uomo a dannazione; e poi ritornava pure in usura e su' contratti inleciti. Quando Romolo del Bianco assai ha bene udito di questa usura, levasi su, e dice:

- Messer lo frate, io ve l'ho creduto dire già è parecchie sere, ma sommene tenuto, ché credea che voi uscisse a predicare d'altra matera che dell'usura; ora mi pare che voi non sete per predicare d'altro; io vi voglio far chiaro che voi vi perdete le parole, però che quanti voi ne vedete a questa predica accattano, e non prestano, ché non hanno che, e io sono il primo. E però, se voi ci sapete dare alcuno conforto sopra li nostri debiti e sopra che dobbiamo dare altrui, io ve ne priego; quanto che no, e io e gli altri che ci sono, potremo fare senza venire alla vostra predica.

Il frate, e tutta la predica, come smemorati guatavono onde questa boce venía, però che v'era buio, che quasi non vedea l'un l'altro; e pur scorsono che era Romolo del Bianco, dicendo tutti:

- Egli ha molto ben ragione, ché non c'è alcuno di noi che non abbia piú debito che la lepre.

E 'l frate da quindi innanzi predicò della povertà, come con pazienza si volea comportare; dicendo spesso: “Beati pauperes, ecc. ”, e fu loro grandissimo conforto per le parole che Romolo avea predicate al predicatore.

E però conviene che il predicatore sia sí discreto che se predica a una gente in una terra, che sieno ricchi per usure, molto li riprenda su questo, e se predica a' poveri, li conforti su la povertà; se sono macolati di sfrenate concupiscenze, contro a quelle dicano, e da estorsioni, sí di ruberie, e di guerre, e cosí degli altri vizii de' fare il simile; acciò che non sia ripreso da uno pover uomo come fu colui.


 

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