Franco Sacchetti
Proemio
Considerando al presente tempo e alla
condizione dell'umana vita, la quale con pestilenziose infirmità e con
oscure morti è spesso vicitata; e veggendo quante rovine con quante
guerre civili e campestre in essa dimorano; e pensando quanti populi e famiglie
per questo son venute in povero e infelice stato e con quanto amaro sudore
conviene che comportino la miseria, là dove sentono la lor vita esser trascorsa;
e ancora immaginando come la gente è vaga di udire cose nuove, e
spezialmente di quelle letture che sono agevoli a intendere, e massimamente
quando danno conforto, per lo quale tra molti dolori si mescolino alcune risa;
e riguardando in fine allo eccellente poeta fiorentino messer Giovanni
Boccacci, il quale descrivendo il libro delle Cento Novelle per una materiale
cosa, quanto al nobile suo ingegno... quello è divulgato e richie... che
infino in Francia e in Inghilterra l'hanno ridotto alla loro lingua, e
grand...so; io Franco Sacchetti fiorentino, come uomo discolo e grosso, mi
proposi di scrivere la presente opera e raccogliere tutte quelle novelle, le
quali, e antiche e moderne, di diverse maniere sono state per li tempi, e
alcune ancora che io vidi e fui presente, e certe di quelle che a me medesimo
sono intervenute.
E non è da maravigliare se la maggior
parte delle dette novelle sono fiorentine... che a quelle sono stato
prossima... e se non al fatto piú presso a la... e perché in esse
si tratterà di... condizioni di genti, come di... marchesi e conti e
cavalieri, e di... grandi e piccoli, e cosí di grandi donne, mezzane e
minori, e d'ogni altra generazione; nientedimeno nelle magnifiche e virtuose
opere seranno specificati i nomi di quelli tali; nelle misere e vituperose,
dove elle toccassino in uomini di grande affare o stato, per lo migliore li
nomi loro si taceranno; pigliando esempio dal vulgare poeta fiorentino Dante,
che quando avea a trattare di virtú e di lode altrui, parlava egli, e quando
avea a dire e' vizii e biasimare altrui, lo faceva dire alli spiriti.
E perché molti e spezialmente quelli, a
cui in dispiacere toccano, forse diranno, come spesso si dice: “queste son
favole”, a ciò rispondo che ce ne saranno forse alcune, ma nella verità
mi sono ingegnato di comporle. Ben potrebbe essere, come spesso incontra, che
una novella sarà intitolata in Giovanni, e uno dirà: ella
intervenne a Piero; questo serebbe piccolo errore, ma non sarebbe che la
novella non fosse stata. E altri potran dire...
Lo re Federigo di Cicilia è trafitto
con una bella storia da ser Mazzeo speziale di Palermo.
Di valoroso e gentile animo fu il re Federigo
di Cicilia nel cui tempo fu uno speziale in Palermo, chiamato ser Mazzeo, il
quale avea per consuetudine ogni anno al tempo de' cederni, con una sua zazzera
pettinata in cuffia, mettersi una tovagliuola in collo e portare allo re
dall'una mano in un piattello cederni e dall'altra mele; e lo re questo dono
ricevea graziosamente.
Avvenne che questo ser Mazzeo, venendo nel
tempo della vecchiezza, cominciò alquanto a vacillare, e non sí
però che l'usato presente di fare non seguisse. Fra l'altre volte,
essendosi molto ben pettinato, e assettata la chioma sotto la cuffia, tolse la
tovagliuola e' piattelli de' cederni e delle mele per fare l'usato presente; e
messosi in cammino, pervenne alla porta del palazzo del re.
Il portinaio, veggendolo, cominciò a
fare scherne di lui e a tirargli il bendone della cuffia; e contendendosi da
lui, e un altro il tirava d'un'altra parte, però che quasi il tenevano
insensato; e cosí datoli la via, or da uno e ora da un altro fu tanto
tirato e rabbuffato che tutto il capo avea avviluppato; e con tutto questo,
s'ingegnò di portar pure a salvamento il presente, giugnendo dinanzi al
re con debita reverenza. Lo re, veggendolo cosí schermigliato, disse:
- Ser Mazzeo, che vuol dir questo, che tu sei
cosí avviluppato?
Rispose ser Mazzeo:
- Monsignore, egli è quello che voi
volete.
Lo re disse:
- Come è?
Ser Mazzeo disse:
- Sapete voi qual è la piú bella
storia che sia nella Bibbia?
Lo re, che era di ciò intendentissimo,
rispose:
- Assai ce ne sono, ma il superlativo grado
non saprei ben quale.
Allora ser Mazzeo disse:
- Se mi date licenzia vel dirò io.
Rispose lo re:
- Di' sicuramente ciò che tu vuogli.
E ser Mazzeo dice:
- Monsignore lo re, la piú bella
istoria che sia in tutta la Bibbia è quando la reina di Saba, udendo la
sapienza mirabile di Salamone, si mosse cosí da lungi per andare a
vedere le terre sue e lui in Egitto; la quale, giugnendo alle terre governate
per Salamone, tanto trovava ogni cosa ragionevolmente disposta che quanto
piú vedea, piú si maravigliava, e piú s'infiammava di
vedere Salamone, tanto che, giugnendo alla principal città, pervenne al
suo palazzo, e di passo in passo ogni cosa mirando e considerando, vidde li
servi e' sudditi suoi molto ordinati e costumati; tanto che, giunta in su la
gran sala, fece dire a Salamone come ella era e perché quivi venuta. E
Salamone subito uscío della camera e faglisi incontro; il quale la detta
reina veggendo, si gittò inginocchioni, dicendo ad alta voce: “O
sapientissimo re, benedetto sia il ventre che portò tanta prudenza,
quanta in te regna”.
E qui ristette ser Mazzeo.
Disse allora il re Federigo:
- Be', che vuoi tu dir, ser Mazzeo?
E ser Mazzeo rispose:
- Monsignor lo re, voglio dire che se questa
reina comprese bene, per l'ordine e costume delle terre e de' sudditi di
Salamone, esser lui il piú savio uomo del mondo; io per quella medesima
forma posso considerare voi essere il piú matto re che viva, pensando
che io, vostro minimo servo, venendo con questo usato dono alla vostra
maestà, li servi vostri m'abbino concio come voi vedete.
Lo re, veggendo e considerando ser Mazzeo, lo consolò con parole, volendo sapere chi e come era stato, quelli tali fece dinanzi a sé venire, e corressegli e puní innanzi a ser Mazzeo, e del suo servizio gli cacciò; comandando a tutti gli altri che quando ser Mazzeo volesse venire a lui, giammai porta non gli fusse tenuta e sempre a lui facessono onore: e cosí seguirono di fare, maravigliandosi il detto del fine di sí notabile istoria, a proposito detta per un vecchierello a cui la mente già diffettava. Fu cagione questo ser Mazzeo, col suo dire, che questo re d'allora innanzi tenne molto meglio accostumata la sua famiglia che prima non tenea: ed è talor di necessità che si truovino uomeni di questa forma.
Parcittadino da Linari vagliatore si fa uomo
di corte, e va a vedere lo re Adoardo d'Inghilterra, il qual, lodandolo, ha da
lui molte pugna, e poi, biasimandolo, riceve dono.
Lo re Adoardo vecchio d'Inghilterra fu re di
gran virtú e fama, e fu tanto discreto che la presente novella ne
dimostrerrà in parte. Fu adunque nel suo tempo uno vagliatore a Linari
in Valdensa nel contado di Firenze, il quale aveva nome Parcittadino. Venne a
costui volontà di lasciare in tutto il vagliare ed esser uomo di corte,
e in questo diventò assai sperto; e cosí spermentandosi nell'arte
cortigiana, gli venne gran volontà di andare a vedere il detto re
Adoardo; e non sine quare , ma perché avea udito molto delle sue
magnanimità, e spezialmente verso li suoi pari. E cosí pensato,
una mattina si misse in cammino, e non ristette mai che elli pervenne in
Inghilterra alla città di Londra, dove lo re dimorava; e giunto al
palagio reale, dove il detto re dimorava, di porta in porta trapassando, giunse
nella sala, dove lo re il piú del tempo facea residenza; e trovollo fiso
giucare a scacchi con lo gran dispensiere.
Parcittadino, giunto dinanzi al re, inginocchiandosi
con le reverenti raccomandazioni, quella vista o quella mutazione fece il re
come prima che giugnesse: di che stette Parcittadino per grande spazio in tal
maniera. E veggendo che lo re alcun sembiante non facea, si levò in
piede e cominciò a dire:
- Benedetto sia l'ora e 'l punto che qui m'ha
condotto, e dove io ho sempre desiderato, cioè di vedere il piú
nobile e 'l piú prudente e 'l piú valoroso re che sia fra
cristiani; e ben mi posso vantare piú che altro mie pari, dappoi che io
sono in luogo dove io veggio il fiore di tutti li altri re. O quanta gloria mi
ha conceduta la fortuna! ché oggimai, se io morisse, con poca doglia
verrei a quel passo, dappoi che io sono innanzi a quella serenissima corona la
quale, come calamita tira il ferro, cosí con la sua virtú tira
ciascuno con desiderio a veder la sua dignità.
Appena ebbe insino a qui Parcittadino condotto
il suo sermone, che lo re si levò dal giuoco, e piglia Parcittadino, e
con le pugna e calci, cacciandolo per terra, tante gliene diede che tutto il
pestò; e fatto questo, subito ritornò al giuoco delli scacchi.
Parcittadino assai tristo, levandosi di terra, appena sapea dove si fosse;
parendoli aver male spesi i passi suoi, e similmente le lode date al re, si
stava cosí tapino, non sapendo che si fare. E pigliando un po' di cuore,
volle provare se, dicendo il contrario al re, gliene seguisse meglio, da che
per lo ben dire glien'era colto male; incominciando a dire:
- Maladetto sia l'ora e 'l dí che in
questo luogo mi condusse, che credendo esser venuto a vedere un nobile re, come
la fama risuona, e io sono venuto a vedere un re ingrato e sconoscente: credea
esser venuto a vedere un re virtuoso, e io sono venuto a vedere un re vizioso:
credea esser venuto a vedere un re discreto e sincero, e io sono venuto a
vedere un re maligno, pieno di nequizia: credea esser venuto a vedere una santa
e giusta corona, e io ho veduto costui che male per ben guiderdona; e la prova
il dimostra, che me piccola creatura, magnificando e onorando lui, m'ha sí
concio ch'io non so se mai potrò piú vagliare, se mai al mio
mestiero antico ritornare mi convenisse.
Lo re si lieva la seconda volta piú
furioso che la prima, e va a una porta, e chiama un suo barone. Veggendo questo
Parcittadino, qual elli diventò non è da domandare, però
che parea un corpo morto che tremasse, e s'avvisò essere dal re
ammazzato; e quando udí lo re chiamare quel barone, credette chiamasse
qualche justiziere che lo crucifiggesse.
Giunto il barone chiamato dal re, lo re gli
disse:
- Va', da' la cotal mia vesta a costui, e
pagalo della verità, ch'io l'ho ben pagato della bugia io.
Il barone va subito, e recò a
Parcittadino una robba reale delle piú adorne che lo re avesse, con
tanti bottoni di perle e pietre preziose che, sanza le pugna e' calci ch'egli
ebbe, valea fiorini trecento o piú. E continuo sospettando Parcittadino
che quella robba non fosse serpe o badalischio che 'l mordesse, a tentone la
ricevette. Dappoi rassicuratosi e messasela indosso, e dinanzi allo re si appresentò,
dicendo:
- Santa corona, qualora voi mi volete pagare a
questo modo delle mie bugie, io dirò rade volte il vero.
E conobbe lo re per quello che avea udito, e
lo re ebbe piú diletto di lui.
Dappoi, stato quello che gli piacque, prese
commiato e dal re si partí, tenendo la via per la Lombardia; dove
andò ricercando tutti li signori, raccontando questa novella, la quale
gli valse piú di altri fiorini trecento; e tornossi in Toscana, e
andò a rivedere con quella robba gli suoi parenti vagliatori da Linari,
tutti polverosi di vagliatura e poveri; li quali maravigliandosi, Parcittadino
disse loro:
- Tra molte pugna e calci fui in terra, poi
ebbi questa robba in Inghilterra.
E fece bene a assai di loro; poi si
partí e andò a procacciare sua ventura.
Questa fu cosí bella cosa a uno re,
come potesse avvenire. E quanti ne sono che, essendo lodati come questo re, non
avessono gonfiato le gote di superbia? Ed elli sappiendo che quelle lode
meritava, volle dimostrare che non era vero, usando nella fine tanta
discrezione. Assai ignoranti, essendo lodati nel loro cospetto da piasentieri,
se lo crederanno; costui, essendo valoroso, volle dimostrare il contrario.
Messer Bernabò signore di Melano
comanda a uno abate che lo chiarisca di quattro cose impossibili; di che uno
mugnaio, vestitosi de' panni dello abate, per lui le chiarisce in forma che
rimane abate e l'abate rimane mugnaio.
Messer Bernabò signore di Melano,
essendo trafitto da un mugnaio con belle ragioni, gli fece dono di grandissimo
benefizio. Questo signore ne' suoi tempi fu ridottato da piú che altro
signore; e come che fosse crudele, pur nelle sue crudeltà avea gran
parte di justizia. Fra molti de' casi che gli avvennono fu questo, che uno
ricco abate, avendo commesso alcuna cosa di negligenza di non avere ben
notricato due cani alani, che erano diventati stizzosi, ed erano del detto
signore, li disse che pagasse fiorini quattromila. Di che l'abate
cominciò a domandare misericordia. E 'l detto signore, veggendolo
addomandare misericordia, gli disse:
- Se tu mi fai chiaro di quattro cose, io ti
perdonerò in tutto; e le cose son queste che io voglio che tu mi dica:
quanto ha di qui al cielo; quant'acqua è in mare; quello che si fa in
inferno; e quello che la mia persona vale.
Lo abate, ciò udendo, cominciò a
sospirare, e parveli essere a peggior partito che prima; ma pur, per cessar
furore e avanzar tempo, disse che li piacesse darli termine a rispondere a
sí alte cose. E 'l signore gli diede termine tutto il dí
sequente; e come vago d'udire il fine di tanto fatto, gli fece dare
sicurtà del tornare.
L'abate, pensoso, con gran malenconia,
tornò alla badía, soffiando come un cavallo quando aombra; e
giunto là, scontrò un suo mugnaio, il quale, veggendolo
cosí afflitto, disse:
- Signor mio, che avete voi che voi soffiate
cosí forte?
Rispose l'abate:
- Io ho ben di che, ché 'l signore
è per darmi la mala ventura se io non lo fo chiaro di quattro cose, che
Salamone né Aristotile non lo potrebbe fare.
Il mugnaio dice:
- E che cose son queste?
L'abate gli lo disse.
Allora il mugnaio, pensando, dice all'abate:
- Io vi caverò di questa fatica, se voi
volete.
Dice l'abate:
- Dio il volesse.
Dice il mugnaio:
- Io credo che 'l vorrà Dio e' santi.
L'abate, che non sapea dove si fosse, disse:
- Se 'l tu fai, togli da me ciò che tu
vuogli, ché niuna cosa mi domanderai, che possibil mi sia, che io non ti
dia.
Disse il mugnaio:
- Io lascerò questo nella vostra
discrizione.
- O che modo terrai? - disse l'abate.
Allora rispose il mugnaio:
- Io mi voglio vestir la tonica e la cappa
vostra, e raderommi la barba, e domattina ben per tempo anderò dinanzi a
lui, dicendo che io sia l'abate; e le quattro cose terminerò in forma
ch'io credo farlo contento.
All'abate parve mill'anni di sustituire il
mugnaio in suo luogo; e cosí fu fatto.
Fatto il mugnaio abate, la mattina di buon'ora
si mise in cammino; e giunto alla porta, là dove entro il signore
dimorava, picchiò, dicendo che tale abate voleva rispondere al signore
sopra certe cose che gli avea imposte. Lo signore, volontoroso di udire quello
che lo abate dovea dire, e maravigliandosi come sí presto tornasse, lo
fece a sé chiamare: e giunto dinanzi da lui un poco al barlume, facendo
reverenza, occupando spesso il viso con la mano per non esser conosciuto, fu
domandato dal signore se avea recato risposta delle quattro cose che l'avea
addomandato.
Rispose:
- Signor sí. Voi mi domandaste: quanto
ha di qui al cielo. Veduto appunto ogni cosa, egli è di qui lassú
trentasei milioni e ottocento cinquantaquattro mila e settantadue miglia e
mezzo e ventidue passi.
Dice il signore:
- Tu l'hai veduto molto appunto; come provi tu
questo?
Rispose:
- Fatelo misurare, e se non è
cosí, impiccatemi per la gola. Secondamente domandaste: quant'acqua
è in mare. Questo m'è stato molto forte a vedere, perché
è cosa che non sta ferma, e sempre ve n'entra; ma pure io ho veduto che
nel mare sono venticinque milia e novecento ottantadue di milioni di cogna e
sette barili e dodici boccali e due bicchieri.
Disse il signore:
- Come 'l sai?
Rispose:
- Io l'ho veduto il meglio che ho saputo: se
non lo credete, fate trovar de' barili, e misurisi; se non trovate essere
cosí, fatemi squartare. Il terzo mi domandaste quello che si faceva in
inferno. In inferno si taglia, squarta, arraffia e impicca, né
piú né meno come fate qui voi.
- Che ragione rendi tu di questo?
Rispose:
- Io favellai già con uno che vi era
stato, e da costui ebbe Dante fiorentino ciò che scrisse delle cose
dell'inferno; ma egli è morto; se voi non lo credete, mandatelo a vedere.
Quarto mi domandaste quello che la vostra persona vale; e io dico ch'ella vale
ventinove danari.
Quando messer Bernabò udí
questo, tutto furioso si volge a costui, dicendo:
- Mo ti nasca il vermocan; sono io cosí
dappoco ch'io non vaglia piú che una pignatta?
Rispose costui, e non sanza gran paura:
- Signor mio, udite la ragione. Voi sapete che
'l nostro Signore Jesú Cristo fu venduto trenta danari; fo ragione che
valete un danaro meno di lui.
Udendo questo il signore, immaginò
troppo bene che costui non fosse l'abate, e guardandolo ben fiso, avvisando lui
esser troppo maggiore uomo di scienza che l'abate non era, disse:
- Tu non se' l'abate.
La paura che 'l mugnaio ebbe ciascuno il
pensi; inginocchiandosi con le mani giunte, addomandò misericordia,
dicendo al signore come egli era mulinaro dell'abate, e come e perché
camuffato dinanzi dalla sua signoria era condotto, e in che forma avea preso
l'abito, e questo piú per darli piacere che per malizia.
Messer Bernabò, udendo costui, disse:
- Mo via, poi ch'ello t'ha fatto abate, e se'
da piú dí lui, in fé di Dio, e io ti voglio confirmare, e
voglio che da qui innanzi tu sia l'abate, ed ello sia il mulinaro, e che tu
abbia tutta la rendita del monasterio, ed ello abbia quella del mulino.
E cosí fece ottenere tutto il tempo che
visse che l'abate fu mugnaio, e 'l mugnaio fu abate.
Molto è scura cosa, e gran pericolo,
d'assicurarsi dinanzi a' signori, come fe' questo mugnaio, e avere quello
ardire ebbe lui. Ma de' signori interviene come del mare, dove va l'uomo con
grandi pericoli, e ne' gran pericoli li gran guadagni. Ed è gran
vantaggio quando il mare si truova in bonaccia, e cosí ancora il
signore: ma l'uno e l'altro è gran cosa di potersi fidare, che fortuna
tosto non venga.
Alcuni hanno già detto essere venuta
questa, o simil novella, a... papa, il quale, per colpa commessa da un suo
abate, li disse che li specificasse le quattro cose dette di sopra, e una
piú, cioè: qual fosse la maggior ventura che elli mai avesse
aúto. Di che l'abate, avendo rispetto della risposta, tornò alla
badía, e ragunati li monaci e' conversi, infino al cuoco e l'ortolano,
raccontò loro quello di che avea a rispondere al detto papa; e che a
ciò gli dessono e consiglio e aiuto. Eglino, non sappiendo alcuna cosa
che si dire, stavano come smemorati: di che l'ortolano, veggendo che
ciascheduno stava muto, disse:
- Messer l'abate, però che costoro non
dicono alcuna cosa, e io voglio esser colui e che dica e che faccia, tanto che
io credo trarvi di questa fatica; ma datemi li vostri panni, sí che io
vada come abate, e di questi monaci mi seguano; e cosí fu fatto.
E giunto al papa, disse dell'altezza del cielo
esser trenta voci. Dell'acqua del mare disse: “Fate turare le bocche de' fiumi,
che vi mettono entro, e poi si misuri”. Quello che valea la sua persona, disse:
“Danari ventotto”; ché la facea due danari meno di Cristo, ché
era suo vicario. Della maggior ventura ch'egli avesse mai, disse: “Come
d'ortolano era diventato abate”; e cosí lo confermò. Come che si
fosse, o intervenne all'uno e all'altro, o all'uno solo, e l'abate
diventò o mugnaio o ortolano.
Castruccio Interminelli, avendo un suo
famiglio disfatto in uno muro il giglio dell'arma fiorentina, essendo per
combattere, lo fa combattere con un fante che avea l'arma del giglio nel
palvese, ed è morto.
Ora voglio mutare un poco la materia, e dire
come Castruccio Interminelli, signore di Lucca, castigò uno gagliardo
contro le mura. Questo Castruccio fu de' cosí savi, astuti e coraggiosi
signori come fosse nel mondo già è gran tempo; e guerreggiando e
dando assai che pensare a' Fiorentini, però che era loro cordiale
nimico, fra l'altre notabili cose che fece fu questa: che essendo a campo in
Valdinievole, e dovendo una mattina andare a mangiare in uno castello da lui
preso, di quelli del Comune di Firenze, e mandando un suo fidato famiglio
innanzi che apparecchiasse le vivande e le mense, il detto famiglio, giugnendo
in una sala, dove si dovea desinare, vide tra molte arme, come spesso si vede,
dipinta l'arme del giglio del Comune di Firenze, e con una lancia, che parea
che avesse a fare una sua vendetta, tutta la scalcinò.
Venendo l'ora che Castruccio con altri
valentri uomeni giunsono per desinare, il famiglio si fece incontro a
Castruccio e, come giunse in su la sala, disse:
- Signore mio, guardate come io ho acconcio
quell'arma di quelli traditori Fiorentini.
Castruccio, come savio signore, disse:
- Sia con Dio; fa' che noi desiniamo.
E tenne nella mente quest'opera, tanto che a
pochi dí si rassembrò la sua gente per combattere con quella del
Comune di Firenze; là dove, appressandosi li due eserciti, per avventura
venne che innanzi a quello de' Fiorentini venía uno bellissimo fante
bene armato con uno palvese in braccio, dove era dipinto il giglio.
Veggendo Castruccio costui essere de' primi a
venirli incontro, chiamò il suo fidato famiglio, che cosí bene
avea combattuto col muro, e disse:
- Vien qua; tu desti pochi dí fa tanti
colpi nel giglio ch'era nel muro che tu lo vincesti e disfacesti: va' tosto, e
armati come tu sai, e fa' che subito vadi a dispignere e vincere quello.
Costui nel principio credette che Castruccio
beffasse. Castruccio lo costrinse, dicendo:
- Se tu non vi vai, io ti farò impiccar
subito a quell'arbore.
Veggendosi costui mal parato, e che Castruccio
dicea da dovero, v'andò il meglio che poteo. Come fu presso al fante del
giglio, subito questo fante di Castruccio fu morto da quello con una lancia che
'l passò dall'una parte all'altra. Veggendo questo Castruccio, non fece
alcun sembiante d'ira o cruccio, ma disse:
- Troppo bene è andato -; e volsesi a'
suoi, dicendo: - Io voglio che voi appariate di combattere con li vivi, e non
con li morti.
O non fu questa gran justizia? ché sono
molti che danno per li faggi e per le mura e nelle cose morte, e fanno del
gagliardo, come se avessono vinto Ettore; e oggi n'è pieno il mondo, che
in questa forma, o contra minimi o pecorelle, sempre sono fieri; ma per
ciascuno di questi tali fosse uno Castruccio che li pagasse della loro follia,
come pagò questo suo famiglio.
Assai notabili cose fece ne' suoi dí
Castruccio; fra l'altre, dicea a uno, che a sua petizione avesse fatto un
tradimento:
- Il tradimento mi piace, ma il traditore no;
pagati e vatti con Dio, e fa' che mai tu non mi venga innanzi.
Oggi si fa il contrario, ché se uno
signore o Comune farà fare uno tradimento, fa il traditore suo
provvisionato e sempre il tiene con lui, facendoli onore. Ma a molti è
già intervenuto che quelli che hanno fatto fare il tradimento, dal
traditore poi sono stati traditi.
Marchese Aldobrandino domanda al Basso della
Penna qualche nuovo uccello da tenere in gabbia, il Basso fa fare una gabbia,
ed entrovi è portato a lui.
Marchese Aldobrandino da Esti, nel tempo che
ebbe la signoria di Ferrara, gli venne vaghezza, come spesso viene a' signori,
di avere qualche nuovo uccello in gabbia. Di che per questa cagione
mandò un dí per uno Fiorentino che tenea albergo in Ferrara, uomo
di nuova e di piacevolissima condizione, che avea nome Basso della Penna. Era
vecchio e piccolo di persona, e sempre pettinato andava in zazzera e in cuffia.
Giunto questo Basso dinanzi al marchese, il marchese sí gli dice:
- Basso, io vorrei qualche uccello per tenere
in gabbia, che cantasse bene, e vorrei che fosse qualche uccello nuovo, che non
se ne trovassono molti per l'altre genti, come sono fanelli e calderelli, e di
questi non vo cercando; e però ho mandato per te, perché diversa
gente e di diversi paesi ti vengono per le mani al tuo albergo; di che
possibile ti fia che qualcuno di questi ti metta in via, donde se ne possa
avere uno.
Rispose il Basso:
- Signore mio, io ho compreso la vostra
intenzione, la quale m'ingegnerò di mettere ad effetto, e
cercherò di far sí che subitamente serete servito.
Udendo il marchese questo, gli parve avere
già in gabbia la fenice, e cosí si partío. Il Basso,
avendo già immaginato ciò che far dovea, giunto che fu al suo
albergo, mandò per un maestro di legname, e disse:
- Io ho bisogno di una gabbia di cotanta
lunghezza, e tanto larga e tanto alta; e fa' ragione di farla sí forte
ch'ella sia sofficiente a un asino, se io ve l'avessi a metter dentro, e abbia
uno sportello di tanta grandezza.
Compreso che 'l maestro ebbe tutto, fu in concordia
del pregio, e andò a fare la detta gabbia; fatta che l'ebbe, la fe'
portare al Basso e tolse i denari.
Il Basso subito mandò per uno
portatore, e là venuto entrando nella gabbia, disse al portatore che 'l
portasse al marchese. Al portatore parve questa una nuova mercanzia e quasi non
volea; se non che 'l Basso tanto disse che pur lo portò. Il qual giunto
al marchese, con grande moltitudine di popolo che correa dietro alla
novità; il marchese quasi dubitò, non conoscendo ancora che cosa
fosse quella. Ma appressatosi la gabbia e 'l Basso ed essendo su portato presso
al marchese, il marchese, conoscendo ciò che era, disse:
- Basso, che vuol dir questo?
Il Basso, cosí nella gabbia, con lo
sportello serrato, cominciò a squittire, e disse:
- Messer lo marchese, voi mi comandaste pochi
dí fa che io trovasse modo che voi avesse qualche nuovo uccello in
gabbia, e che di quelli tali pochi ne fossono al mondo; di che, considerando
chi io sono e quanto nuovo sono, ché posso dire che nessuno ne sia
piú nuovo di me in su la terra, in questa gabbia intrai, e a voi mi
rappresento, e mi vi dono per lo piú nuovo uccello che tra' cristiani si
possa trovare; e ancora vi dico piú, che non ce n'ha niuno fatto com'io:
il canto mio fia tale, che vi diletterà assai; e però fate posare
la gabbia da quella finestra.
Disse il marchese:
- Mettetela sul davanzale.
Il Basso dice:
- Oimè, non fate, ché io potrei
cadere.
Dice il marchese:
- Mettetelo su, ché 'l davanzale
è largo.
E cosí messo su, accennò a un
suo famiglio che dondolasse la gabbia, e nientedimeno la sostenesse.
E 'l Basso dice:
- Marchese, io ci venni per cantare, e voi
volete ch'io pianga.
E cosí, quando il Basso fu rassicurato,
disse:
- Marchese, se mi darete mangiare delle
vivande che mangiate voi, io canterò molto bene.
Il marchese li fece venire un pane con un capo
d'aglio, e tennelo tutto quel dí su la finestra, facendo a lui di nuovi
giuochi; e tutto il popolo era sulla piazza a vedere il Basso nella gabbia; e
in fine la sera cenò col signore, e poi si ritornò all'albergo, e
la gabbia rimase al marchese, ché mai non la riebbe.
Il marchese da quell'ora innanzi ebbe il Basso
piú caro che mai, e spesso l'invitava a mangiare, e facevalo cantare
nella gabbia, e pigliava gran diletto di lui. Chi sapesse la disposizione de'
signori, quando fossono in buona tempera, ognora penserebbono di cose nuove,
come fece il Basso, che per certo ben serví il marchese, e non
andò in India per l'uccello; ma essendogli presso presso, fu servito del
piú nuovo e unico uccello che si potesse trovare.
Messer Ridolfo da Camerino, al tempo che la
Chiesa avea assediato Forlí, fa una nuova e notabile assoluzione sopra
una questione che aveano valentri uomeni d'una insegna.
Messer Ridolfo da Camerino, savissimo signore,
con poche parole e notabil judicio, contentò una brigata di valentri
uomeni di quello che domandorono sopra una questione, sí come il Basso
d'un nuovo uccello contentasse il marchese.
Al tempo che la Chiesa, e messer Egidio di
Spagna cardinale per quella, avea per assedio costretta la città di
Forlí per gran dimora; e di quella essendo signore messer Francesco
Ardelaffi, notabile signore, molti signori notabili e valentri uomeni a
petizione della Chiesa erano concorsi al detto assedio; ed essendo in una parte
raccolti con una questione quasi quelli che erano i maggiori del campo, e tra
loro essendo messer Unghero da Sassoferrato, il quale avea l'insegna del
Crocifisso, la quale è quella insegna che è piú degna che alcun'altra;
ed essendo gran contesa tra loro, però che quello che avea l'insegna
dicea aver caro quel beneficio fiorini duemila; altri diceano: io vorrei
innanzi fiorini duecento; e tali diceano fiorini cento, e tali fiorini
trecento, e chi dicea di meno e chi di piú; passando per quel luogo
messer Ridolfo da Camerino, che andava provveggendo il campo, s'accostò
a loro domandando di quello che contendeano; di che per loro gli fu detto la
cagione, pregandolo ancora che la loro questione diffinisse, e quello che si
dovea prezzare la detta insegna.
Messer Ridolfo, avendo tosto considerata la
questione, fece la risposta dicendo che chi tenea che la detta insegna si dovea
prezzare e avere cara duecento, o trecento, o mille, o duemila, non potea avere
ragione; però che quando il nostro Signore Jesú Cristo fu in
questa vita, e di carne e d'ossa, fu venduto trenta danari, e ora ch'egli
è dipinto nella pezza e morto e in croce, che si possa o debba
ragionevolmente stimar piú, è cosa vana, e per la ragione allegata
non potere justamente seguire. Udito che ebbono tutti questa sentenzia, con le
risa s'accordorono a por fine alla questione, e dissono tutti, eccetto messer
Unghero, messer Ridolfo avere ben detto e giudicato.
Notabile detto e strano fu quello di messer
Ridolfo, e come che paresse ostico, raccontando come disse del nostro Signore,
a ragione il judicio fu giusto; e mostrò, sanza dirlo, che son molti che
fanno maggiore stima delle viste che de' fatti. E quanti ne sono già
stati che hanno procacciato d'essere Gonfalonieri e Capitani, e d'avere
l'insegna e reale e dell'altre, solo per vanagloria, ma dell'opere non si sono
curati! E di questi apparenti ne sono stati, e tutto il dí sono
piú che degli operanti. E non pur nelle cose dell'arme ma eziandio di
quelli che in teologia si fanno maestrare, non per altro, se non per essere
detto Maestro; Dottore di leggi, per essere chiamato Dottore; e cosí in
filosofia e medicina, e di tutte l'altre cose: e Dio il sa quello che li
piú di loro sanno!
Uno Genovese sparuto, ma bene scienziato,
domanda Dante poeta come possa intrare in amore a una donna, e Dante gli fa una
piacevole risposta.
Questo che seguita non fu meno notabile
consiglio che fosse il judicio di messer Ridolfo. Fu già nella
città di Genova uno scientifico cittadino e in assai scienze bene
sperto, ed era di persona piccolo e sparutissimo. Oltre a questo era forte
innamorato d'una bella donna di Genova, la quale, o per la sparuta forma di
lui, o per moltissima onestà di lei, o per che che si fosse la cagione,
giammai, non che ella l'amasse, ma mai gli occhi in verso lui tenea, ma
piú tosto fuggendolo, in altra parte gli volgea. Onde costui,
disperandosi di questo suo amore, sentendo la grandissima fama di Dante
Allighieri, e come dimorava nella città di Ravenna, al tutto si dispose
d'andar là per vederlo e per pigliare con lui dimestichezza,
considerando avere da lui o consiglio o aiuto come potesse entrare in amore a
questa donna, o almeno non esserli cosí nimico. E cosí si mosse,
e pervenne a Ravenna, là dove tanto fece che fu a un convito dove era il
detto Dante; ed essendo alla mensa assai di presso l'uno all'altro, il
Genovese, veduto tempo, disse:
- O messer Dante, io ho inteso assai della
vostra virtú e della fama che di voi corre; potre' io avere alcuno
consiglio da voi?
Disse Dante:
- Purché io ve lo sappia dire.
Allora il Genovese dice:
- Io ho amato e amo una donna con tutta quella
fede che amore vuole che s'ami; giammai da lei, non che amore mi sia stato
conceduto, ma solo d'uno sguardo mai non mi fece contento.
Udendo Dante costui, e veggendo la sua sparuta
vista, disse:
- Messere, io farei volentieri ogni cosa che
vi piacesse; e di quello che al presente mi domandate, non ci veggio altro che
un modo, e questo è che voi sapete che le donne gravide hanno sempre
vaghezza di cose strane; e però converrebbe che questa donna che cotanto
amate, ingravidasse: essendo gravida, come spesso interviene ch'ell'hanno vizio
di cose nuove, cosí potrebbe intervenire che ella avrà vizio di
voi; e a questo modo potreste venire ad effetto del vostro appetito: per altra
forma sarebbe impossibile.
Il Genovese, sentendosi mordere, disse:
- Messer Dante, voi mi date consiglio di due
cose piú forte che non è la principale; però che forte
cosa sarebbe che la donna ingravidasse, però che mai non
ingravidò; e vie piú forte serebbe che poi ch'ella fosse
ingravidata, considerando di quante generazioni di cose ell'hanno voglia, che
ella s'abbattesse ad avere voglia di me. Ma in fé di Dio, che altra
risposta non si convenía alla mia domanda che quella che mi avete fatto.
E riconobbesi questo Genovese, conoscendo
Dante per quello ch'egli era, meglio che non avea conosciuto sé, che era
sí fatto che erano poche che non l'avessono fuggito. E conobbe Dante
sí che piú dí stette il Genovese in casa sua, pigliando
grandissima dimestichezza per tutti li tempi che vissono. Questo Genovese era
scienziato, ma non dovea essere filosofo, come la maggior parte sono oggi;
però che la filosofia conosce tutte le cose per natura; e chi non
conosce sé principalmente, come conoscerà mai le cose fuora di
sé? Costui, se si fosse specchiato, o con lo specchio della mente, o col
corporale, averebbe pensato la forma sua e considerato che una bella donna,
eziandio essendo onesta, è vaga che chi l'ama abbia forma di uomo, e non
di vilpistrello.
Ma e' pare che li piú son tocchi da
quel detto comune: “E’ non ci ha maggiore inganno che quello di sé
medesimo”.
Messer Giovanni della Lana chiede a uno
buffone che faccia un bel partito: quelli ne fa uno molto nuovo: a colui non
piace; fanne un altro, donde messer Giovanni scornato si parte.
Non so qual fosse piú sparuto di
persona, o il Genovese passato, o messer Giovanni della Lana da Reggio, del
quale brievemente dirò in questa novella. Il quale messer Giovanni, non
possendo stare in Reggio, stando in Imola, ed essendo in uno cerchio di valentri
uomeni, non considerando alla deformità della sua persona (ché
era piccolissimo judice, e avea una foggetta in capo foderata d'indisia, che
pare' l'erba luccia, ed era troglio, o vero balbo), disse a uno uomo di corte,
chiamato maestro Piero Guercio da Imola, piacevole buffone e sonatore di
stormenti, il quale era nel detto cerchio:
- Doh, maestro Piero, fate qualche bel partito
dinanzi a questi valentri uomeni.
Rispose maestro Piero:
- Io il farò, poiché voi volete.
Il partito è questo: qual volete voi pigliare delle due cose l'una, o
volete che io cachi in codesta vostra foggia, o voletevi cacare voi?
Disse il maestro Giovanni quasi mezzo
imbiancato:
- Io non voglio né l'uno né
l'altro; fatene un altro che diletti questa brigata.
Disse il buffone:
- Io lo farò, poiché voi volete;
dicendo: “Qual volete voi, messer Giovanni, quando avesse cacato nel vostro
cappuccio, o mettervelo in capo voi, o volete che io vel metta in capo io?”
Messer Giovanni udendo questo, se al primo
partito era divenuto bianco, a questo secondo diventò rosso e bizzarro,
rimanendo scornato, dicendo:
- Mo vi nasca il vermocan, ché vui se'
in brutto rubaldo di merda, e cosí di quella vi menate per bocca,
ché da altro non se' vui.
Il maestro Piero con motti si difendea e
dicea:
- Vo' se' judice, veggiamo a ragione chi ha il
torto di noi due -; pigliandolo per lo lembo, acciò che non si partisse,
però che era già in cammino; pur con quella poca di forza che
avea, si spiccò e andonne rampognando; gli altri rimasono ridendo.
Cosí a messer Giovanni fu insegnato dal
maestro Piero una legge che giammai piú non l'avea trovata. Cosí
s'acquista spesso con gli uomeni di corte, che spesso s'entra in motti con
loro, ed elli vituperano altrui; e però non si potrebbe errare a tacere,
e lasciar dire un altro. Per farsi innanzi messer Giovanni, e non considerando
a sé, fu beffeggiato da questo buffone con due cosí nobili
partiti, come avete udito.
Messer Dolcibene, essendo con messer Galeotto
alla valle di Josafat e udendo che in sí piccol luogo ciascuno ha a
concorrere al diejudicio, piglia nuovamente luogo per non affogare allora.
Messer Dolcibene fu, secondo cavaliere di
corte, d'assai, quanto alcun altro suo pari, e molte novelle assai vaghe e di
brutta materia si possono scrivere di lui; e in questa novella, non per via di
fare partito, come volea fare il maestro Piero da Imola, ma per altra forma,
andando al Sepolcro con messer Galeotto e con messer Malatesta Unghero,
trovò nuovo stile per dare diletto a questi due signori.
Andando adunque messer Galeotto e messer
Malatesta detti, e messer Dolcibene con loro, al Santo Sepolcro, giugnendo
là costoro e passando dalla valle di Josafat, disse messer Galeotto:
- O Dolcibene, in questa valle dobbiamo tutti
venire al diejudicio a ricevere l'ultima sentenzia.
Disse messer Dolcibene:
- O come potrà tutta l'umana
generazione stare in sí piccola valle?
Disse messer Galeotto:
- Sarà per potenza divina.
Allora messer Dolcibene scese da cavallo, e
corre nel mezzo d'un campo della detta valle, e calati giuso i panni di gamba,
lasciò andare il mestiere del corpo, dicendo:
- Io voglio pigliare il luogo, acciò
che quando sarà quel tempo, io truovi el segno e non affoghi nella
calca.
Li due signori diceano ridendo:
- Che vuol dire questo? e che fai tu?
Messer Dolcibene risponde:
- Signori, io ve l'ho detto: e' non si
può essere savio, se l'uomo non s'argomenta per lo tempo che dee venire.
Dice messer Galeotto:
- O Dolcibene, lasciavi la parte del nibbio
che serà maggiore segnale.
Disse allora messer Dolcibene:
- Signore, se io ci lasciassi el segnale che
voi mi dite, e' non sarebbe buono per due cagioni: la prima, ch'e' ne serebbe
portato da' nibbi, e 'l luogo rimarrebbe senza segno; e l'altra, che voi
perdereste la mia compagnia.
Allora gli fu risposto da quelli signori:
- Per certo, Dolcibene, tu sai ben dire gli
argomenti a ogni cosa; sali a cavallo, ché per certo tu hai ben
provveduto -; e con questo sollazzo seguirono il loro cammino.
O questi son li trastulli de' buffoni, e'
diletti che hanno li signori! Per altro non son detti buffoni, se non che
sempre dicono buffe; e detti giucolari, ché continuo giuocono con nuovi
giuochi. E’ non fu però questo messer Dolcibene sí scellerato che
non componesse in questa andata del Sepolcro in versi vulgari una orazione alla
nostra Donna che gli facesse grazia, raccontando tutti i luoghi santi che oltre
mare avea vicitato.
Alberto da Siena è richiesto dallo
inquisitore, ed elli, avendo paura, si raccomanda a messer Guccio Tolomei; e in
fine dice che per Donna Bisodia non è mancato che non abbia aúto
il malanno.
Al tempo di messer Guccio Tolomei fu in Siena
uno piacevole uomo e semplice, e non malizioso come messer Dolcibene. Era costui
balbo della lingua, e avea nome Alberto; il quale essendo uomo di pura
condizione, e usando spesso in casa del detto messer Guccio, però che 'l
cavaliere ne pigliava gran diletto, avvenne che uno dí di quaresima,
trovandosi messer Guccio con lo inquisitore, di cui era grande amico, compose
con lui che l'altro dí facesse richiedere il detto Alberto, e quando
fosse dinanzi da lui, gli opponessi qualche cosa di resía, e di questo
ne seguirebbe alquanto di piacere e allo inquisitore e a lui.
Come il detto messer Guccio sí desse
ordine, tornato che fu a casa, l'altro dí di buon'ora il detto Alberto
fu richiesto che subito comparisse dinanzi allo inquisitore. Alberto tutto
tremante, e se prima era balbo, a questo punto, avendo quasi perduta la lingua,
appena poté dire: - Io verrò -; e andato a trovare messer Guccio,
dicendo: - Io vi vorrei parlare -; e messer Guccio comprendendo quello che era,
disse:
- Che novelle?
Dice Alberto:
- Cattive per me, ché lo inquisitore mi
ha fatto richiedere, forse per paterino.
Dice messer Guccio:
- Averestú detto alcuna cosa contra la
fede cattolica?
Dice Alberto:
- Io non so che s'è la fede calonica,
ma io mi credo essere cristiano battezzato.
Dice messer Guccio:
- Alberto, fa' come io ti dirò; vattene
al vescovo; e di': “Io fui richiesto, e appresentomi dinanzi a voi”; e sappi
quello che ti vuol dire: dopo te poco stante verrò io; e lo inquisitore
è molto mio amico, e cercherò dello spaccio tuo.
Disse Alberto:
- Ecco io vo, e affidomi in voi. E cosí
si partí, e andonne al vescovo.
Il quale là giunto, come il vescovo il
vide, con uno fiero viso disse:
- Qual se' tu?
Alberto balbo e tremante di paura disse:
- Io sono Alberto, che fui richiesto che io
venisse dinanzi da voi.
- Or ben so, - dice il vescovo, - se' tu
quell'Alberto che non credi né in Dio, né ne' santi?
Dice Alberto:
- Signor mio, chi ve l'ha detto non dice il
vero, ché io credo in ogni cosa.
Allora dice il vescovo:
- E se tu credi in ogni cosa, dunque credi tu
nel diavolo; e questo è quello che a me non bisogna altro ad arderti per
paterino.
Alberto mezzo uscito di sé, domandando
misericordia; dice il vescovo:
- Sai tu il Paternostro ?
Dice Alberto:
- Messer sí.
- Dillo tosto, - disse lo inquisitore.
Alberto cominciò; e non accordando
l'aggettivo col sustantivo, giunse balbettando a uno scuro passo, là
dove dice: da nobis hodie ; e di quello non ne potea uscire. Di che lo
inquisitore, udendolo, disse:
- Alberto, io l'ho inteso; ché chi
è paterino, non puote dire le cose sante; va', e fa' che domattina tu
torni a me, e io formerò il processo secondo che meriterai.
Dice Alberto:
- Io tornerò da voi; ma io vi prego per
l'amore di Dio che io vi sia raccomandato.
Disse lo inquisitore:
- Va', e fa' che io ti dico.
Allora si partí, e tornando verso casa,
trovò messer Guccio Tolomei che allo inquisitore per questa faccenda
andava. Messer Guccio, veggendolo tornare, dice:
- Alberto, la cosa dee stare bene, quando tu
torni.
Disse Alberto:
- Gnaffe! non istà, però che
dice che io sono paterino, e che io torni a lui domattina, e ancora non
mancò per quella puttana di donna Bisodia che è scritta nel Paternostro che non mi facesse morire allotta allotta. Di
che io vi prego per l'amore di Dio che andiate a lui e preghiate che io gli sia
raccomandato.
Disse messer Guccio:
- Io vo là, e ingegnerommi fare
ciò che io potrò al tuo scampo.
E cosí andò messer Guccio, e
portando all'inquisitore la novella di donna Bisodia, ne feciono per due ore
grandissime risa. E mandando lo inquisitore, innanzi che messer Guccio si
partisse, per lo detto Alberto, ed elli con gran timore tornandovi, gli diede
lo inquisitore ad intendere che se non fosse messer Guccio, l'averebbe arso; e
ben lo meritava, però che di nuovo avea inteso ancora peggio, che d'una
santa donna, cioè di donna Bisodia, sanza la quale non si puote cantare
messa, avea detto essere una puttana; e ch'egli andasse e tenesse sí
fatti modi che non avesse piú a mandare per lui. Alberto, chiamando
misericordia, disse non dirlo mai piú, e tutto doloroso della paura che
avea aúta, con messer Guccio a casa si tornò. Il quale messer
Guccio, avendo condotto la cosa come avea voluto, gran tempo nella sua mente ne
godeo, e senza Alberto e con Alberto.
Belle sono le inventive de' gentiluomeni per
avere diletto di nuove e di semplici persone; ma piú bello fu il caso
che la fortuna trovò in Alberto, essendo impacciato da donna Bisodia; e
forse forse, se Alberto fosse stato uno ricco uomo, lo inquisitore gli averebbe
dato tanto ad intendere che si serebbe ricomperato de' suoi denari, per non
essere arso o cruciato.
Come Alberto detto, rimenando uno ronzino
restío a casa, risponde a certi, che 'l domandano nuovamente, come nuovo
uomo era.
Dappoi che io ho messo mano in Alberto da
Siena, seguirò ancora di dire di lui una piacevole novelletta, la quale,
se la fece per senno, serebbe stata bella a qualunque savio; ma credo
piú tosto fosse per semplicità. Costui, avendo bisogno d'andare a
un suo luogo fuori di Siena, accattò da un suo vicino un ronzino, sul
quale salendo suso, e andando insino alla porta, come là giunse, il
ronzino si cominciò a tirare addietro, come se della porta avesse
aúto paura, o fosse aombrato, o che si fosse posto in cuore di non
volere uscire della terra. Alberto, accennandoli cotale alla trista, non lo
poteo mai fare andare; ma cominciandosi a sinistrare, e Alberto avendone
grandissima paura, per lo migliore discese in terra, e prese le redine, lo
volse indietro e cominciollo a rimenare a casa di chi gli l'avea prestato: là
dove il ronzino non ch'egli andasse di passo, ma andava sí di trotto che
facea ben trottare Alberto.
E cosí arrivò per lo campo di
Siena; al quale quelli Sanesi che v'erano avendo gli occhi, veggendo menare uno
ronzino a mano, a gran boci gridavano:
- O Alberto, di cui è cotesto ronzino?
O Alberto, dove meni tu questo ronzino?
A quelli che diceano: “Di cui è cotesto
ronzino?” rispondea: “Èssi me' suo”. A quelli che diceano: “Dove il meni
tu?” rispondea: “Anzi mena elli me”.
E cosí diede che pensare a' Senesi
buona pezza, tanto che seppono l'effetto di quello che dicea; e Alberto
rendé il ronzino, dicendo a colui:
- To' ti il ronzino suo, dappoi che e' non
vuole che io vadi in villa oggi -; e cosí si rimase Alberto, che non
andò in villa quel giorno.
Io per me credo che Alberto in questo fosse
molto savio; ché sono molti che dicono: “Io vincerei pur la prova”.
Quando uno avesse a domare, o scorgere un suo puledro, forse è da
consentire; ma vincere la prova d'un cavallo altrui, colui che si mette a
questo non corregge il suo cavallo, ma piú tosto puote pericolare
sé.
Come Alberto, essendo per combattere con li
Sanesi, si mette il cavallo innanzi, ed elli, smontato, li sta di dietro a
piede, e la ragione che elli assegna quello esser il meglio.
Similmente questo Alberto in questa sua terza
novella, che segue, non mi pare molto sciocco; però che essendo li
Sanesi, per certa guerra che aveano co' Perugini, assembrati per combattere, e
'l detto Alberto essendo a cavallo tra la brigata sanese, e bene armato, scese
da cavallo, e misesi il cavallo dinanzi, ed egli stava di drieto a piede.
Veggendo gli altri che v'erano Alberto stare per questa forma, diceano:
- Che fai tu, Alberto? sali a cavallo,
però che noi siamo subito per combattere.
A' quali Alberto rispose:
- Io voglio stare cosí, ché, se
'l cavallo mio fosse morto, serà fatto la menda di lui; ma se io fosse
morto, nessuna menda di me serebbe fatta.
E come Dio volle, la gente si recò a
battaglia, dove li Sanesi furono sconfitti. Ed essendo molto addietro il detto
Alberto cosí a piede, il suo cavallo fu preso, ed elli si fuggí e
cogliendolo la notte in certe vie tra boschi, e traendo vento che facea sonare
le foglie, gli parea avere mille cavalieri dietro; e come uno pruno il pigliava
dicea:
- Oimè! io mi t'arrendo, non mi
uccidere -; credendo che fossono nimici che 'l pigliassono: e cosí con
gran paura e con grande affanno consumò tutta quella notte, tanto che la
mattina su l'alba si trovò presso a Siena.
E giunto a Siena, come che assai avessono da
pensare ad altro, pure erano di quelli che domandavono:
- Alberto, come è ita la cosa? tu se' a
piede? ove è il cavallo?
E quelli rispondea:
- Egli è perduto: cosí
avess'elli fatto come fe' quell'altro d'uno di questi dí, che non avesse
voluto uscire fuori della porta.
Ma la cosa andò peggio per Alberto, che
domandando la menda, fu detto che non era stato a cavallo come si dovea; e non
la poté mai avere.
Fu savio avviso quello di costui, se gli fosse
venuto fatto, ché s'averebbe levato spesa da dosso; e arebbe aúto
denari, e la persona salva era ritornata a Siena. E qui si puote vedere da
quanto prezzo è il sesso umano; ché d'ogni animale è fatto
stima di valuta, eccetto che dell'uomo, ma di questo non si domanda menda:
benché si potrebbe dire per la sua nobilità eccede tanto agli
altri, e per questo non è prezzo che lo possa ricomperare. Ma ancora
è piú sicuro in una guerra, e piú forte, l'uomo povero che
'l ricco; se lo ricco è preso, è menato lui e 'l cavallo per li
denari suoi; se lo povero è preso a cavallo, è lasciato l'uomo, e
'l cavallo n'è menato. E questo non è altro se non che tutto
l'universo è corrotto per la moneta, e per quello a ogni cosa si mette
ciascuno.
Come Alberto, avendo a far con la matrigna,
essendo dal padre trovato, allega con nuove ragioni piacevolmente.
Non voglio lasciare la quarta novella
d'Alberto, di quelle che già udi' di lui, come che molte altre ne
facesse. Avea il detto Alberto una matrigna assai giovane e complessa e
atticciata, il quale in nessun modo, come spesso interviene, potea avere pace
con lei; e di questo suo caso dolendosi spesse volte con alcuni suoi compagni,
da loro gli fu dato questo consiglio, dicendo:
- Alberto, se tu non trovi modo d'avere a far
di lei, non isperar mai di star con lei se non in battaglia e in mala ventura.
Dice Alberto:
- Credete voi cotesto?
Coloro rispondono:
- Noi l'abbiamo per lo fermo.
Dice Alberto:
- E’ serebbe troppo gran peccato! e pur s'i'
'l facesse, e venisse agli orecchi dello inquisitore, e' m'ha colto animo
addosso, leggermente mi farebbe morire.
E quasi come se non vi avesse l'animo, si
partí dalle parole di costoro; e da altra parte pensò di mettere
il consiglio ad effetto, e nol dissono a sordo; ché un dí,
essendo andato il padre fuori e la donna rimanendo in camera, Alberto sanza
dire troppe parole ché male le sapea dire, venne a' fatti e in sul letto
l'uno e l'altro si condussono, e fu fatta la pace, che parea una casa cheta e
riposata, che prima parea tempestosa e indemoniata. Nella qual pace e amore
continuando Alberto, aiutando alle fatiche del padre, avvenne un dí che
l'uno e l'altro stando di meriggio a giacere, che 'l padre ch'era andato in
villa, tornò in quell'ora, e andato su, trovò sul letto
sprovveduti la donna e Alberto.
Alberto, veggendo il padre, si gittò
alla panca lungo il muro; e 'l padre piglia la mazza del letto per dargli,
dicendo: “Sozzo traditore”, e quando: “ria puttana”.
E andando Alberto ora in su e ora in
giú, secondo come la mazza del padre si menava, e gridando e l'uno e
l'altro, tutta la vicinanza trasse al romore, dicendo:
- Che vuol dire questo?
E Alberto dice:
- E’ questo mio padre, che ebbe a fare cotanto
tempo con mia madre, e mai non gli dissi una parola torta; e ora perché
mi ha trovato giacer con la moglie, non altro che per buono amore, mi vuole
uccidere, come voi vedete.
Gli vicini, udendo la ragione allegata per
Alberto, dissono il padre avere il torto; e tirandolo da parte, dissono che non
era senno il suo di fare palese quelle cose che si doverriano nascondere, e
fecionli credere che, conoscendo eglino la condizione d'Alberto, che egli non
era salito su quel letto per alcun male, ma per molta dimestichezza, avendo
voglia di dormire. E cosí si dié pace il padre, e la donna si
dié pace con Alberto per la domestichezza che avea presa con lei,
facendo ciascuno da quell'ora innanzi i fatti loro sí occulti e
sí cheti che 'l padre mentre che visse non ebbe piú a giucare del
bastone.
Buono fu il rimedio che dato fu ad Alberto a
stare in pace con la matrigna, e buona fu la ragione d'Alberto, ch'elli disse
a' vicini quando trassono. E cosí credo che assai (non tutte) averebbono
pace co' figliastri, se elli facessono quello che costui, e massimamente quelle
che son mogli degli antichi padri, come era costei, le quali, essendo giovani,
voglion vegliare, e' vecchi mariti voglion dormire.
La sorella del marchese Azzo, essendo andata a
marito al giudice di Gallura, in capo di cinque anni torna vedova a casa. Il
frate non la vuol vedere, perché non ha fatto figliuoli, ed essa con un
motto il fa contento.
Il marchese Azzo da Esti andò cercando
il contrario d'una sua sorocchia. Questo marchese credo fosse figliuolo del
marchese Obizzo, e avendo una sua sorocchia da marito che, salvo il vero, ebbe
nome madonna Alda, la quale maritò al giudice di Gallura; e la cagione
di questo matrimonio fu che 'l detto judice era vecchio e non avea alcun erede,
né a chi legittimamente succedesse il suo; onde il marchese, credendo
che madonna Alda, o madonna Beatrice come certi hanno detto avesse nome,
facesse di lui figliuoli che rimanessono signori del judicato di Gallura, fece
queto parentado volentieri: e la donna sapea troppo bene a che fine il marchese
l'avea maritata.
Avvenne che, essendo andata a marito, stette
cinque anni con lui e mai alcuno figliuolo non fece; e morendo il detto judice
di Gallura, la donna tornò vedova a casa del marchese: alla quale
né andò incontro il detto marchese, né alcuno sembiante
fece, se non come il detto caso mai non fosse intervenuto. La qual donna
giunta, e credendo essere dal marchese ricevuta teneramente, e veggendo tutto
il contrario, e maravigliandosi di questo, e andando alcuna volta dove era il
detto marchese per dolersi della sua fortuna, e fare con lui il debito lamento,
nessuno atto facea, ma volgevasi in altra parte.
Continuando questo piú dí, la
giovane, desiderosa di sapere la cagione de' modi e del cruccio del marchese,
impronta verso lui andando un dí, cominciò a dire:
- Potre' io sapere, fratel mio, perché
tanta ira e tanto sdegno tu dimostri verso di me sventurata vedovella, e
piú tosto posso dire orfana, venendomi tu meno, che altro ricorso non
ho?
Ed elli, volgendosi verso lei con nequitoso
animo, rispose:
- O non sai tu la cagione? e perché ti
maritai io al judice di Gallura? come non ti vergogni tu di essere stata cinque
anni sua mogliera, ed essermi tornata in casa senza avere fatto figliuolo
alcuno?
Appena lo lasciò la donna infino a qui
dire, come quella che lo intese, e disse:
- Fratel mio, non dire piú, ch'io
t'intendo; e giuroti per la fé di Dio che, per adempiere la tua
volontà, ch'io non ho lasciato né fante, né ragazzo,
né cuoco, né altro, con cui io non abbia provato; ma, se Dio non
ha voluto, io non ne posso far altro.
Cosí si rallegrò il marchese di
questo, come si fosse rallegrato un altro che, dopo grande abbominio dato a una
sua sorella, la trovasse poi senza difetto; e in quell'ora l'abbracciò
teneramente, e amandola e avendola piú cara che mai; e maritolla poi a
un messer Marco Visconti, o a messer Galeazzo. Ha detto già alcuno
ch'ella fece una fanciulla che ebbe nome Joanna, e maritossi a messer Ricciardo
da Camino, signore di Trevisi. E questo par che tocchi Dante, capitolo ottavo
del Purgatorio, dove dice in parte:
Quando serai di là dalle larghe onde
Di' a Giovanna mia, che per me chiami
Là dove agli innocenti si risponde,
ecc.
Come che sia, questa donna contentò il
fratello. Vogliono dire alcuni, e io sono colui che 'l credo, che questa fosse
savia e casta donna; ma, veggendo la disposizione del fratello, con le sue
parole lo volle fare contento di quello che elli avea voglia, e tornare nel suo
amore. E cosí si contenta l'animo di quelli che guardano pure alla
utilità, e non all'onore; e questa donna se ne avvide, e diegli di
quella vivanda che volea, facendolo contento con quello che pochi se ne
averebbono dato pace.
Uno giovene Sanese ha tre comandamenti alla
morte del padre: in poco tempo disubbedisce, e quello che ne seguita.
Ora verrò a dire di una che s'era
maritata per pulzella, e 'l marito vidde la prova del contrario anzi che con
lei giacesse, e rimandolla a casa sua, senza avere mai a fare di lei.
Fu a Siena già un ricco cittadino, il
quale, venendo a morte, e avendo un figliuolo e non piú, che avea circa
a venti anni, fra gli altri comandamenti che li fece, furono tre. Il primo, che
non usasse mai tanto con uno che gli rincrescesse; il secondo, che quando elli
avesse comprato una mercanzia, o altra cosa, ed elli ne potesse guadagnare, che
elli pigliasse quello guadagno e lasciasse guadagnare ad un altro; il terzo,
che quando venisse a tòr moglie, togliesse delle piú vicine, e se
non potesse delle piú vicine, piú tosto di quelle della sua terra
che dell'altre da lunge. Il figliuolo rimase con questi ammonimenti, e 'l padre
si morío.
Era usato buon tempo questo giovene con uno
de' Forteguerri, il quale era stato sempre prodigo, e avea parecchie figliuole
da marito. Li parenti suoi ogni dí lo riprendevano delle spese, e niente
giovava. Avvenne che un giorno il Forteguerra avea apparecchiato un bel
desinare al giovene e a certi altri; di che li suoi parenti li furono addosso,
dicendo:
- Che fai tu, sventurato? vuo' tu spendere a
prova col tale che è rimaso cosí ricco, e hai fatto e fai li
corredi, e hai le figliuole da marito?
Tanto dissono che costui come disperato
andò a casa, e rigovernò tutte le vivande che erano in cucina, e
tolse una cipolla, e puosela su l'apparecchiata tavola, e lasciò che se
'l cotal giovene venisse per desinare gli dicessono che mangiasse di quella
cipolla, che altro non v'era, e che 'l Forteguerra non vi desinava.
Venuta l'ora del mangiare, il giovene
andò là dove era stato invitato, e giugnendo su la sala
domandò la donna di lui: la donna rispose che non v'era, e non vi
desinava; ma che elli avea lasciato, se esso venisse, che mangiasse quella
cipolla, che altro non v'era. Avvidesi il giovene, su quella vivanda, del primo
comandamento del padre, e come male l'avea osservato, e tolse la cipolla, e
tornato a casa la legò con un spaghetto e appiccolla al palco sotto il
quale sempre mangiava.
Avvenne da ivi a poco tempo che, avendo elli
comprato un corsiere fiorini cinquanta, da indi a certi mesi, potendone avere
fiorini novanta, non lo volle mai dare, dicendo ne volea pure fiorini cento; e
stando fermo su questo, al cavallo una notte vennono li dolori, e scorticossi.
Pensando a questo, il giovene conobbe ancora avere male atteso al secondo
comandamento del padre e, tagliata la coda al cavallo, l'appiccoe al palco allato
alla cipolla.
Avvenne poi per caso ancora, volendo elli
pigliare moglie, non si potea trovar vicina, né in tutta Siena, giovene
che li piacesse, e diési alla cerca in diverse terre, e alla fine
pervenne a Pisa, là dove si scontrò in un notaio, il quale era
stato in officio a Siena, ed era stato amico del padre, e conoscea lui.
Di che il notaio gli fece grande accoglienza,
e domandollo che faccenda avea in Pisa. Il giovene li disse che andava cercando
d'una bella sposa, però che in tutta Siena non ne trovava alcuna che li
piacesse.
Il notaio disse:
- Se cotesto è, Dio ci t'ha mandato, e
serai ben accivito; però che io ho per le mani una giovene de'
Lanfranchi, la piú bella che si vedesse mai, e dammi cuore di fare che
ella sia tua.
Al giovene piacque, e parveli mill'anni di
vederla, e cosí fece. Come la vide, s'accostò al mercato, fu
fatto e dato l'ordine quando la dovesse menare a Siena. Era questo notaio una
creatura de' Lanfranchi, e la giovene essendo disonesta, e avendo avuto a fare
con certi gioveni di Pisa, ella non s'era mai potuta maritare. Di che questo
notaio guardò di levare costei da dosso a' suoi parenti e appiccarla al
Sanese. Dato l'ordine della cameriera, forse della ruffiana, la quale fu una
femminetta sua vicina, chiamata monna Bartolomea, con la quale la donna novella
s'andava spesso trastullando di quando in quando; e dato ogni ordine delle cose
opportune e della compagnia, tra la quale era alcuno giovene di quelli che
spesso d'amore l'avea conosciuta, si mosson tutti col marito e con lei ad
andare verso Siena, e là si mandò innanzi a fare l'apparecchio.
E cosí andando per cammino, un giovene
de' suoi che la seguía parea che andasse alle forche, pensando che
costei era maritata in luogo straniero, e che senza lei gli convenía
tornare a Pisa; e tanto con pensieri e con sospiri fece che 'l giovene quasi e
di lei e di lui si fu accorto: perché ben dice il proverbio che l'amore
e la tosse non si può celare mai. E con questo vedere, preso gran sospetto,
tanto fece che seppe chi la giovene era e come il notaio l'avea tradito e
ingannato. Di che giugnendo a Staggia, lo sposo usò questa malizia disse
che volea cenare di buon'ora, però che la mattina innanzi dí
volea andare a Siena, per fare acconciare ciò che bisognava; e disselo
sí che 'l valletto l'udisse.
Erano le camere dove dormirono quasi tutte
d'assi l'una allato all'altra. Il marito ne avea una, la sposa e la cameriera
un'altra, e in un'altra era il giovene e un altro, il quale non fu senza
orecchi a notare il detto del Sanese; ma tutta la sera ebbe colloquio con la
cameriera, aspettando l'alba del giorno, e cosí s'andorono al letto. E
venendo la mattina, quasi un'ora innanzi a dí, e lo sposo si levò
per andare a Siena come avea dato ad intendere. E sceso giuso, e salito a
cavallo, cavalcò verso Siena quasi quattro balestrate, e poi diede la
volta ritornando passo passo e cheto verso l'albergo donde si era partito; e
appiccando il cavallo a una campanella, su per la scala n'andò; e
giugnendo all'uscio della camera della donna, guardò pianamente e
sentí il giovene essere dentro; e pontando l'uscio mal serrato,
v'entrò dentro; e accostandosi alla cassa del letto pianamente, se alcun
panno trovasse di colui che s'era colicato, per avventura trovò i suo'
panni di gamba, e quelli del letto, o che sentissono, e per la paura stessono
cheti, o che non sentissono, questo buon uomo si mise le brache sotto, e uscito
della camera, scese la scala, e salito a cavallo con le dette brache,
camminò verso Siena.
E giunto a casa sua, l'appiccò al palco
allato alla cipolla e alla coda.
Levatasi la donna e l'amante la mattina a
Staggia, il valletto non trovando le brache, sanza esse salí a cavallo
con l'altra brigata, e andorono a Siena. E giunti alla casa, dove doveano
essere le nozze, smontorono. E postisi a uno leggiero desinare sotto le tre
cose appiccate, fu domandato il giovane quello che quelle cose appiccate
significavano. Ed elli rispose:
- Io vel dirò; e prego ognuno che mi
ascolti. Egli è piccol tempo che mio padre morí, e lasciommi tre
comandamenti: il primo sí e sí, e però tolsi quella
cipolla e appicca' la quivi; il secondo mi comandò cosí, e in
questo il disubbidi'; morendo il cavallo, taglia' li la coda e quivi
l'appiccai; il terzo, che io togliesse moglie piú vicina che io potesse;
e io, non che io l'abbia tolta dappresso, ma insino a Pisa andai, e tolsi
questa giovene, credendo fosse come debbono essere quelle che si maritono per
pulzelle. Venendo per cammino questo giovene, il quale siede qui, all'albergo
giacque con lei, e io chetamente fui dove elli erano; e trovando le brache sue,
io ne le recai e appicca' le a quel palco: e se voi non mi credete, cercatelo,
che non l'ha: - e cosí trovorono. - E però questa buona donna,
levata la mensa, vi rimenate in drieto, che mai, non che io giaccia con lei, ma
io non intendo di vederla mai. E al notaio, che mi consigliò e fece il
parentado e la carta, dite che ne faccia una pergamena da rocca.
E cosí fu. Costoro con la donna si
tornorono a piè zoppo col dito nell'occhio; e la donna si fece per li
tempi con piú mariti, e 'l marito con altre mogli.
In queste tre sciocchezze corse questo giovene
contro a' comandamenti del padre, che furono tutti utili, e molta gente non se
ne guarda. Ma di questo ultimo, che è il piú forte, non si puote
errare a fare li parentadi vicini, e facciamo tutto il contrario. E non che de'
matrimoni, ma avendo a comprare ronzini, quelli de' vicini non vogliamo, che ci
paiono pieni di difetti, e quelli de' Tedeschi che vanno a Roma, in furia
comperiamo. E cosí n'incontra spesse volte e dell'uno e dell'altro, come
avete udito, e peggio.
Piero Brandani da Firenze piatisce, e
dà certe carte al figliuolo; ed elli, perdendole, si fugge, e capita
dove nuovamente piglia un lupo, e di quello aúto lire cinquanta a
Pistoia, torna e ricompera le carte.
Nella città di Firenze fu già un
Piero Brandani cittadino che sempre il tempo suo consumò in piatire.
Avea un suo figliuolo d'etade di diciotto anni, e dovendo fra l'altre una
mattina andare al Palagio del Podestà per opporre a un piato, e avendo
dato a questo suo figliuolo certe carte, e che andasse innanzi con esse, e
aspettasselo da lato della Badía di Firenze; il quale, ubbidendo al
padre, come detto gli avea, andò nel detto luogo, e là con le
carte si mise ad aspettare il padre, e questo fu del mese di maggio.
Avvenne che, aspettando il garzone,
cominciò a piovere una grandissima acqua: e passando una forese, o
trecca, con un paniere di ciriege in capo, il detto paniere cadde; del che le
ciriege s'andarono spargendo per tutta la via; il rigagnolo della qual via
ognora che piove cresce che pare un fiumicello. Il garzone, volonteroso, come
sono, con altri insieme, alla ruffa alla raffa si dierono a ricogliere delle
dette ciriege, e infino nel rigagnolo dell'acqua correano per esse. Avvenne
che, quando le ciriege furono consumate, il garzone, tornando al luogo suo, non
si trovò le carte sotto il braccio però che gli erano cadute
nella dett'acqua, la quale tostamente l'avea condotte verso Arno, ed elli di
ciò non s'era avveduto; e correndo or giú, or su, domanda qua,
domanda là, elle furono parole, ché le carte navicavano
già verso Pisa. Rimaso il garzone assai doloroso, pensò di
dileguarsi per paura del padre: e la prima giornata, dove li piú
disviati o fuggitivi di Firenze sogliono fare, fu a Prato; e giunse ad uno
albergo, là dove dopo il tramontare del sole arrivorono certi
mercatanti, non per istare la sera quivi, ma per acquistare piú oltre il
cammino verso il ponte Agliana. Veggendo questi mercatanti stare questo garzone
molto tapino, domandarono quello ch'egli avea e donde era: risposto alla
domanda, dissono se volea stare e andare con loro.
Al garzone parve mill'anni, e missonsi in
cammino, e giunsono a due ore di notte al pont'Agliana; e picchiando a uno
albergo, l'albergatore, che era ito a dormire, si fece alla finestra:
- Chi è là?
- Àprici, ché vogliamo
albergare.
L'albergatore rampognando disse:
- O non sapete voi che questo paese è
tutto pieno di malandrini? io mi fo gran maraviglia che non sete stati presi.
E l'albergatore dicea il vero, ché una
gran brigata di sbanditi tormentavono quel paese.
Pregorono tanto che l'albergatore aperse; ed
entrati dentro e governati li cavalli, dissono che voleano cenare; e l'oste
disse:
- Io non ci ho boccone di pane.
Risposono i mercatanti:
- O come facciamo?
Disse l'oste:
- Io non ci veggio se non un modo, che questo
vostro garzone si metta qualche straccio indosso, sí che paia gaglioffo,
e vada quassú da questa piaggia, dove troverrà una chiesa: chiami
ser Cione, che è là prete, e da mia parte dica mi presti dodici
pani: questo dico perché, se questi che fanno questi mali troverrano un
garzoncello malvestito, non gli diranno alcuna cosa.
Mostrato la via al garzone, v'andò
malvolentieri, però che era di notte, e mal si vedea. Pauroso, come si
dee credere, si mosse, andandosi avviluppando or qua or là, sanza
trovare questa chiesa mai; ed essendo intrato in uno boschetto, ebbe veduto
dall'una parte un poco d'albore che dava in uno muro. Avvisossi d'andare verso
quello, credendo fosse la chiesa; e giunto là su una grande aia,
s'avvisò quella essere la piazza; e 'l vero era che quella era casa di
lavoratore: andossene là, e cominciò a bussare l'uscio. Il
lavoratore, sentendo, grida:
- Chi è là?
E 'l garzone dice:
- Apritemi, ser Cione, ché il tal oste
dal ponte Agliana mi manda a voi, che gli prestiate dodici pani.
Dice il lavoratore:
- Che pani? ladroncello che tu se', che vai
appostando per cotesti malandrini. Se io esco fuori, io te ne manderò
preso a Pistoia, e farotti impiccare.
Il garzone, udendo questo, non sapea che si
fare; e stando cosí come fuor di sé, e volgendosi se vedesse via
che 'l potesse conducere a migliore porto, sentí urlare un lupo ivi
presso alla proda del bosco, e guardandosi attorno vide su l'aia una botte dall'uno
de' lati, tutta sfondata di sopra, ed era ritta; alla quale subito ricorse, ed
entrovvi dentro, aspettando con gran paura quello che la fortuna di lui
disponesse.
E cosí stando, ecco questo lupo, come
quello che era forse per la vecchiezza stizzoso, e accostandosi alla botte, a
quella si cominciò a grattare; e cosí fregandosi, alzando la
coda, la detta coda entrò per lo cocchiume. Come il garzone sentí
toccarsi dentro con la coda, ebbe gran paura; ma pur veggendo quello che era,
per la gran temenza si misse a pigliar la coda, e di non lasciarla mai giusto
il suo podere, insino a tanto che vedesse quello che dovesse essere di lui. Il
lupo, sentendosi preso per la coda, cominciò a tirare: il garzone tien
forte, e tira anco elli; e cosí ciascuno tirando, e la botte cade, e
cominciasi a voltolare. Il garzone tien forte, e lo lupo tira; e quanto
piú tirava, piú colpi gli dava la botte addosso. Questo
voltolamento durò ben due ore; e tanto, e con tante percosse dando la
botte addosso al lupo, che 'l lupo si morí. E non fu però che 'l
giovane non rimanesse mezzo lacero; ma pur la fortuna l'aiutò,
ché quanto piú avea tenuto forte la coda, piú avea difeso
sé stesso, e offeso il lupo. Avendo costui morto il lupo, non
ardí però in tutta la notte d'uscire della botte, né di
lasciare la coda.
In sul mattino, levandosi il lavoratore, a cui
il giovene avea picchiata la porta, e andando provveggendo le sue terre, ebbe
veduto appiè d'un burrato questa botte: cominciò a pensare, e
dire fra sé medesimo: “Questi diavoli che vanno la notte non fanno se
non male, ché non che altro, ma la botte mia, che era in su l'aia,
m'hanno voltolata infino colaggiú”; e accostandosi, vide il lupo giacere
allato la botte, che non parea morto. Comincia a gridare: - Al lupo, al lupo,
al lupo -; e accostandosi, e correndo gli uomini del paese al romore, viddono
il lupo morto e 'l garzone nella botte.
Chi si segnò di qua e chi di là,
domandando il giovene:
- Chi se' tu? che vuol dire questo?
Il garzone, piú morto che vivo, che
appena potea ricogliere il fiato, disse:
- Io mi vi raccomando per l'amore di Dio, che
voi mi ascoltiate e non mi fate male.
Li contadini l'ascoltarono, per udire di
sí nuova cosa la cagione, il quale disse, dalla perdita delle carte
insino a quel punto, ciò che incontrato gli era. A' contadini venne
grandissima pietà di costui, e dissono:
- Figliuolo, tu hai aúta grandissima
sventura, ma la cosa non t'anderà male come tu credi: a Pistoia è
uno ordine che chiunque uccide alcun lupo, e presentalo al Comune, ha da quello
cinquanta lire.
Un poco tornò la smarrita vita al
giovene, essendoli profferto da loro e compagnia e aiuto a portare il detto
lupo; e cosí accettoe. E insieme alquanti con lui, portando il lupo,
pervennono all'albergo al pont'Agliana, donde si era partito, e l'albergatore
della detta cosa si maraviglioe, come si dee immaginare, e disse che e'
mercatanti se ne erano iti, e che egli ed eglino, veggendo non era tornato,
credeano lui essere da' lupi devorato, o essere da' malandrini preso. In fine
il garzone appresentò il lupo al Comune di Pistoia, dal quale, udita la
cosa come stava, ebbe lire cinquanta; e di queste spese lire cinque in fare
onore alla brigata, e con le quarantacinque, preso da loro commiato,
tornò al padre; e addomandando misericordia, gli contò ciò
che gli era intervenuto, e diegli le lire quarantacinque. Il qual padre, come
povero uomo, gli tolse volentieri, e perdonògli; e con li detti denari
fece copiare le carte, e dell'avanzo piatío gagliardamente.
E perciò non si dee mai alcuno
disperare, però che spesse volte, come la fortuna toglie, cosí
dà; e come ella dà, cosí toglie. Chi averebbe immaginato
che le perdute carte giú per l'acqua fossono state rifatte per un lupo
che mettesse la coda per uno cocchiume d'una botte, e sí nuovamente
fosse stato preso? Per certo questo è un caso e uno esemplo, non che da
non disperarsi, ma di cosa che venga non pigliare né sconforto né
malinconia.
Basso della Penna inganna certi Genovesi
arcatori, e a un nuovo giuoco vince loro quello ch'egli avevano.
Come questo giovene acquistò puramente,
e con grande simplicità, le lire cinquanta, cosí con grande
astuzia il piacevol uomo Basso della Penna, raccontato a drieto, in questa
novella vinse a un nuovo giuoco piú di lire cinquanta di bolognini. A questo
Basso capitorono all'albergo suo a Ferrara certi Genovesi che andavano arcando
con certi loro giuochi; e 'l Basso, avendo compresa la loro maniera, un giorno
innanzi desinare si mise allato lire venti di bolognini d'ariento e una pera
mézza, ché era di luglio, considerando che dopo desinare, lavate
le mani, in su la sparecchiata tavola d'arcare loro, e cosí fece.
Ché avendo desinato, ed essendo con loro ragionamenti alla mensa
sparecchiata, disse il Basso:
- Io voglio fare con voi a un giuoco che non ci
potrà avere malizia alcuna.
E mettesi mano in borsa, e trae fuori
bolognini, e dice:
- Io porrò a ciascun di noi uno
bolognino innanzi su questa tavola, e colui, a cui sul suo bolognino si
porrà prima la mosca, tiri a sé i bolognini che gli altri averanno
innanzi.
Costoro cominciorono con gran festa ad essere
contenti di questo giuoco, e parea loro mill'anni che 'l Basso cominciasse. Il
Basso, come reo, si mette il bolognino sotto con le mani tra gambe sotto la
tavola, dove elli avea una pera mézza: e venendo a porre a ciascuno il
bolognino innanzi, quello che dovea porre a sé ficcava nella pera
mézza, onde la mosca continuo si ponea sul suo bolognino, salvo che
delle quattro volte l'una ponea quello della pera dinanzi a uno di loro,
acciò che vincendo qualche volta non si avvedesseno della malizia.
E pur cosí continuando, cominciorono a
pigliare sospetto, parendo loro troppo perdere, e dissono:
- Messer Basso, noi vogliamo mettere i
bolognini uno di noi.
Disse il Basso:
- Io sono molto contento, acciò che non
prendiate sospetto.
Allora uno di loro co' suoi bolognini asciutti
e aridi, che non aveano forse mai tocca pera mézza, cominciò
mettere a ciascuno il suo bolognino. Il Basso lasciava andare sanza malizia
alcuna volta che vincessino; quando volea vincere elli, e 'l bolognino gli era
posto innanzi, spesse volte il polpastrello del dito toccava il mézzo
della pera, e mostrando di acconciare il bolognino che gli era messo innanzi,
lo toccava con quel dito, onde la mosca subito vi si ponea, benché gli
bisognava durare poca fatica, però che le hanno naso di bracchetto e
volavano tutte verso il Basso, sentendo la pera mézza, e ancora il luogo
su la tavola dinanzi da lui, dove di prima il bolognino unto del Basso avea
lasciato qualche sustanzia; e cosí provando or l'uno or l'altro dei
Genovesi, non poterono tanto fare che 'l Basso non vincesse loro lire cinquanta
di bolognini con una fracida pera, onde gli arcatori furono arcati, come avete
udito.
E molte volte interviene che son molti che con
certe loro maliziose arti stanno sempre avvisati d'ingannare, e di tirare
l'altrui a loro, e hanno tanto l'animo a quello che non credono che alcun altro
possa loro ingannare, e non vi pongono cura.
Se facessono la ragione del compagno, il quale
molte volte non è cieco, non interverrebbe loro quello che intervenne a
costoro; però che spesse volte l'ingannatore rimane a piede
dell'ingannato.
Basso della Penna a certi forestieri, che
domandorono lenzuola bianche, le dà loro sucide, ed eglino dolendosi, prova
loro che l'ha date bianche.
Questa pera mézza, con la quale il
Basso fece cosí bene i fatti suoi, mi reduce a memoria un'altra novella
di pere mézze, fatta già per lo detto Basso, nella quale si
dimostra apertamente che insino nell'ultimo della sua morte fu piacevolissimo.
Ma innanzi che venisse a questo, io dirò due novellette, che fece in
meno di due mesi anzi che morisse, avendo continuo o terzana o quartana, che
poi lo indusse a morte.
A Ferrara arrivorono alcuni Fiorentini
all'albergo suo una sera, e cenato che ebbono, dissono:
- Basso, noi ti preghiamo che tu ci dia
istasera lenzuola bianche.
Basso risponde tosto, e dice:
- Non dite piú, egli è fatto.
Venendo la sera, andandosi al letto, sentivano
le lenzuola non essere odorose, ed essere sucide. La mattina si levavono, e
diceano:
- Di che ci servisti, Basso, che tanto ti
pregammo iersera che ci dessi lenzuola bianche, e tu ci hai dato tutto il
contrario?
Disse il Basso:
- O questa è ben bella novella;
andiamole a vedere.
E giunto in camera caccia in giú il
copertoio, e volgesi a costoro e dice:
- Che son queste? son
elle rosse? son elle azzurre? son elle nere? non son elle bianche? Qual dipintore direbbe ch'elle fossono altro
che bianche?
L'uno de' mercatanti guatava l'altro, e
cominciava a ridere dicendo che 'l Basso avea ragione, e che non era notaio che
avesse scritto quelle lenzuola essere d'altro colore che bianche. E con queste
piacevolezze tirò gran tempo tanto a sé la gente che non si
curavono di letto né di vivande.
E questa è una loica piacevole, che sta
bene a tutti gli artieri, e massimamente agli albergatori, a' quali molti e di
diversi luoghi vengono alle mani. Questa novelletta ha fatti molti, che l'hanno
udita, savii; e io scrittore sono uno di quelli che giugnendo a uno albergo, volendo
lenzuola nette, addomando che mi dea lenzuola di bucato.
Basso della Penna fa un convito, là
dove, non mescendosi vino, quelli convitati si maravigliono, ed egli gli
chiarisce con ragione, e non con vino.
Questo Basso (ed è la seconda novella
di quelle che io proposi in queste di sopra) in questi due mesi di sopra
contati, ne' quali era già febbricoso del male che poi morío,
parve che volesse fare la cena come fece Cristo co' discepoli suoi; e fece
invitare molti suoi amici, che la tal sera venissono a mangiare con lui. La
brigata tutta accettoe; e giunti la sera ordinata, essendo molto bene
apparecchiate le vivande, postisi a tavola, e cominciando a mangiare, gli
bicchieri si stavono, che nessuno famiglio metteva vino.
Quando quelli che erano a mensa furono stati
quanto poteano, dicono a' famigli:
- Metteteci del vino.
Gli famigli, come aombrati, guardano qua e
là, e rispondono:
- E’ non c'è vino.
Di che dicono che 'l dicano al Basso, e
cosí fanno; onde il Basso si fa innanzi, e dice:
- Signori, io credo che voi vi dovete
ricordare dell'invito che vi fu fatto per mia parte: io vi feci invitare a
mangiare meco, e non a bere, però che io non ho vino che io vi desse,
né che fosse buono da voi, e però chi vuol bere, si mandi per lo
vino a casa sua, o dove piú li piace.
Costoro con gran risa dissono che 'l Basso
dicea il vero, mandando ciascuno per lo vino, se vollono bere.
Il Basso fu loico anco qui, ma questa non fu
loica con utile, se non che risparmiò il vino a questo convito; ma se
volea risparmiare in tutto, era migliore loica a non gli avere convitati, che
arebbe risparmiato anco le vivande; ma e' fu tanta la sua piacevolezza che
volle e fu contento che gli costasse per usare questo atto.
Basso della Penna nell'estremo della morte
lascia con nuova forma ogni anno alle mosche un paniere di pere mézze, e
la ragione, che ne rende, perché lo fa.
Ora verrò a quella novella delle pere
mézze, ed è l'ultima piacevolezza del Basso, però che fu
mentre che moría. Costui venendo a morte, ed essendo di state, e la
mortalità sí grande che la moglie non s'accostava al marito, e 'l
figliuolo fuggía dal padre, e 'l fratello dal fratello, però che
quella pestilenza, come sa chi l'ha veduto, s'appiccava forte, volle fare
testamento; e veggendosi da tutti i suoi abbandonato, fece scrivere al notaio
che lasciava ch'e' suoi figliuoli ed eredi dovessino ogni anno il dí di
San Jacopo di luglio dare un paniere di tenuta d'uno staio di pere mézze
alle mosche, in certo luogo per lui deputato. E dicendo il notaio: “Basso, tu
motteggi sempremai”; disse Basso:
- Scrivete come io dico; però che in
questa mia malattia io non ho aúto né amico né parente che
non mi abbia abbandonato, altro che le mosche. E però essendo a loro
tanto tenuto, non crederrei che Dio avesse misericordia di me, se io non ne
rendesse loro merito. E perché voi siate certo che io non motteggio, e
dico da dovero, scrivete che se questo non si facesse ogni anno, io lascio
diredati li miei figliuoli, e che il mio pervenga alla tale religione.
Finalmente al notaio convenne cosí
scrivere per questa volta; e cosí fu discreto il Basso a questo piccolo
animaluzzo.
Non istante molto, e venendosi nelli stremi,
che poco avea di conoscimento, andò a lui una sua vicina, come tutte
fanno, la quale avea nome Donna Buona, e disse:
- Basso, Dio ti facci sano; io sono la tua
vicina monna Buona.
E quelli con gran fatica guata costei, e disse
che appena si potea intendere:
- Oggimai, perché io muoia, me ne vo
contento, ché ottanta anni che io sono vissuto mai non ne trovai alcuna
buona.
Della qual parola niuno era d'attorno che le
risa potesse tenere, e in queste risa poco stante morí.
Della cui morte io scrittore, e molti altri
che erano per lo mondo, ne portorono dolore, però che egli era uno elemento
a chi in Ferrara capitava. E non fu grande discrezione la sua verso le mosche?
Sanza che fu una grande reprensione a tutta sua famiglia; ché sono assai
che abbandonano in cosí fatti casi quelli che doverrebbono mettere mille
morti per la loro vita, e tale è il nostro amore che non che li
figliuoli mettessino la vita per li loro padri, ma gran parte desiderano la
morte loro, per essere piú liberi.
Due frati minori passano dove nella Marca
è morto uno; l'uno predica sopra il corpo per forma che tale avea voglia
di piagnere che fece ridere.
Non fu sí canonizzata la fama del Basso
di piacevolezza dopo la sua morte, quanto fu canonizzata la fama d'uno ricco
contadino falsamente in santità in questa novella. E’ non è gran
tempo che nella Marca d'Ancona morí nella villa un ricco contadino, che
avea nome Giovanni; ed essendo, innanzi che si sotterrasse, tutti gli suo'
parenti e uomeni e donne nel pianto e ne' dolori, volendoli fare onore, non
essendo ivi vicina alcuna regola di frati, per avventura passorono due frati
minori, li quali da quelli che erano diputati a fare la spesa furono pregati
che alcuna predicazione facessono a commendazione del morto.
Li frati, nuovi sí del paese, e
sí d'avere conosciuto il morto, cominciorono tra loro a sorridere, e
tiratisi da parte disse l'uno all'altro:
- Vuo' tu predicar tu, o vuogli che io
predichi io?
Disse l'altro:
- Di' pur tu.
Ed egli seguí:
- Se io prédico, io voglio che tu mi
prometta di non ridere.
Rispose di farlo.
Dato l'ordine e l'ora, e saputo il nome del
morto, il valentre frate andò, come è d'usanza, dove era il morto
e tutta l'altra brigata; e salito alquanto in alto, propose:
- Que, qui . Per que s'intende Janni, per qui s'intende Joanni dello Barbaianni; non ci
dico cavelle, perché vola di notte. Signori e donne, io sento che questo
Joanni è stato bon peccatore, e quando ha possuto fuggire li disagi,
volentiera ce l'ha fatto; ed è ben vivuto secondo il mondo; hacci preso
gran vantaggio nel servire altrui, ed ègli molto spiaciuto l'essere
diservito: largo perdonatore è stato a ciascuno che bene gli abbia
fatto, e in odio ha avuto chi gli abbia fatto male. Con gran diletto ha
guardato li santi dí comandati; e secondo ho sentito, gli dí da
lavorare s'è molto guardato da' mali e dalle rie cose. Quando li suoi
vicini hanno avuto bisogno, fuggendo le cose disutili, sempre gli ha serviti:
è stato digiunatore quando ha aúto mal da mangiare: è
vissuto casto, quando costato li fosse. Oratore m'è detto che è
stato assai: ha detto molti paternostri, andandosi al letto, e l'Ave Maria
almeno, quando sonava nel popul suo. Spesso ne' dí fuor di settimana
facea elemosine. Venendo alla conclusione, li costumi e le opere sue sono state
tali e sí fatte che sono pochi mondani che non le commendassono. E chi mi
dicesse: “O frate, credi tu che costui sia in Paradiso?” Non credo. “Credi tu
che sia in Purgatorio?” Dio il volesse. “Credi tu che sia in Inferno?” Dio nel
guardi. E però pigliate conforto, e lasciate stare li lamenti, e sperate
di lui quel bene che si dee sperare, pregando Dio che ci dia grazia a noi, che
rimagnamo vivi, stare lungo tempo con li vivi, e li morti co' maglianni, da'
quali ci guardi qui vivit et regnat in secula seculorum. Fate la vostra confessione ecc.
La voce andò tra quella gente grossa e
lacrimosa costui avere nobilmente predicato, e che elli avea affermato il morto
per la sua santa vita essere salito in sommo cielo.
E’ frati se n'andorono con un buono desinare e
con denari in borsa, ridendo di questo per tutto il loro cammino.
Forse fu piú vera e sustanzievole predica questa di questo fraticello che non sono quelle de' gran teologhi, che metteranno con le loro parole li ricchi usurai in Paradiso, e sapranno che mentono per la gola; e sia chi vuole, che se un ricco è morto, abbia fatto tutti e' mali che mai furno, niuna differenzia faranno dal predicare di lui al predicare di San Francesco; però che piagentano per empiersi di quello delli ignoranti che vivono.
Messer Niccolò Cancellieri per esser
tenuto cortese fa convitare molti cittadini, e innanzi che vegna il dí
del convito è assalito dall'avarizia, e fagli svitare.
Questo inganno che questo frate fece con
coverte parole a fare tenere un uomo santo, che non v'era presso, non volle
usare in sé messer Niccolò Cancellieri, cavaliere dabbene, salvo
che era avarissimo. Il quale volendo coprire in sé questo vizio,
nell'ultimo si penteo, e nol fece.
Questo cavaliero fu da Pistoia, uomo sperto e
cortigiano, stato e usato quasi il piú della sua vita con la reina
Giovanna di Puglia, e con li signori e baroni di suo tempo e di quello paese.
Essendo tornato costui a Pistoia, e facendo là sua dimora, fu stimolato
e pinto dalli suoi prossimani, dicendo:
- Deh, messer Niccolò, voi sete un cavaliero
d'assai, se non che l'avarizia vi guasta; fate un bello corredo, e mostrate a'
Pistolesi non essere avaro come sete tenuto.
Tanto gli dissono che costui fece invitare
bene otto dí innanzi tutti li notabili uomeni di Pistoia a mangiare una
domenica mattina seco. E cosí fatto, quando giugne al quinto dí,
che s'appressava al tempo di comprare le vivande, una notte fra sé
medesimo pensò e fondossi pur su l'avarizia, però che il
dí vegnente dovea cominciare a sciogliere la borsa, dicendo in sé
medesimo: “Questo corredo mi costerà cento fiorini, o piú; e se
io ne facesse cinquanta come questo, serebbe uno: non fia che sempre io non sia
tenuto avaro. E per tanto, poiché 'l nome dell'avarizia non si dee
spegnere, io non sono acconcio per spenderci denaio”.
E cosí prese per partito che la
mattina, levato che fu, chiamò quel medesimo famiglio che per sua parte
avea invitato li cittadini, e disse:
- Tu hai la scritta con che tu invitasti que'
cittadini a desinare meco; recatela per mano, e come tu gl'invitasti, va', e
svitali.
Dice il famiglio:
- Doh, signore mio, guardate quello che voi
fate, e pensate che onore ve ne seguirà.
Dice il cavaliere:
- Bene sta; onore con danno al diavol
l'accomanno; va', e fa' quello che io ti dico; e se alcuno ti domanda la
cagione, rispondi che io mi sono pensato ch'io perderei la spesa.
E cosí andò il fante, e
cosí fece, laonde molti dí se ne disse in Pistoia, facendo
scherne al detto messer Niccolò. Il quale, essendogli manifesto, dicea:
- Io voglio innanzi che costoro dicano male di
me a corpo vòto, che a corpo satollo del mio.
Io non so se questa fu maggiore
cattività che quella che averebbono fatto gli svitati, quando avessono
avuto li corpi pieni, che forse con grandissime beffe di lui averebbono patito
quelle vivande, dicendo:
- Ben potrà spendere, e fare conviti,
ché cosa sforzata pare e sempre avaro fia tenuto.
El cavaliere si rimase nella sua
misertà e fuori della pena del convito, che non li fu piccola. Ebbe
questo difetto, il quale nel mondo sopra li piú regna per sí fatta
forma ch'egli è forse cagione delli maggiori mali che si commettono nel
cerchio della terra.
Messer Dolcibene al Sepolcro, perché ha
dato a uno Judeo, è preso e messo in un loro tempio, là dove
nella feccia sua fa bruttare i Judei.
Se nella precedente novella il cavaliere non
volle ingannare altrui e mostrare sé essere quello che non era,
cosí in questa messer Dolcibene mostrò e fece credere certamente
a certi Judei il falso per lo vero. Come addietro è narrato, messer
Dolcibene andò al Sepolcro; e come egli era di nuova condizione, e vago
di cose nuove, venendo a parole con uno Judeo, perché dicea contro a
Cristo, schernendo la nostra fede; dalle quali parole vennono a tanto che
messer Dolcibene diede al Judeo di molte pugna; onde fu preso e menato a gran
furore, dove fu serrato in un tempio de' Judei.
Venendo in su la mezza notte, essendo tristo e
solo cosí incarcerato, gli venne volontà d'andare per lo bisogno
del corpo, e non potendo altro luogo piú comodo avere, nel mezzo del
tempio scaricò la soma. La mattina di buon'ora vennono certi Judei, e
apersono il tempio, dove nel mezzo dello spazzo trovorono questa bruttura. Come
la viddono, cominciano a gridare:
- Mora, mora lo cristiano maladetto, che ha
bruttato lo tempio dello Dio nostro.
Messer Dolcibene, essendo da costoro assalito
e preso, avendo gran paura, disse:
- Io non fui io; ascoltatemi, se vi piace:
stanotte in su la mezza notte io senti' gran romore in questo luogo; e
guardando che fosse, e io vidi lo Dio vostro e lo Dio nostro che s'aveano preso
insieme e dàvansi quanto piú poteano. Nella fine lo Dio nostro
cacciò sotto il vostro, e tanto gli diede che su questo smalto fece
quello che voi vedete.
Udendo li Judei dire questo a messer
Dolcibene, dando alle parole quella tanta fede che aveano, tutti a una corsono
a quella feccia, e con le mani pigliandola, tutti i loro visi s'impiastrarono,
dicendo:
- Ecco le reliquie del Dio nostro.
E chi piú si studiava di mettersene sul
viso, a quello parea essere piú beato; e lasciando messer Dolcibene,
n'andorono molti contenti, con li visi cosí lordi: e ancora procurando
per lui, però che la tal cosa con gran verità avea loro revelata,
il feciono lasciare.
Molto fu piú contento messer Dolcibene
ch'e' Judei; però che fu molto novella da esaltare un suo pari e da
guadagnare di molti doni, raccontandola a' signori e ad altri. E io credo
ch'ella fosse molto accetta a Dio, e che in quello viaggio non facesse cosa
tanto meritoria che quelli increduli dolorosi s'imbruttassino in quelle
reliquie che allora meritavano.
Messer Dolcibene per sentenzia del Capitano di
Forlí castra con nuovo ordine uno prete, e poi vende li testicoli lire
ventiquattro di bolognini.
La seguente novella di messer Dolcibene, della
quale voglio ora trattare, fu da dovero, dove la passata fu una beffa.
Nel tempo che messer Francesco degli Ardalaffi
era signor di Forlí, una volta fra l'altre v'arrivò messer
Dolcibene: e volendo il detto signore per esecuzione fare castrare un prete, e
non trovandosi alcuno che 'l sapesse fare, il detto messer Dolcibene disse di
farlo elli. Il capitano non averebbe già voluto altro, e cosí fu
fatto. E messer Dolcibene fece apparecchiare una botte, e sfondata dall'uno de'
lati, la mandò in su la piazza facendo là menare il prete, ed
elli col rasoio e con uno borsellino andò nel detto luogo.
Giunti là e l'uno e l'altro, e gran
parte di Forlí tratta a vedere, messer Dolcibene avendo fatto trarre le
strabule al prete, lo fece salire su la botte a cavalcioni, e li sacri
testicoli fece mettere per lo pertugio del cocchiume. Fatto questo, ed elli
entrò di sotto nella botte, e col rasoio tagliata la pelle, gli
tirò fuora e misseli nel borsellino, e poi gli si mise in uno carniere,
però che s'avvisò, come malizioso, di guadagnare, come fece. Il
prete doloroso, levato di su la botte, ne fu menato cosí capponato a una
stia, e là alquanti dí si fece curare. Il capitano di queste cose
tutto godea.
Avvenne poi alquanti dí che uno cugino
del prete venne a messer Dolcibene in segreto, pregandolo caramente che quelli
granelli gli dovesse dare, ed elli farebbe sí che serebbe contento;
però che 'l prete capponato sanza essi dire messa non potea. Messer
Dolcibene, aspettando questo mercatante, gli avea già misalti e asciutti,
e quanto gli dicesse, e come gli mercatasse, egli n'ebbe lire ventiquattro di
bolognini. Fatto questo, con grandissima festa disse al capitano che
cosí fatta mercanzia avea venduta; e 'l sollazzo e la festa che 'l
capitano ne fece non si potrebbe dire. E in fine, per diletto e non per
avarizia, della quale fu nimico, disse che volea questi denari e che elli
apparteneano a lui. Messer Dolcibene si poteo assai scuotere, ché
convenne che tra le branche di Faraone si cavassono lire dodici di bolognini,
dando la metade al detto capitano.
E cosí rimase la cosa che 'l prete se
n'andò senza granelli dell'uno de' quali ebbe il capitano lire dodici, e
messer Dolcibene altrettanti dell'altro.
Questa fu una bella e nuova mercanzia:
cosí delle simili si facessono spesso, ché ne serebbe molto di
meglio il mondo; e che fossono tratti a tutti gli altri, acciò che,
ricomperandosi, avessono l'uno e l'altro danno, e poi gli si portassono in uno
borsellino, che almeno non serebbono li viventi venuti a tanto che bandissono
ogni dí le croci sopra le mogli altrui, e che tenessono le femmine alla
bandita, chiamandole chi amiche, chi mogli e chi cugine; e li figliuoli che ne
nascono, loro nipoti gli battezzano, non vergognandosi d'avere ripieni li
luoghi sacri di concubine e di figliuoli nati di cosí dissoluta
lussuria.
Bartolino farsettaio fiorentino, trovandosi
nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo, e col maestro Dino da
Olena, insegna loro trarre il sangue, ecc.
La dottrina che seguita non fu meno maestrevole
che quella di messer Dolcibene, la quale usoe Bartolino farsettaio, trovandosi
nel bagno a Petriuolo col maestro Tommaso del Garbo e con maestro Dino da
Olena, ragionando d'assai cose da diletto con loro, però che come
fossono scienziati, erano non meno piacevoli che Bartolino. Fra l'altre cose
che costui disse a questi due medici, fu che gli domandò se sapeano come
si traea il sangue al peto. Udendo li due valentri uomeni questo, cominciano ad
entrare nelle risa per sí fatta forma che quasi rispondere non poteano;
pur in fine dissono che no, ma che volentieri l'apparerebbono.
Disse Bartolino:
- Che volete che vi costi?
Disse il maestro Tommaso:
- Voglio che ogni volta che tu avrai male,
esser tenuto di medicarti in dono.
E 'l maestro Dino disse che gli volea essere
obbligato che ogni volta si volesse far fare uno farsetto non farlo mai fare
per altra mano che per la sua.
Disse Bartolino allora:
- E io sono contento; state attenti, e io ve
lo mostreroe testeso.
E subito fece un peto nell'acqua del bagno, il
quale immantenente gorgogliando venne a galla e fece una vescica. E Bartolino
come vide la vescica:
- Ora vi converrebbe avere la saettuzza e
darvi entro
Quanti ne avea nel bagno, delle risa furono
presso che affogati, e li medici piú che gli altri.
Io scrittore non so qual fosse meglio, o
quello che promissono questi medici a Bartolino, o quello che Bartolino
insegnò loro. Come che fosse, onestamente Bartolino riprese l'arte loro,
che tanto ne sanno molti quanto Bartolino ne 'nsegnò loro, o meno.
Marchese Obizzo da Esti comanda al Gonnella
buffone che subito vada via, e non debba stare sul suo terreno; e quello che
segue.
Il Gonnella piacevole buffone, o uomo di corte
che vogliamo dire, mostrò al marchese da Ferrara non meno che Bartolino.
Però che avendo il detto buffone commessa alcuna cosa piccola contro al
marchese Obizzo, o per avere diletto di lui, gli comandò espressamente
che sul suo terreno non dovesse stare; ché se vi stesse, gli farebbe
tagliare la testa. Di che il Gonnella, nuovo come egli era, se ne andò a
Bologna, e là accattoe una carretta, e su vi misse terreno di quello de'
Bolognesi, e detto e accordatosi col guidatore della carretta del pregio, vi
salí suso e ritornò in su questa carretta dinanzi al marchese
Obizzo. Il quale, veggendo venire il Gonnella in sí fatta maniera, si
maravigliò e disse:
- Gonnella, io t'ho detto che tu non debba
stare sul mio terreno, e tu mi vieni su una carretta dinanzi. Che vuol dire
questo? ha' mi tu per cosí dappoco?
E disse a' famigli suoi che 'l pigliassono a
furore.
Disse il Gonnella:
- Signor mio, ascoltatemi per Dio, e fatemi
ragione, facendomi impiccare per la gola, se io ho fallato.
Il signore, volonteroso d'udirlo, che ben
pensava qualche nuova ragione dirsi per lui, disse:
- Aspettate un poco, tanto che dica ciò
che vuole.
Allora il Gonnella disse:
- Signore, voi mi comandaste che io non stesse
sul vostro terreno; di che io me ne andai subito a Bologna, e misi su questa
carretta terreno bolognese, e su quello sono stato e al presente sono, e non
sul vostro, né sul ferrarese.
Il marchese, udendo costui, con gran sollazzo
patí questa ragione, dicendo:
- Gonnella, tu se' una falsa gonnella e con
tanti colori e sí diversi che non mi vale né ingegno né
arte contro alla tua malizia: sta' ove tu vuogli, ch'io te la do per vinta.
E con questa piacevole astuzia rimase a
Ferrara, e rimandò la carretta a Bologna, e 'l marchese l'ebbe per da
piú che prima.
E cosí con una nuova legge che niuno
dottore giammai seppe allegare, il Gonnella allegò sí che a
ragione il marchese non seppe contraddire, e 'l Gonnella ne guadagnò una
roba.
Ser Tinaccio prete da Castello mette a dormire
con una sua figliuola uno giovene, credendo sia femina, e 'l bel trastullo che
n'avviene.
Piú nuova e piú archimiata
mostra fece colui che si mostrò in questa novella essere femina, ed era
uomo. Venendo alla novella, nel mio tempo fu prete d'una chiesa a Castello,
contado di Firenze, uno che ebbe nome ser Tinaccio, il quale essendo già
vecchio, avea tenuto ne' passati tempi, o per amica o per nimica, una bella
giovane dal Borgo Ognissanti, e avea avuto di lei una fanciulla, la quale nel
detto tempo era bellissima e da marito: e la fama era per tutto che la nipote
del prete era una bella cosa.
Stava non troppo di lungi a questa uno
giovane, del cui nome e famiglia voglio tacere, il quale, avendo piú
volte veduta questa fanciulla, ed essendone innamorato, pensò una
sottile malizia per essere con lei, e venneli fatto. Una sera di tempo piovoso,
essendo ben tardi, costui si vestí come una forese, e soggolato che
s'ebbe, si mise paglia e panni in seno, facendo vista d'essere pregna e d'avere
il corpo a gola, e andossene alla chiesa per addomandare la confessione, come
fanno le donne quando sono presso al partorire. Giunta che fu alla chiesa, era
presso a un'ora di notte, picchiò la porta, e venendo il cherico ad
aprire, domandò del prete. Il cherico disse:
- Elli portò poc'ora fa la comunione a
uno, e tornerà tosto.
La donna grossa disse:
- Ohimè, trista, ch'io sono tutta
trambasciata.
E forbendosi spesso il viso con uno
sciugatoio, piú per non essere conosciuto che per sudore che avesse sul
volto, si pose con grande affanno a sedere dicendo:
- Io l'aspetterò, ché per la
gravezza del corpo non ci potrei tornare; e anco, se Dio facesse altro di me,
non mi vorrei indugiare.
Disse il cherico:
- Sia con la buon'ora.
Cosí aspettando, il prete giunse a
un'ora di notte. Il popolo suo era grande: avea assai populane che non le
conoscea. Come la vide al barlume, la donna archimiata con grande ambascia, e
asciugandosi il viso, gli disse che l'avea aspettato, e l'accidente il
perché. E 'l prete la cominciò a confessare. La maschia donna,
com'era, fece la confessione ben lunga, acciò che la notte sopravvenisse
bene. Fatta la confessione, la donna cominciò a sospirare, dicendo:
- Trista, ove n'andrò oggimai istasera?
Ser Tinaccio disse:
- E’ serebbe una sciocchezza; egli è
notte buia e pioveggina e par che sia per piovere piú forte; non andate
altrove: statevi stasera con la mia fanciulla, e domattina per tempo ve
n'anderete.
Come la maschia donna udí questo, gli
parve essere a buon punto di quello che desiderava; e avendo l'appetito a
quello che 'l prete dicea, disse:
- Padre mio, io farò come voi mi consigliate,
però che io sono sí affannata per la venuta che io non credo che
io potesse andare cento passi sanza gran pericolo, e 'l tempo è cattivo
e la notte è, sí che io farò come voi dite. Ma d'una cosa
vi prego, che se 'l mio marito dicesse nulla, che voi mi scusiate.
Il prete disse:
- Lasciate fare a me
E andata alla cucina, come il prete la invioe,
cenò con la sua fanciulla, spesso adoprando lo sciugatoio al viso per
celare la faccia.
Cenato che ebbono, se ne andorono al letto in
una camera, che altro che uno assito non v'avea in mezzo da quella di ser
Tinaccio. Era quasi sul primo sonno che 'l giovane donna cominciò a
toccar le mammelle alla fanciulla, e la fanciulla già avea dormito un
pezzo; e 'l prete s'udía russare forte; pur accostandosi la donna grossa
alla fanciulla, e la fanciulla, sentendo chi per lei si levava, comincia a
chiamare ser Tinaccio, dicendo:
- Egli è maschio.
Piú di tre volte il chiamò pria
che si svegliassi; alla quarta:
- O ser Tinaccio, egli è maschio.
E ser Tinaccio tutto dormiglioso dice:
- Che di' tu?
- Dico ch'egli è maschio.
Ser Tinaccio, avvisandosi che la buona donna
avesse fatto il fanciullo, dicea:
- Aiutalo, aiutalo, figliuola mia.
Piú volte seguí la fanciulla:
- Ser Tinaccio, o ser Tinaccio, io vi dico
ch'egli è maschio.
E quelli rispondea:
- Aiutalo, figliuola mia, aiutalo, che sie
benedetta.
Stracco ser Tinaccio, come vinto dal sonno si
raddormentoe, e la fanciulla ancora stracca e dalla donna grossa e dal sonno, e
ancora parendoli che 'l prete la confortasse ad aiutare quello di cui ella
dicea, il meglio che poteo si passò quella notte. E presso all'alba,
avendo il giovene adempiuto quanto volle il suo desiderio, manifestandosi a
lei, che già sanza mandorle s'era domesticata, e chi egli era, e come
acceso del suo amore s'era fatto femina, solo per essere con lei come con
quella che piú che altra cosa amava, e per arra, levatosi, in sul
partire gli donò denari che aveva allato, profferendoli ciò che
avea essere suo; ed ancora ordinò per li tempi avvenire come spesso si
trovassono insieme; e fatto questo con molti baci e abbracciamenti
pigliò commiato, dicendo:
- Quando ser Tinaccio ti domanderà “che
è della donna grossa”, dirai: “Ella fece istanotte un fanciul maschio,
quando io vi chiamava, e istamane per tempo col detto fanciullo s'andò
con Dio”.
Partitosi la donna grossa, e lasciata la
paglia, che portò in seno, nel saccone di ser Tinaccio; il detto ser
Tinaccio, levandosi, andò verso la camera della fanciulla, e disse:
- Che mala ventura è stata questa
istanotte, che tu non mi hai lasciato dormire? Tutta notte ser Tinaccio, ser
Tinaccio : ben, che è stato?
Disse la fanciulla:
- Quella donna fece un bel fanciul maschio.
- O dove è?
Disse la fanciulla:
- Istamane per tempissimo, credo piú
per vergogna che per altro, se n'andò col fanciullo.
Disse ser Tinaccio:
- Deh dagli la mala pasqua, ché tanto
s'indugiano che poi vanno pisciando li figliuoli qua e là. Se io la
potrò riconoscere, o sapere chi sia il marito, ché dee essere un
tristo, io gli dirò una gran villania.
Disse la fanciulla:
- Voi farete molto bene, ché anco me
non ha ella lasciato dormire in tutta notte.
E cosí finí questa cosa,
ché da quell'ora innanzi non bisognò troppo archimia a
congiugnere li pianeti, che spesso poi per li tempi si trovorono insieme; e 'l
prete ebbe di quelle derrate che danno altrui. Cosí, poiché non
si può far vendetta sopra le loro mogli, intervenisse a tutti gli altri,
o sopra le nipote, o sopra le figliuole, come fu questa, simile inganno, che
per certo e' fu bene uno de' maggiori e de' piú rilevati che mai si
udisse.
E credo che 'l giovene facesse piccolo peccato
a fallire contro a coloro che, sotto la coverta della religione, commettono
tanti falli tutto dí contro alle cose altrui.
Uno cavaliero di Francia, essendo piccolo e
grasso, andando per ambasciadore innanzi a papa Bonifazio, nell'inginocchiare
gli vien fatto un peto, e con un bel motto ramenda il difetto.
Io uscirò ora alquanto di quelle
materie e inganni ragionati di sopra, e verrò a uno piacevole motto che
uno cavaliere francesco gittò dinanzi a papa Bonifazio ottavo.
Uno cavaliere valente di Francia fu mandato
per ambasciador con alcun altro dinanzi a papa Bonifazio, che avea nome messer
Ghiriberto, il quale era bassetto di sua persona, e pieno e grasso quanto
potea. E giunto il dí che costui dovea sporre questa ambasciata, come
uomo non usato a simil faccenda, domandò alcuno che reverenzia si
costumava fare quando un suo pari andava dinanzi al Papa. Fugli detto che
convenía che s'inginocchiasse tre volte per la tal forma. Essendo il
cavaliere di tutto informato, andò il dí medesimo dinanzi al Papa
per disporre l'ambasciata; e volendo fare destramente piú che non potea
la sua persona, s'inginocchiò la prima volta; come che gli fosse fatica,
pur n'uscío; venendo alla seconda inginocchiazione, la fatica della
prima aggiugnendosi con la seconda, e 'l volere fare presto e non potere, lo
costrinse a far sí che la parte di sotto si fe' sentire. El cavaliere,
veggendo esser vituperato, subito soccorse, dandosi delle mani nell'anche,
dicendo:
- Lascia parlare moi, che mala mescianza vi
don Doi.
Papa Bonifazio, che ogni cosa avea sentito, e
ancora il piacevole motto dello ambasciadore, disse:
- Dite ciò che voi volete, che io
v'intenderò bene.
E giugnendo appiè del Santo Padre, con
grande sollazzo il ricevette; ed elli seguío la sua ambasciata, e per
averla sposta con due bocche ebbe meglio dal Papa ciò che
domandò.
Molto fu da gradire il tostano rimedio di questo cavaliero, il quale, sentendosi contra il suo volere caduto in tal vergogna, subito ricorse a quello, ché altro rimedio non vi era, né piú piacevole. Altri scientifichi uomeni già sono stati, che dicendo una ambasciata dinanzi al Papa, sanza che caso sia occorso loro di vergogna, sono cascati, non sappiendo perché, in sí fatta maniera che sono penati una gran pezza a ritornare in loro.
Tre ambasciadori cavalieri sanesi e uno
scudiere vanno al Papa. Fanno dicitore lo scudiere, e la cagione perché,
e quello che con piacere ne seguío.
Non fu meno coraggioso questo ambasciadore
sanese a dire arditamente la sua ambasciata dinanzi al Papa, che fosse il
cavaliero di Francia.
Fu in Siena al tempo di Gregorio papa decimo
ordinato di mandarli una solenne ambasciata, ed elessono tre cavalieri e uno
che non era cavaliere, il quale era il migliore dicitore di Siena, quando tre o
quattro volte avesse bevuto d'un buon vino prima che disponesse l'ambasciata: e
non beendo per lo modo detto, non averebbe saputo dire una gobbola. E questa
condizione, o natura, a me scrittore mi pare che fosse delle strane e delle
diverse che mai s'udissono.
Mossonsi questi quattro ambasciadori sanesi, e
andarono a Corte: ed essendo la mattina che doveano sporre l'ambasciata,
tiratisi da parte all'albergo, cominciò a dire alcuno de' cavalieri:
- Chi dirà?
Disse uno di loro:
- Cioè? E chi nol sa chi dee dire? dica
il tale.
Costui si cominciò a difendere, che non
era cavaliere; e che, dicendo egli, era fare vergogna agli altri compagni
ambasciadori, che erano cavalieri; e quella per niun modo volea fare.
Brievemente, e' si poteo ben dire di Berta e
di Bernardo, che costui pinto da' tre convenne che fosse il dicitore. E col
modo usato fu mandato per lo migliore vino della terra e per li confetti.
Beúto che n'ebbe il dicitore tre volte, andorono a disporre
l'ambasciata, la quale fu per lo scudiere tanto ben disposta, quanto altra che
disponesse mai. Fatto questo, ed essendo per quella mattina dal papa
licenziati, tornorono all'albergo. Ed essendo alquanto ristretti insieme, disse
il dicitore a' cavalieri:
- Io non so se io dissi bene, e a vostro modo.
Dissono li cavalieri:
- Per certo tu dicesti meglio che tu dicessi
mai.
Rispose il dicitore e presto:
- Per lo santo sangue di Dio, che se io avesse
beúto un altro tratto io gli averei dato nel viso.
Quanto li cavalieri del detto di questo loro
compagno risono, non si potrebbe dire. E 'l dicitore mostrò che, chi non
ha cuore, lasciando ogni temerità, giammai non può ben dire.
E cosí è veramente, che 'l
dicitore, quando parla, conviene che sia sicuro e coraggioso, però che
'l dire sempre manca per lo timore; e chi è ben pronto e ardito dinanzi
al sommo pontefice, rade volte o non mai avviene che dinanzi ad ogni signore
non dica arditamente.
Due ambasciadori di Casentino sono mandati al
vescovo Guido d'Arezzo; dimenticano ciò che è stato commesso, e
quello che 'l vescovo dice loro, e come tornati hanno grande onore per aver ben
fatto.
Se lo passato ambasciadore ampliava il suo
dire, o la sua rettorica per bere il vino, in questa mostrerrò come due
ambasciadori per lo bere d'un buon vino, come che non fossono di gran memoria,
ma quella cotanta che aveano quasi perderono.
Quando il vescovo Guido signoreggiava Arezzo,
si creò per li Comuni di Casentino due ambasciadori, per mandare a lui
addomandando certe cose. Ed essendo fatta loro la commessione di quello che
aveano a narrare, una sera al tardi ebbono il comandamento di essere mossi la
mattina. Di che tornati la sera a casa loro, acconciarono loro bisacce, e la
mattina si mossono per andare al loro viaggio imposto. Ed essendo camminati
parecchie miglia, disse l'uno all'altro:
- Hai tu a mente la commessione che ci fu
fatta?
Rispose l'altro che non gliene ricordava.
Disse l'altro:
- O io stava a tua fidanza.
E quelli rispose:
- E io stava alla tua.
L'un guata l'altro, dicendo:
- Noi abbiàn pur ben fatto! O come
faremo?
Dice l'uno:
- Or ecco, noi saremo tosto a desinare
all'albergo, e là ci ristrigneremo insieme, non potrà essere che
non ci torni la memoria.
Disse l'altro:
- Ben di' -; e cavalcando e trasognando
pervennono a terza all'albergo dove doveano desinare, e pensando e ripensando,
insino che furono per andare a tavola, giammai non se ne poterono ricordare.
Andati a desinare, essendo a mensa, fu dato
loro d'uno finissimo vino. Gli ambasciadori, a cui piacea piú il vino
che avere tenuta a mente la commessione, si comincia ad attaccare al vetro; e
béi e ribei, cionca e ricionca, quando ebbono desinato, non che si
ricordassino della loro ambasciata ma e' non sapeano dove si fossono, e
andarono a dormire. Dormito che ebbono una pezza, si destaron tutti intronati.
Disse l'uno all'altro:
- Ricorditi tu ancora del fatto nostro?
Disse l'altro:
- Non so io; a me ricorda che 'l vino
dell'oste è il migliore vino che io beessi mai; e poi ch'io desinai, non
mi sono mai risentito, se non ora; e ora appena so dove io mi sia.
Disse l'altro:
- Altrettale te la dico; ben, come faremo? che
diremo?
Brievemente disse l'uno:
- Stiànci qui tutto dí oggi; e
istanotte (ché sai che la notte assottiglia il pensiero) non
potrà essere che non ce ne ricordi.
E accordaronsi a questo; e ivi stettono tutto
quel giorno, ritrovandosi spesso co' loro pensieri nella Torre a Vinacciano. La
sera essendo a cena e adoperandosi piú il vetro che 'l legname, cenato
che ebbono, appena intendea l'uno l'altro. Andaronsi al letto, e tutta notte
russorono come porci. La mattina levatisi, disse l'uno:
- Che faremo?
Rispose l'altro:
- Mal che Dio ci dia, ché poi che
istanotte non m'è ricordato d'alcuna cosa, non penso me ne ricordi mai.
Disse l'altro:
- Alle guagnele, che noi bene stiamo, che io
non so quello che si sia, o se fosse quel vino, o altro, che mai non dormi'
cosí fiso, sanza potermi mai destare, come io ho dormito istanotte in
questo albergo.
- Che diavol vuol dir questo? - disse l'altro.
-
Saliamo a cavallo, e andiamo con Dio; forse
tra via pur ce ne ricorderemo.
E cosí si partirono, dicendo per la via
spesso l'uno all'altro:
- Ricorditi tu?
E l'altro dice:
- No, io.
- Né io.
Giunsono a questo modo in Arezzo, e andorono
all'albergo; dove spesso tirandosi da parte, con le mani alle gote, in una
camera, non poterono mai ricordarsene. Dice l'uno, quasi alla disperata:
- Andiamo, Dio ci aiuti.
Dice l'altro:
- O che diremo, che non sappiamo che?
Rispose quelli:
- Qui non dee rimanere la cosa.
Misonsi alla ventura, e andorono al vescovo; e
giugnendo dove era, feciono la reverenzia, e in quella si stavano senza venire
ad altro. Il vescovo, come uomo che era da molto, si levò e andò
verso costoro, e pigliandoli per la mano, disse:
- Voi siate li ben venuti, figliuoli miei; che
novelle avete voi?
L'uno guata l'altro:
- Di' tu.
- Di' tu.
E nessuno dicea. Alla fine disse l'uno:
- Messer lo vescovo, noi siamo mandati
ambasciadori dinanzi alla vostra signoria da quelli vostri servidori di
Casentino, ed eglino che ci mandano, e noi che siamo mandati, siamo uomeni
assai materiali; e ci feciono la commessione da sera in fretta; come che la
cosa sia, o e' non ce la seppono dire, o noi non l'abbiamo saputa intendere.
Preghianvi teneramente che quelli Comuni e uomeni vi siano raccomandati, che
morti siano egli a ghiadi che ci mandorono, e noi che ci venimmo.
Il vescovo saggio mise loro la mano in su le
spalle, e disse:
- Or andate, e dite a quelli miei figliuoli,
che ogni cosa che mi sia possibile nel loro bene, sempre intendo di fare. E
perché da quinci innanzi non si diano spesa in mandare ambasciadori,
ognora che vogliono alcuna cosa, mi scrivino, e io per lettera
risponderò loro.
E cosí pigliando commiato, si
partirono.
Ed essendo nel cammino, disse l'uno all'altro:
- Guardiamo che e' non c'intervenga al
tornare, come all'andare.
Disse l'altro:
- O che abbiamo noi a tenere a mente?
Disse l'altro:
- E però si vuol pensare, però
che noi averemo a dire quello che noi esponemmo, e quello che ci fu risposto.
Però che s'e' nostri di Casentino sapessono come dimenticammo la loro
commessione, e tornassimo dinanzi da loro come smemorati, non che ci mandassono
mai per ambasciadori, ma mai offizio non ci darebbono.
Disse l'altro, che era piú malizioso:
- Lascia questo pensiero a me. Io dirò
che sposto che avemo l'ambasciata dinanzi al vescovo, che egli graziosamente in
tutto e per tutto s'offerse essere sempre presto a ogni loro bene, e per
maggiore amore disse che per meno spesa ogni volta che avessono bisogno di lui,
per loro pace e riposo scrivessero una semplice lettera, e lasciassono stare le
'mbasciate.
Disse l'altro:
- Tu hai ben pensato; cavalchiamo pur forte,
che giunghiamo a buon'ora al vino che tu sai.
E cosí spronando, giunsono all'albergo,
e giunto un fante loro alla staffa, non domandorono dell'oste, né come
avea da desinare, ma alla prima parola domandorono quello che era di quel vino.
Disse il fante:
- Migliore che mai.
E quivi s'armorono la seconda volta non meno
della prima, e innanzi che si partissono, però che molti muscioni erano
del paese tratti, il vino venne al basso, e levossi la botte. Gli ambasciadori
dolenti di ciò la levorono anco ellino, e giunsono a chi gli avea
mandati, tenendo meglio a mente la bugia che aveano composta che non feciono la
verità di prima, dicendo che dinanzi al vescovo aveano fatto cosí
bella aringhiera, e dando ad intendere che l'uno fosse stato Tulio e l'altro
Quintiliano, e' furono molto commendati, e da indi innanzi ebbono molti
officii, che le piú volte erano o sindachi, o massai.
Oh quanto interviene spesso, e non pur de'
pari di questi omicciatti, ma de' molto maggiori di loro, che sono tutto
dí mandati per ambasciadori, che delle cose che avvengono hanno a fare
quello che 'l Soldano in Francia; e scrivono e dicono che per dí e per
notte mai non hanno posato, ma sempre con grande sollecitudine hanno adoperato,
e tutta è stata loro fattura; che attagliono e intervengono, ed eglino
seranno molte volte con quel sentimento che un ceppo; e fiano commendati da chi
gli ha mandati, e premiati con grandissimi officii e con altri guiderdoni
perché li piú si partono dal vero e spezialmente quando per
essere loro creduto se ne veggiono seguire vantaggio.
Uno frate predicatore in una terra toscana, di
quaresima predicando, veggendo che a lui udire non andava persona, truova modo
con dire che mostrerrà che l'usura non è peccato, che fa
concorrere molta gente a lui e abbandonare gli altri.
Meglio seppe comporre una sua favola uno
frate, del quale parlerò in questo capitolo, che non seppono comporre la
loro gli ambasciadori di Casentino. Però che in una terra delle grandi
di Toscana, predicandosi nel tempo di quaresima, come è d'usanza, in
piú luoghi, uno frate predicatore veggendo che agli altri che
predicavono, come spesso interviene, andava molta gente, e a lui quasi non
andava persona, disse uno mercoledí mattina in pergamo:
- Signori, egli è buona pezza che io ho
veduto tutti gli teologhi e predicatori in un grande errore; e questo è
ch'egli hanno predicato che 'l prestare sia usura e grandissimo peccato, e che
tutti i prestatori vanno a dannazione. E io per quello che io posso
comprendere, e che io ho trovato, ho veduto che 'l prestare non è
peccato. E acciò che voi non crediate che io dica da beffe, o che io
faccia stremi argomenti di loica, io vi dico ch'egli è tutto il
contrario di questo, ch'egli hanno sempre predicato. E perché non
crediate che io dica favole, perché la materia è grande, se io
averò il tempo, io ne predicherò domenica mattina; e se io non
avesse il tempo, un altro dí che mi venga a taglio, sí che ne
anderete contenti, e fuori d'ogni errore.
La gente udendo questo, chi mormora di qua, e
chi borboglia di là. Finita la predica, escono della chiesa; la boce va
qua e là; ciascuno pensa: “Che vuol dire questo?” Gli prestatori stanno
lieti, e gli accattatori tristi; e tale non avea prestato, che comincia a
prestare. Chi dice: “Costui dee essere un valentissimo uomo”; e chi dice che
dee essere una pecora; questo non si disse mai piú.
E in brieve tutta la terra aspettava la
domenica mattina, la quale, venuta che fu, come li popoli son sempre vaghi di
cose nuove, tutti corsono a pigliare luogo, e gli altri predicatori poterono
predicare alle panche. Costui avea prima gli uditori sí radi che
dall'uno all'altro avea parecchie braccia; ora v'erano sí stretti che
affogava l'un l'altro; e questo era quello che elli avea desiderato. Giugnendo
il frate in pergamo, e detta l'Avemaria, per non guastare la sua predicazione,
propuose sopra l'Evangelio, e disse:
- Io dirò prima certe cose morali; poi
dirò la storia dell'Evangelio; e ultimamente alcune parti a nostro
ammaestramento, come la materia richiede, e dopo questo dirò dell'usura,
come io vi promisi di dire.
E predicando per grande spazio questo valentre
frate, mise gran tempo su le parti dell'Evangelio; e venendo a quella
dell'usura, era molto tarda l'ora, però che era passata terza, e
ciò avea fatto in prova per tranquillare la gente. Di che disse:
- Signori, questo Evangelio mi ha ingannato in
questa mattina, però che egli è di grande sustanzia, e la midolla
sua è profonda, come avete udito, e sono per questo sí trascorso
oltre che in questa mattina non avrei tempo di dire quello che io v'ho
promesso; ma abbiate pazienzia, ché in queste mattine che verranno non
serà sí lungo il predicare; e quando mi vedrò il tempo, io
ve ne predicherò, che mi pare mill'anni, per trarvi di questo errore.
E cosí gli pasceo d'oggi in domane
insino all'altra domenica, nella quale concorse maggior populo che prima.
Essendo salito in pergamo e avendo predicato, disse:
- Signori, io so che la cagione che tanta
moltitudine è qui è solo per udire quello che piú volte
v'ho detto, cioè del prestare. Di che io mi vi scuso, ché io sono
stato un poco riscaldato di febbre; e pertanto m'abbiate stamane per iscusato;
ma il tal dí venite, e se Dio mi farà grazia, ve ne
predicherò.
E ora facendo una scusa, e ora un'altra, tutta
Quaresima fece venire gente a sé, tenendoli sospesi insino a domenica
d'olivo. Allora disse:
- Io vi ho promesso tante volte di dire la tal
cosa che io non voglio trapassare questa mattina che io non vi dica ciò
che io v'ho promesso. Voi sapete, signori, che la carità è
accetta a Dio, quanta altra virtú che sia, o piú. E la
carità non è altro che sovvenire al prossimo, e 'l prestare
è sovvenimento; adunque, dico che 'l prestare si può fare, e
ch'egli è licito; e ancora piú, che chi presta, merita. Ma dove
sta il peccato, e dove è? Il peccato è nel riscuotere; e
però il prestare, e non riscuotere, non che sia peccato, ma egli
è grandissima mercè, ed essere accetto a Dio. E ancora dico
piú che 'l riscuotere si può fare con modo, che non che sia
peccato, ma è grandissima carità. Verbigrazia, uno presta a un altro
fiorini cento, riscuote a certo dí li fiorini cento, e non piú;
questo prestare e questo riscuotere è licito, e molto piace a Dio, e
ancora piacerebbe piú, se per via d'amore o di carità non si
riscotessono, ma liberamente si lasciassono al debitore. Sicché avete
che l'usura sta nel riscuotere piú che la vera sorta, però che 'l
peccato nel tenimento non sta ne' fiorini cento, ma sta in quello che si
dà piú che la vera sorta; e questa piccola quantità fa
perdere tutta la carità che serebbe ne' fiorini cento, e ancora il
servigio e bene che averebbe fatto al buon uomo che gli accattoe, e torna in
cosa inlicita e di restituzione. E però conchiudendo, fratelli miei, io
vi dico e affermo che 'l prestare non è peccato, ma il gran peccato
è il riscuotere oltre la vera sorta; e con questo ve ne andate, e
gagliardamente prestate, ché sicuramente potete prestare per lo modo che
ho predicato; e guardatevi di riscuotere, e cosí facendo serete
figliuoli del vostro padre, qui in coelis est.
E fece la confessione, la quale non fu
né intesa né udita per lo grande mormorío e bisbigliare
che vi era; e chi facea grandissime risa, dicendo:
- Questi ce n'ha ben fatto una, e tutta
quaresima ci siamo venuti per udire questa predica, e istamane ci venimmo che
non era dí. Deh morto sie egli a ghiado, che dee essere uno ciurmatore.
Chi stiamazza di qua e chi di là,
piú giorni per la terra non si disse altro. Questo frate poté
essere uno valentre uomo, però che egli avea mostrato, o voluto mostrare
al populo, quanto era leggiero, e che correano piú tosto alle frasche e
alle cose nuove che a quelle della Santa Scrittura; e ancora andavano
volentieri a udire chi dicesse cose secondo gli appetiti loro.
Corse a questa predica prestatori, e chi avea
voglia di prestare; e questi rimasono scherniti come meritavano; come ch'egli
hanno preso tanto del campo che da loro hanno fatto un concetto, che Dio non
veggia e non intenda, e hanno battezzata l'usura in diversi nomi, come dono di
tempo, merito, interesso, cambio, civanza, baroccolo, ritrangola e molti altri
nomi: le quali cose sono grandissimo errore, però che l'usura sta
nell'opera e non nel nome.
Lo vescovo Marino scomunica messer Dolcibene,
e ricomunicandolo poi, dando della mazzuola troppo forte, messer Dolcibene si
leva, e cacciandolsi sotto, gli dà di molte busse.
Come il frate predicatore nella passata
novella fece scherne di un gran populo, cosí in questa parve che messer
Dolcibene volesse fare la vendetta contra un vescovo.
Essendo adunque costui arrivato in una terra
de' Malatesti in Romagna, uno vescovo Marino, o per eccesso commesso per lui, o
per averne diletto, l'avea scomunicato o fatto vista. E di ciò avendone
piú di que' signori gran diletto, questo vescovo, non volendolo
ricomunicare, il tenea accannato, ed elli avea gran bisogno di ritornare a
Firenze, e cercava la ricomunica. Avvenne che alcuno de' signori, come aveano
ordinato, li disse:
- Io ho tanto fatto col vescovo che ti
ricomunicherà; fa' che tu sia domattina nella cotal chiesa, ed elli
farà verso te quello che fia da fare.
Ed elli disse di farlo.
E 'l signore, che avea ordinato che 'l vescovo
gli desse che gli dolesse, andò anco là la mattina, e non parea
suo fatto, standosi nel coro. E messer Dolcibene giunse nel detto luogo per
accozzarsi con lui. E in quell'ora era entrato il vescovo in una cappella, e
aspettava che l'amico andasse a lui, e 'l signore disse a messer Dolcibene:
- Il vescovo è là: va',
spàcciati.
Ed elli cosí andò; e giunto che
fu nel luogo dinanzi dal vescovo, ponendosi inginocchione; e 'l vescovo, che avea
un buono camato in mano, fatta che gli ebbe la confessione sopra il capo,
disse:
- Di', Miserere mei Deus secundum magnam
misericordiam tuam.
E quelli dicendolo piú volte, come si
fa; e 'l vescovo menando la bacchetta che parea che facesse una sua vendetta;
come dice: “Di', Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam ”;
e mena la mazza; e messer Dolcibene si leva, e pigliando il vescovo, e dicendo
a un tratto: “Et secundum magnam multitudinem pugnorum ”; e darli, e
cacciarselo sotto, fu tutt'uno.
E quando gli ha dato quanto volle, corre nel
grembo del signore, che era presso, e tutto avea veduto. La famiglia del
vescovo correndogli drieto per pigliarlo, il signore mostrandosi turbato disse:
- Menatelo a casa mia, ché questa
punizione voglio fare io.
E questo disse per consolare il vescovo e
levarlo dalle sua mani. Mandatone messer Dolcibene preso, e 'l signore si
accostò al vescovo, dicendo:
- Come sta questa cosa?
E 'l vescovo rispose:
- Per Corpus Christi, quod cacavit eum
Sathana.
E cosí forbottato il vescovo si
tornò al vescovado, e messer Dolcibene stette rimbucato piú
dí. E in fine il signore diede ad intendere al vescovo che gli avea
fatto dare tanta colla che forse mai non serebbe sano delle braccia; e feceli
mettere uno sciugatoio al collo, e allenzare il braccio; e 'l vescovo per
questo parea tutto aumiliato. E forse in capo d'otto dí messer
Dolcibene, avvisandone il signore, e dovendo dire il vescovo una messa piana,
essendo alla chiesa il signore da parte, andò alla detta messa quasi in
sul celebrare, e fattosi innanzi quanto poteo, prendendo il vescovo il corpo di
Cristo, e messer Dolcibene esce:
- Né mica disse istamane cotestui il
paternostro di san Giuliano.
Il vescovo, sentendo questo diavolo ivi, e
udendo il motto, avendo il calice nelle mani, gli venne sí fatte risa,
che fu presso che 'l calice non gli cadde di mano. E detta la messa, che
già messer Dolcibene s'era partito col signore, gli perdonò
quella medesima mattina, e fu poi sí grande suo amico che appena il
vescovo sapea vivere sanza lui. E 'l signore vidde andare questo fatto come
egli avea voglia, e rimase contento.
E cosí una pensa il ghiotto, un'altra
il tavernaio. Il vescovo s'avvisò di mazzicare, e non fece ragione
d'essere ingoffato, come avete udito. E forse, perché fosse vescovo,
avea bisogno di disciplina, come messer Dolcibene. E non si dee ancora,
né da beffa, né da dovero, aspreggiare uno peccatore, quando
viene a contrizione, però che nelle cose sacre non si vuole scherzare;
ché per menare la bacchetta oltre al debito modo, n'acquistò un
bene gli sta che mai non gli venne meno.
Ferrantino degli Argenti da Spuleto, essendo
al soldo della Chiesa a Todi, cavalca di fuori, e poi, essendo tornato tutto
bagnato di pioggia, va in una casa, dove truova al fuoco di molte vivande e una
giovene, nella quale per tre dí sta come li piace.
Altro gastigamento diede Ferrantino degli
Argenti da Spuleto a uno calonaco di Todi; però che, essendo il
cardinale del Fiesco per la Chiesa in Todi, e avendo condotti soldati, fu tra
questi uno che avea nome Ferrantino degli Argenti da Spuleto, il quale io
scrittore e molti altri viddono esecutore in Firenze nel MCCCXC o circa, per
tal segnale che cavalcava uno cavallo con uno paio di posole di sí
smisurata forma che le loro coregge erano molto bene un quarto di braccio
larghe.
Essendo stato tolto uno castello nel Todino da
uno gentiluomo di Todi, convenne che tutti li soldati vi cavalcassino, fra' quali
fu questo Ferrantino; e fatto intorno al castello quel danno che poterono sanza
riaverlo, tornandosi verso Todi, venne grandissima piova, di che tutti si
bagnarono, e fra gli altri si bagnò Ferrantino piú che nessuno,
perché li suoi panni pareano di sadirlanda, tanto erano rasi.
Essendo costui cosí bagnato,
entrò in Todi, e andò a smontare ad una casetta che tenea a
pigione, e disse ad uno suo paggetto acconciasse i cavalli nella stalla, ed
egli andò cercando per la casa se fuoco o legne d'accenderlo trovasse:
niuno bene vi trovò, però che era povero scudiere, e la sua
magione parea la Badía a Spazzavento.
Come costui vidde questo, e che era tutto
bagnato e agghiacciava, dice: “Cosí non debb'io stare”. Subito se
n'uscío fuori, e d'uscio in uscio mettendo il capo, e salendo le scale,
si mise andare cercando l'altrui case, e fare dell'impronto per asciugarsi, se
fuoco vi trovasse. Andando d'una in altra, per fortuna capitò ad una
porta, là dove intrato e andando su, trovò in cucina uno
grandissimo fuoco con due pentole piene, e con uno schidone di capponi e di
starne, e con una fante assai leggiadra e giovene, la quale volgea il detto
arrosto. Era perugina, e avea nome Caterina. Costei veggendo cosí di
subito venire Ferrantino nella cucina, tutta venne meno, e disse:
- Che vuoi tu?
E quelli disse:
- Io vegno testeso di tal luogo, e sono tutto
bagnato, come tu vedi: in casa mia non ha fuoco, e indugiare non mi potea,
ché io mi serei morto: io ti prego che mi lasci rasciugare, e poi me
n'andrò.
Disse la fante:
- O asciugati tosto, e vatti con Dio,
ché se messer Francesco tornasse, che ha una gran brigata a cena con
lui, non l'averebbe per bene, e a me darebbe di molte busse.
Disse Ferrantino:
- Io 'l farò, chi è questo
messer Francesco?
Ella rispose:
- E’ messer Francesco da Narni, che è
qui calonaco, e sta in questa casa.
Disse Ferrantino:
- O io sono il maggior amico ch'egli abbia -;
(e non lo conoscea però).
Disse la fante:
- Deh spàcciati, ché io sto
tuttavia con le febbri.
Ferrantino dicea:
- Non temere, ché io serò tosto
asciutto.
E cosí stando, messer Francesco
tornò, e andando in cucina a provvedere le vivande, vidde Ferrantino che
s'asciugava, e dice:
- Che ci fa' tu? Chi è costui?
E Ferrantino dice chi è, come è.
Disse messer Francesco:
- Mal che Dio ti dia; tu déi essere un
ladroncello, a entrare per le case altrui; escimi testè di casa.
Dice Ferrantino:
- O Pater reverende, patientia vestra ,
tanto che io m'asciughi.
Dice il calonaco:
- Che Pater merdente ? io ti dico
escimi di casa per lo tuo migliore.
E Ferrantino fermo, e dice:
- Io mi asciugo forte.
- Io ti dico che tu m'esca di casa, se non
ch'io t'accuserò per ladro.
E Ferrantino dice:
- O prete Dei, miserere mei -; e non si
muove.
Quando messer Francesco vede che costui non si
parte, va per una spada, e dice:
- Al corpo di Dio, che io vedrò se tu
mi starai in casa a mio dispetto -; e corre con la spada verso Ferrantino.
Veggendo questo, Ferrantino si leva in piede,
e mette la mano alla sua, dicendo:
- Non truffemini.
E tratta della guaina si fa incontro al
calonaco, tanto che lo rinculò nella sala, e Ferrantino incontrogli, e
cosí amendue si trovorono in sala, facendo le scaramucce sanza toccarsi.
Quando messer Francesco vede che non lo
può cacciar fuori, eziandio avendo presa la spada, e come Ferrantino
digrigna con la sua, disse:
- Per lo corpo di Dio, ch'io andrò
testeso ad accusarti al cardinale.
Disse Ferrantino:
- Io voglio venire anch'io.
- Andiamo, andiamo.
E scendendo amendue giú per la scala,
giunti alla porta, dice messer Francesco a Ferrantino:
- Va' oltre.
Dice Ferrantino:
- Io non andrei innanzi a voi, che sete
officiale di Cristo.
E tanto disse, che messer Francesco
uscí fuori prima.
Come fu uscito, e Ferrantino pigne l'uscio, e
serrasi dentro; e subito, come su è, quante masserizie poté
trovare da ciò gittò giú per la scala, acciò che
l'uscio dentro fusse ben puntellato; e cosí n'empié tutta la
scala, tanto che due portatori non l'arebbono sgombra in un dí; e cosí
s'assicurò che l'uscio si potea ben pignere di fuori, ma aprire no.
Veggendosi il calonaco di fuori cosí serrato, gli parve essere a mal
partito, veggendo in possessione della carne cotta e della cruda uno che non
sapea chi si fosse; e stando fuori, molto piacevolmente chiamava gli fosse
aperto.
E Ferrantino fassi alle fenestre, e dice:
- Vatti con Dio per lo tuo migliore.
- Deh apri, - dicea il calonaco.
E Ferrantino dicea:
- Io apro -; e apriva la bocca.
Veggendo costui esser fuori della sua
possessione e dell'altre cose, e ancora esser beffato, se n'andò al
cardinale, e là si dolse di questo caso.
In questo, venendo l'ora della cena, la
brigata che dovea cenare con lui, s'appresentano e picchiano l'uscio.
Ferrantino si fa alle fenestre:
- Che volete voi?
- Vegnamo a cenare con messer Francesco.
Dice Ferrantino:
- Voi avete errato l'uscio; qui non sta
né messer Francesco, né messer Tedesco.
Stanno un poco come smemorati, e poi pur
tornano e bussano. E Ferrantino rifassi alle fenestre:
- Io v'ho detto che non istà qui;
quante volte volete ch'io vel dica? Se voi non vi partite io vi getterò
cosa in capo che vi potrà putire, e serebbe meglio che voi non ci foste
mai venuti -; e comincia a gittare alcuna pietra in una porta di rincontro
perché facesse ben gran romore.
Brievemente, costoro per lo migliore se
n'andorono a cenare a casa loro, là dove trovorono assai male
apparecchiato; e 'l calonaco, che s'era ito a dolere al cardinale, e che avea
cosí bene apparecchiato, convenne si procacciasse d'altra cena e d'altro
albergo: e non valse che 'l cardinale mandasse alcuno messaggio a dire ch'egli
uscisse di quella casa; ma come alcuno picchiava l'uscio, gli gittava presso
una gran pietra; di che ciascuno si tornava tosto a drieto.
Essendo ognuno di fuori stracco, dice
Ferrantino alla Caterina:
- Fa' che noi ceniamo, ché io sono
oggimai asciutto.
Dice la Caterina:
- Me' farai d'aprire l'uscio a colui di cui
è la casa, e andarti a casa tua.
Dice Ferrantino:
- Questa è la casa mia; questa è
quella che Dio misericordioso m'ha istasera apparecchiato. Vuo' tu che io
rifiuti il dono che m'ha dato sí fatto signore? Tu hai peccato
mortalmente pur di quello che tu hai detto.
Ella la poté ben sonare che Ferrantino
n'uscisse; e' convenne, o per forza o per amore, ch'ella mettesse le vivande in
tavola, e ch'ella sedesse a mensa con Ferrantino, e cenorono l'uno e l'altro
molto bene: poi rigovernato l'avanzo delle vivande, disse Ferrantino:
- Qual'è la camera? andiànci a
dormire.
Dice la Caterina:
- Tu se' asciutto, e ha' ti pieno il corpo, e
or ci vogli dormire? in buona fé tu non fai bene.
Dice Ferrantino:
- Doh, Caterina mia, se per questa mia venuta
qui io avesse peggiorata la tua condizione, che mi diresti tu? io ti trovai che
cocevi per altrui in forma di fante, e io t'ho trattata come donna; e se messer
Francesco e la sua brigata fosse venuta a cena qui, la tua parte serebbe stata
molto magra, là dove tu l'hai avuta molto doppia, e hai acquistato
paradiso a sovvenire me, che era tutto molle e affamato.
La Caterina dice:
- Tu non déi essere gentiluomo,
ché tu non faresti sí fatte cose.
Dice Ferrantino:
- Io sono gentiluomo, e ancora conte, la qual
cosa non sono quelli che doveano cenar qui; e tanto hai tu fatto maggior bene:
andiànci a dormire.
La Caterina disdicea, ma pur nella fine si
coricò con Ferrantino, e non mutò letto, però che in
quello medesimo dormía col calonaco; e cosí tutta notte si
rasciugò con lei Ferrantino, e la mattina levatosi, tanto stette in
quella casa quanto durorono le vivande, che fu piú di tre dí, ne'
quali messer Francesco andò per Todi, e guardando alcun'ora da lungi
verso la sua casa, parea uno uomo uscito di sé, mandando alcuna volta
spie a sapere se Ferrantino ne fosse uscito; e se alcuno v'andava, le pietre
dalle fenestre erano in campo. Nella fine, consumate le vivande, Ferrantino se
n'uscío per un uscio di drieto, ché per quello dinanzi per le
molte masserizie gittate dentro non poteo; e andossene alla casa sua povera e
mal fornita, là dove il paggio e due sua cavalli aveano assai mal
mangiato, e ivi fece penitenza; e messer Francesco tornò a casa sua per
l'uscio di drieto, ed ebbe a trassinare e racconciare di molte masserizie in
iscambio della cena.
E la Caterina li diede ad intendere che ella
avea sempre conteso, e difesosi da lui, e come di lei alcuna cosa non avea
aúto a fare. Poi il cardinale, per lo richiamo del calonaco,
mandò e per l'uno e per l'altro, dicendo a Ferrantino che si scusasse
d'uno processo che gli avea formato addosso. Ferrantino scusandosi dicea:
- Messer lo cardinale, voi non ci predicate
altro se non che noi abbiamo carità verso il prossimo: essendo io
tornato dell'oste tutto bagnato, in forma che io era piú morto che vivo,
in casa mia non trovando né fuoco, né altro bene, morire non
volea. Abbatte'mi, come volle Iddio, in casa questo valentre religioso, il
quale è qui, trovandosi uno gran fuoco con pentole e con arrosti
intorno; mi puosi a rasciugare a quello, sanza fare o molestia o rincrescimento
a persona. Costui giunse là, e cominciommi a dire villania, e che io gli
uscisse di casa. Io continuo con buone parole, pregandolo mi lasciasse
asciugare: non mi valse alcuna cosa, ma con una spada in mano mi corse addosso
per uccidermi. Io, per non esser morto, misi mano alla mia per difendermi da
lui infino alla porta da via, là dove uscendo elli fuori, per poter
menarla alla larga, e uccidermi com'io uscisse dell'uscio, io mi serrai dentro
e lui di fuori, solo per paura della morte; e là sono stato per questa
paura, sa Dio come, infino ad oggi. Se mi vuol far condennare, egli ha il
torto; io non ci ho che perdere alcuna cosa, e posso andare e stare a casa mia:
io non ci uscirò, che io non sappia perché; ché quanto io,
mi tengo offeso da lui.
Udendo il cardinal questo, chiamò il
calonaco da parte, e disse:
- Che vuoi tu fare? tu vedi quello che costui
dice, e puoi comprendere chi egli è; facendo pace fra voi, credo che sia
il meglio, innanzi che tu ti voglia mettere a partito con un uomo di soldo: -
di che elli consentío.
E simigliantemente chiamò Ferrantino da
parte, e insieme li pacificò, e non sí che 'l calonaco non guardasse
a stracciasacco Ferrantino un buon pezzo.
Cosí Ferrantino, asciutto che fu, ed
empiutosi il corpo tre dí, e con la femina del calonaco aúto quel
piacere che volle, ebbe buona pace; la qual vorrei che avesse ogni laico o
secolare, adoperando le cose morbide e superflue de' cherici, e a loro
intervenisse sempre delle loro vivande e conviti e femine, quello che
intervenne a questo nobile calonaco, che sotto apparenza onesta di religione,
ogni vizio di gola, di lussuria e degli altri, come il loro appetito desidera,
sanza niuno mezzo usano.
Uno chericone, sanza sapere gramatica, vuole
con interdotto d'uno cardinale, di cui è servo, supplicare dinanzi a
papa Bonifazio uno benefizio, là dove dispone che cosa è il
terribile.
E per mostrare bene quanto gran parte de'
cherici vengono avere li beneficii sanza scienza e discrizione, dirò qui
una novelletta, che tu, lettore, il potrai molto ben conoscere. Al tempo di
papa Bonifazio, essendo servo d'uno de' suoi cardinali uno chericone, che, non
che sapesse gramatica, appena sapea leggere, volendo il detto cardinale di lui
fare qualche cosa, gli fece fare una supplicazione per impetrare alcuno
beneficio dal santo padre. E conoscendolo bene grossolano, disse:
- Vie' qua. Io t'ho fatto fare una
supplicazione, la qual voglio che tu dea innanzi al santo padre, e io ti
menerò dinanzi da lui. Va' arditamente, però che ti
domanderà alcuna cosa per gramatica; se sai rispondere da te a quello
che ti domanda, rispondi e non temere; se non lo intendi, e non sapessi
rispondere, guarderai a me, che sarò da costa al papa, ed io
t'accennerò quello che tu debba dire, sí che mi potrai intendere;
e secondo comprenderai da me, cosí risponderai.
Disse il chericone, che averebbe meglio saputo
mangiare uno catino di fave:
- Io lo farò.
Lo cardinale trovò la supplicazione, e
datogliele, il menò dinanzi al papa, raccomandandolo alla sua
santità; e 'l chericone, gittandosi ginocchione, glie la porse; e 'l
cardinale si mise ritto da lato al papa, e volto verso il chericone, solo per
accennarli quello che dovesse dire se bisognasse. Come il papa ebbe la
supplicazione, la lesse; e guardato questo cherico, considerando che fosse chi
egli è, lo domandò:
- Quid est terribilis?
Il cherico, udendo questo nome cosí terribile,
e non sapendo che rispondere, guardava il cardinale, il quale menava il
braccio, come quando si dà lo 'ncenso col terribile. E 'l cherico,
pensando a quello che gli accennava, disse a lettere grosse:
- Il tale dell'asino, quando egli è
ritto, padre santo.
Il papa, udendo questo, parve che dicesse:
“Egli ha meglio risposto che potesse. E qual'è piú terribile cosa
che quella?” E disse:
- Fiat, fiat -; e volto al cardinale ridendo, disse: -
Menalo via; fiat, fiat.
E cosí fu fatto.
Quanto fu grosso questo chericone, che non
considerò quello che disse, né innanzi a cui, facendo cosí
bella sposizione! e per questo ebbe il beneficio; ché avendo saputo
qualcosa, forse non l'arebbe aúto. E forse fu questa sua grossezza cagione
di farlo venire a maggiore dignità, come spesso interviene a molti, a
cui viene il nostro Signore tra le mani, li quali hanno meno discrizione che
gli animali irrazionali.
Tre Fiorentini, ciascuno di per sé, e
con nuovi avvisi per la guerra tra loro e' Pisani, corrono dinanzi a' Priori,
dicendo che hanno veduto cose che niuna era presso a cento miglia; e
cosí ancora che avevano fatto, e non sapeano che.
Molto seppono meno quello che dicessono tre
Fiorentini in questo capitolo, che 'l cherico passato. Nel tempo che l'ultima
volta li Fiorentini ebbono guerra co' Pisani, essendo gl'Inghilesi, che erano
dalla parte de' Pisani, cavalcati verso il terreno fiorentino, uno Geppo
Canigiani, il quale era a un suo luogo a San Casciano, spaventato da uno romore
o d'acqua, o di vento, come interviene quando viene mal tempo, s'avvisò
quello poter esser l'esercito de' nimici, e portar la novella a' Signori da
Firenze, per venire in grazia. E cosí salito a cavallo, a spron battuti
n'andò al palagio de' Priori a smontare; e andato dinanzi a' Signori,
disse che venía da San Casciano, e ch'e' nimici con grandissimo romore
ne veníano verso Firenze.
Li Signori domandano se gli ha veduti; colui
dicea di no, ma che gli avea sentiti.
- Come gli sentisti?
E quelli dicea che avea udito un gran romore.
Dicono li Priori:
- O che sai tu che quel romore fossono li
nimici? Rispose:
- O egli erano cavalieri, o ell'era acqua.
Strinsono le spalle e ringrazioronlo, e
andossi con Dio.
Il secondo fu uno che avea nome Giovanni da
Pirano il quale essendo fuori della porta a San Niccolò su uno suo
cavallaccio, certi buoi fuggendo verso la porta detta, elli credendo avere li
nimici al gherone, diede delli sproni alla giumenta, e fuggendo nella terra dinanzi
a' detti buoi, non restò mai che egli fu dinanzi a' detti Priori,
dicendo:
- Mercè per Dio, che tutti i buoi
digiogati fuggono dentro per la porta San Niccolò.
E’ Priori notano costui con l'altro di sopra,
e dissono che stesse attento, e spesso recasse loro novelle.
Il terzo fu uno che avea nome Piero Fastelli,
il quale, benché fosse mercatante, avea per usanza con uno balestro e
con le corazzine andarsi in tempo di guerra cosí a piede, quando un
miglio e quando due. Avvenne che, essendo gl'Inghilesi col campo pisano nel
piano di Ripole presso due miglia a Firenze, e per uno pessimo tempo piovoso e
nebbioso, durato molti dí, essendo ito Piero una mattina forse una
balestrata fuori della detta porta, saettoe uno verrettone verso il greto d'Arno;
tornò a Firenze, e subito andò a' detti Priori, e disse:
- Signori miei, io vegno presso presso al
campo de' nimici, e ho saettato un gran verrettone in gran danno di loro; ma la
folta nebbia non m'ha lasciato discernere.
Li Signori, guatano l'uno l'altro, e dicono:
- Piero, de' tuoi pari ci vorrebbe assai,
ché con meno di cinquanta verrettoni si sconfiggerebbono li nimici: va'
e ingegnati di saettarne, e recaci novelle spesso.
Cosí furono avvisati questi signori in
pochi dí da tre valentri uomeni di guerra di tre cose sí fatte
che 'l Dabuda n'averebbe scapitato. E però chi è uso alla
mercanzia non può sapere che guerra si sia; però si disfanno le
comunità, quando non istanno in pace; che standosi a fare l'arte loro,
dicono: “Noi abbiamo sconfitto li nimici”; come fa la mosca, che è in
sul collo del bue, quando gli fosse detto: “Che fai, mosca?” e quella dice:
“Ariamo”.
Bernardo di Nerino, vocato Croce, venuto a
questione a uno a uno con tre Fiorentini, confonde ciascuno di per sé
con una sola parola.
Seppe meglio quello che disse in tre cose a
tre uomeni, essendo a contesa con loro, costui di cui parlerò al
presente. Bernardo di Nerino, vocato Croce, fu nel principio barattiere, e in
questo tempo fu di sí forte e disprezzata natura che si metteva
scorpioni in bocca, e con li denti tutti gli schiacciava, e cosí facea
delle botte e di qual ferucola piú velenosa. S'egli era di diversa
natura, ciascuno il pensi, che per accesa, continua e mortal febbre, sfidato
da' medici, veggendolo molto ardere, vollono fare notomia di sí fatta
natura, addomandandola elli: il feciono mettere nudo in una bigoncia d'acqua
fredda, come esce del pozzo, e preso costui cosí ardente e nudo, ve
l'attufforono dentro, il quale cominciando a tremare e schiacciare li denti,
stato un pezzo, lo rimisono nel letto, e subito cominciò a migliorare, e
spegnersi l'arsione in forma che guerío.
Ora, tornando alla materia, costui prestando
in Frioli di barattiere nudo tornò ricco a Firenze, e venendo spesso a
parole con altrui, porgea detti nel quistionare che confondea ognuno; e io
scrittore fui presente a tre volte, le quali a piedi si diranno. La prima fu,
che avendo parole con uno stato barattiere, com'elli, assai disutile uomo,
chiamato Fascio di Canocchio, il detto Fascio disse al Croce:
- E’ ti pare essere un gran maestro, e' mi
darebbe cuore di venderti sul ponte a Sorgano.
E 'l Croce rispose:
- Io ne sono molto certo, ed è segnale,
quando si trovasse il compratore di me, che vaglio qualche cosa; ma e' non mi
darebbe cuore di vendere te in sul ponte al Rialto, tenendoviti suso tutto il
tempo della vita mia, tanto se' tristo e doloroso.
Costui ammutoloe e rimase confuso.
La seconda volta il detto Croce ebbe questione
su la piazza di mercato nuovo con uno chiamato Neri Bonciani, il quale parea
piú tapino che Fascio di Canocchio, era sparuto e avarissimo, ed eranvi
molti cittadini tratti al romore. Quando vedde assai gente là corsa, e
quelli si volge a loro, dicendo contra il detto Neri:
- Deh guardate, signori, per cui fu morto
Cristo, che è cosa da non esser mai lieto né contento.
La brigata tutta comincia a ridere, e a Neri
si turò la strozza in sí fatta forma che si partí, e mai
non disse parola.
La terza fu che Giovanni Zati, non essendo
ancora cavaliero, essendo molto piccolo e sparuto, e avendo il padre prestato
in Frioli, volle mordere il Croce dell'anima nel prestare che avea fatto, e lui
mettea in parole nel paradiso; e 'l Croce disse dopo molte parole:
- Giovanni, io ti vorrei fare una piccola
questione; e questa è che io vorrei saper da te, se tu andassi al luogo
comune, e fatto el mestiero del corpo, e avessi bisogno d'adoperare la pezza, e
in quel luogo fosse dall'un lato sciamiti, dall'altro drappi, da un'altra parte
fossono pezze per quello mestiero, qual piglieresti per nettarti?
Rispose:
- Piglierei le pezze da quel mestiero.
E 'l Croce disse presto:
- E cosí farà il diavolo di te.
Costui sentendosi cosí mordere, e la
sparuta vista e l'opere sue, che ancora non meritavono paradiso, come si dava a
credere, mai né allora né poi si stese in simil ragionamenti con
lui.
E cosí questo Croce cavò
d'errore questi tre errati di loro medesimi, li quali sono molti come costoro
che s'ingannono sí forte che credono che tutti gli altri siano ciechi, e
a loro pare avere gli occhi del lupo cerviere, non pensando chi siano,
né quanto vaglino l'opere loro, essendo peggiori che tali con cui
contendono, si vogliono fare di buona terra, mostrandosi buoni, essendo il
contrario. E per questo nacque quel proverbio: “Lo sbandito corre drieto al
condennato”. Ma a tutti intervenisse che s'abbattessono al Croce, il quale non
essendo Socrate, non Pittagora, non Origene, né degli altri filosofi
ch'ebbono profonde sentenzie, ma uno omicciatto disutile, con cosí nuove
ragioni che gli confondesse come confuse questi tre con cui venne a questione:
questo non gli diede scienza, ma sottigliezza e ingegno di natura.
Messer Ridolfo da Camerino con una bella
parola confonde il dire de' Brettoni suoi nimici, facendosi beffe di lui,
perché fuor di Bologna non uscía.
Le notabil parole e i brevi detti di messer
Ridolfo da Camerino la passata novella mi reduce a memoria; de' quali ne
dirò alcuni qui dappiè. Però che io scrittore, trovandomi
in Bologna buon tempo con lui, quando era generale capitano di guerra de'
Fiorentini, e di tutta l'altra lega per la guerra della Chiesa, quando il
cardinale di Genèva, che poi ebbe nome papa Clemente in Vignone, era
venuto con li Brettoni alle porte della detta terra, e uno nipote del detto
messer Ridolfo nato di sua sorella, chiamato Gentile da Spuleto, andando per
guadagnare, come fanno gli uomeni d'arme, facendo scaramucce coi detti
Brettoni, fu preso da loro. E sapiendo gli Brettoni ch'egli era nipote di
messer Ridolfo, con disprezzamento gli diceano:
- Noi aspettiamo il capitano vostro:
perché non esc'elli fuori? noi sentiamo che si sta pur nel letto: venga
fuori, venga.
Gentile rispose ch'egli aspettava gente, e che
ben gli andrebbe a vedere a luogo e a tempo. Puosonli ducati cinquanta di
taglia, e lasciaronlo alla fede che gli andasse a procacciare. Tornato in
Bologna, e andando a messer Ridolfo, disse messer Ridolfo:
- Che dicono li Brettoni?
- Dicono: “Che fa questo vostro capitano, che
si sta pur dentro? Che non esc'egli fuori? noi l'aspettiamo”.
Disse messer Ridolfo:
- Come rispondesti?
Disse Gentile:
- Risposi che tosto usciresti fuori,
però che voi aspettavate gente.
Disse messer Ridolfo:
- Mal dicesti, che Dio mal ti faccia.
E Gentile disse:
- Perché, messere?
Disse messer Ridolfo:
- Se' per tornarci?
Disse Gentile:
- Signor sí, però che ho portare
loro cinquanta ducati per la taglia che m'hanno posta.
Dice messer Ridolfo:
- Se ti dicono piú: “Perché non
esce fuori messer Ridolfo?” e tu rispondi: “Perché voi non c'entriate
dentro”; e d'altro non t'impacciare.
Or non fu bella parola questa a uno capitano di
guerra? per certo bella e notabile, come se l'avesse detta Scipione o Annibale:
e troppo maggiore prova fu a' nimici questa riposta (se Gentile la disse loro)
di mostrare loro chi messer Ridolfo era, e da quanto, che se due volte gli
avessi sconfitti in battaglia campale. Altri poco sperti e pratichi nella
maestria dell'arme si sarebbono andati incastagnando di parole, e quante
piú ne avessono dette, da meno serebbono stati reputati.
Agnolino Bottoni da Siena manda un cane da
porci a messer Ridolfo da Camerino, ed egli lo rimanda in dietro con parole al
detto Agnolino con dilettevole sustanza.
Molto fu da ridere quest'altro motto che segue
del detto messer Ridolfo. Francesco, signore di Matelica, ebbe un tempo guerra
col detto messer Ridolfo; e morendo il detto Francesco, rimasono suoi
figliuoli, li quali, per istare sicuri e per difendersi da lui, uno Foscherello
da Matelica, che era gran caporale in una compagna d'uno che avea nome
Boldrino, facea sua camera in Matelica per provvisione ch'avea Boldrino a tutta
sua brigata da' figliuoli di Francesco. E come s'usa per le guerre, questo
Foscherello, come cordiale nimico di messer Ridolfo, fece una cavalcata con
gente d'arme sul terreno di messer Ridolfo, per la quale menoe e predoe
ottocento porci, e condusseli a Matelica.
Stando per alcuni dí, non potendo
messer Ridolfo vendicarsi sopra i nimici, sopravvenne uno famiglio d'Agnolino
Bottoni da Siena con uno bellissimo cane alano a mano, e andato dinanzi a
messer Ridolfo, e fatta la reverenza, disse che Agnolino Bottoni gli presentava
quel cane. Messer Ridolfo, guardando il cane e 'l famiglio, domandò da
quello che quel cane era buono. Il famiglio gli rispose:
- Da porci, signor mio.
E messer Ridolfo disse:
- E come ne piglia?
Il famiglio disse:
- Quando uno, e quando due per dí,
secondo come l'uomo gli truova.
Disse allora messer Ridolfo:
- Amico mio, questo non è cane da me,
rimenalo ad Agnolino, e di' che io l'ho per ricevuto, ma che questo cane non
è per li fatti mia, se non piglia piú che un porco per volta. Se
gli ne venisse alle mani uno di quelli di Foscherello da Matelica, che ne
piglia ottocento per volta, priegalo che me lo mandi.
Il famiglio, udendo costui, e veggendo che
dono non ricevea, si partí quasi scornato, rapportando il cane e la
'mbasciata ad Agnolino, il quale, intendendo il fatto disse che messer Ridolfo
dicea molto bene, dappoi che elli avea aúta sí poca
considerazione che, essendoli stati tolti in quelli dí ottocento porci,
gli mandava un cane che forse non avvenia del mese una volta che ne pigliasse
uno.
Quanto fu piacevole il detto di messer
Ridolfo! ché rade volte interverrebbe che, essendo presentato uno dono a
uno, e quelli non lo volessi e rimandassilo in drieto, che non ne portasse
cruccio o sdegno quelli che l'ha mandato. E 'l dire suo fu sí piacevole
che non che Agnolino ne portasse, ma e' confessò aver fallato, solo per
la perdita delli ottocento porci di messer Ridolfo.
Il detto messer Ridolfo a un suo nipote,
tornato da Bologna da apparare ragione, gli prova che ha perduto il tempo.
E questa che segue non fu meno bella novella,
né meno bel detto, il quale disse a un suo nipote, il quale era stato a
Bologna ad apparar legge ben dieci anni; e tornando a Camerino, essendo
diventato valentrissimo legista, andò a vicitare messer Ridolfo. Fatta
la vicitazione, disse messer Ridolfo:
- E che ci hai fatto a Bologna?
Quelli rispose:
- Signor mio, ho apparato ragione.
E messer Ridolfo disse:
- Mal ci hai speso il tempo tuo.
Rispose il giovene, che gli parve il detto
molto strano:
- Perché, signor mio?
E messer Ridolfo disse:
- Perché ci dovei apparare la forza,
che valea l'un due.
Il giovene cominciò a sorridere, e
pensando e ripensando egli e gli altri che l'udirono, viddono esser vero
ciò che messer Ridolfo avea detto. E io scrittore, essendo con certi
scolari che udiano da messer Agnolo da Perogia, dissi che si perdeano il tempo
a studiare in quello che faceano. Risposono:
- Perché?
E io segui':
- Che apparate voi?
Dissono:
- Appariamo ragione.
E io dissi:
- O che ne farete, s'ella non s'usa?
Sí che per certo ella ci ha poco corso;
e abbia ragione chi vuole, che se un poco di forza piú è
nell'altra parte, la ragione non v'ha a far nulla. E però si vede oggi,
che sopra poveri e impotenti tosto si dà iudizio e corporale e pecuniale;
contra i ricchi e potenti rade volte, perché tristo chi poco ci puote.
Molte novellette, e detti del detto messer
Ridolfo piacevoli, e con gran sustanza.
E’ mi conviene in questa novella, poi che io
sono entrato a dire di questo valentre uomo, dire certi suoi detti; però
che, al mio parere, e' fu filosofo naturale di pochissime parole. Dico adunque
che un suo amico, che era stato gran tempo che non l'avea veduto, disse:
- Messer Ridolfo, voi siete ringiovenito dieci
anni, poi che io non vi vidi.
E messer Ridolfo guarda costui con la coda
dell'occhio, dicendo:
- Di quello che dici, ne prendo conforto, ma
saccio che non ci dici lo vero.
Dicea il detto messer Ridolfo che non volea
ch'e' servi suoi del suo avessono meglio di lui. Quando era il freddo grande,
dicea:
- Andate accendere il fuoco, e là vi
scaldate, e quando egli ha fatta la bracia, mi chiamate.
Volea ch'e' fanti avessono il fummo e non lo
volea elli.
Essendo il detto messer Ridolfo al servigio
del re Luigi di Cicilia, andando con certa gente d'arme, fu assalito; di che
convenne che tutti si fuggissono a sproni battuti, e camporono. Tornato poi
messer Ridolfo nel cospetto del re, e lo re gli disse:
- Ridolfo, per quanto aresti dato quelli
sproni?
E quelli rispose:
- Di cotesto non saccio: ma ben saccio per quanto
ci sarei rattenuto a fare lo patto.
Le candele della cera facea volgere alla mensa
sua capo piede, mettendo di sopra il lato piú grosso della cera verde,
dicendo che alli servi suoi volea che toccasse poi il sottile e non a lui; e da
questo si cominciorono a fare delle candele mozze.
Essendo a Bologna il detto messer Ridolfo
capitano di guerra per li Fiorentini, quando ebbono guerra con la Chiesa, gli
fu detto che 'l papa avea venduto o impegnato Vignone per voler far gran
guerra; ed egli disse:
- Molto c'è savio lo papa nostro; vuol
vendere quello ch'egli ha, per acquistar quello che non sa.
Quando messer Ridolfo fu con la reina e con
gli altri a dare ordine che fosse fatto il papa da Fondi, tornando a casa sua,
trovò messer Galeotto suo genero, il quale dicendoli quanto era contra a
Dio e all'anima sua quello ch'egli avea fatto, rispose:
- Aiolo fatto perché abbiano tanto a
fare de' fatti loro ch'e' nostri lascino stare.
Essendo il detto messer Ridolfo andato a
vicitare messer Gian Auguth, che era con lo esercito suo fuori di Perogia, e
andando poi a vicitare l'abate di Mon maiore che per lo papa signoreggiava
Perogia, e in quelli dí era fatto cardinale, gli disse:
- Avendoci fatto male, se' fatto cardinale; se
ci avessi fatto peggio, saresti fatto papa.
Avendo maritata una sua figliuola giovane a
messer Galeotto, che era già vecchio, molti suoi prossimani e uomeni e
donne gli diceano:
- Doh, messer Ridolfo, che avete voi fatto a
dare una giovane a un vecchio?
Rispondea:
- Hoccelo fatto per noi, e non per lei.
Fu dipinto a Firenze, quando venne in
disgrazia del comune, per farli vergogna; essendoli detto, disse:
- E’ si dipingono li santi: sonci fatto santo.
Ancora per questa cosí fatta cosa
essendo a una sua terra, e trovando un suo suddito che tornava d'acconciare sue
vigne e suoi terreni, lo domandò onde venía; disse che
venía d'acconciare vigne e altri suoi fatti.
Disse a certi che erano con lui:
- Pigliate costui, e andatelo ad impiccare pe'
piedi
Costoro ed elli domandano:
- Signore, perché?
Ed elli rispose:
- Perché li Fiorentini m'hanno fatto
impiccare pe' piedi perché io ci ho fatto i fatti miei; secondo quella
ragione e quella legge (ché si dee credere ch'e' Fiorentini ne veggano
assai) costui dee essere impiccato; andate e impiccatelo.
E stante un poco lo licenziò; e per
questo scusava sé, e accusava altrui.
Dicea che de' santi si facea come del porco:
quando il porco muore, tutta la casa e ciascuno ne fa festa, e cosí per
la morte de' santi tutto il mondo e tutti i cristiani ne fanno festa.
Ancora spesso dicea: “Tristo a quel figlio,
che l'anima del suo padre ne va in paradiso”.
Quando li Fiorentini nel MCCCLXII ebbono
guerra co' Pisani, essendo elli capitano di guerra, e avendo posto il campo in
Valdera, avendo due consiglieri fiorentini, forse mercatanti o lanaiuoli, li
quali una notte pensarono che 'l campo non stava bene in quel luogo e che egli
starebbe meglio su uno monte ivi vicino; e levatisi la mattina con questo
pensiero, tirorono messer Ridolfo da parte e dissono che parea loro che 'l
campo stesse molto meglio nel tal luogo; messer Ridolfo, come gli ebbe uditi,
ghignando e guardandogli disse:
- Iate, iate, iate sí alle botteghe a
vennere i panni.
Se dicea il vero ogni uomo il pensi, quello
che ha a fare la mercatanzia o l'arte meccanica con la industria militare.
Non tenendosi quelli del reggimento di
Fiorenza contenti di lui nella fine della guerra della Chiesa, lo feciono
dipignere, come a drieto è detto. Di che, dappoi a certo tempo, essendo
stato spinto, furono mandati a lui certi ambasciadori fiorentini a' quali fece
due cose. La prima, che essendo a tavola del mese di luglio da lui convitati,
era di drieto a loro a uno camino cosí acceso un gran fuoco, come se
fosse stato del mese di gennaio. Gli ambasciadori, sentendo alle spalle il
fuoco penace per lo sollione, domandorono messer Ridolfo che cagione era il
perché di luglio tenesse il fuoco acceso alla mensa. Messer Ridolfo
rispose che ciò facea perché quando i Fiorentini l'aveano
dipinto, l'aveano dipinto sanza calze in gamba; di che per quello avea
sí infrigidite le gambe, che mai da là in qua non l'avea possute
riscaldare, e però gli convenía tenere il fuoco presso per
riscaldarle. Gli ambasciadori sorrisono un poco, ma quasi ammutolorone. Poi
seguendo alle vivande vennono capponi lessi, e le lasagne, le quali messer
Ridolfo ordinò che la sua scodella fosse minestrata tanto innanzi
ch'ella fosse tiepida, e quelle degli ambasciadori venissono bollenti e
caldissime in tavola. E cosí alla tavola gionte, messer Ridolfo comincia
sicuramente pigliarne pieno il cusoliere. Gli ambasciadori, cosí
veggendo, ebbono per fermo poterle pigliare altresí sicuramente; onde al
primo boccone tutto il palato si cossono, sí che l'uno cominciò a
lagrimare, e l'altro cominciò a guatare il tetto, e a singhiozzare.
Messer Ridolfo dice:
- Che miri?
E quelli dice:
- Guardo questo tetto, che fu cosí ben
fatto: chi lo fece?
Dice messer Ridolfo:
- Fecelo maestro Súffiaci; nol conosci
tu?
Gli ambasciadori intesono il tedesco, e lasciorono
affreddare le lasagne; e fra loro poi dissono:
- E’ ci sta molto bene, che corriamo subito a
dipignere gli signori come fossono portatori ed elli ci ha ben dimostrato quel
che ben ci sta.
E cosí quasi scornati si tornorono a
Firenze, dove saputa la novella, fu tenuto messer Ridolfo avere renduto pan per
focaccia.
Avea mandato un fante con lettere, e preso da
un suo nimico, gli fa tagliare le mani. E tornando al detto messer Ridolfo con
le mani mozze, disse:
- Signor mio, questo ho aúto per voi.
Ed elli rispose:
- All'abbottonar te n'avvedrai, se l'avrai
aúto o per te o per me.
Essendo ripreso da Messer Galeotto ch'egli era
vecchio sanza figliuoli maschi... maritare e tenea certe terre altrui, rispose:
- Saccio che ognora...
E lo re Carlo mandò a dolersi di lui,
che avea dato aiuto al duca... per venirli addosso. Rispose:
- Hogli messo il calderugio nella gabbia; ora
sta, se lo sa pigliare.
Messer Macheruffo da Padova fa ricredenti i
Fiorentini di certe beffe fatte contro a lui da certi gioveni sciagurati, e con
opere ancora il dimostra.
Messer Macheruffo de' Macheruffi da Padova,
antico cavaliere d'anni, e anticamente venuto podestà di Firenze, in
questa novella tiene molto bene la lancia alle rene a messer Ridolfo.
Però che, venendo podestà di Firenze, come è detto, con
uno tabarro e co' batoli dinanzi in forma da parere piú tosto medico che
cavaliere, fu ragguardato e considerato da tutti, e massimamente da certi nuovi
uomeni e sollazzevoli, li quali piú che gli altri facendosene beffe,
proposono di fare sopra lui qualche cosa; e come che 'l fatto s'andasse, il
primo dí che entrò in officio, venente la notte, gli fu appiccato
con certi chiovi un buon numero d'orinali alla porta, ciascuno con orina
dentro. La mattina seguente per tempo, aprendosi lo sportello, ché volea
andare il cavaliere alla cerca, tirando lo sportello il portinaro, vidde ben
dieci orinali essere appiccati ad esso. Di che maravigliandosi e facendosi
fuora a guardare la porta, vidde tutto il rimanente, e subito corre a dirlo al
podestà; il quale, inteso che l'ebbe, disse:
- Va', e fagli tutti venire su e fagli venir
ben salvi, che non se ne rompa alcuno.
E per questo fare, convenne che 'l cavaliere
adoperasse tutta la famiglia, che era apparecchiata d'andar con lui alla cerca,
a portare li detti orinali dinanzi al podestà. Veggendoli il
podestà se gli cominciò a uno a uno a recare in mano, e guardando
l'acque, gli diede poi a' fanti che gli appiccassino intorno alla sala grande,
e se non v'era dove, fece conficcare degli aguti. Cosí comandato, fu
fatto; avendo considerato questo valentre uomo quelle tante e diverse acque,
né piú né meno che facesse un medico.
L'altro dí seguente, o che 'l consiglio
si facesse come anticamente in quella sala si facea, o che 'l podestà
mandasse per molti nobili cittadini; gli quali giugnendo sanza sapere il fatto,
tutti, veggendo quelli orinali, si maravigliavano; e cosí essendo
ragunati, il podestà giunse fra loro, e cominciò a dire:
- Signori fiorentini, io ho sempre udito dire
che voi sete li piú savi uomeni del mondo; e poi che io venni qui, in
sí piccolo tempo conosco voi sete molto piú savi che non ci si
crede; e la prova il manifesti: che essendo io venuto qui vostro
podestà, e voi, come savi, considerando che 'l rettor della terra
conviene che purghi li vizii e' malori di quelli che ha a reggere, né
piú né meno come il medico conviene che curi le infirmità
de' suoi infermi, mi avete in questa notte appresentato le vostre acque, li
vostri segni in questi orinali che vedete d'intorno appiccati, li quali orinali
mi sono stati confitti alla porta; e io avendoli proccurati, come che molto
sofficiente in medicina non sia, veggio e ho compreso in questi vostri
cittadini grandissime infirmità, le quali con la grazia di Dio penserò
di curar sí che io vi creda lasciare piú sani, e in migliore
stato che io non vi truovo.
Quando costui ebbe cosí parlato, li
cittadini si tirorono da parte, e feciono uno risponditore per tutti; il quale
disse al podestà che non potea essere che nelle gran terre non fossono
diverse condizioni di genti, e semplici e sciocchi e matti; e che lo
confortavono che cercasse chi avesse quelli orinali appiccati, e che ne facesse
sí fatta punizione che a tutti gli altri fosse esemplo, e molte altre
cose.
E 'l podestà disse loro:
- Voi mi dite che ci sono diverse genti e
ignoranti e stolti; per quelli tali e io e gli altri rettori siamo eletti:
ché, se tutti li populi fossono savi, non bisognerebbe ci andasse
rettori e oficiali.
E cosí presono commiato e partironsi.
Il qual podestà rimaso, come che fosse
valentre uomo, mosso ancora dallo sdegno, non dormío; ma con
informazioni e con gran sollecitudini segretamente seppe chi erano quelli che
erano di mala condizione e di cattiva vita; e cominciò ora uno per
ladro, ora due per micidiali, e quando tre e quando quattro, e mettitori di
mali dadi e d'altre pessime condizioni, a spacciare e mandarli nell'altro
mondo, e ancora fu in questo numero di quelli che aveano appiccati gli orinali.
E in brieve tanti ne impiccò, e tanti ne decapitò e
justiziò per ogni forma, che nella fine del suo officio lasciò
sí sanicata e sí guerita la nostra città che si
riposò molto bene per assai tempo.
E però non si dee mai giudicare secondo
le apparenze, e fare scherne d'altrui, e massimamente de' rettori; però
che l'apparenza mostra molte volte quello che è d'assai, dappoco, e
quello che è dappoco, mostra d'assai. Come che io credo che questa fosse
permissione di Dio, volendo che ciò avvenisse perché li cattivi
fossono puniti, e che quella mala erba fosse diradicata per forma che quella
città ne rimanesse in migliore stato.
Un cavaliero di piccola persona da Ferrara
andò podestà d'Arezzo: quando entra nella terra s'avvede essere
sghignato, e con una parola si difende.
Meglio s'avvide degli atti, che gli Aretini
faceano contro a lui, uno cavaliere piccolo e sparutissimo da Ferrara, quando
entrò capitano d'Arezzo, che non fece messer Macheruffo, però che
nel principio del suo officio al giuramento tagliò la via a chi avesse
animo d'appiccare orinali o fare simili frasche. Però che, avveggendosi
nel suo entrare in Arezzo che molti ghignavano e sghignazzavono della sua
sparuta personcina, tutto sdegnoso n'andò alla maggiore chiesa, dove gli
anziani e' rettori erano presenti, a farli leggere li capitoli e dare il
giuramento. Quando il cancelliere ebbe letto ciò che dovea, gli porse il
libro e disse:
- E cosí giurate a le sante die
Vangele?
E 'l capitano guardando dattorno verso il
populo disse
- Io giuro ciò che è...
NOVELLA XLVII (frammento)
... Tasso se la guerisse. Però che io
sono stato con lei quarantatré maladett'anni, e ora dice che mi vuol
venir drieto. Non sia, per l'amor di Dio. Arrogete ancora al maestro Giovan dal
Tasso il maestro Tommaso del Garbo, e a loro due per egual parte lascio li
fiorini duecento in quanto la guariscano.
Li parenti furono tutti suso, e spezialmente
li fratelli della donna.
- O Jacopo, che volete voi fare? volete voi
lasciare a' medici il vostro? ove rimarrebbe la vostra fama? ché
ciascuno dirà: “Jacopo ha voluto lasciare piú tosto a due medici,
che l'hanno forse sí mal curato che se n'è morto, che lasciare a
una sua moglie che l'ha servito quarantatré anni, che non gli tocca per
anno, lasciandole fiorini ducento, fiorini cinque”. Or pensate bene.
E quelli rispose, che appena si potea
intendere:
- O che so io chi m'ha piú tosto morto,
o' medici, o ella?
E brievemente tanto fu combattuto che quasi
come vinto, o col dire “sí” con parole o con cenni, il testamento
ritornò che lasciasse alla donna fiorini duecento, e questo fece a
grandissima pena: e poco stante si morí. E la donna fece il pianto
grandissimo, come tutte fanno, perché costa loro poco; e sotterrato il
marito, e rasciutto le lacrime, se avea difetto, si fece curare gagliardamente,
e poi intese ad acconciarsi per sí fatta maniera che, con la dota sua e
col lascio, in meno di due mesi uscío de' panni vedovili e rimaritossi.
Se la donna fece dello infingardo, molto gli
stava bene, che gli andasse drieto: ma io credo ch'ella concepea nella sua
mente di mostrarsi nelle parole e negli atti che 'l marito li lasciasse
acciò che, morto lui, si potesse meglio rimaritare com'ella fece.
Niuna cosa si passa e dimentica, quanto la
morte; e la femmina che piú si percuote e nel pianto e nel lamento
è quella creatura che piú tosto la dimentica; e questa ne fa la
prova, ché appena era sotterrato il marito che pensò d'averne un
altro; e 'l marito andò forse a torre una moglie in inferno, per aver
fatti lasci che espettavano piú al corpo che all'anima; e quella ch'egli
avea lasciata, non accese mai una candela per l'anima sua.
Per questa donna si può notare
leggiermente questi tre versetti:
Donna non è, che non adori Venere
Tal in sua deità, e qual è
vedova
Non si cura di quel ch'è fatto cenere.
Lapaccio di Geri da Montelupo a la Ca'
Salvadega dorme con un morto: caccialo in terra dal letto, non sappiendolo:
credelo avere morto, e in fine trovato il vero, mezzo smemorato si va con Dio.
Tanto avea voglia questa contata donna d'andar
drieto al morto marito quanto ebbe voglia di coricarsi allato a un morto in
questa novella Lapaccio di Geri da Montelupo nel contado di Firenze. Fu a' miei
dí, e io il conobbi, e spesso mi trovava con lui, però che era
piacevole e assai semplice uomo. Quando uno gli avesse detto: “Il tale è
morto”, e avesselo ritocco con la mano, subito volea ritoccare lui; e se colui
si fuggía, e non lo potea ritoccare, andava a ritoccare un altro che
passasse per la via, e se non avesse potuto ritoccare qualche persona, averebbe
ritocco o un cane, o una gatta; e se ciò non avesse trovato, nell'ultimo
ritoccava il ferro del coltellino; e tanto ubbioso vivea, che se subito,
essendo stato tocco, per la maniera detta non avesse ritocco altrui, avea per
certo di far quella morte che colui per cui era stato tocco, e tostamente. E
per questa cagione, se un malfattore era menato alla justizia, o se una bara o
una croce fosse passata, tanto avea preso forma la cosa che ciascuno correa a
ritoccarlo; ed elli correndo or drieto all'uno or drieto all'altro, come uno
che uscisse di sé; e per questo quelli che lo ritoccavono, ne pigliavono
grandissimo diletto.
Avvenne per caso che, essendo costui per lo
comune di Firenze mandato ad eleggere uno podestà ed essendo di
quaresima, uscío di Firenze, e tenne verso Bologna e poi a Ferrara, e
passando piú oltre, pervenne una sera al tardi in un luogo assai ostico
e pantanoso che si chiama la Ca' Salvadega. E disceso all'albergo, trovato modo
d'acconciare i cavalli e male, però che vi erano Ungheri e romei assai,
che erano già andati a letto; e trovato modo di cenare, cenato che ebbe,
disse all'oste dove dovea dormire. Rispose l'oste:
- Tu starai come tu potrai; entra qui che ci
sono quelle letta che io ho, e hacci molti romei; guarda se c'è qualche
proda; fa' e acconciati il meglio che puoi, ché altre letta o altra
camera non ho.
Lapaccio n'andò nel detto luogo, e
guardando di letto in letto cosí al barlume, tutti li trovò pieni
salvo che uno, là dove da l'una proda era un Unghero, il quale il
dí dinanzi s'era morto. Lapaccio, non sapiendo questo (ché prima
si serebbe coricato in un fuoco che essersi coricato in quel letto), vedendo
che dall'altra proda non era persona, entrò a dormire in quella. E come
spesso interviene che volgendosi l'uomo per acconciarsi, gli pare che il
compagno occupi troppo del suo terreno, disse:
- Fatti un poco in là, buon uomo.
L'amico stava cheto e fermo, ché era
nell'altro mondo. Stando un poco, e Lapaccio il tocca, e dice:
- O tu dormi fiso, fammi un poco di luogo, te
ne priego.
E 'l buon uomo cheto.
Lapaccio, veggendo che non si movea, il tocca
forte:
- Deh, fatti in là con la mala pasqua.
Al muro: ché non era per muoversi. Di
che Lapaccio si comincia a versare, dicendo:
- Deh, morto sia tu a ghiado, che tu
déi essere uno rubaldo.
E
recandosi alla traversa con le gambe verso costui, e poggiate le mani alla
lettiera, trae a costui un gran paio di calci, e colselo sí di netto che
'l corpo morto cadde in terra dello letto tanto grave, e con sí gran
busso, che Lapaccio cominciò fra sé stesso a dire: “Oimè!
che ho io fatto?” e palpando il copertoio si fece alla sponda, appiè
della quale l'amico era ito in terra: e comincia a dire pianamente:
- Sta' su; ha' ti fatto male? Torna nel letto.
E colui cheto com'olio, e lascia dire Lapaccio
quantunche vuole, ché non era né per rispondere, né per
tornare nel letto. Avendo sentito Lapaccio la soda caduta di costui, e veggendo
che non si dolea, e di terra non si levava, comincia a dire in sé:
“Oimè sventurato! che io l'avrò morto”. E guata e riguata, quanto
piú mirava, piú gli parea averlo morto: e dice: “O Lapaccio
doloroso! che farò? dove n'andrò? che almeno me ne potess'io
andare! ma io non so donde, ché qui non fu' io mai piú.
Cosí foss'io innanzi morto a Firenze che trovarmi qui ancora! E se io
sto, serò mandato a Ferrara, o in altro luogo, e serammi tagliato il
capo. Se io il dico all'oste, elli vorrà che io moia in prima ch'elli
n'abbia danno”. E stando tutta notte in questo affanno e in pena, come colui
che ha ricevuto il comandamento dell'anima, la mattina vegnente aspetta la
morte.
Apparendo l'alba del dí, li romei si
cominciano a levare e uscir fuori. Lapaccio, che parea piú morto che 'l
morto, si comincia a levare anco elli, e studiossi d'uscir fuori piú
tosto che poteo per due cagioni che non so quale gli desse maggior tormento: la
prima era per fuggire il pericolo e andarsene anzi che l'oste se ne avvedesse;
la seconda per dilungarsi dal morto, e fuggire l'ubbía che sempre si
recava de' morti.
Uscito fuori Lapaccio, studia il fante che
selli le bestie; e truova l'oste, e fatta ragione con lui, il pagava, e
annoverando li danari, le mane gli tremavono come verga. Dice l'oste:
- O fatti freddo?
Lapaccio appena poté dire che credea
che fosse per la nebbia che era levata in quel padule.
Mentre che l'oste e Lapaccio erano a questo
punto, e un romeo giunge, e dice all'oste che non truova una sua bisaccia nel
luogo dove avea dormito; di che l'oste con uno lume acceso che avea in mano,
subito va nella camera, e cercando e ricercando, e Lapaccio con gli occhi
sospettosi stando dalla lunga, abbattendosi l'albergatore al letto dove
Lapaccio avea dormito, guardando per terra col detto lume, vidde l'Unghero
morto appiè del letto. Come ciò vede, comincia a dire:
- Che diavolo è questo? chi
dormí in questo letto?
Lapaccio, che tremando stava in ascolto, non
sapea s'era morto o vivo, e uno romeo, e forsi quello che avea perduto la
bisaccia, dice:
- Dormívi colui, - accennando verso
Lapaccio.
Lapaccio ciò veggendo, come colui a cui
parea già aver la mannaia sul collo, chiamò l'oste da parte
dicendo:
- Io mi ti raccomando per l'amor di Dio, che
io dormii in quel letto, e non potei mai fare che colui mi facessi luogo, e
stesse nella sua proda; onde io, pignendolo con li calci, cadde in terra; io
non credetti ucciderlo: questa è stata una sventura, e non malizia.
Disse l'oste:
- Come hai tu nome?
E colui glilo disse. Di che, seguendo oltre,
l'oste disse:
- Che vuoi tu che ti costi, e camperotti?
Disse Lapaccio:
- Fratel mio, acconciami come ti piace e
cavami di qui. Io ho a Firenze tanto di valuta, io te ne fo carta.
Veggendo l'oste quanto costui era semplice,
dice:
- Doh, sventurato! che Dio ti dia gramezza;
non vedestú lume iersera? o tu ti mettesti a giacere con un Unghero che
morí ieri dopo vespro.
Quando Lapaccio udí questo, gli parve
stare un poco meglio, ma non troppo; però che poca difficultà
fece da essergli tagliato il capo ad esser dormito con un corpo morto; e preso
un poco di spirito e di sicurtà, cominciò a dire all'oste:
- In buona fé che tu se' un piacevol
uomo; o che non mi dicevi tu iersera: egli è un morto in uno di quelli
letti? Se tu me l'avessi detto, non che io ci fosse albergato, ma io sarei
camminato piú oltre parecchie miglia, se io dovessi essere rimaso nelle
valli tra le cannucci; ché m'hai dato sí fatta battisoffia che io
non sarò mai lieto, e forse me ne morrò.
L'albergatore, che avea chiesto premio se lo
campasse, udendo le parole di Lapaccio, ebbe paura di non averlo a fare a lui;
e con le migliori parole che poteo si riconciliò insieme col detto
Lapaccio. E 'l detto Lapaccio si partí, andando tosto quanto potea,
guardandosi spesso in drieto per paura che la Ca' Salvadega nol seguisse,
portandone uno viso assai piú spunto che l'Unghero morto, il quale
gittò a terra del letto; e andonne con questa pena nell'animo, che non
gli fu piccola, per un messer Andreasgio Rosso da Parma che aveva meno un
occhio, il quale venne podestà di Firenze; e Lapaccio si tornò,
rapportando aver fatta elezione al detto podestà, ed esso l'avea
accettata. Tornato che fu il detto Lapaccio a Firenze, ebbe una malattia che ne
venne presso a morte.
Io credo che la fortuna, udendo costui essere
cosí obbioso e recarsi cosí il ritoccare de' morti in augurio,
volesse avere diletto di lui per lo modo narrato di sopra, che per certo e' fu
nuovo caso, avvenendo in costui: in un altro non serebbe stato caso nuovo. Ma
quanto sono differenti le nature degli uomeni! ché seranno molti che non
che temino gli augurii, ma elli non vi daranno alcuna cosa di giacere e di
stare tra' corpi morti; e altri seranno che non si cureranno di stare nel letto
dove siano serpenti, dove siano botte, scorpioni, e ogni veleno e bruttura e
altri sono che fuggono di non vestirsi di verde, che è il piú
vago colore che sia; altri non principierebbono alcun fatto in venerdí,
che è quello dí nel quale fu la nostra salute; e cosí di
molte altre cose fantastice e di poco senno, che sono tante che non capirebbono
in questo libro.
Ribi buffone, tornando da uno paio di nozze
con certi gioveni fiorentini, è preso di notte dalla famiglia: giunto
dinanzi al podestà, con un piacevole motto dilibera lui e tutta la
brigata.
Molto fu piú ardito e piú
coraggioso Ribi buffone incontro a uno cavaliere d'uno podestà che 'l
prese, e ancora col podestà, che non fu Lapaccio vile e timido, per
essere stato in un letto con un uomo morto. Questo Ribi fu piacevolissimo, e fu
fiorentino, e molto si ridusse, come fanno li suoi pari, nelle Corte de'
signori lombardi e romagnuoli, perché con loro facea bene i fatti suoi,
ché dava parole, e ricevea robe e vestimenti; e quando venía in
Firenze, non guadagnando, ricorrea alcuna volta alle nozze, dove pur alcuna
cosa leccava.
Essendo costui in Firenze una volta, e facendosi
là verso Santa Croce un bello paio di nozze, egli vi stette quasi tutto
il dí, e vegnente la notte, avendo ciascun uomo e donna e cenato e
ballato, e coricatosi lo sposo e la sposa, il detto Ribi con una brigata di
gioveni di buone famiglie si partí per andare albergo con loro.
Avvenne che, passando questa brigata da San
Romeo, s'abbatterono nel cavaliero del podestà che andava alla cerca; il
quale comincia a dire:
- Che gente siete voi?
Risposono:
- Amici, messere.
- Passate innanzi; quanti siete voi?
Dissono:
- Vedetelo.
E fra 'l noverare, e dire: “Tanti uomeni,
tanti torchi”, al cavaliere venne veduto un torchio, la cui cera non era sei
once.
Disse il cavaliere:
- Quello torchio non è di peso.
Ribi fassi innanzi:
- Messer sí, è.
Disse il cavaliero:
- E’ dee pesare tre libbre, e non è
quattro once.
Ribi rispose e subito:
- L'avanzo aveste voi in culo.
Come il cavaliero ode questo:
- Za, famiglia, pigliate costui; piglia za, e
piglia là, menategli tutti al palazzo.
Ribi dicea:
- Perché, messere, omè! perché?
- Come perché? - dice il cavaliere -
dunque credi che io sia un bambarottolo: io ci ho impeso gli uomeni per minor
parola che quella che in vituperio della Corte ci hai detta tu.
Dicea Ribi:
- Doh, messer lo cavaliere, noi venghiamo
dalle nozze e siamo caldi; quello che noi diciamo, diciamo per sollazzare.
- Per sollazzare nella malora; - dice il
cavaliere - e dite che sete caldi; altrimenti vi ci farò riscaldare, per
le chiabellate di Dio; se giunghiamo a palazzo, ci parlerete d'altro verso su
la colla; menateli oltre.
E con questo busso furioso la famiglia
condusse la brigata in palagio: e giugnendo dentro nella corte, il
podestà, che credo era da Santo Gemino, andando per lo verone in capo
della scala, però che era di state, e 'l caldo grande, veggendo costoro,
disse che gente era quella. Il cavaliere, che ratto andava verso lui, disse se
volea gli menassi dinanzi da lui. Rispose di sí; e cosí tutti
vennono dinanzi al podestà. Il quale addomandò il cavaliere perché
coloro fossono presi. A cui il cavaliere rispose, volgendosi verso Ribi, e
dice:
- Signor mio, questo rubaldo ha fatto gran
vergogna a voi e a tutta la vostra Corte.
- E che ci ha fatto? - dice il podestà.
Dice il cavaliere:
- Hacci fatto cosa che mai non ce la direi.
E 'l podestà dice:
- Che ha detto nella malora?
Disse il cavaliero:
- La piú laida cosa, e la piú
vituperosa che tu udissi mai; piacciati, signor mio, non la volere udire,
ché c'è troppo abbominevole.
Il podestà al tutto dice:
- Io ce la voglio sapere; e se mi ci metti a
ira, quello doverrò fare a loro, farò a te ipso.
E 'l cavaliere, alla maggior pena del mondo,
gli disse:
- Podestà mio questo cattivo uomo,
essendo con questa brigata, che è qui, a luogana, avea questo torchio
che qui vedete che non è sei once; io ci dicea che non era al peso secundum
formam statuti : esso dicea pur di sí; e io dissi: “Come di' tu di
sí, ché non è quattr'once?” e quello disse: “L'avanzo
avestú in culo”.
Disse Ribi:
- Messer lo podestà, io non dissi con
l'aste.
Disse il cavaliero:
- E che ci hanno a fare l'aste, che t'affranga
Dio e la Matre?
Allora il podestà, che, come savio,
avea già compreso il fatto e pigliavane diletto, si volse al cavaliero,
e disse:
- Se costui non disse con l'aste, e la cera
è poca, come tu di' e vedi, essendo intervenuto ciò che ti disse,
non te ne serebbe venuto né debilimento di membro, né altro male;
avesse detto con l'aste, serebbe stato cassale e mortale.
Disse il cavaliero, quasi sdegnato:
- Facci che ti piace, per le budella di Dio,
se ce l'avesse a punire, la lingua con che lo disse gli farei trarre dalla
canna.
Disse il podestà:
- Io ti dico, cavaliero, che si vuole aver
discrizione: se costui non disse con l'aste, non mi pare che meriti alcuna
pena.
Disse uno judice del maleficio che era col
podestà, ed era fratello di quello messer Niccola da San Lupidio, a cui
Ribi altra volta trasse le brache, come si narra nel libro di messer Giovanni
Boccacci:
- Questi Toschi ci sono tutti gavazzieri,
deasi lo sacramento a isso, se disse con l'aste.
E 'l podestà disse:
- E cosí si faccia.
E datoli il juramento, Ribi, alzando la mano,
dice:
- Io giuro per quello Dio, cui adoro, che io
non dissi con l'aste. Doh, messer lo podestà, sere' io sí fuori
della memoria? ché so che se io l'avessi detto, n'andrebbe il fuoco, o
la mitera.
Disse il podestà:
- Vacci con Dio; per questa fiata t'aio
perdonato, e guàrdate bene per un'altra volta, quando la cera del
torchio fosse di piú peso, ad un altro cavaliero non dicessi simili
parole; però che, benché tu non dicessi con l'aste, e la cera
fosse tanta quanto vuole lo statuto che sia, ed ella entrassi al cavaliere dove
tu dicesti, e' serebbe sí pericoloso che tu potresti aver la mala
ventura.
Ribi ringraziò il podestà della
licenzia e dell'ammaestramento, e partissi con tutta la brigata; e 'l
podestà ne rimase in gran sollazzo con li judici suoi; e 'l cavaliero
dicea che di ciò la Corte si era vituperata, e rimase tutto scornato, e
non volea fare officio, e molti dí combatté il podestà,
volendosi pur partire, dicendo che mai in quello officio non credea aver altro
che vergogna, poiché non s'era fatta justizia di sí vituperato
delitto.
Alla per fine pur si reconciliò, e la
novella si comprese sí per la terra che quando quel cavaliero era
veduto, andando alla cerca, era detto da' garzoni:
- Quello è il cavaliero del torchio con
l'aste.
Gran gentilezza usò questo rettore, che
considerò alla qualità e al modo, e all'uomo chi era, e grande
disperazione fu quella del cavaliere; ma pur procedea da justizia e da buon
animo. Ma pur considerando quello che dovea considerare, e chi Ribi era, di
quello che avea detto si dovea dar pace, però che a' loro pari pare che
debba essere lecito ciò che dicono e ciò che fanno. Bella e nuova
allegazione fece Ribi, e ragionevolmente da non potervi apporre, però che
quanto piú dicea il cavaliero, quella cera essere di piccolo peso, tanto
era la colpa di Ribi minore, e piú allegava per lui.
Ribi buffone, vestito di romagnuolo, essendo
rotta la gonnella, se la fa ripezzare con iscarlatto alla donna di messer
Amerigo Donati, e quello che rispondea a chi se ne facea beffe.
Troppo fece rappezzare meglio una sua gonnella
un'altra volta questo Ribi, e a suo utile, che non ripezzò la scusa del
torchio con l'aste. Però che, avendo in dosso una gonnella romagnuola,
ed essendo vecchia, avea una rottura nel petto e una nel gomito. Ed essendo una
mattina a desinare con messer Amerigo Donati di Firenze, andò alla donna
sua in camera, però che avea contezza con le donne de' cavalieri, come
sempre hanno, e disse:
- Madonna tale, averesti voi un poco di
scarlatto?
Disse la donna:
- Ribi, se' tu per motteggiare?
Disse Ribi:
- Madonna no, anzi dico dal migliore senno
ch'io ho, però che io vorrei volentieri che voi mi rappezzaste questa
gonnella.
Disse la donna:
- O che buona ventura! vuo' tu ripezzare il
romagnuolo con lo scarlatto?
Disse Ribi:
- Deh, non ve ne caglia: madonna, se voi
l'avete, fatemi questo servigio.
La donna, vaga di veder questa novità,
disse:
- Io n'ho bene, e acconcerottela,
poiché tu vuogli; ma una nuova cosa fia a vederla.
Disse Ribi:
- Madonna, voi dite il vero: e perché
io vo cercando cose nuove, come nuovo che io sono, però fo questo; e
quando fia fatto, non starete tre dí che, sapiendo la cagione, serete
contenta.
E brievemente, preso alquanto di rispitto, che
come ebbe desinato con messer Amerigo, egli diede una mezza volta, e con
un'altra gonnella in dosso recò quella sotto il braccio alla detta
donna, la quale in quel dí la ripezzò con due pezzetti di
scarlatto di colpo nuovi. Avendo Ribi la gonnella ripezzata, se la misse
addosso l'altra mattina, e uscí fuori, andando in mercato nuovo, dove
piú gente credea trovare. Chi lo vedea, dicea:
- O Ribi, che è questo? o tu hai
ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto!
E Ribi rispondea:
- Tal fosse l'avanzo!
E cosí con questa gonnella e con questo
motto diede piacere parecchi dí a' Fiorentini, avendo con loro buone
cene e desinari. Dappoi (che fu piú nuova cosa) n'andò in
Lombardia, portando questa gonnella cosí fatta nella valigia, e dinanzi
a piú signori comparío con essa. E quando li diceano:
- Che vuol dir questo, Ribi? perché hai
tu ripezzato il romagnuolo con lo scarlatto?
E quelli dicea:
- Tal fosse l'avanzo -; aggiugnendo un'altra
particella: - Gli uomeni di Firenze che non sono signori di terre, veggendomi
vestito cosí male di romagnuoli, e che la gonnella era rotta qui e qui,
mi cominciorono a farla di scarlatto in due luogora, come vedete. Pensai e
penso che, vegnendo con essa dove fossono de' signori, che l'avanzo, che
è molto piú, per loro si compiesse.
E cosí dicea a tutti, dov'elli andava:
tanto che quel romagnuolo gli fu tutto coperto di scarlatto e ancora n'ebbe
parecchie belle robbe. Quando la donna di messer Amerigo sentí quello
che due pezzuole di scarlatto, poste sul romagnuolo, erano valute a Ribi, ebbe
per certo lui essere savio e avveduto quanto altro buffone.
Questa parola o motto di Ribi viene spesse volte a
proposito d'allegare, benché oggi non so se quello ripezzare fosse
tenuto o povertà, o leggiadria; però che, non che i panni di
dosso con molti cincischi e colori si frastaglino e ripezzino, ma le calze non
basta si portino una d'un colore e l'altra d'un altro; ma una calza sola
dimezzata e attraversata di tre o quattro colori; e cosí per tutto si
tagliano e stampano i panni che con gran fatica sono tessuti.
Ser Ciolo da Firenze, non essendo invitato, va
ad un convito di messer Bonaccorso Bellincioni; èlli detto; e quelli,
essendo goloso, risponde sí che e allora e poi mangiovvi spesso.
Ser Ciolo non ebbe minore volontà
d'empiersi il corpo che avesse Ribi di vestirlo; però che, essendo in
questi tempi vecchietto assai goloso e ingordo, facendo messer Bonaccorso
Bellincioni, cavaliere famoso fiorentino, uno corredo a notabili cavalieri e
altri, il detto ser Ciolo, avendo sentita la grida, deliberò di
appresentarsi tra gli altri al detto convito; e se per forza non ne fossi
cacciato, porsi alla mensa, e di quello mangiare ch'eglino. Movendosi con
questo pensiero, si misse in via, e andò verso la casa del detto messer
Bonaccorso, là dove, veduto nella via dinanzi all'uscio suo ragunarsi i
cavalieri, e gli altri valentri uomeni, come è d'usanza, e quelli
affretta i passi, e giugne e mescolasi tra loro.
E cosí stando, venuta che fu tutta la
brigata, e detto loro che passino su, e ser Ciolo ne va su per le scale con loro
insieme. Giunti in su la scala, ciascun si trae il mantello; e ser Ciolo
prestamente si trae il suo. Dice uno de' famigli della casa a un altro:
- Che diavol ci fa ser Ciolo?
Dice l'altro:
- Non so io; e' fa una gran villania,
ché io so bene che e' non fu su la scritta.
E accostansi a lui e dicono:
- Ser Ciolo, voi non fuste invitato; voi
farete bene d'andarvene a casa.
Dice ser Ciolo:
- Io farei un bell'onore a messer Bonaccorso!
ché direbbe ogni uomo che per avarizia m'avesse fatto cacciare. Io per me
ci sono venuto per bene, e non per far vergogna a persona: se io non sono stato
invitato, non è mio difetto; la colpa è stata di chi l'ha
aúto a fare; - e accostasi al bacino, accozzandosi con un altro, e
toglie l'acqua alle mani.
E’ poterono assai dire e con parole e con
cenni, che ser Ciolo si serrò sí con gli altri che, come furono
per andare a tavola, si ficcò tra loro, e puosesi a sedere a mensa.
Messer Bonaccorso, che ogni cosa avea considerata, mangiato che ebbe, domandò
li suoi donzelli che cagione era stata, o di cui interdotto, che ser Ciolo
fosse venuto quivi a desinare, e di quello che con loro contendea. Egli
risposono che 'l domandavono chi l'avea invitato, e quello che rispose, e la
cagione perch'egli era venuto. Di che messer Bonaccorso, udendo come ser Ciolo
avea risposto a' famigli, fu piú contento e del modo e della novella di
ser Ciolo, e del desinare che ebbe, che di quello che ebbono tutti gli altri: e
compiuta questa festa, l'altro dí mandò messer Bonaccorso per ser
Ciolo, che desinasse con lui; e ripetendo le cose del dí dinanzi, con
lui ne prese gran piacere, e chiamò li suoi famigli e in sua presenza e'
disse a loro:
- Ogni festa ch'io do mangiare altrui, fate
che voi provveggiate di uno tagliere piú per ser Ciolo; e voglio ch'egli
possa e debba sempre venire a mangiare ad ogni mio convito -; e voltossi a ser
Ciolo, e disse: - E cosí v'invito.
E ser Ciolo accettò molto volentieri.
E per questo messer Bonaccorso il misse in
tale andare che nessuno facea in Firenze convito che ser Ciolo non vi si
rappresentasse, e che non facesse un tagliere d'avanzo per ser Ciolo, se vi
venisse; e con questa preeminenza visse nella sua vecchiezza.
E però è uno volgare che dice:
“Or va' tu, e non fare dell'impronto.” Questo mondo è delli impronti, e
'l vizio della gola fa gli uomeni molto impronti; ma rade volte se ne arriva
bene, come arrivoe ser Ciolo, il quale, mosso da questo vizio, udendo le
vivande che messer Bonaccorso apparecchiava per lo detto corredo, bramoso di
mangiare di quelle, si mise a pericolo di avere di molte mazzate, ed esserne
cacciato con vergogna; ed egli si dice che fu il primo che disse, tornando dal
desinare di messer Bonaccorso a casa sua, queste parole, o questo motto che
vogliàn dire: “Chi va lecca, e chi sta si secca”.
Sandro Tornabelli, veggendo che uno il vuol
fare pigliare per una carta, della quale avea fine, s'accorda col messo a farsi
pigliare, e ha il mezzo guadagno dal messo.
E questa che segue fu una astuta malizia ad
empiersi la borsa, cosí bene come ser Ciolo s'empié il corpo. E’
non è molti anni che in Firenze fu un cittadino chiamato Sandro
Tornabelli, il quale era sí vago d'acquistare moneta che sempre stava
con l'arco teso per veder se potesse fare un bel tratto, e sempre andava in
gorgiera. Costui, essendo già antico d'anni, sentendo che un giovane il
volea far pigliare per una carta antica già pagata al suo padre, e 'l
giovane non lo sapea, e 'l detto Sandro avea la fine; onde Sandro ciò
sapendo, non posoe mai che s'accozzoe col messo che avea questa trama, e la
commissione in mano, il quale ebbe nome Totto Fei, e disse:
- Fratel mio, io so che 'l tale vuole che tu
mi pigli a sua petizione, e vuolti dare fiorini dodici, o piú. La carta,
per che mi vuol fare pigliare, è pagata, e io ho la fine in casa; di che
io ti voglio dire cosí: “Tu se' bisognoso, e anco io non sono il
piú ricco uomo del mondo, io voglio che tu segua questa faccenda, e tu
fa' patto con lui d'avere piú denari che tu puoi, e poi mi piglia,
ché io sono contento, con questo: che e' denari, i quali averai da lui,
sieno mezzi tuoi e mezzi miei; e preso che tu mi averai e aúto il
pagamento, e io mostrerrò la fine a quell'ora che fia di bisogno”.
Questo messo, udendo il detto Sandro,
s'accordò piú tosto di pigliarlo con questo inganno che senza
esso: però che la sua condizione era cattiva, per tal segnale che elli
avea mozza la mano; e la cagione fu che, avendo detta una testimonianza falsa
in servigio d'un suo amico, fu condennato in lire otto, o nella mano: di che
colui, in cui servigio l'avea detta, gli mandò alla prigione lire otto,
e disse che la ricomperasse, però che innanzi volea quel danno che a sua
cagione li fosse mozza. Costui, veggendosi questi denari su un desco, che erano
tutti grossi d'ariento, e guardandoli fiso, dall'altra parte mettendo sul desco
la mano che dovea perdere, cominciò a dire in sé medesimo: “Qual
è meglio che io parta da me, o la mano, o' danari? e' mi rimane una
mano, essendomi tagliata l'altra, e con l'una mi notricherò ben troppo,
e vie meglio, avendo le lire otto che con le due, non avendole, e stando povero
e mendico come sono”; e poi pensava averne veduti assai sanza alcuna mano, ed
esser vissuti; di che al tutto s'attenne a' danari, e lasciossi tagliar la
mano.
Ho voluto dir questo, per dimostrare la condizione
di questo messo. Accordatosi costui col detto Sandro, e molto volentieri,
però che egli era assai gran cittadino, e massimamente che tutti, o la
maggior parte degli officii di Firenze avea aúti, sí che pochi
messi, non essendo di suo volere tra per gli officii, e perché era di
diversa condizione, serebbono stati contenti di porli le mani addosso. Avendo
adunque il detto Sandro ogni cosa composta e ordinata con questo cosí
fatto messo, da ivi a pochi dí fu preso dal detto Totto Fei, e per la
detta cagione è menato in palagio del podestà, e messo nella
Bolognana.
Colui che l'avea fatto pigliare, avendoli il
messo fatto sentire la presura subito venne al detto palagio a raccomandarlo, e
fare scrivere la cattura, come è d'usanza.
Sandro era a una finestra ferrata della
prigione che risponde su la corte, e crollava il capo contro al detto messo
come con lui avea ordinato; e 'l messo s'accostava e domandava fiorini sedici
al giovane, li quali gli avea promessi di dare. E Sandro dalla finestra avea
gli occhi e gli orecchi a ogni cosa; e 'l giovane dava parole al messo:
- Ben te gli darò.
Il messo comincia a dire:
- Oimei! o è questa mercanzia da dire
“io te gli darò”, ché essendo in prigione, mi minaccia, che ne
sarò ancora forse morto a ghiado?
E andava poi in qua e 'n là,
accostandosi spesso appiè della finestra, dove era il detto Sandro
preso, e come il messo s'accostava, e Sandro dicea, sí che l'udía
il giovene e ogni altro:
- Per lo corpo di Dio, che io te ne
pagherò -; e poi dicea piano al messo: - hatt'egli pagato?
Il messo accennava di no; e Sandro usciva
dicendo forte:
- Non poss'io mai aver cosa che buona mi sia,
se io non te ne pago e se questa presura non ti costa amara.
Totto col suono di Sandro andava volteggiando
verso il giovane, e diceva:
- Deh, pagami, ché io vorrei piú
volentieri della mia povertà averne dati altrettanti a te, e non averlo
preso; ché egli mi minaccia, come tu odi, per forma che mi leverà
di terra, sí che non mi stentare, e priegotene.
E quelli rispondea:
- Aspettami un poco; e' pare che io me ne sia
per andare per debito.
E 'l messo, come cruccioso e adirato, tirando
in su le spalle, andava verso la finestra; il quale quando Sandro sel vedea
presso, lo domandava pianamente se gli avea aúti; e dicendo di no, vie
piú aspramente minacciava il messo, facendo tanto cosí che 'l
messo ebbe fiorini sedici. Come Sandro seppe da Totto che 'l pagamento era
fatto, fece vista di mandare uno a casa sua; e come tornò,
cominciò a dire:
- E’ ci ha una brigata di buon fanciulli che
fanno pigliare di carte pagate: per lo corpo e per lo sangue! che si vorrebbono
impiccare per la gola -; e in presenza di tutti quelli della corte che v'erano,
e di chi l'avea fatto pigliare, appresentò la carta della fine, la quale
veggendo il giovane, rimase tutto scornato e addomandò perdonanza a
Sandro, però che di ciò non sapea alcuna cosa.
Sandro disse:
- Se tu nol sapei, e tu l'appara: chi mi rende
l'onore mio della vergogna che tu m'ha' fatta?
E brievemente e' misse su e parenti e amici per
essere in pace con Sandro, e a gran pena gli venne fatto: e rimasesi fuori di
fiorini trecento, che credea dovere avere come Ughetto dell'Asino, e de'
fiorini sedici che diede a Totto Fei.
Una sottile e cattiva malizia fu questa, che
questo Sandro volesse usare tant'arte, e avere tanta vergogna per pochi denari;
ma piú nuova cosa fu che, quando uno è preso per debito, colui
che l'ha fatto pigliare aspetta che paghi, e a lui par mill'anni d'aver pagato
per uscir di prigione: questo era tutto il contrario; ché colui che era
preso aspettava che il creditore, che l'avea fatto pigliare, pagasse sí
che elli uscisse di prigione.
E perciò non si vorrebbe mai
risparmiare la penna. Il padre lasciò al giovane la carta accesa, e
niuno ricordo lasciò che n'avesse fatto fine, o che fosse pagato, e
perciò questo gl'intervenne. E anco se Sandro avesse aúto un
figliuolo, o parente folle, gli potea intervenire peggio.
Berto Folchi, essendo in una vigna congiunto
con una forese, alcuno viandante passando di sopra un muro, non accorgendosi,
gli salta addosso, il quale credendo sia una botta, fuggendo grida accorr'uomo,
e mette tutto il paese a romore.
Ben venne ad avere il suo intendimento d'uno
amorazzo Berto Folchi, e ancora il priore Oca con sottile inganno a godere una
vigna, cosí bene come ad effetto del suo volere venisse Sandro
Tornabelli. Questo Berto Folchi fu uno piacevole cittadino della nostra
città, e leggiadro e innamorato ne' suoi dí. Costui, avendo
piú tempo dato d'occhio con una forese nel populo di Santo Felice ad
Ema, nella per fine un dí, essendo la detta forese in una vigna, il
detto Berto non abbandonando questo suo amore, ne venne alla sua, e
appiè d'un muro a secco che cingea la vigna, dietro al quale passava una
via, si puosono. Era nel sollione per un gran caldo, che passando due contadini
che veníano da Santa Maria Impruneta, disse l'uno all'altro:
- Io ho una gran sete; vuo' tu andare in
quella vigna per un grappolo d'uve, o vuogli che vi vadia io?
Disse l'altro:
- Vavi pur tu.
Di che l'uno, saltato con una lancia sul muro,
e gittatosi di là co' piedi su l'anche di Berto che era addosso alla
detta forese, fu tutt'uno: del quale colpo ebbe maggiore paura e danno Berto
che la forese, però che ella si sentí meglio calcata. Il contadino
che avea saltato, sentendosi giugnere co' piedi su una cosa molliccia, sanza
volgersi addietro comincia a fuggire per la detta vigna, fracassando e pali e
viti, gridando: “Accorr'uomo, accorr'uomo” con le maggiori voci che aveva in
testa.
Berto nientedimeno si studiava di fare li
fatti suoi, come che gli paresse essere nel travaglio. Al romore del contadino
chi correa qua e chi là:
- Che è? che è?
E quelli dicea:
- Oimè! che io ho trovata la maggior
botta che mai si trovasse.
Il romore crescea; ed elli li diceano:
- Se' tu impazzato, che tu metti il paese a
romore per una botta?
E quelli pur gridava:
- Oimè! fratelli miei, ch'ella è
maggiore che un vassoio. Io vi saltai suso, e parvemi saltare come su uno
grandissimo polmone, o fegato di bestia; oimè! che io non tornerò
mai in me.
D'altra parte il suo compagno, o parente che
fosse, che aspettava l'uve, temendo forse per briga che aveano, udendo il
romore, che colui non fosse assalito e morto, comincia a gridare anco elli:
“Accorr'uomo” e fugge indietro quanto puote. Le campane di Santo Felice
cominciano a sonare a martello, e quelle da Pozzolatico, e di tutto quel paese.
Chi trae dall'un lato e chi dall'altro, e ciascun corre:
- Che è? che romore è questo, e
in quest'ora?
La donna s'era spiccata da Berto, fugge verso
la casa del marito, gridando:
- Oimè trista! che romore è
questo?
E abbattesi al marito, il quale come gli altri
verso la piazza di Santo Felice correa, dicendo:
- Oimè! marito mio, che vuol dir
questo? ché sallo Dio con quanto diletto facea erba nella vigna per lo
bue nostro, ed elli si levò questo busso, che son quasi mezza morta.
Berto giugne da un altro lato della piazza, e
dice:
- Che novella è questa? che buona
ventura è?
Disse il lavoratore che gli avea saltato
addosso:
- Come, che è? o non l'avete voi
sentito? non credo che niuno vedesse o trovasse mai sí gran botta come
io trovai nella tal vigna; e peggio fu che io gli saltai addosso; che è
maraviglia ch'ella non mi schizzò il veleno; e pur cosí non so se
io me ne morroe.
Disse Berto:
- In buona fé che tu se' un piacevol
uomo; o se tu avessi trovato un diavolo, che avresti tu fatto?
Disse colui:
- Vorrei innanzi trovare un diavolo che una
botta a quel modo.
In questo, l'altro compagno giunse alla piazza
trambasciato, gridando; e veggendo il compagno corre ad abbracciarlo, dicendo:
- Oimè! compagno mio, che hai tu
aúto? chi t'ha assalito? io credetti che tu fosse stato morto.
E quelli, mezzo smemorato, dicea di questa
botta. E Berto Folchi verso costoro si volge ancora, e dice:
- Che cortesi uomeni siete voi? avete con
questo vostro romore scioperato quanti uomeni ha in questo paese, e io era
sopra a fare una mia faccenda, e sono stato sí bestia che io ci son
corso anch'io.
E rispondendo e dicendo, chi di qua e chi di
là, e Berto dice:
- Egli è buon pezzo che io usai in
questo paese, e già fa buon tempo udi' dire che uno trovò una
gran botta in quella vigna; forse è questa dessa.
Tutti a una voce affermarono che cosí
dovea essere, però che v'erano li muri a secco, e certe muricce di sassi
rovinati; egli è possibile che ella vi sia ancora molto cresciuta.
Tutti con questo si tornorono a casa. E appena
erano compiuti di partirsi, e Berto tornando verso Firenze, che 'l priore Oca,
priore del detto luogo, uomo piacevolissimo, tornando da Firenze, non di lungi
una balestrata dalla piazza si scontrò in lui, il quale salutandolo come
molto suo domestico, il rimenò addietro, volendo che quella sera si
stesse con lui. E accettato Berto e tornando insieme col priore, dice il
priore:
- Io ho udito tra via che ci è stato un
gran romore; che cosa è stata questa?
Disse Berto:
- Priore mio, se voi mi terrete credenza, io
vi dirò la piú bella novella che fosse poi che voi nasceste.
Il priore dice:
- Berto, ponla su (e porgegli la mano) e
cosí ti giuro, e anco sai che io sono prete.
Di che Berto gli disse il principio, mezzo, e
fine di ciò ch'era stato. Il priore era grasso; egli stette un gran
pezzo che non potea ricogliere l'alito, tanto ridea di voglia. E cenato, e
albergato con gran festa di ciò insieme, il detto Berto la mattina
seguente si tornò a Firenze; e 'l priore, dopo la messa, pensò di
far sí che quella novella gli valesse qualche cosa, dicendo a' suoi
popolani e del caso intervenuto, e del romore, ammonendoli tutti che non si
accostassino a quella vigna, però che cosí fatta botta era di
gran pericolo, pur guardando altrui, non che schizzando il veleno. Di che pochi
erano che vi fossono arditi di entrare entro, se già non fosse stato
Berto e la forese.
E 'l priore, veggendo che non era alcuno che la
volesse lavorare, s'accordò con colui di cui ell'era, di torla a fitto,
dicendo:
- Io metterò a rischio, e so alcuna
orazione, e alcuno incanto che è buono a ciò; e anche quel mio
fante è uno mazzamarone che non se ne curerà.
Abbreviando la novella, e' tenne la detta
vigna a fitto parecchi anni per una piccola cosa, e traevane l'anno, quando
cogna otto e quando cogna diece di vino, e a colui di cui ell'era, pur ch'ella
non rimanesse soda, ma fosse lavorata, parea guadagnare la detta vigna. E cosí
tirò l'aiuolo il priore Oca, andando spesso Berto a bere di quel vino
con lui, facendo sí che alla botta mai non fu piú saltato
addosso.
Che diremo adunque de' casi e degli
avvenimenti che amore conduce? Tra quanti nuovi ne furono mai, non credo che ne
fosse nessuno simile a questo, e con tutta la fortuna a suono di campane a
martello, e a romore di popolo, Berto condusse a fine il suo lavorío; e
'l priore Oca, per dare una buona ammonizione a' suoi popolani, ne
guadagnò in parecchi anni forse quaranta cogna di vino: e fugli bene
investito, però che era goditore e volentieri facea cortesia altrui.
Ghirello Mancini da Firenze dice alla moglie
quello che ha udito di lei, e quella scusandosi, fa a littera quello di che
è stato ragionato in una brigata.
La moglie di Ghirello Mancini usò
mercatanzia d'un'altra man paniccia, pagando il marito di quella moneta ch'elli
andava cercando. Alla piazza di San Pulinari nella città di Firenze
sempre usò nuova generazione di gente, e di diverse contrade. Avvenne un
dí per caso che, essendo adunato un cerchio d'uomeni nel detto luogo,
tra' quali era uno che avea nome ser Naddo, e Ghirello Mancini, e altri; di che
una mala lingua di quelli del cerchio, cominciò a dire di nuove cose
della moglie, per metterli in giuoco a dire delle loro e dell'altrui. Onde
dicendo l'uno e dicendo l'altro e pro e contro delle loro mogli, disse ser
Naddo a Ghirello che contro alla moglie di ser Naddo dicea:
- Ghirello, la tua monna Duccina è
sí grassa ch'ella non si dee poter forbire la tal cosa, quando è
ita al luogo comune.
E cosí avendo detto e delle loro e
dell'altre ciò che vollono, la notte e l'ora da tornarsi a casa gli
partí dal ragionamento. E tornato Ghirello in casa e cominciato a
spogliare, che era di giugno e caldo grande, s'accostò alla camera; e
andato al letto, standosi cosí a sedere prima che entrasse sotto, e la
sua moglie monna Duccina essendo per la camera in camicia, racconciando sue
bazzicature, e Ghirello vedutala, ricordandosi di quello che ser Naddo avea la
sera detto, disse:
- Duccina, o non sai tu quello che mi fu detto
dianzi al canto di San Pulinari?
Disse la Duccina:
- Qualche male: o che?
Disse Ghirello:
- Fu detto che quando tu hai fatto el mestiero
del corpo, che tu non ti déi poter forbire la cotal cosa.
La Duccina, udendo questo, comincia a dire:
- Deh davi il malanno a la mala pasqua,
ché mai non fate altro che dire male di altrui.
E con un impeto grandissimo d'ira, subito
chinandosi cosí in camicia in mezzo dello spazzo, disse:
- Guata, se io mi posso chinare.
E pignendo la mano verso il cocchiume, come se
l'avesse a forbire, tirò uno peto sí grande che parve una
bombarda.
Ghirello, avendo veduto prima l'atto, e poi
sentito il tuono, disse:
- Duccina, a cotesto non ti risponderei io, se
non ci fosse ser Naddo.
E la Duccina, volendosi ricoprire, disse:
- Sí che fu ser Naddo; deh dàgli
tanti maglianni quanti mai ne vennono a creatura, vecchio rimbambito ch'egli
è; ché se io lo truovo, gli dirò tanta villania quanta ad
asino.
Disse Ghirello:
- Tu hai fatta la pruova, e adiriti: o se tu
non l'avessi fatta, che diresti tu?
Ed ella disse:
- Che pruova nella malora? che siete tutti
piú tristi che 'l tre asso.
Disse Ghirello:
- Donna, or va', dormi oggimai, va'. Io ci
menerò domani ser Naddo, e vedremo quello che dee essere di questo
fatto, e che ne vuole la ragione.
Disse la Duccina:
- Che ragione? ben che voi sete ragione. Alla
croce di Dio che se tu cel meni, che io gli getterò un mortaio in capo.
Sa' tu com'egli è del fatto, Ghirello? E’ vide ben ser Naddo a cui sel
dire; ché, se tu fussi quello che tu dovessi, non avrebbe avuto ardire
di dire male d'una tua donna, ove tu fussi.
Belli ragionamenti che sono i vostri! lasciate
stare li fatti miei e dell'altre donne, e ragionate de' vostri, che tristi
siate voi dell'ossa e delle carni! ché ben vorrei che ser Naddo e gli
altri cattivi fossono stati qui, come ci se' tu, e avessi fatta la pruova in
sul viso loro, come io l'ho fatta innanzi a te, che d'altro non eravate degni.
E cosí se ne andò la Duccina al
letto, e non sanza borbottare, tanto che s'addormentoe; e la mattina levatosi
Ghirello, e stato un pezzo fuori, si ritrovoe con ser Naddo e con gli altri, e
predicorono la pruova che la Duccina avea fatta, e dissono tutti ch'ella avea
ragione, e ch'ella tirerebbe un balestro non che un peto, quando bisognasse.
Nuova cosa è quello che usano spesse
volte li mariti disonesti, che spesso in cerchio diranno di cose vituperose
delle loro donne, e piú ancor dell'altre, e chi venisse bene
considerando, elle ne potrebbon far dire forse piú degli uomeni; e hanno
tanta discrezione che nol fanno; e gli uomeni, dove dee essere piú
virtú e piú savere, sono meno discreti di loro; ché non
bastò a Ghirello d'essere a udire e dire forse male della Duccina; ma
egli lo ridisse perché ella il sapesse.
NOVELLA LIX (frammento)
... e presso a quel luogo era fatta una fossa
per sotterrare un pellegrino. Il signore, veggendo questo, dice:
- Che questione è questa?
Dicono i contadini:
- Signor nostro, egli è morto qui un
pellegrino, il quale alcuna cosa non troviamo ch'egli abbia di che si possa
sotterrare. Noi, per meritare a Dio, abbiamo fatta la fossa; preghiamo il prete
rechi la croce e' doppieri, acciò che lo sotterriamo; e' dice che vuol
denari, e mai non lo farà altramente; e 'l cherico dice peggio di lui, e
hacci voluto quasi dare.
Disse il signore:
- Venite cià, o messer lo prete, e voi
messer lo cherico; è vero quello che costoro dicono?
Dice il prete e 'l cherico a un tratto:
- Signore, noi dobbiamo avere el debito
nostro.
Disse il signore:
- E chi vel de' dare? il morto che non ha di
che?
Ed e' risposono:
- Noi dobbiamo pur avere il debito nostro, chi
che ce lo dia.
Disse il signore:
- E io vel darò io: debito vostro
è la morte; dov'è il morto? adugélo qua; mettetel nella
fossa: pigliate 'l prete; cacciatel giú: dov'è il cherico?
mettetel su; mo tira giú la terra.
E cosí fece sotterrare il prete e 'l
cherico sul morto pellegrino, e andò a suo viaggio.
E stato alcun dí a questo suo luogo,
ritornò a Melano; e tornando per una via, dov'era un'altra delle sue
prigioni ed era su l'ora di terza, gli prigioni, che aveano sentito il
beneficio ch'egli avea dato agli altri, sentendo il signore passare,
cominciorono a gridare:
- Misericordia, misericordia.
Quelli ristette, dicendo:
- Che è quello?
Il guardiano si fece innanzi.
- Signore, sono li prigionieri, che vi
domandono misericordia.
Disse il signore:
- Sí, hanno apparato dagli altri.
Chiamò uno de' suoi famigli da cavallo,
e disse:
- Va', metti in prigione questo guardiano
cogli altri, e guarda la prigione tu, e fa' che tu non déi né
mangiare né bere ad alcuno di loro, se io non torno da Chiaravalle,
là dove io andrò com'io avrò desinato; e guarda che tu
faccia ciò che io dico, ch'altrimenti io t'impiccherò per la
gola.
Come detto, cosí fatto. Il signore
andò a desinare, e come ebbe desinato, montò a cavallo e
andò a Chiaravalle, dove è una gran badía, e uno
bellissimo abituro per lo signore: e stato là tutto quel dí e
l'altro, alla reina venne grandissimo male; di che subito gli fu mandato a
dire. Come lo sentí, che cosí avea d'usanza, benché fosse
di notte, subito fu mosso per vicitar la reina; e questo credo fosse fattura di
Dio, perché quelli prigioni non morissono, ch'erano già stati
quarantadue ore sanza mangiare e sanza bere, avendovi di quelli già che
cominciavono a balenare. Tornato che fu, ebbono tutti mangiare e bere, come
poteano, ringraziando tutti il loro Creatore.
Or queste tre cose avvennono, si può
dire, in un piccol viaggio: la prima fu di gran carità, e volle che
fosse sí valida ch'ella valesse eziandio a chi v'era per debito: la
seconda fu mossa da justizia, e fu seguita con gran crudeltà: la terza
fu sdegno, e tòr materia che ogni dí non avessi avvenire.
Non notando quelli comuni queste cose che
sempre stanno in cacciare l'uno l'altro, e non vogliono vicino, non conoscendo
il bene che Dio ha dato loro.
Frate Taddeo Dini, predicando a Bologna il
dí di Santa Caterina, mostra un braccio contro a sua volontà,
gittando un piacevol motto a tutta la predica.
Molte volte interviene che delle reliquie si
truovano assai inganni, come poco tempo intervenne a' Fiorentini. Avendo
aúto di Puglia un braccio, il quale fu dato loro per lo braccio di santa
Reparata, e facendolo venire con gran cerimonia, e mostrandolo parecchi anni
per la sua festa con gran solennità, nella fine trovorono il detto
braccio esser di legno.
Era adunque frate Taddeo Dini dell'ordine de'
Predicatori, valentissimo uomo, il dí di Santa Caterina a Bologna; e al
monistero di Santa Caterina per la festa la mattina predicando, avvenne che,
compiuta la predicazione, anzi che scendesse del pergamo e pervenisse alla
confessione, con molti torchi gli fu recato un forzieretto di cristallo,
coperto con drappi, dicendo:
- Mostrate questo braccio di santa Caterina.
Frate Taddeo, che non era smemorato, dice:
- Come il braccio di santa Caterina! Io sono
stato al Monte Sinai, e ho veduto il suo corpo glorioso, intero con le due
braccia e con tutte l'altre membra.
Dissono quei pretoni:
- Bene sta; noi tegnamo che questo sia
veramente il suo braccio.
Frate Taddeo con chiare ragioni diceva non
esser da mostrarlo. La Badessa, sentendo questo, lo mandò pregando il
dovesse mostrare; però che, se non si mostrasse, la devozione del
monastero si perderebbe. Veggendo frate Taddeo che pur mostrare gli lo
convenía, aprí il forzierino, e recatosi in mano il detto
braccio, disse:
- Signori e donne, questo braccio che voi
vedete dicono le suore di questo monastero che è il braccio di santa
Caterina. Io sono stato al Monte Sinai, e ho veduto il corpo di santa Caterina
tutto intero, e massimamente con due braccia; s'ella ne ebbe tre,
quest'è il terzo -; cominciando con esso a segnare in croce, come si fa,
tutta la predica.
Gl'intendenti di questo risono, parlando tra
loro; molti uomini e feminelle semplici si segnarono devotamente, come quelli
che non intesono frate Taddeo, né avvidonsi mai di quello che avea
detto.
La fede è buona e salva ciascuno che
l'ha; ma veramente solo il vizio dell'avarizia fa di molti inganni nelle
reliquie; che è a dire che non è cappella che non mostri aver del
latte della Vergine Maria! ché se fusse come dicono, nessuna sarebbe
piú preziosa reliquia, pensando che del suo corpo glorioso alcuna cosa
non rimase in terra; ed e' si mostra tanto latte per lo mondo, dicendo esser
del suo, che se fosse stata una fonte ch'avesse piú dí
rampollato, quello si basterebbe. Se se ne potesse far prova, come frate Taddeo
fece del detto braccio, ciò non avverrebbe. Ora la fede nostra ci fa
salvi; e chi archimia sí fatte cose, ne porta pena in questo o
nell'altro mondo.
Messer Guglielmo da Castelbarco, perché
un suo provvisionato mangia maccheroni col pane, gli toglie ciò che con
lui molti anni ha guadagnato.
Nelle contrade di Trento fu già un
signore, chiamato messer Guglielmo da Castelbarco, il quale, avendo seco uno
(secondo ch'io già udi') a provvisione, ch'avea nome Bonifazio da
Pontriemoli, e volendoli sommo bene, però che lo meritava, come valente
uomo ch'avea guidato suo' dazi e gabelle; e per questa sua provvisione, e per
l'utile delli officii, facendo pur lealmente, era divenuto ricco di forse sei
mila lire di bolognini; essendo un venerdí costui a tavola col signore,
e con altra sua brigata, essendo recati maccheroni e messi su per gli taglieri
innanzi a ciascheduno, essendo venuto il cosso al signore, e veggendo il detto
Bonifazio mangiare li maccheroni col pane, ed era carestia ne' detti paesi,
subito comandò a' suoi sergenti che 'l detto Bonifazio fusse preso; li
quali mossi, subito il presono. Costui, maravigliandosi, dice:
- Signor mio, che cagione vi muove a farmi
pigliare cosí furiosamente?
Dice il signore:
- Tu 'l saprai bene: dunque mangi tu il pane
col pane? e guardi d'affamare il mondo, che vedi il caro esser sí
grande? e credi che io sia un matto, e non me ne avveggia?
Bonifazio, udendo la cagione, credette il
signore facesse per aver diletto, e quasi cominciò a sorridere.
Disse il signore:
- Tu ridi, ah? io ti farò ben rider
d'altro verso. Menatelo là alla prigione, e guardate non fuggisse.
Fu menato costui e messo nella prigione; e ivi
a pochi dí fu condennato in lire sei mila di bolognini, per aver voluto
turbare lo stato, non che di lui, ma di tutta la sua provincia, e spezialmente
per fame. Convenne che costui rimettesse ciò che mai avea acquistato con
lui, e quello che egli avea a casa sua, e pagò i detti danari,
gittandogli il signore parole, come grandissima grazia gli aveva fatta di non
averli tolta la vita.
Stia dunque co' signori a bastalena chi vuole;
che per certo, chi non si sa partir da loro, e sta con essi a bastalena, rade
volte ne capita bene, come a molti è intervenuto, come contar si potrebbe.
Questo messer Guglielmo ancora tolse ciò avea un suo famiglio o
sottoposto perché avea fatto metter l'arme sua in una pietra da camino,
opponendo che l'aveano messa al fumo, perché l'affogasse. Poi ebbe
quello che e' meritava... il feciono morire in prigione.
Messer Mastino, avendo tenuto uno provisionato
a far sua fatti, e parendogli che fusse arricchito, domanda veder ragione da
lui, il quale con nuova malizia fa ch'egli è contento non rivederla.
Ne' tempi che messer Mastino signoreggiava
Verona, gli capitò alle mani uno ch'era come uno per fante a piede, a
fare suoi servigi; il quale come pratico ed esperto stato ben venti anni,
facendo ancora molto bene i fatti del signore, diventò ricco. A messer
Mastino venne l'appetito che venne a messer Guglielmo nella precedente novella;
e pensossi di domandare di veder ragione da costui, e cosí fece;
ché lo chiamò una mattina e disse:
- Vien cià, va', apparecchia tutte tue
scritture de' fatti miei che ti sono pervenuti per le mani, poi che tu fusti
nella corte mia.
Al buon uomo parve essere impacciato, pensando
non poter mai mostrare al signore quello che dimandava; ma pure rispose:
- Datemi respitto, e io penserò di
soddisfare al vostro comandamento.
Ed egli disse:
- Va', e quando hai le cose preste, vieni; e
io darò ordine chi debba per me esser con teco a vedere le dette
ragioni.
Rispose
costui:
- E’ sarà fatto, signor mio.
Tornasi a casa e partesi dal signore, e
pensando e ripensando, quanto piú pensava piú gli pareva essere
impacciato; e guardando per casa, ebbe veduta la rotella, la cervelliera, uno
lanciotto, uno farsettaccio con un coltello, con le quali cose era venuto di
prima, quando s'era acconcio al servigio di detto signore. E vestitosi nel modo
ch'era venuto, e prese quelle medesime arme appunto, in quella forma l'altra
mattina senza piú aspettare s'appresentò innanzi a messer
Mastino.
Il quale veggendolo, si maravigliò,
dicendo:
- Che vuol dir questo, che tu se' cosí
armato?
- Signor mio, - disse quello, - voi m'avete
comandato che io vi mostri ragione di ciò c'ho aúto a far de'
vostri fatti, poi che io fui servitore di vostra signoria; io vi dico
cosí, signor mio, che io non veggio modo nessuno ch'io ve la potessi mai
mostrare, se non questo che voi vedete. Voi sapete, signor mio, che quando io
venni al vostro servigio, io era povero mascalzone, con quello in dosso, e con
quelle povere armicelle, con le quali mi vedete al presente. E per tanto la
ragione è fatta; nessuna altra cosa, che quello che io ci recai, me ne
porterò; e cosí me n'andrò povero, com'io ci venni: tutto
l'altro mio rimanente, e la casa, con ciò che v'è dentro, lascio
alla vostra signoria.
Messer Mastino, come savio signore,
considerando l'avvedimento e modo di costui, disse:
- Non voglia Dio, che io ti tolga quello che
hai con me guadagnato; va', e fa' lealmente e' fatti miei, e da mo innanzi non
aver pensiero che io ti vegna mai meno.
Costui ringraziò el signore; e parvegli
aver avuto buon modo a mostrar la detta ragione; e stette nella corte di messer
Mastino tutto il tempo della vita sua, e fugli piú caro che altro uomo
ch'egli avesse.
Or considera, lettore, quant'è
ignorante chi fa lunga dimora nella corte d'uno signore, e come in uno punto e'
si volgono e disfanno altrui.
E guarda s'egli è pericoloso,
ché, sognando che un servo l'uccida, sel reca a vero e disfallo. E
però chi si può levar dal giuoco, quando ha piena la tasca, non
vi stia a guerra finita; però che la maggior parte ne rimangon disfatti,
come apertamente per molti si poría vedere.
A Giotto gran dipintore è dato uno
palvese a dipingere da un uomo di picciolo affare. Egli facendosene scherne, lo
dipinge per forma che colui rimane confuso.
Ciascuno può aver già udito chi
fu Giotto, e quanto fu gran dipintore sopra ogni altro. Sentendo la fama sua un
grossolano artefice, e avendo bisogno, forse per andare in castellaneria, di
far dipignere uno suo palvese, subito n'andò alla bottega di Giotto,
avendo chi gli portava il palvese drieto, e giunto dove trovò Giotto, disse:
- Dio ti salvi, maestro; io vorrei che mi
dipignessi l'arme mia in questo palvese.
Giotto, considerando e l'uomo e 'l modo, non
disse altro, se non:
- Quando il vuo' tu? - e quel glielo disse.
Disse Giotto:
- Lascia far me.
E partissi. E Giotto, essendo rimaso, pensa
fra sé medesimo: “Che vuol dir questo? serebbemi stato mandato costui
per ischerne? sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere: e costui
che 'l reca è uno omicciatto semplice, e dice che io gli facci l'arme
sua, come se fosse de' reali di Francia; per certo io gli debbo fare una nuova
arme”. E cosí pensando fra sé medesimo, si recò innanzi il
detto palvese, e disegnato quello gli parea, disse a un suo discepolo desse
fine alla dipintura; e cosí fece. La qual dipintura fu una cervelliera,
una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di
corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello, e una
lancia.
Giunto il valente uomo che non sapea chi si
fosse, fassi innanzi e dice:
- Maestro, è dipinto quel palvese?
Disse Giotto:
- Sí bene; va', recalo giú.
Venuto il palvese, e quel gentiluomo per
procuratore il comincia a guardare, e dice a Giotto:
- O che imbratto è questo, che tu m'hai
dipinto?
Disse Giotto:
- E’ ti parrà ben imbratto al pagare.
Disse quelli:
- Io non ne pagherei quattro danari.
Disse Giotto:
- E che mi dicestú che io dipignessi?
E quel rispose:
- L'arme mia.
Disse Giotto:
- Non è ella qui? mancacene niuna?
Disse costui:
- Ben istà.
Disse Giotto:
- Anzi sta mal, che Dio ti dia, e déi
essere una gran bestia, che chi ti dicesse: “chi se' tu?” appena lo sapresti
dire; e giungi qui, e di': “Dipignimi l'arme mia”. Se tu fussi stato de' Bardi,
serebbe bastato. Che arma porti tu? di qua' se' tu? chi furono gli antichi
tuoi? deh, che non ti vergogni! comincia prima a venire al mondo, che tu
ragioni d'arma, come stu fussi il Dusnam di Baviera. Io t'ho fatta tutta
armadura sul tuo palvese; se ce n'è piú alcuna, dillo, e io la
farò dipignere.
Disse quello:
- Tu mi di' villania, e m'hai guasto un
palvese.
E partesi, e vassene alla grascia e fa
richieder Giotto.
Giotto comparí, e fa richieder lui,
addomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le
ragioni gli officiali, che molto meglio le diceva Giotto, giudicarono che colui
si togliesse il palvese suo cosí dipinto e desse lire sei a Giotto,
però ch'egli avea ragione: onde convenne togliesse il palvese, e
pagasse, e fu prosciolto.
Cosí costui, non misurandosi, fu
misurato; ché ogni tristo vuol fare arma e far casati; e chi tali, che
li loro padri seranno stati trovati agli ospedali.
Agnolo di ser Gherardo va a giostrare a
Peretola, avendo settanta anni, e al cavallo è messo un cardo sotto la
coda; di che movendosi con l'elmo in testa, il cavallo non resta, che corre
insino a Firenze.
Non è gran tempo che in Firenze fu un
nuovo pesce, il quale ebbe nome Agnolo di ser Gherardo, uomo quasi giullare,
che ogni cosa contraffacea: e usando con assai cittadini, che di lui pigliavono
diletto, ed essendo andazzo di giostrare, andando con certi a Peretola che
andavano per ciò fare, giostrò anco elli, e avea accattato un
cavallaccio di quelli della Tinta di Borg'Ognissanti, che era una buscalfana,
alto e magro, che parea la fame. Giunto a Peretola, el brigante si fece armare,
ed era dalla parte di là dalla piazza sí che veniva a correre
verso Firenze. E messogli l'elmo in testa, e data l'asta, e appiccatogli un
cardo sotto la coda, fu tutt'uno. Era la sella altissima: altro non era a
vederlo, se non un elmo nella sella, che parea colui, cui elli piú volte
in brigata raccontava.
Mosso la scuccumedra con Agnolo suvvi, e
sentendo il cardo, si comincia a lanciare e a percuotere Agnolo or qua or
là negli arcioni, sí che l'asta si rassegnò in terra, e 'l
cavallo, scagliandosi e traendo, comincia a correre verso Firenze. Tutti quelli
dattorno scoppiavono delle risa. Agnolo non tenea ridere, però che si
sentía dare i maggior colpi del mondo negli arcioni, e cosí
essendo lacerato ad ogni passo e percosso, giunse alla Porta del Prato, ed
entrò dentro, correndo e nabissando che fece smemorare e' gabellieri; e
giú per lo Prato, che ogni uomo e femina per maraviglia diceano: “Che
vuol dir questo?”, entrò nel Borgo Ognissanti.
Or quivi era la fuggita e da' lanci e da'
calci del cavallo! ognun fuggendo e gridando:
- Chi è questi? che fatto è
questo?
E cosí non restette mai il cavallo che
giunse alla Tinta, dov'era il suo albergo, là dove il cavallo fu preso
per le redine e menato dentro.
Essendo domandato: “Chi se' tu?”, colui
soffiava e doleasi: dilacciarongli l'elmo, e quel grida e duolsi:
- Oh me, fate piano.
E cosí trattogli l'elmo, il capo di
Agnolo parea uno teschio, o uno uomo morto di piú dí.
Fu tratto della sella con fatica d'altrui, e
con dolor di lui; ed egli, pur dolendosi, per nessun modo si potea sostenere in
piede; onde fu condotto su uno letto; e giunto di fuori colui di cui era e la
casa e 'l cavallo, quando tutto seppe, scoppiava di risa. E giugnendo dove
Agnolo era, dice:
- Oh, io non credea, Agnolo, che tu fussi Gian
di Grana, e che tu giostrassi, almeno me l'avestú detto quando tu
accattasti el mio cavallo, che mel déi aver guasto, però che non
era da giostra.
Disse Agnolo:
- Guasto ha egli me, che mi par restío:
s'io avessi aúto un buon cavallo, io avrei dato a colui una grande
scigrignata, e avrei aúto onore, dove io sono vituperato. Io ti prego
per Dio che tu mandi per li panni mia a Peretola, e fa' dire a que' giovani che
io non m'ho fatto mal niuno, però che la buon'arme m'ha campato.
E cosí fu mandato per li suoi panni,
che vennono con essi tutti quelli che di lui avevono aúto in ciò
diletto. E giunti ad Agnolo dicono:
- Oimè, ser Benghi (ché
cosí era chiamato) se' tu vivo?
- O fratelli miei, - dicea quelli, - io non vi
credetti mai rivedere: io sono tutto lacero; quel maladetto cavallo m'ha morto;
io non provai mai peggior bestia; quando io v'era su, mi parea esser la secchia
de' vasgellai; io debbo aver rotta tutta la sella e le corazze; dell'elmo non
ti dico, che talora si percotea su la sella per forma che de' esser tutto
rotto.
Se la brigata rideva, non è da
domandare. Alla perfine il vestirono la sera al tardi, e a braccia il
condussono a casa sua; là dove correndo la donna all'uscio,
cominciò il pianto, come se fusse morto, dicendo:
- Oimè, marito mio, chi t'ha fedito?
Agnolo non dicea alcuna cosa; la moglie pur
domandava:
- Che è questo?
Dicevano i compagni:
- Non è cosa che vi bisogni piagnere.
- E lasciatolo, s'andarono con Dio; e la donna
abbracciando Agnolo, comincia a dire:
- Marito mio, dimmi quel che tu hai.
E Agnolo chiese d'entrar nel letto; il quale
la donna spogliandolo e veggendolo tutto livido, disse:
- Chi t'ha cosí bastonato?
E’ parea il corpo suo o di profferito o di
marmorito, tanto era percosso.
Alla fine ritornato l'alito ad Agnolo, disse:
- Donna mia, io andai con una brigata a
Peretola, e convenne che ciascuno giostrasse; io, per non esser piú
tristo che li altri, e pensando a' miei passati da Cerretomaggio, volli
giostrare anch'io; e se 'l cavallo ch'era restío, e hammi concio come tu
vedi, fusse stato buono, io avea oggi maggior onore che uomo che portassi mai
lancia già fa parecchi anni.
La donna, ch'era savia, e conoscea le frasche
d'Agnolo, comincia a dire:
- Sí, che tu se' uscito della memoria affatto,
o vecchio mal vissuto; che maladetto sia il dí ch'io ti fu' data per
moglie, che mi consumo le braccia per nutricar li tuo' figliuoli, e tu,
tristanzuolo, di settanta anni vai giostrando: o che potrestú fare, che
a ragione di mondo non pesi dieci once? Va' va', che ora serai tu messo nel
sacco de' priori, che n'ha' pisciato cotanti maceroni. Ed è peggio, che,
perché tu se' chiamato ser Benghi, di' che tu vi se' per notaio. Doh
tristo, non ti conosci tu? e se questo pur fosse, quanti notai ha' tu veduto
giostrare? Se' tu fuori della memoria? Non consideri tu, che tu se' lavorante
di lana, e altro non hai, se non quello che tu guadagni? Se' tu impazzito? Deh,
va', ricollicati, sventurato; ch'e' fanciulli ti verranno oggimai drieto co'
sassi.
Agnolo con voce lena dice:
- Donna mia, tu di' che io mi ricolichi;
dolente sono, che m'è convenuto collicare; io ti prego che tu stia
cheta, se tu non vuoi ch'io muoia affatto.
E quella dice:
- Or fustú morto, innanzi che vivere
con tanto vituperio.
Dice Agnolo:
- O son io il primo, a cui venga sciagura ne'
fatti d'arme?
- Deh, va' col malanno, - disse la moglie -
va', scamata la lana, come tu se' uso, e lascia l'arte a quelli che la sanno
fare.
E non restette insino a notte la contesa; e la
notte pure si rabbonacciorono come poterono. Agnolo mai non giostrò
piú.
Molto fu piú savia questa donna che il
marito; però che ella conoscea lo stato suo, e quello del marito; ed
elli non conoscea solo sé: se non che la moglie gli disse tanto che
giovò.
Messer Lodovico da Mantova per una piccola
parola, che per sollazzo dice un suo provisionato, gli toglie ciò
ch'egli ha.
Ancora mi viene innanzi come piccola cagione
muove un signore a dar la mala ventura altrui. Essendo messer Lodovico di
Gonzaga signore di Mantova, uno suo provisionato avea detto con certi altri,
piú per diletto che per altro “Signore è vino di fiasco, la
mattina è buono, e la sera è guasto”. La detta parola fu
rapportata al signore; sí come spesso interviene, per venire in grazia
del signore sempre vi sono li rapportatori. Udendo ciò messer Lodovico,
fece chiamare a sé quel provisionato, e disse:
- Mo mi di'; ha' tu detto le ta' parole?
Quel rispose:
- Signor mio, sí; ma le parole mie non
furon dette se non per motto, però che altra volta l'udi' dire a un
valente uomo.
Disse il signore:
- Sí che tu di' che dicesti per motto,
e non ti pare avere detto alcun male; e ha' mi nominato e appareggiato con un
fiasco di vino. In fé di Dio, io ho voglia di farti giuoco, che sempre
te ne verrebbe puzza; ma acciò che tu lo possa ben dire da dovero,
spogliati in farsetto, come quando tu venisti a far con mi: e vatti con Dio.
Costui si dileguò in ora, che mai non
apparí a Mantova; e lasciò il valer di due mila lire di
bolognini, il quale avere tutto si tolse el signore. Cosí intervenne che
signore e vin di fiasco, l'uno era vino e l'altro l'ha disfatto.
Coppo di Borghese Domenichi da Firenze,
leggendo una storia del Titolivio, gli venne sí fatto sdegno che,
andando maestri per danari a lui, non gli ascolta, non gli intende, e cacciagli
via.
Fu un cittadino già in Firenze, e
savio, e in istato assai il cui nome fu Coppo di Borghese, e stava dirimpetto
dove stanno al presente i Leoni, il quale faceva murare nelle sue case; e
leggendo un sabato dopo nona nel Titolivio, si venne abbattuto a una storia;
come le donne romane, essendo stata fatta contra loro ornamenti legge di poco
tempo, erano corse al Campidoglio, volendo e addomandando che quella legge si
dirogasse. Coppo, come che savio fosse, essendo sdegnoso, e in parte bizzarro,
cominciò in sé medesimo muoversi ad ira, come il caso in quella
dinanzi a lui intervenisse; e percuote e 'l libro e le mani in su la tavola, e
talora percuote l'una con l'altra mano, dicendo:
- Oimè, Romani, sofferrete voi questo,
che non avete sofferto che re o imperadore sia maggior di voi?
E cosí si nabissava, come se la fante
in quell'ora l'avesse voluto cacciare di casa sua.
In questa cosí fatta furia stando il
detto Coppo, ed ecco venir li maestri e manovali che uscivano d'opera, e
salutando Coppo, domandarono denari, come che molto il vedessino adirato. E
Coppo come uno serpente volgesi a costoro, dicendo:
- Voi mi salutate, e io vorrei volentieri
essere a casa il diavolo; voi mi chiedete danari delle case che mi acconciate,
io vorrei volentieri ch'elle rovinasseno testeso, e rovinassonmi addosso.
Costoro si volgeano l'uno all'altro,
maravigliandosi, dicendo:
- Che vorrebb'egli?
E dissono:
- Coppo, se voi avete cosa che vi spiaccia,
noi siamo malcontenti; se noi possiamo fare alcuna cosa, che vi levassi dalla
noia che avete, ditecelo, e farenlo volentieri.
Disse Coppo:
- Deh, andatevi con Dio oggi al nome del
diavolo, ch'io vorrei volentieri non esser mai stato al mondo, pensando che
quelle sfacciate, quelle puttane, quelle dolorose, abbiano aúto tanto
ardire ch'elle sieno corse al Campidoglio per rivolere gli ornamenti. Che
faranno li Romani di questo? ché Coppo, che è qui, non se ne
puote dar pace: e se io potessi, tutte le farei ardere, acciò che sempre
chi rimanesse se ne ricordasse: andatevene, e lasciatemi stare.
Costoro per lo migliore se n'andorno, dicendo
l'uno all'altro:
- Che diavolo ha egli? e' dice non so che di
romani: forse da stadera.
E l'altro dicea:
- E’ conta non so che di puttane: avrebbegli
la donna fatto fallo?
E uno manovale disse:
- A me pare che dica del capo mi doglio
; forse gli duole il capo.
Disse un altro manovale:
- A me pare che si dolga che gli sia versato
un coppo d'oglio.
- Che che si sia, - dicon poi - noi vorremmo
e' danari nostri, e poi abbia quel vuole.
E cosí deliberarono di non andare
piú a lui per allora, ma di tornarvi la domenica mattina; e Coppo si
rimase nella battaglia, della quale essendo la mattina raffreddo, e tornandovi
e' maestri, diede loro ciò che doveano avere, dicendo che la sera avea
altra maninconia.
Savio uomo fu costui, come che nuova fantasia
gli venisse; ma ogni cosa considerata, ella si mosse da giusto e virtuoso zelo.
Messer Valore de' Buondelmonti è
conquiso e rimaso scornato da una parola che un fanciullo gli dice, essendo in
Romagna.
Molti sono che viddono e udirono già
messer Valore, e sanno, come che fusse reputato matto, quanto fu reo e
malizioso. Egli erano poche cose di che non s'intendesse e ragionasse, con uno
atto quasi di stolto. Essendo pervenuto a una terra una sera in Romagna, e
favellando dov'erano Signori e gentili uomini, o che gli fusse fatto in prova
fare, o che da sé lo facesse, venne un fanciullo, il quale era
d'età forse di quattordici anni, e accostandosi a messer Valore, il
cominciò a guatare in viso, dicendo:
- Vo' siete un grande calleffadore.
Messer Valore con la mano pignendolo da
sé, dice:
- Va', leggi.
Costui fermo; e messer Valore dicendo per
sollazzo con costoro dicea:
- Quale avete voi che sia la piú
preziosa pietra che sia?
Chi dicea il balascio, chi 'l rubino, e chi
l'elitropia di Calandrino, e chi una, e chi un'altra.
Dice messer Valore:
- Voi non ve ne intendete; la piú
preziosa pietra è la macina del grano; e s'ella si potesse legare e
portarla in anello, ogni altra pietra passerebbe di bontà.
Dice il fanciullo (e tira messer Valore per lo
gherone):
- Mo qual volete voi piú, e qual val
piú, o un balascio, o una macina?
Messer Valore guata costui, e scostagli la
mano da sé, e dice:
- Vanne a casa, pisciadura.
E que' fermo. La brigata comincia a ridere e
sí della macina da grano, e sí del detto del fanciullo. Messer
Valore dice:
- Voi ridete? Io vi dico tanto, che io ho trovato
esser maggior virtú in un piccolo sasso che non è macina da
grano, che io non ho trovato né in pietre preziose, né in parole,
né in erbe, e pur l'altro dí ne feci la sperienza, e sapete che
si dice che in quelle tre cose lasciò Dio la virtú, e udite come,
e credo che voi stessi il confesserete. Egli era l'altro dí un
giovanetto su uno mio fico, e facevami danno, cogliendo que' fichi che v'erano
su. Io cominciai a provar la virtú delle parole, dicendo: “Scendi
giú, vanne”; e infine minacciando quanto potei, e' non si mosse mai per
le mie parole. Veggendo che le parole non valeano, cominciai a cogliere
dell'erbe, e facendo di quelle mazzuoli, le gittava, e davagli con esse alcuna
volta, e le furono novelle, che mai si partisse. Veggendo che ancora non mi
valevano l'erbe, misi mano alle pietre, e cominciai a gittare verso lui,
dicendo: “Scendi giú”. Com'egli vedde pur ricorre la seconda pietra,
avendo gittata la prima, subito scese a terra del fico, e andossi con Dio.
Questo non averebbe fatto quanti rubini e quanti balasci furono mai.
La brigata tutta con grande sollazzo dissono
messer Valore aver ragione, e dire il vero; e 'l fanciullo guarda messer Valore
con un atto malizioso, e dice:
- In fé di Dio, questo gentiluomo
è molto amico delle pietre, e ne deve avere piena la scarsella.
E pongli mano a un carniere ch'egli avea.
Messer Valore si volge, e dice:
- Vanne col malanno; chi diavol è
questo fanciullo? Serebb'egli Anticristo?
Dice il fanciullo:
- Io non so che Anticristo; s'io potessi far
quello che possono gli signori di Romagna, in fé di Dio, che io vi darei
tante di queste pietre, che hanno sí gran virtú che portandole in
Toscana voi ne andreste ben fornito.
Messer Valore quasi tutto scornato, udendo le
parole di questo fanciullo, dice verso la brigata:
- E’ non fu mai nessun fanciullo savio da
piccolino che non fusse pazzo da grande.
Il fanciullo, udendo questo, disse:
- In fé di Dio, gentiluomo, voi
dovest'essere un savio fantolino.
Messer Valore, strignendosi nelle spalle,
disse:
- Io te la do per vinta.
E rimase quasi tutto smemorato, dicendo:
- Non trovai mai nessun uomo che mi mattasse,
e uno fanciullo m'ha vinto, e matto.
Il piacere che quelli dattorno ebbono di
ciò non è da domandare; e quanto piú ridevano, messer
Valore piú imbiancava. Nella fine disse messer Valore:
- Chi è questo fanciullo?
Fugli detto come era figliuolo d'un uomo di
corte, chiamato o Bergamino, o Bergolino. Disse messer Valore:
- E’ m'ha sí bergolinato, che io non ho
potuto dir parola, che non m'abbia rimbeccato.
Dice alcuno:
- Messer Valore, menatelo con voi in Toscana.
Dice messer Valore:
- Non che io lo meni in Toscana, io fuggirei
di stare là, quando egli vi fusse: fatevi con Dio, e bastivi questo,
ché se gli altri Romagnuoli sono della razza di questo fanciullo, e' non
ne fia mai nessuno ingannato.
E cosí a Firenze si tornò
scornato e beffato da uno fanciullo colui che tutti gli altri beffava.
Guido Cavalcanti, essendo valentissimo uomo e
filosofo, è vinto dalla malizia d'un fanciullo.
La passata novella mi fa venire a mente questa
che seguita, la quale fu in questa forma. Giucando a scacchi uno d'assai
cittadino, il quale ebbe nome Guido de' Cavalcanti di Firenze, uno fanciullo
con altri facendo lor giuochi, o di palla o di trottola come si fa,
accostandosegli spesse volte con romore, come le piú volte fanno, fra
l'altre, pinto da un altro questo fanciullo il detto Guido pressò; ed
egli, come avviene, forse venendo al peggiore del giuoco, levasi furioso e
dando a questo fanciullo, disse:
- Va', giuoca altrove.
E ritornossi a sedere al giuoco delli scacchi.
Il fanciullo tutto stizzito piagnendo, crollando la testa s'aggirava, non
andando molto da lunga, e fra sé medesimo dicea: “Io te ne
pagherò.” E avendo uno chiovo da cavallo allato, ritorna verso la via
con gli altri, dove il detto Guido giucava a scacchi; e avendo un sasso in
mano, s'accostò drieto a Guido al muricciuolo o panca, tenendo in su
essa la mano col detto sasso, e alcuna volta picchiava; cominciando di rado e
piano, e poi a poco a poco spesseggiando e rinforzando, tanto che Guido voltosi
disse:
- Te ne vuoi pur anche? Vattene a casa per lo
tuo migliore, a che picchi tu costí cotesto sasso?
E quello dice:
- Voglio rizzare questo chiovo.
E Guido agli scacchi si rivolge, e viene
giucando.
Il fanciullo a poco a poco, dando col sasso,
accostatosi a un lembo di gonnella o di guarnacca, la quale si stendea su la
detta panca dal dosso di detto Guido, su essa accostato il detto chiovo con
l'una mano, e con l'altra col sasso conficcando il detto lembo, e con li colpi
rinforzando, acciò che ben si conficcasse e che 'l detto Guido si
levasse; e cosí avvenne come il fanciullo pensò; ché 'l
detto Guido essendo noiato da quel busso, subito con furia si lieva, e 'l
fanciullo si fugge, e Guido rimane appiccato per lo gherone. Sentendo questo, e
quel tutto scornato si ferma, e con la mano minacciando verso il fanciullo che
fuggiva, dicendo:
- Vatti con Dio; che tu ci fusti altra volta!
E volendo spastoiarsi, e non potendo, se non
volea lasserare il pezzo della guarnacca, gli convenne cosí preso
aspettare tanto che venissono le tanaglie.
Quanto fu questa sottil malizia a un
fanciullo, che colui che forse in Firenze suo pari non avea per cosí fatto
modo fusse da un fanciullo schernito e preso e ingannato!
Passera della Gherminella, credendo trovare
gente grossa per arcare, ne va in Lombardia, e trovandoli piú sottili
che non volea, ritorna a fare il suo giuoco a Firenze.
Passera della Gherminella fu quasi barattiere,
e sempre andava stracciato e in cappellina, e le piú volte portava una
mazzuola in mano a modo che una bacchetta da Podestà, e forse due
braccia di corda come da trottola, e questo si era il giuoco della gherminella,
che tenendo la mazzuola tra le due mani e mettendovi su la detta corda,
dandogli alcuna volta, e passando uno grossolano dicea:
“Che l'è dentro, che l'è di
fuori?”, avendo sempre grossi in mano per metter la posta.
Il grossolano veggendo che la detta corda
stava, che gli parea da tirarla fuori, dicea di quello “che l'è di
fuori”, e 'l Passera dicea: “E che l'è dentro”.
Il compagno tirava, e la corda, come che si
facesse, rimanea e fuori e dentro come a lui piacea; e spesse volte si lasciava
vincere per aescare la gente e dar maggior colpo. Quando con questo giuoco ebbe
consumato quasi ogni uomo, e spezialmente sul canto de' Marignolli dove si
vende la paglia, gli disse un dí uno che di questa sua arte con lui
alcuna volta si trovava alla taverna:
- Passera, io m'ho pensato che, se tu vai in
Lombardia, la gente v'è grossa, tu guadagnerai ciò che tu vorrai,
e spezialmente a Como e Bergamo, che vi sono gli uomini che paiono montoni,
sí sono grossi; e se tu vuogli, me ne verrò con teco.
Disse il Passera:
- Sie fatto; quando vogliamo?
- Andiamo in tal dí.
Venuto el dí posto, el Passera col suo
consigliere si mosse, e giugnendo a Bologna, dove dall'albergo di Felice
Ammannati erano molti e Fiorentini e Bolognesi, come Felice il vede, dice:
- Buon buono! Legatevi le borse, brigata, che
ecco il Passera.
Il Passera si partí da giuoco il meglio
che poté, e non gli parve di stare in Bologna, né di perdersi la
fatica. L'altro dí pervenne a Ferrara; là fu ancora sí
conosciuto che non vi approdò alcuna cosa. Andossene a Modona, e quivi
in su la piazza tese la rete, là dove non pigliò alcuna cosa.
Come va, o come sta, inteso che aveano el giuoco, ciascun s'andava con Dio.
Andò a Reggio, e quivi misse innanzi il giuoco, e chiamando a sé
gente.
- Che volete voi dire? Guardate questo giuoco.
L'uno tirava una reggiaria e l'altro un'altra:
e 'l Passera si volge al consigliero e dice:
- Tu m'hai pur condotto bene.
E quel dice:
- Non ti sgomentare; andiamo pur oltre a
Parma.
Provorono; chi dicea:
-E’tira quella cordella.
L'altro dicea:
- E’ se la tiri, ché io non voglio
apparare testeso giuoco nuovo.
E cosí o peggio a Piacenza, che ben lo
piagentavano, dicendo:
- O barba, e che giuoco è questo?
E’ poteva assai dire, ch'egli era quivi
uccellato. A Lodi su la piazza lodavono il giuoco, e domandovonlo onde egli
era. Giunto a Melano, dov'erano le buone borse, gli era detto:
- Mo guarda chi crede arcare li Melanesi!
E in tutte le terre passate non
guadagnò soldi venti, che gli scotti gli erano costati piú di
cento novanta.
Andaronsene a Como tosto tosto, credendo
trovar quelli Comasini grossissimi; e là in su la piazza cacciò
il Passera fuori la mazzuola e la cordella.
- Chi mette? e che l'è dentro?
Giugne l'uno e dice:
- A mi che fa?
E quel dice:
- E che l'è di fuori?
E un altro giugne, e dice:
- E che fa a mi?
Mai non gli fu fatta altra risposta.
Andaronsene a Bergamo, a Brescia, a Verona, a
Mantova, a Padova e in molte altre terre, e non trovorono chi dicesse, se non:
“A me che fa?” e “Che fa a mi?” o peggio tanto che, tornati a Firenze, il
Passera trovò aver guadagnato lire quattro e soldi otto, e trovò
avere speso in lui e nel consigliero lire quarantasette e soldi. Onde, per
rifarsi, cominciò a tender la trappola in Firenze al luogo usato. Il primo
dí che vi fu, correvano le genti come se mai non l'avessino veduto,
credendo che 'l Passera fusse morto, e ciascuno gli facea festa; e chi
piú era caduto alle sue reti per li tempi passati, piú di nuovo
vi cadea, e guadagnò co' fatappi in pochi dí ciò ch'egli
avea in Lombardia messo al di sotto: dicendo con assai poi questa novella,
affermando che tra quanti luoghi avea cerchi, e in Lombardia e altrove, mai non
avea trovata gente paolina come là dov'egli era nato.
Torello del Maestro Dino con uno suo figliuolo
si mettono a uccidere dua porci venuti da' suo' poderi, e in fine, volendogli
fedire, li porci si fuggono e vanno in un pozzo.
Nella nostra città fu uno pratico e
avvisato uomo chiamato Torello del maestro Dino, al quale essendo venuto per le
feste di Pasqua due porci da' suo' luoghi da Volognano, che pareano due asini
di grandezza; e convenendo che cercasse chi gli uccidesse, acconciasse e
insalasse, pensò che ciò non si potea fare senza buon costo; e
pertanto disse al figliuolo:
- Ché non uccidiàn noi questi
porci noi, e conciànli? noi abbiamo il fante, e risparmierenci i danari
che vorrebbe chi gli acconciasse; e credo che noi farèn bene come loro.
E dice al figliuolo:
- Che di'?
E que' risponde:
- Dico che noi il facciamo.
- Or bene, troviamo due invoglie e uno
coltellino bene appuntato, e metteremo l'uno in terra; e io - disse Torello -
l'ucciderò, e voi lo terrete che non fugga.
Risposono che ben lo farebbono. Torello,
recatosi in concio che era gottoso e debole, si mette il grembiule, e chinasi e
fa chinare gli altri a pigliare il detto porco per le gambe, e fannolo cadere
in terra: come gli è in terra, Torello che avea attaccato il coltellino
alla coreggia, se lo reca in mano, e volendo fedire il porco per ucciderlo, e
standoli col ginocchio addosso e senza brache, e 'l figliuolo essendo andato
per un catino per la dolcia, appena era il ferro entrato nella carne un'oncia,
che 'l porco cominciò a gridare; l'altro che era sotto una scala,
sentendo gridare il compagno, corre e dà tra' calonaci di Torello. Come
il ferito sente il compagno venuto alla riscossa, furiosamente dà un
guizzo sí fatto che caccia Torello in terra. In questo giugne il
figliuolo, e Torello dice:
- Tu se' stato tu che non torni mai.
- Anzi tu.
- Anzi tu.
E con questa tenzione, il porco uscito lor tra
le branche, corre per uno androne, e l'altro porco drietoli, e dànno su
per una scala. Torello levatosi, e 'l figliuolo, dicono:
- Ohimè! male abbiamo fatto.
Dànno su per la scala dietro a' porci,
là dove il sangue per tutto zampillava. Giunti in sala, caccia di qua,
caccia di là, e quello ferito dà in una scanceria tra bicchieri e
orciuoli, per forma e per modo che pochi ve ne rimasono saldi.
Alla perfine il porco s'accostò al
pozzo ch'era su la sala e gittòvisi dentro, e l'altro porco drietogli.
Quando Torello vede questo, dàssi delle
mani su l'anche dicendo:
- Oimè, or siàn noi diserti -; e
fassi alle sponde guardando nel pozzo. - Che faremo e che diremo?
Alla per fine voltosi al suo fante, il
pregò per amor di Dio che si collasse nel pozzo, e togliesse un buon
coltello appuntato e una fune, e o vivi o morti pensasse di legarli; ed egli e
'l figliuolo tirerebbon su la fune del pozzo, alla quale accomandasse li detti
porci. Il fante bestia volle servire Torello, e preso il detto fornimento
s'attaccoe alla fune del pozzo, e còllavisi entro. Come fu giunto giuso,
e 'l porco ferito gli dà di ciuffo alla gamba, e quanto ne prese tanto
ne levò.
Sentendo il fante il dolore del morso,
comincia a gridare: “Accorr'uomo, oimè, oimè!” a sí alte
voci che la vicinanza trasse, e truovano cosí fortunoso caso; e saputo
come il fatto era ito, dicono a Torello:
- In buona fé, tu hai fatto un bel
risparmio; quando tu riaverai questi porci, fara'celo assapere, e peggio
è ch'egli averanno morto questo buon uomo che v'entrò dentro.
E fassi alcuno alla sponda dicendo:
- Se' tu vivo?
E quello dice:
- Oimè, per Dio! tirate la fune e io
m'atterrò a essa per uscire di qui.
E 'l porco in quell'ora anco l'assanna; ed
egli si volge in su:
- Oimè, tirate, ché, se voi non
tirate, io son morto.
Alla fine tirarono la fune, come se
attignessero acqua; ed eccoti il tristo su con una gamba guasta e tutta
stracciata, che piú mesi ne penò a guarire, e gridava:
- Oimè! Torello, a che partito me avete
messo? io non serò mai piú uomo.
Torello dicea:
- Sta' cheto; io ti farò medicare al
maestro Banco che è molto mio amico, ma de' porci come si fa?
Dice il fante:
- Il pensiero sia vostro, che volete
tòr l'arte a' tavernai.
Alla per fine e' s'andò per due beccai
che desseno e consiglio e aiuto: e dissono voleano d'ogni porco fiorini uno a
trargli del pozzo. Torello, veggendosi mal parato, disse:
- Sie fatto.
E domandorono se gli volea uccidere,
però che laggiú convenía s'uccidessino. Disse di
sí:
- Fate tosto, e fate come voi volete.
Allora l'uno s'armò come se andasse a
combattere, e con uno coltello appuntato a spillo andò giuso, e brieve,
dopo gran pena, gli uccise, e legati prima l'uno e poi l'altro alle funi del
pozzo, gli tirorono fuori: dell'acconciatura poi gli pagò quello se ne
venía, che fu forse un altro fiorino. L'acqua del pozzo rossa di sangue
umano e di sangue porcino, convenne che in poco tempo si rimondasse, e lavasse
il pozzo piú di otto volte, e costò bene fiorini tre. I porci non
ebbono dolce, la carne fu tutta livida e percossa, e fu assai di peggio. Or
questo risparmio fece questo valente uomo ch'e' porci valeano forse dieci
fiorini ed egli ne spese poi forse altrettanti, senza le beffe che furono via
piú.
La novella detta, per alcuno giovane fu
già scritta, e molto piú lungamente, però che mette ch'e'
porci andorono in cucina e in quella tempestorono ciò che v'era. E
questo non fu vero; però che quello della cucina avvenne a uno
gentiluomo de' Cerchi, vicino di Torello, che, sentendosi piú giovane e
meglio in gambe di lui, volle provare d'uccidere un suo porco; il quale da lui
fedito, come questo, sí gli uscí tra mani, e correndo su per la
scala, imbrattando ogni cosa col sangue, n'andò in cucina, e là
fece gran danno, tempestando ciò che v'era. Questi porci mi fanno
ricordare d'alcun'altra novella, per lo serrarsi insieme, quando sono offesi,
la quale racconterò qui da piede.
Uno Frate romitano di quaresima in pergamo a
Genova ammaestra ch'e' Genovesi debbano fare buona guerra.
E’ non è molt'anni che trovandom'io in
Genova di quaresima, e andando, com'è d'usanza, la mattina alla chiesa,
fui alla chiesa di Santo Lorenzo, dove predicava in quell'ora un frate
romitano, ed era la guerra tra Genovesi e Viniziani; e in quelli dí li
Viniziani aveano forte soprastato a' Genovesi. Ora, accostandomi e porgendo gli
orecchi per udire alquanto, le sante parole e' buoni esempli che io gli udi'
dire furono questi. E diceva:
- Io sono Genovese, e se io non vi dicessi
l'animo mio, e' mi parrebbe forte errare; e non abbiate a male, ché io
vi dirò il vero. Voi siete appropiati agli asini; la natura dell'asino
è questa: che quando molti ne sono insieme, dando d'uno bastone a uno,
tutti si disserrano, e qual fugge qua, e qual fugge là, tanto è
la lor viltà; e questa è proprio la natura vostra. Li Viniziani
sono appropiati a' porci, e sono chiamati Viniziani porci, e veramente egli
hanno la natura del porco, però che essendo una moltitudine di porci
stretta insieme, e uno ne sia o percosso o bastonato, tutti si serrano a una, e
corrono addosso a chi gli percuote; e questa è veramente la natura loro:
e se mai queste figure mi parvono proprie, mi paiono al presente. Voi
percotesti l'altro dí li Viniziani: e' si sono serrati verso voi a lor
difesa e a vostra offesa; e hanno cotante galee in mare con le quali v'hanno
fatto e sí e sí; e voi fuggite chi qua e chi là, e non
intendete l'uno l'altro; e non avete se non cotante galee armate: egli n'hanno
presso a due tanti. Non dormite, destatevi, armatene voi tante che possiate, se
bisogna, non che correre il mare, ma entrare in Vinegia.
Poi fa fine a queste parole, dicendo:
- Non l'abbiate a male, ché io serei crepato,
s'io non mi fusse sfogato.
Or questa cotanta predica udi' io, e torna' mi
a casa; l'avanzo lasciai udire agli altri. Avvenne per caso quel medesimo
dí che nel luogo de' mercatanti, essendo io dov'erano in un cerchio e
Genovesi, e Fiorentini, e Pisani, e Lucchesi, e ragionandosi de' valenti
uomini, disse uno savio Fiorentino che ebbe nome Carlo degli Strozzi:
- Per certo voi Genovesi siete gli migliori
guerrieri e piú prod'uomini che siano al mondo: noi Fiorentini siamo da
fare l'arte della lana, e nostre mercanzie.
Ed io risposi:
- E’ c'è ben la ragione.
Il perché tutti dissono:
- Come?
E io rispondo:
- Li nostri frati, quando predicano a Firenze,
ci ammaestrano del digiuno e dell'orare, e che dobbiamo perdonare, e che
dobbiamo seguire la pace e non far guerra; li frati che predicano qui insegnano
tutto il contrario; però che in questa mattina ritrovandomi in Santo
Lorenzo, io porsi gli orecchi a un frate romitano che predicava; gli
ammaestramenti e gli esempli che il populo qui poté udire furono questi:
- e raccontai ciò che avea udito.
Tutti si maravigliorono: e allora da chi aveva
udito com'io, ne seppono la verità, e ciò udito, dissono che io
aveva ragione; e parve a tutti una nuova predica.
E cosí siamo spesse volte ammaestrati,
tanto è ampliata la nostra fede, salendo tale in pergamo che Dio il sa
quanta sia la loro prudenza, o la loro discrezione.
Un Vescovo dell'ordine de' Servi al luogo
della chiesa loro di Firenze, dicendo le piú nuove cose del mondo, e le
piú stolte, tira a sé di molta gente.
La novella passata mi tira a dire quello che,
fra l'altre nuove predicazioni che facea, disse un dí un Vescovo
dell'ordine de' Servi nella loro chiesa in Firenze in sul pergamo predicando.
Questo Vescovo lavaceci, vogliendo ammaestrare nel vizio della gola, riprendea
gli Fiorentini dicendo:
- Voi siete molto golosi; e' non vi basta
magnare le pastinache fritte, ché voi le mettete ancora nell'agliata
cotta; e quando mangiate li ravazzuoli, non vi basta, quando hanno bollito nel
pignatto, mangiarli con quel buglione, ché voi gli traete del loro
proprio brodo e friggeteli in un altro pignatto, e poi gli minestrate col
formaggio.
E molte altre cose simili che tutte
veníano dalla sua profonda celloria.
E in questa medesima predica, che credo fosse
quel dí della Assunzione, venendo a dire come Cristo n'andò in
cielo, comincia a dire:
- E’ n'andò ratto piú che cosa
che si potesse dire. Come n'andò ratto? andonne come uccello che
volasse? piú; andonne come freccia che uscisse d'arco? piú; o
come strale che uscisse di balestro? piú; come n'andò? Come se
mille paia di diavoli ne l'avessino portato.
Udendo questa cosí bella predica, mi
ritrovai in quel dí col Priore dell'ordine, e domandolo qual scrittura
dicesse quello che quel Venerabile Mellone aveva detto in pergamo; ed egli
rispose ch'egli era de' piú valenti uomini che avesse l'ordine, ma
ch'elli credea che per infirmità ch'egli avea aúto fusse alcun'ora
impedito nella mente; e io risposi che quella infirmità era continua e
ch'ella durava troppo, però che in ogni predica che facea, dicea cose
simili a quelle o vie piú nuove, per sí fatta forma che la gente
correa piú al detto frate per avere diletto delle sue dolci parole, che
non andavono per divozione alla Nunziata per avere da lei grazia. Riconobbono
il loro errore, che 'l faceano predicare, e la stoltizia di colui che
predicava; e disposono lui della predica, e feciono predicare un altro. E pensa
tu, lettore, che frate costui potea essere; ché passando io scrittore
poi ad alcun dí per Mercato Vecchio, costui era sopra un paniere di
fichi, e dicea alla forese:
- O donna, quante fiche date vui per un
dinaro?
E comprandole le mangiava in piazza.
Le cose stratte fuori di forma, e nuove di
scienza, e con sciocchezza adornate nelle sue prediche, furono tante che lingua
appena le potrebbe contare, non che io scrivere. Tanto dico che, essendo costui
cosí scorto, la gente lasciava l'altre predicazioni, e correano alla
sua; essendogli fatte alcuna volta di nuove cose, e fra l'altre gli vidi un
dí conficcare la cappa su le sponde del pergamo, e altre cose assai; e
tanto se n'avvedea dell'altrui beffe quanto farebbe una bestia.
E questi tali ci ammaestrano spesse volte, e
noi cosí appariamo che manco fede abbiamo l'un dí che l'altro.
Questo frate tenea oppinione che quando il
nostro Signore andò in cielo che n'andasse cosí veloce e ratto
come avete udito. Uno mio amico veggendo il dí dell'Ascensione
all'ordine de' frati del Carmine di Firenze, che ne faceano festa, il nostro
Signore su per una corda andare in su verso il tetto, e andando molto adagio,
dicendo uno:
- E’ va sí adagio che non
giugnerà oggi al tetto.
E quel disse:
-
Se non
andò piú ratto, egli è ancor tra via.
Maestro Niccolò di Cicilia, predicando
in Santa Croce, gittò un motto verso il Volto santo, il qual è...
, e fa rider tutta la gente.
Avendo narrato le dua precedenti novelle di
quelli due smemorabili frati, mi si fa innanzi a dire una novelletta de un
valentissimo maestro in teologia dell'ordine di Santo Francesco, il quale ebbe,
o ancora ha (però che non so s'egli è vivo) nome maestro Niccola
di Cicilia. E acciò che questa novelletta mostri il suo fondamento,
è da sapere che questi valenti frati minori che sono stati, o ancora che
sono in Cicilia, giammai non soffersono, dove abbiano possuto, che 'l Volto
santo si dipinga in alcun luogo loro, e sono stati malvoglienti di chi mai n'ha
fatto dipignere alcuno.
Capitò questo maestro Niccola nella
nostra città per una questione che aveva mosso contro a lui uno
Inquisitore de' frati predicatori in Cicilia; e andavasi a diffinire in Corte
dinanzi al Sommo Pontefice, nel tempo ch'e' Fiorentini ebbono guerra co'
pastori della Chiesa. E sentendosi per Firenze la profonda scienza del maestro
Niccola, fecionlo pregare dovesse predicare qualche dí, egli
predicò tre feste, l'una dello Spirito Santo, l'altra della
Trinità, la terza del Corpo di Cristo; tutte altissime materie e da non
meno valente uomo che fusse elli.
Essendo una di queste feste in pergamo il
dí dopo desinare, ed essendovi moltissima gente, fra l'altre cose,
giugnendo in una parte, volendo dare ad intendere l'essenzia del nostro Signore
Jesu Cristo, dice:
- Com'è fatta la faccia di Cristo?
E furioso si volge verso il Volto santo
dicendo:
- Non è fatta come la faccia del Volto
santo che è colà che ben ci vegno a crepare, se Cristo fu
cosí fatto.
E detto questo, si ritorna a quello che avea a
dire.
La predica comincia a ridere, e ridi e ridi,
tanto che per buona pezza né il detto Maestro poteo dire, né
altri ascoltare. E io scrittore mi trovai con un altro valente frate maestro in
teologia, che avea nome maestro Ruggieri di Cicilia nella detta chiesa; vidi certi
che 'l pregavano se volea acconciare una questione, mandasse per Dino di Geri
Tigliamochi (questo Dino avea fatto fare quello Volto santo); rispose maestro
Ruggieri:
- Questo Dino che voi dite che io mandi per
lui, è quello Dino che ci ha posto quel Volto santo colae?
Dissono di sí; e que' disse:
- Se tutti gli pianeti avessono disposto che
questo accordo si facesse, adoperandosi questo Dino in ciò, lo farebbe
discordare, immaginando ch'el ci abbia fatto porre questo Volto santo in questo
luogo.
E mai non volle mandare per lui.
E cosí questi due valenti uomini con
cosí fatta piacevolezza vollono mostrare e mostravono a chi andava alle
loro camere che del nostro Signore avevano figure assai, senza cercare di cose
nuove; e che il nostro Signore e di viso e d'ogni membro fu il piú bel
corpo che fusse mai e che questo Volto santo che parea uno mascherone era il
contrario.
Messer Beltrando da Imola manda un notaio per
ambasciadore a messer Bernabò, il quale, veggendolo piccolino e giallo,
il tratta come merita.
Egli è poco tempo che, essendo messer
Beltrando degli Alidosi signore d'Imola, mandò un notaio per
ambasciadore a messer Bernabò signore di Melano, il qual notaio avea
nome ser Bartolomeo Giraldi, omicciuolo sparuto, piccolissimo, tutto nero e
giallo, con gli occhi giallissimi, che parea se gli fosse sparto su il fiele.
Giugnendo costui dove era il signore, trovò che era su una scala, per
salire a cavallo, e 'l cavallo era ivi, e' famigli già alla staffa.
Fatta la riverenza questo ambasciadore cosí fatto, e messer
Bernabò dalla prima volta in su, non che lo guardasse, ma tenea volto il
viso in altra parte, e dicea:
- Di' pur via ciò che tu vuogli.
E cosí, costui dicendo, e messer
Bernabò mostrandoli le rene, chiamò a sé un suo famiglio e
disse:
- Va', sella il tale cavallo, e allungali le
staffe quanto puoi, e menalo subito qui.
Il famiglio andò presto, e menò
il cavallo nella forma che il signore avea detto. Come 'l signore vide il
cavallo, chiamò il famiglio, e disse:
- Quando io vel dico, o accennerò,
aiutate porre a cavallo questo ambasciadore, e non raccorciate le staffe.
E come disse, cosí fu fatto; ché
messer Bernabò disse:
- Messer l'ambasciadore, sali su quel cavallo,
e verra' con mi parlando.
E detto questo, salí il signore a
cavallo, e l'ambasciadore ciò veggendo, volendo salire sul cavallo delle
staffe lunghe, e non potendo, fu da' famigli postovi su, come un fanciullo. El
signore cavalca tosto; e costui, non avendo modo né d'acconciarsi,
né da raccorciar le staffe, cavalca come puote. Questo cavallo, che 'l
signore avea fatto venire, sempre andava aizzato e intraversando; e messer
Bernabò dicea:
- Dite ciò che voi volete; lasciate
pure andare il cavallo.
E non lo guardava però in viso, se non
poco. Costui s'andava con le gambucce spenzolate a mezzo le barde, combattendo
e diguazzando; e quello cotanto che diceva, lo dicea con molte note, come se
dicesse uno madriale, secondo le scosse che avea, che non erano poche. E messer
Bernabò quanto piú il vedea diguazzare, piú dicea:
- Di' pur oltre i fatti tuoi, ché io
t'intenderò bene.
Brievemente egli il menò quattr'ore a
questa maniera, che assai volte fu l'ambasciadore per rassegnarsi in terra, e
mai non poté mettersi e' panni sotto, né acconciarsi, sí
che le cosce, non che le gambe, non portasse scoperte. Alla fine tutto lacero,
come quello che avea poco prosperità, ritornò col signore alla
corte, donde s'era partito, piú giallo e piú cattivelluccio che
mai; e 'l signore, sceso che fu, disse che ben gli risponderebbe, e andò
suso.
Quando l'ambasciadore ne scese, s'attaccoe
agli arcioni, lasciandosi spenzolare; e non giugnendo a un braccio a terra, fu,
per una volta che 'l cavallo diede, presso che caduto. Alla fine assai
debolmente si posò in terra ferma; e mai non poté andare innanzi
al signore, stando in Melano piú di quindici dí; e, s'ebbe
risposta, gli fu fatta per altrui, e tornossi al signore che l'avea mandato.
Il quale, udito dal giallo ambasciadoruzzo
come era stato trattato, s'avvisò che messer Bernabò aveva
ciò fatto per la strutta e dolorosa apparenza del suo ambasciadore, il
quale parea uno rigogolo piú tosto che persona.
Molto si dovrebbe piú guardare, quando
l'uomo manda gli ambasciadori, che non si fa. Vogliono essere attempati e savi,
e apparenti; altrimenti chi gli manda n'ha poco onore, e vie meno eglino che
sono mandati. E cosí intervenne a questo ambasciadore giallo detto di
sopra.
A Giotto dipintore, andando a sollazzo con
certi, vien per caso che è fatto cadere da un porco; dice un bel motto;
e domandato d'un'altra cosa, ne dice un altro.
Chi è uso a Firenze, sa che ogni prima
domenica di mese si va a San Gallo; e uomini e donne in compagnia ne vanno
là su a diletto, piú che a perdonanza. Mossesi Giotto una di queste
domeniche con sua brigata per andare, ed essendo nella via del Cocomero
alquanto ristato, dicendo una certa novella, passando certi porci di
Sant'Antonio, e uno di quelli correndo furiosamente, diede tra le gambe a
Giotto per sí fatta maniera che Giotto cadde in terra. Il quale
aiutatosi da sé e da' compagni, levatosi e scotendosi, né
biastemò i porci, né disse verso loro alcuna parola; ma voltosi
a' compagni, mezzo sorridendo, disse:
- O non hanno e' ragione? ché ho
guadagnato a mie' dí con le setole loro migliaia di lire, e mai non
diedi loro una scodella di broda.
Gli compagni, udendo questo, cominciorono a
ridere, dicendo:
- Che rileva a dire? Giotto è maestro
d'ogni cosa; mai non dipignesti tanto bene alcuna storia quanto tu hai dipinto
bene il caso di questi porci.
E andaronsene su a San Gallo; e poi tornando
da San Marco, e da' Servi, e guardando, com'è usanza, le dipinture, e
veggendo una storia di nostra Donna e Josefo ivi da lato, disse uno di costoro
a Giotto:
- Deh dimmi, Giotto, perché è
dipinto Josef cosí sempre malinconoso?
E Giotto rispose:
- Non ha egli ragione, che vede pregna la
moglie, e non sa di cui?
Tutti si volsono l'uno all'altro, affermando,
non che Giotto fusse gran maestro di dipignere, ma essere ancora maestro delle
sette arti liberali. E tornatisi a casa, narrorono poi a molti le due novelle
di Giotto, le quali furono tenute parole proprio di filosofo dagli uomini che
avevono intendimento. Grande avvedimento è quello di uno vertuoso uomo,
come fu costui.
Molti vanno e guardano piú con la bocca
aperta, che con gli occhi corporei, o mentali; e però qualunche vive non
può errare d'usare con quelli che piú che lui sanno, però
che sempre s'impara.
Matteo di Cantino Cavalcanti stando su la
piazza di Mercato con certi, uno topo gli entra nelle brache, ed egli tutto
stupefatto se ne va in una tavola, dove si trae le brache, ed è liberato
dal topo.
E’ non è molt'anni, che in casa
Cavalcanti fu un gentiluomo chiamato Matteo di Cantino, il quale io scrittore e
molti altri già vedemmo. Era stato il detto Matteo di Cantino ne' suoi
dí e giostratore e schermitore; e ogni altra cosa com'altro gentiluomo
seppe fare; era sperto e pratico com'altro suo pari e costumato. Essendo
d'età di settant'anni, e molto prosperoso, ed essendo il caldo grande
(però che era di luglio), e avendo le calze sgambate, e le brache
all'antica co' gambuli larghi in giuso, dicendosi novelle in un cerchio,
dov'erano e gentiluomini e mercatanti in su la piazza di Mercato Nuovo; e 'l
detto Matteo essendo nel detto cerchio, venne per caso che una brigata di
fanciulli di quelli che servano a' banchieri, che là sono, con una
trappola, dove aveano preso un topo, e con le granate in mano si fermano in sul
mezzo della piazza e pongono la trappola in terra, e quella posta in terra,
aprono la cateratta; aperta la cateratta, il topo esce fuori, e corre per la
piazza: li fanciulli con le granate menando, correndogli dietro per ucciderlo,
ed egli volendosi rimbucare, e non veggendo dove, corre nel cerchio, dov'era il
detto Matteo di Cantino, e accostatoglisi alle gambe, salendo su subito verso
il gambule, entrò nelle brache. Sentendo ciò Matteo, pensi
ciascuno come gli parve stare. Egli uscí tutto fuor di sé, li
fanciulli l'aveano perduto di veduta:
- Ov'è? dov'è?
L'altro dicea:
- E’ l'ha nelle brache.
La gente trae; le risa son grandi. Matteo,
come fuori della memoria, se ne va in una tavola; gli fanciulli con le granate
drietogli, dicendo:
- Caccial fuori; e' l'ha nelle brache.
Matteo agguattasi dietro all'appoggio del banco,
e cala giú le brache. De' fanciulli erano dentro con le granate,
gridando:
- Caccial fuori, caccial fuori.
Giunte le brache in terra, il topo schizza
fuori. Li fanciulli gridano:
- Eccolo, eccolo: al topo, al topo: e' l'avea
nelle brache; alle guagnele! E’mandò giú le brache.
Gli fanciulli uccidono il topo, Matteo rimane
che parea un corpo morto; e piú dí stette, che non sapea dove si
fosse. E’ non è uomo, che non fosse scoppiato di risa, che l'avesse
veduto, com'io scrittore che 'l vidi. Brievemente e' si botò alla
Nunziata di non portare mai in tutta la sua vita piú le calze sgambate,
e cosí attenne.
Che diremo de' diversi casi che avvengono? Per
certo che mai non credo n'avvenisse nessuno cosí nuovo, né
cosí piacevole. Starà l'uomo con gran pompa e superbia, e una
piccola cosa il metterà a dichino; anderà sgambato per le pulci,
e uno sorgo l'assalisce in forma che esce di sé. E’ non è
sí piccola ferucola che non dea che fare all'uomo: e l'uomo anco le
vince tutte, quando si dispone.
Due hanno una quistione dinanzi a certi
officiali, e l'uno ha dato all'un di loro un bue, e l'altro gli ha dato una
vacca, e l'uno e l'altro s'ha perduta la spesa.
In una città di Toscana, la quale per
onestà non dirò qual fusse né ancora dirò quali
officiali, né in tutto né in parte, fu già, e forse ancor
dura, un grande officio di valenti cittadini, i quali aveano grandissima balía
e di ragione e di fatto a terminar le questioni che interveniano e tra'
cittadini, e tra' contadini; avvenne per caso che due ricchi uomini mercatanti
di bestie aveano quistione di lire trecento o piú tra loro; e venne la
quistione dinanzi a questo officio: e non terminandosi tosto a modo che l'uno di
loro volea, e avendo paura non gli fusse fatto torto, pensò fare qualche
dono a uno di quelli del detto officio, il quale fusse da piú e meglio
il potesse aiutare. Ebbe considerato quello che egli immaginava. Aveva una
possessione, la quale era bella e buona, ma l'uomo non era addanaiato sí
che di buoi la tenesse ben fornita; e pensò di scoprirglisi, e andare a
lui, e raccomandandosi perché lo mantenesse e favellasse nelle sue
ragioni, e donargli un bue, ché molti n'avea; e come ebbe pensato,
cosí fece. E l'amico non si fece molto dire, che si tolse il detto bue.
L'altro, che avea la quistione con questo che
avea donato il bue, non sapiendone alcuna cosa, gli fu venuto un medesimo
pensiero, dicendo: “Il tale è il maggior uomo dell'officio; io gli
vorrei fare qualche bel dono, acciò che mi sostenesse nelle mie
ragioni”; e pensò lo stato suo, e ch'egli avea un luogo bello da tener
bestie grosse; e per non essere abbiente di danari, non ve le tenea. E
però andò a raccomandarsi a lui, e donògli una vacca,
dicendo:
- Io voglio che voi la tenghiate per mio amore
nel vostro luogo.
Costui se la tolse, e ha avuto il bue e la
vacca, e niuno non sa dell'altro alcuna cosa: se non che da ivi a pochi
dí essendo li due boattieri con la quistione dinanzi al detto officio, e
rovesciandosi quasi la cosa addosso a quello che avea donato il bue; e li
compagni diceano a quello da piú dell'officio:
- Ciò che te ne pare, quello
parrà a noi.
E quelli stava cheto, e non facea parola.
Colui che avea dato il bue a costui, che stava mutolo, aspettando da lui avere
soccorso, e vedea che non dicea parola, esce fuori con la voce, e dice:
- O che non favelli, bue?
E quei risponde:
- Perché la vacca non mi lascia.
L'uno si volge di qua e l'altro di là.
- Che vuol dire quello che costui ha detto?
E domandandolo, e' diede loro a credere che
dicea a sé medesimo; e l'officiale, che avea detto della vacca, disse
loro che gli era uno proverbio, che sempre questi mercatanti di bestie usavano
quando aveano quistione, ponendo nome a chi avea il migliore della quistione,
bue, e a chi avea il peggiore, vacca.
Avvenne poi, come che s'andasse, che quello
della vacca vinse il piato; forse ne fu cagione che la vacca, quando fu donata,
era pregna, e in quel tempo che si diede la sentenzia, fece un vitello.
Ora cosí spesse volte gli animali
inrazionali sottopongono quelli che sono razionali, a confusione di molti
comuni, dove non si può aver ragioni, se lepri, o capriuoli, o porci
salvatichi non compariscono. E io per me, veggendo questa gelosa consuetudine,
farei innanzi un mio figliuolo cacciatore, che legista. E non dirò
quello che seguita, per vantarmi d'averlo detto per grandissima virtú,
ma averlo detto come uomo, aiutato da maggiore signore; ché la parola
non fu mia, ma sua. Io era podestà d'una terra dov'io descrissi le
predette novelle; e venendo uno terrazano di quella a domandare di grazia
alcuna cosa, la quale, avendola fatta, era e mia disgrazia e mia vergogna, io
gliela negai, e non la feci.
Partitosi costui da me, disse alcuno:
- Messer lo Podestà, voi avete perduta
una lepre; però che colui che non avete servito in quella sua domanda,
è uno buon cacciatore, e avea disposto di mandarve una lepre, se voi
l'aveste servito.
E io risposi:
- Se mi avesse data la lepre, io l'arei
mangiata e patita; ma la vergogna non si sarebbe mai patita.
E cosí è veramente, come che io
mi confesso essere in ciò peccatore come gli altri; ma egli è una
gran miseria che una piccola cosa, che all'appetito diletti e dura un attimo, e
subito è corrotta, sottoponga e vinca la ragione d'onore, che dura
sempre. Ora ne cogliesse e incontrasse a tutti, come incontrò a quel
mercatante che donò il bue: e a chi o per avarizia o per gola sottopone
la ragione, giú pel palato fusse saziato con quello fu saziato Crasso.
Ugolotto degli Agli si lieva una mattina per
tempo, ed essendoli poste le panche da morti all'uscio, domanda chi è
morto égli risposto che è morto Ugolotto, onde ne fa gran romore
per tutta la vicinanza.
E’ non è vent'anni che fu un Ugolotto
degli Agli nella città di Firenze, il quale era magro, asciutto e
grande, e avea bene ottant'anni; e sempre, perché era uso nella Magna,
volea favellar tedesco; e sempre gli dilettò tenere sparviere, ed era
pauroso della morte piú che altro uomo. E come spesso avviene, che nelle
gran terre è di nuovi uomini, cosí fra gli altri uno, che avea
nome... del Ricco, vocato Ballerino di Ghianda, andò una notte,
ché spesso andava attorno, e picchiò l'uscio d'Ugolotto.
Ugolotto, che avea la camera sopra l'uscio, si destò, e levatosi, si
fece alla finestra. Ballerino tirasi a drieto, e Ugolotto dice:
- Chi è la?
Dice Ballerino:
- Sete voi Ugolotto, voi?
Dice Ugolotto:
- Sí, sono.
Dice Ballerino:
- Sia col malanno, e con la mala pasqua, che
Dio sí vi dia.
Dice Ugolotto:
- Aspetta un poco, aspetta un poco -; e piglia
una sua spada rugginosa e antica, e scende giú per la scala, percotendo
sí la detta spada che Ballerino l'udisse, acciò che si fuggisse.
Ballerino, che ogni cosa udía, e
sentiasi bene in gambe, si ferma, e aspetta quello che Ugolotto dee fare. E
cosí Ugolotto apre l'uscio, e stropiccia la spada al muro.
- Chi è la? ove se', ladroncello?
Ballerino comincia a latrare, o baiare come un
cane, e fare come quando al cane sono tirati gli orecchi. Ugolotto fassi
innanzi, e dice:
- Aspetta un poco, aspetta -; e colui fassi in
drieto, e continuo l'aizzava, tanto facendo cosí che la famiglia d'uno
esecutore, giunto di poco in officio, sopravvenne. Ballerino, che era bene in
gambe, levala; e Ugolotto con la spada riman preso, ed ènne menato a
furore. E giunto a Palagio l'esecutore domanda; la famiglia dice che 'l
trovorono fuori con la spada gnuda. Parve all'esecutore una nuova cosa, e
subito il volea mettere alla colla, se non che uno gli disse:
- Costui è vecchio, come vedete;
lasciatelo stare di qui domattina, e saprete la verità.
E cosí fece, e con tutto che lo
esecutore udisse quello per che Ugolotto era uscito di casa con la spada, non
c'era modo (però che egli era de' grandi, e 'l detto esecutore è
sopra loro con gli ordini della Justizia) che non lo volesse condennare per
turbare il pacifico stato. Alla per fine con molte preghiere se ne levò
e fece pagare al detto Ugolotto per la spada lire cinquantadue e mezzo; e tornossi
a casa, rammaricandosi, quando in latino e quando in tedesco, di questa noia a
lui fatta e della sventura che gli era occorsa. Ma egli stette poco che
gl'intervenne peggio che peggio.
L'altra mattina seguente fu andato alla
campana da casa Tornaquinci, dove sempre stanno beccamorti alla bottega d'uno
speziale, e appena che si vedesse lume, fu bussato, e detto che mandassino a
casa gli Agli, che era morto Ugolotto; quanto io, credo che costui fusse anco
Ballerino di Ghianda, o Pero del Migliore, che con lui usava.
Come i beccamorti sentirono questo, subito
furono presti, e mandorono a spazzare a casa gli Agli e porre le panche.
Ugolotto, levandosi per tempo, però che
non potea dormire per la malenconia delle lire cinquantadue e mezzo che avea
pagate, giugne all'uscio per uscir fuori, e veggendo queste panche poste, dice
a quelli che le poneano:
- O chi è morto?
E que' rispondono:
- E morto Ugolotto degli Agli.
E Ugolotto dice:
- Come, diavol, morto Ugolotto degli Agli!
ècci piú Ugolotto di me?
- Noi non ne sappiamo nulla, - rispondono
coloro, - né conosciamo Ugolotto; noi facciamo quello che c'è
detto.
Ugolotto grida:
- Portate via le panche, che siate
mort'aghiado.
Costoro senza toccarle se ne vanno, e diconlo
a' beccamorti; li quali, ciò udito, ne vanno là, e come veggono
Ugolotto nella via, tutti spaventano:
- Che vuol dir questo?
E Ugolotto fassi incontro a loro, e dice:
- Qual Ugolotto è morto, che siate
tagliati a pezzi? per lo corpo di Dio, s'io fussi giovane, come già fui,
che voi non faresti mai metter piú panche ad uomo che morisse.
Quelli diceano:
- Voi avete ragione; se colpa ci è,
ell'è di chi cel venne istamane a dire.
- O chi fu? - dice Ugolotto.
Dicono coloro:
- Egli era sí per tempo che noi non lo
potemmo scorgere.
Dice Ugolotto:
- Serà stato un ladroncello, che mi
fece pagare ieri lire cinquantadue e soldi dieci.
Dicono quelli:
- E se voi il sapete, non ne riputate noi.
Dice Ugolotto:
- Io non lo so, chi fosse non posso sapere; ma
io me n'andrò testeso all'esecutore -; e messosi in via, cosí
fece.
I beccamorti, che aveano tese le panche per
beccare, sanza alcun utile se le riportorono a casa; ed Ugolotto si dolse allo
esecutore, e del primo caso e del secondo. L'esecutore, avendo la cosa scorta,
fra sé medesimo ne cominciò a pigliar diletto; e voltosi a
Ugolotto, disse:
- Gentiluomo, avvisiti tu di nessuno che
queste cose ti faccia?
Dice Ugolotto:
- Io non mi posso immaginare chi sia.
Disse l'esecutore:
- Pensaci suso, e se nessuno indizio mi darai,
lascia fare a me.
Ugolotto disse di farlo, e partissi, pensando
e ripensando, tanto che per lo pensare e la vecchiezza e' stette buon pezzo che
parea tralunato; e nella fine si diede pace, e innanzi che passassino quindici
mesi, le panche si posono da dovero, e fussene fuori.
Perché questo Ugolotto era ubbioso di
temer la morte, però trassono nuovi uccelli aver diletto di lui. E
veramente ella fu cosa da un suo pari, da darsene e pena e fatica; e a quelli
che 'l feciono, fu il contrario; ché se fussi stato un uomo paziente dovea
lasciare andare e ridersene, e al pagare de' beccamorti se n'avrebbe riso anco
elli.
Messer Pino della Tosa, essendo a uno corredo
in casa di messer Vieri de' Bardi, ha una quistione con uno cavaliere, e messer
Vieri l'assolve e fa rimanere il cavaliere contento.
Al tempo che messer Vieri de' Bardi vivea a un
suo corredo andorono a mangiar con lui molti notabili cittadini cavalieri, tra'
quali fu messer Pino della Tosa, uomo grandissimo della nostra città. Il
quale messer Pino con un altro cavaliere vennono a ragionare de' fatti di
Firenze; ed è vero che 'l detto messer Pino sempre cavalcava una mula,
la quale avea tenuta gran tempo. E cosí, ragionando, di parole in
parole, vennono in una questione, che 'l cavaliere dicea:
- Con quante barbute si correrebbe Firenze?
Dicea messer Pino:
- Correrebbesi con duecento.
Dicea il cavaliere:
- Non si correrebbe con cinquecento.
E messer Pino ridea, e dicea:
- E’mi
darebbe cuore di correrla con centocinquanta.
E l'altro se ne facea beffe, e dicea cose
assai, volendo tener fermo el numero suo. Abbattessi messer Vieri alla detta
questione, e dice:
- Di che contendete voi?
- Contendiamo cosí e cosí.
Dice messer Vieri:
- Che dice messer Pino?
Risponde il cavaliero:
- Dice che correrebbe Firenze con centocinquanta
barbute.
Dice messer Vieri:
- Io l'ho molto per certo, che correrebbe
Firenze, e con assai minor quantità, però che egli ha fatto via
maggior fatto, che l'ha signoreggiata con una mula già fa cotant'anni -;
e contò un gran numero.
Gli altri cavalieri, che questo udirono,
dissono veramente che messer Vieri avea dato buon judizio, e che egli credeano
che per la ragione che messer Vieri avea detta, non che messer Pino corresse
con centocinquanta lance Firenze, ma che la correrebbe con un asino, quando
elli volesse.
E oggi si può molto piú credere
questa novella, però che sono assai, che senza cavallo, o asino, e senza
correrla, la signoreggiano; e ancora dirò una cosa piú forte, che
la signoreggiano senza fare iustizia.
Boninsegna Angiolini, essendo in aringhiera
bonissimo dicitore, su quella ammutola come uomo balordo, e tirato pe' panni,
mostra agli uditori nuova ragione di quello.
Anticamente nella città di Firenze si
ragunava il consiglio in San Piero Scheraggio, e ivi si ponea o era di continuo
la ringhiera; di che, essendo nel detto luogo ragunato una volta il consiglio
ed essendo fatta la proposta, com'è d'usanza, Boninsegna Angiolini,
savio e notabile cittadino, si levò, e andò su la ringhiera, e
cominciando il suo dire bene e pulitamente, com'era uso, come fu a un passo
dove conchiudere dovea quello ch'egli avea detto, e quel subito, com'uomo
aombrato, non dice piú; ma sta su la ringhiera buona pezza, e alcuna
cosa non dicea. Maravigliandosi gli uditori, e spezialmente gli signori Priori
che erano di rincontro a lui, mandorono un loro comandatore a Boninsegna a
dirli che seguisse il suo dire; e 'l comandatore subito va appiè della
ringhiera, e tirando Boninsegna pel gherone, dice per parte de' Signori, che
segua il suo dire. E Boninsegna, un poco destatosi, dice:
- Signori miei, e savi consiglieri, io venni
in questo luogo per dire il mio parere su le vostre proposte, e cosí
avea fatto insino che io giunsi al passo dov'io ammutolai. E dicovi, Signori,
che non che io mi ricordi di cosa che io dovessi dire, ma io sono quasi uscito
di me medesimo, veggendo i goccioloni che in quello muro che m'è
dirimpetto sono dipinti; ché per certo e' sono i maggiori goccioloni che
io vedessi mai. E ancora c'è peggio, che morto sia a ghiado il dipintore
che gli dipinse, che dovett'esser forse Calandrino che fece loro le calze
vergate e scaccate; sappiate, Signori, chi mai portò calze cosí
fatte? di che io vi dico, Signori, che mi si sono sí traversati nel
capo, che se non escono, né ora né mai non potrò dire cosa
che io voglia.
E scese della ringhiera.
A' Signori e a quelli del consiglio parve
questa nuova cosa, e ciascuno ridendo guatava quelli goccioloni. Chi dice:
- O bene! non è egli una nuova cosa a
vederli?
L'altro dicea:
- Io non vi posi mai piú mente; chi
sono elli?
L'altro dicea:
- E’ si potrebbe dire di quelle, che disse una
volta uno Sanese sul campo di Siena. Passando uno, che era vestito mezzo bianco
e mezzo nero, tutto da capo infino a piede, eziandio coreggia e scarpette; e
l'uno disse: “Chi è quello?”, e 'l Sanese rispose: “E’ tel dice”; io non
so chi costoro siano, ma e' tel dicono.
L'altro dicea:
- E’ sono profeti.
E l'altro dicea:
- E’ sono patriarchi
Come che si sia, e' sono lunghissimi, come
ancora oggi si vede, dallo spazzo insino al tetto; e considerandogli ciascuno,
come gli considerò Boninsegna, forse che quello che intervenne a lui
interverrebbe a molt'altri, e spezialmente veggendogli con le calze vergate e
scaccate.
E però veramente al dicitore, che ha a
dire bene alcuna cosa, non gli conviene avere l'animo né il pensiero se
non solo a quello che dé' dire, però che ogni piccola cosa, che
viene alla mente fuori della sua diceria, lo impedisce per forma che spesse
volte rimane in su le secche, ed è incontrato già a perfetti
dicitori.
Uno Sanese, stando da casa i Rossi in Firenze,
avendo prestato danari a uno di loro, va dov'e' giuoca e colui, veggendolo, e
avendo vinto, comincia a biastemare, e 'l Sanese dice che non gli de' dar
nulla.
Nel tempo che molti gentiluomini, avendo
perduta la signoria di Siena, furono confinati molti di loro chi qua e chi
là, fu confinato tra gli altri uno Nastoccio o Minoccio de' Saracini, il
quale tolse una casa a pigione da casa i Rossi; e là dimorando, era
usante, come sono li Sanesi, ed era giucatore di tavole bonissimo. Aveva
prestato costui a un Borghese de' Rossi circa fiorini dieci, ed era passato ben
due mesi che riavere non gli potea. Ora questo Sanese, essendo da alcuni vicini
invitato di bere, dice l'uno:
- Io ho fatto venire un fiasco di vino di
villa, andianne a bere.
Dice il Sanese:
- Per lo santo sangue di Dio, che non potrebbe
esser buono Iddio, se fusse in fiasco; e ancora si laverebbe prima un ventre
che un bicchiere casereccio: andiàncene alla taverna, ché
è qui presso un buon vino al Canto a' quattro paoni.
La brigata, udendo li piacevoli motti del
Sanese, non seppono disdire. Andarono a bere con lui alla taverna; e avendo
quasi beúto quello che piacea loro, venne un suo compagno a dirli che
colui che gli dovea dare dieci fiorini giucava a tavole da casa i Gucciardini,
e che avea vinto ben trenta fiorini. Udendo il Sanese questo, disse a'
compagni:
- Deh, andiamo di quassú dal pozzo
Toscanegli, e torneremo in giú verso il ponte, ché m'è
detto che 'l tale giuoca, e ha vinto; forse mi renderà dieci fiorini.
Mossonsi, dicendo:
- Fa' la via a tuo senno, e noi seguiremo.
E cosí andando, come costui si venne
appressando, e Borghese, veggendolo, comincia adirarsi e percuotere le tavole,
come se mai non avesse vinto; e come il Sanese gli fu presso, piú
mostrava Borghese l'ira, volgendo il viso al cielo, e biastemando tutta la
corte del paradiso.
Giunto il Sanese, e veggendo gli atti dolorosi
di Borghese, e immaginando che ciò facea ad arte, per non aver materia
di pagare, dice a Borghese:
- Ciòe, non biastemare, tu non mi dee
dare cavelle.
Borghese col busso delle tavole, e col furore,
fece orecchi di mercatante, onde il Sanese s'andò con Dio, con
intenzione di non addomandarli e di non averli mai.
Avvenne da ivi a certi dí che Borghese,
giucando e avendo perduto, volea accattare denari, ed essendovi il Sanese, lo
richiese di prestanza, dicendo:
- Io ti debbo dare dieci fiorini; prestamene
cinque, e fieno quindici.
Il Sanese risponde:
- A me non déi tu dar cavelle.
Dice Borghese:
- Come? Io ti debbo pur dar dieci fiorini; al
corpo e al sangue, che io te gli darò domane.
Il Sanese dice:
- Io ti dico che non debbo avere da te nulla.
E colui pur rimettesi. E 'l Sanese mai non
disse altro, che:
- A me non déi tu dare cavelle.
E cosí si rimase la cosa; e non credo
che mai gli riavesse; ché se quel gentiluomo de' Rossi avesse
aúto conoscimento, se non gli dovesse mai aver renduti al Sanese, gli
dovea rendere, per la piacevolezza delle parole usate verso lui.
Uno Genovese quasi uomo di corte per una festa
che si fa a Melano, giugne dinanzi a messer Bernabò, il quale, volendo
vedere come sostiene al bere, il fa provare con un gran bevitore suo famiglio;
e 'l Genovese il vince.
Quando messer Marco Visconti primogenito di
messer Bernabò menò la donna sua che avea nome madonna Isabetta
della casa di Baviera, o di quelle maggiori della Magna, capitò a questa
corte, com'è d'usanza, uno Genovese piacevolissimo, ed era come uno uomo
di corte, bevitore era grandissimo e mai il vino non gli facea noia. Avvenne
che costui andò a vicitare messer Bernabò, e stando dinanzi a lui
inginocchioni, e dicendo sue novelle, e messer Bernabò, considerando,
come colui che conoscea gli uomini all'alito, il lasciò star piú
d'un'ora, che mai non disse che si levasse. Alla per fine, dolendo al Genovese
le ginocchia, da sé stesso si levò, dicendo:
- Signor mio, io non posso piú stare
inginocchioni.
Il signore guarda costui, e dice:
- Tu déi essere uno obbriaco.
Dice il Genovese:
- Io non sono obbriaco, Signore; ma beo
volentieri.
Dice messer Bernabò:
- Se tu bei cosí volentieri, vuo' tu
bere a prova con un mio famiglio?
Dice il Genovese:
- Utinam, Domine.
Dice messer Bernabò:
- Aspetta un poco -; e fa chiamare il bevitore
suo.
Il qual, subito fu dinanzi a lui, dice il
signore:
- Vien za; vuo' tu fare a prova di bere con
costui?
E quegli risponde:
- Signore, volentiera.
- Or mo via, - dice il signore, - qualunche
vincerà, io gli farò un dono com'io crederrò che lo
meriti; e colui che perderà, converrà che bea dodici tratti della
mia malvasía.
- Sia con Dio, - dissono i bevitori.
Allora il signore dice a' servi:
- Andà addurre uno boccale d'Orlando.
E vanno, e recono uno quarto di un vino
bianco, o di Creti, o donde che si fosse, che era sí grande che pochi
uomini erano che n'avessono beúto tre volte che non rimanesseno
ammazzati. E perché questo vino era cosí grande, e cosí
vincea ciascuno, e però il signore il chiamava Orlando. Ora,
apparecchiato il vino, e molti bicchieri lavati, dice il signore:
- Pigliàve per la mano, e cominciate a
ballare.
E quelli cosí fanno. E 'l signore gli
chiama, e dice:
- Date bere a ciascuno tre muiuoli.
E cosí feciono; poi gli facea ballare.
Il Genovese ballava molto piú destro.
Chiamatigli la seconda volta, dice:
- Date sei bicchieri a bere a ciascuno.
E cosí beono: poi fa loro ripigliare il
ballo.
Il Genovese salta, che parea un beccherello.
Il bevitore di messer Bernabò comincia a innaspare da piede. Sono
chiamati la terza volta, e dato nove bicchieri per uno; ripigliano il terzo
ballo. Il Genovese fa scambietti, lanciandosi in alto piú destro che se
fosse stato una lontra; il bevitore del signore non si poteva azzicare, e
andava a onde, come se fosse in fortuna. La quarta volta beve il Genovese
dodici bicchieri; quel del signore, che era nell'altro mondo, appena gli
poté bere; pur gli bevve, sforzandosi quanto poteo.
Ed entrando nel quarto ballo, nel quale il
Genovese facea cose maravigliose, l'altro ogni passo era per cadere, e nella
fine cadde in terra disteso. Com'elli cadde, il Genovese a cavalcioni li
salí addosso; e pregò il signore che lo dovesse far cavaliere in
sul corpo di quello obbriaco; e 'l signore disse che lo meritava bene, e fecelo
cavaliere in su l'ubbriaco.
Fatto cavaliere, il Genovese guarda il
signore, e dice:
- Con vostra licenza, volete voi che io facci
lui cavaliere bagnato sí come merita?
Dice il signore:
- Fa' ciò che tu vuogli.
Il Genovese mette mano alle brache, e
scompisciò l'obbriaco con piú orina che non avea beúto
malvagía, che ne avea bevuto trenta bicchieri; e scompisciato che
l'ebbe, col mazzapicchio gli dié tale in su la gota che s'udí
come se fussi stata una gran gotata, e disse:
- Questa è la gotata ch'io ti do; e
voglio che per mio amore tu abbi nome messer Cattivo.
E cosí fu sempre chiamato.
Quando messer Bernabò ebbe assai di
queste cose riso, fece portare il corpo di messer Cattivo dal cortile,
dov'erano le stalle de' cavalli suoi, e feciolo gittar su un monte di letame,
dicendo:
- Tu l'hai fatto cavalier pisciato, e io lo
farò cavalier sconcacado; e te, che meriti d'avere onore, voglio che sia
a mia provvisione per quello che tu domanderai (e fa venire due bellissime
robbe, e donògliele), e come tu hai battezzato lui messer Cattivo, e io
voglio battezzar te messer Vinci Orlando.
E cosí fu sempre chiamato.
A cui vien fatta una cosa o bella o laida,
dinanzi a un signore, quando è ben disposto, li vien ben fatto, come
venne a questo Genovese: ma a molti è incontrato già il
contrario, perché l'animo d'un signore parrà talora cheto, e tra
sé medesimo combatte con diverse genti e in diverse parti. Piú
sicuro saria, a chi 'l può fare, di non s'impacciare, e non sarà
impacciato.
A Tommaso Baronci, essendo de' Priori, sono
fatte da' Priori tre piacevoli beffe.
Essendo de' Priori ne' loro tempi Marco del
Rosso degli Strozzi, e Tommaso Federighi, e Tommaso Baronci, e altri, avvenne,
come spesso interviene, che volendo pigliare il detto Marco e Tommaso Federighi
alcuno piacere d'alcuno de' compagni, ebbono procurato Tommaso Baronci esser
quello di cui gran piacere si potea pigliare. Essendo il detto Tommaso Baronci
Proposto, uno suo paio di scarpette co' becchetti grosse (essendo andato al
letto) gli arrovesciorono una sera; e la mattina, levandosi, e sonando in
fretta a' collegi, mettendosi le dette scarpette al buio, essendo sollecitato,
n'andò nella udienza; e là postosi a sedere, statovi gran pezza,
tanto che tutti i collegi v'erano, Marco guardando a' pie' di Tommaso, disse:
- Che è questo Proposto? Vuo' tu andare
a cacciare con coteste scarpette?
Quelli guatale e dice:
- Come! che mala ventura è questa? Elle
non paiono le mia, benché io non le veggo bene, se io non ho gli occhiali.
E cavossi gli occhiali da lato, e misseseli, e
con essi si chinava quanto potea, facendosi verso la finestra; ciascun guatava
che scarpette son quelle.
Dicea Tommaso:
- Elle non sono le mie, ch'ell'aveano i
becchetti, e queste non l'hanno.
Alla per fine se n'andò alla camera
sua, e là se le cavò, e guata e riguata; il Toso famiglio, che
v'era presente, disse:
- Tommaso, queste scarpette sono state
arrovesciate -; e mostrògli i becchetti, ch'erano dentro.
Dice Tommaso:
- Toso, tu di' vero; che serebbe stato questo?
Quel rispose:
- Io non so; il meglio che ci sia è
dirizzarle.
E tra egli e 'l Toso ebbono che fare, anzi che
l'avessino addirizzate, ben insino a terza; e pur si passò Tommaso senza
darsi piú briga. Marco e Tommaso il dí medesimo feciono un altro
giuoco, che gli fororono l'orinale, dove, stando in sul letto ritto, orinava la
notte, e riposonlo nel luogo suo; e la sera a cena, essendo su la mensa di
molti capponi arrosto, Tommaso Baronci, come Proposto, diede uno cappone al
Toso, e disse:
- Va', mettilo nella cassa mia; e domattina il
porterai alla Lapa, - cioè alla moglie.
Toso cosí fece. Marco, e Tommaso
Federighi, veduto questo, quando ebbono cenato, segretamente feciono pigliare
una gatta di quelle della casa, e tolto il cappone, che era nella cassa, vi
missono la gatta, e dentro ve la serrarono. E cosí disposto e l'orinale
e la gatta, aspettarono il tempo che la detta loro faccenda ordinata venisse a
quel fine che desideravono.
Andatisi al letto tutti li signori, su la
mezza notte e Tommaso si rizza sul letto, pigliando l'orinale, facendo quello
che era usato. Marco, che era desto, dice:
- O Proposto, tu ci desti ogni notte con
questo tuo orinare.
Tommaso stillava su per lo letto, e fece
orecchi da mercatante, e appiccando l'orinale s'avvide ogni cosa esser ita su
per lo letto, e colicandosi, appena trovò un poco d'asciutto. Levandosi
la mattina, venendo il Toso ad aiutarlo vestire, dice Tommaso:
- Toso mio, io sono vituperato, e non so che
mi fare; la cotal cosa m'è intervenuta; l'orinale mostra che sia rotto;
istanotte, orinandovi entro, com'io soglio, tutta l'orina è ita per lo
letto, e se i miei compagni veggono, diranno v'abbia pisciato.
Disse il Toso:
- Io v'ho detto piú volte che sarebbe
meglio uscire un poco fuore del letto, però che 'l vetro scoppia molte
volte, e spezialmente per l'orina, e ciò che v'è dentro s'esce di
fuori.
Dice Tommaso:
- Ben la pisceremo! o perché terre' io
l'orinale, s'io dovesse uscir del letto?
Dice il Toso:
- E’ mi pare che ci sia pisciato troppo: - e
stende il copertoio - ecco, io porterò le lenzuola a casa vostra, e
dirò che me ne dia un altro paio.
Dice Tommaso:
- Non fare; se la Lapa le vedesse cosí
conce, io non arei poi pace con lei; ma fa' com'io ti dirò: portera'le a
casa tua, e da'le a qualche feminetta, che le lavi in acqua fresca e
asciughile, e non dire di cui siano, e poi le porterai a casa, ma fa' che oggi
siano asciutte, e poi le porterai, e allora vorrò che porti il cappone.
E Toso cosí fece, che portò le
lenzuola, e fecele lavare, e subito le pose ad asciugare, e asciutte che
furono, el Toso le rapportò a Tommaso, il quale el commendò della
sollecitudine che aveva aúta, di far fare un bucato senza fuoco, e
disse:
- Vie' qua, andiamo per quel cappone, che la
Lapa è una donna diversa, e s'ella dicesse nulla delle lenzuola,
veggendo il cappone, si rattempererà un poco.
E cosí ragionando Tommaso col Toso,
giunsono alla camera, e Tommaso aprendo la cassa, dov'era il cappone, e la
gatta schizza fuori, e dàgli nel petto; il quale impaurito lascia cadere
il coperchio, e fuggesi fuori tutto smarrito, che quasi era per perdersi
affatto. Marco, e l'altro Tommaso, passeggiavano di rincontro per vedere a che
la novella dovesse riuscire, e giunti dov'era Tommaso, dicono:
- Che avesti, che tu fuggisti fuor della
camera?
Dice Tommaso:
- Io credo che fusse il nimico di Dio; e
serà stato quello che m'arrovesciò le scarpette.
Disse il Toso:
- A me parve egli una gatta.
Disse Tommaso:
- Ben, che fu gatto maschio: e' mi parve tre
cotanti che una gatta.
Disse il Toso:
- Andiamo alla cassa, e datemi il cappone,
ch'io il porti.
E tornano ad aprirla; e apertala, sul tagliere
non era alcuna cosa.
Dice Tommaso:
- Oimè! che 'l Toso arà detto il
vero, ch'ella s'ha manicato il cappone.
Dice Marco e 'l compagno:
- Onde v'entrò la gatta? ha la cassa
gattaiuola?
E 'l Baroncio trae fuora le masserizie, e
guatando dice:
- Io non ci veggo né gattaiuola,
né buca.
Dice Tommaso Federighi:
- E’ m'avvenne una volta, ch'io fui de'
signori, com'ora, simil caso; e brievemente, quando io mandai il famiglio col
tagliere, che 'l mettesse nella cassa, una gatta v'era entro a dormire: e' non
se n'avvedde, e mangiossi quello ch'era sul tagliere, e poi se n'uscí in
questa forma che questa.
- Mala ventura, che cosí nuova fortuna
non m'avvenne mai piú, e credo che da ieri in qua sia dí
ozíaco per me. Or ecco, io non credo mai compiere questo officio che io
ritorni alla Lapa mia, che con lei non ho mai paura; e qui ci starò
oggimai con gran temenza, però che io credo che tra queste camere sia
qualche mala cosa.
Vo' dite pur: gatta, gatta: arrovesciommi la
gatta le scarpette, e anco altro, che fu peggio?
Dice Marco:
- E’ può ben essere: a cotesto vagliono
molte orazioni e paternostri; abbine consiglio con questi maestri in teologia.
E mandò tre dí per certi
teologhi, li quali li dierono consiglio ch'egli orasse e dicesse paternostri
otto dí dalle quattro ore insino a mattutino; e questo consiglio fu
fattura de' due compagni.
Il detto Tommaso, come invilito dalla paura,
cosí fece che otto notti quasi non dormí, armandosi con molti
paternostri, acciò che 'l nimico non entrasse piú nella cassa, e
scemato quaranta libbre, finí l'officio, e tornossi alla Lapa, nelle cui
braccia prese gran sicurtà, dicendole che non volea mai piú esser
de' Priori, però che 'l demonio era in quelle camere, e a lui avea fatto
le cose scritte di sopra, raccontandogliele a una a una: e con questa credenza
stette finché visse, che fu poco.
Per le simplicità di molti si muovono
spesso de' savi a fare cose da trastulli, per passar tempo; ché
benché gli uomini siano signori, perché spesso hanno malinconie,
pare che non si disdica fare simili cose per sollazzare la mente.
Uno dipintore sanese, sentendo che la moglie
ha messo in casa un suo amante, entra in casa e cerca dell'amico, il quale
trovando in forma di crocifisso, volendo con un'ascia tagliarli quel
lavorío, il detto si fugge, dicendo: “Non scherzare con l'ascia”.
Fu già in Siena uno dipintore, che avea
nome Mino, il quale avea una sua donna assai vana, ed era assai bella, la quale
un Sanese buon pezzo avea vagheggiata, e anco avea aúto a fare con lei,
e alcuno suo parente piú volte gliel'avea, detto, e quel nol credea.
Avvenne un giorno che, essendo Mino uscito di casa, ed essendo per alcuno caso
andato di fuori per vedere certo lavorío, soprastette la notte di fuori.
L'amico della donna, di ciò avvisato, la sera andò a stare con la
moglie del detto dipintore a suo piacere. Come il parente sentí questo,
che avea messo le spie per farnelo una volta certo, subito andò di fuori
dove Mino era, e tanto fece che, dicendo per certa cagione dovere andare e
tornare dentro, fu mandato uno con le chiavi dello sportello: e questo parente,
uscendo fuori, lasciò quello delle chiavi dello sportello che
l'aspettasse, e andò a Mino, el quale era a una chiesa presso a Siena; e
giunto là disse:
- Mino, io t'ho detto piú volte della
vergogna che mogliera fa a te e a noi, e tu non l'hai mai voluto credere; e
però, se tu ne vuogli esser certo, vienne testeso e troverra'loti in
casa.
Costui subito fu mosso e intrò in Siena
per isportello; e 'l parente disse:
- Vattene a casa, e cerca molto bene,
però che, come ti sentirà, l'amico si nasconderà, come tu
déi credere.
Mino cosí fece, e disse al parente:
- Deh, vienne meco; e se non vuogli entrare
dentro, statti di fuori.
E quel cosí fece.
Era questo Mino dipintore di crocifissi
piú che d'altro, e spezialmente di quelli che erano intagliati con
rilevamento; e aveane sempre in casa, tra compiuti e tra mani, quando quattro e
quando sei; e teneagli, com'è d'usanza de' dipintori, in su una tavola,
o desco lunghissimo, in una sua bottega appoggiati al muro l'uno allato
all'altro, coperti ciascuno con uno sciugatoio grande; e al presente n'avea
sei, li quattro intagliati e scolpiti, e li due erano piani dipinti, e tutti
erano in su uno desco alto due braccia, appoggiati l'uno allato all'altro al
muro, e ciascuno era coperto con gran sciugatoi o con altro panno lino. Giugne
Mino all'uscio della sua casa, e picchia. La donna e 'l giovane, che non
dormiano, udendo bussare l'uscio, subito sospettano che non fosse quello che
era; e la donna, senza aprire finestra o rispondere, cheta cheta va a uno
piccolo finestrino, o buco che non si serrava, per vedere chi fosse; e scorto
che ebbe essere il marito, torna allo amante, e dice:
- Io son morta: come faremo? il meglio ci sia
è che tu ti nasconda.
E non veggendo ben dove, ed essendo costui in
camicia, capitorono nella bottega dov'erano li detti crocifissi.
Disse la donna:
- Vuo' tu far bene? sali su questo desco e
pònti su uno di quelli crocifissi piani con le braccia in croce, come
stanno gli altri, e io ti coprirrò con quel panno lino medesimo, con che
è coperto quello; vegna cercando poi quanto vuole che io non credo che
in questa notte e' ti truovi, e io ti farò un fardellino de' panni tuoi
e metterògli in qualche cassa, tanto che vegna il dí; poi qualche
santo ci aiuterà.
Costui, come quello che non sapea dove s'era,
sale sul desco e leva lo sciugatoio, e in sul crocifisso piano si concia
proprio, come uno de' crocifissi scolpiti, e la donna piglia el panno lino e
cuoprelo, né piú né meno, com'erano coperti gli altri, e
torna a dirizzare un poco il letto che non paresse vi fusse dormito se non
ella; e tolto le calze, e scarpette, e farsetto, e gonnella e l'altre cose
dello amante, subito n'ebbe fatto un assettato fardellino e mettelo tra altri
panni. E ciò fatto, ne va alla finestra, e dice:
- Chi è?
E que' risponde:
- Apri, io son Mino.
Dice quella:
- O che otta è questa? - e corre ad
aprirli.
Aperto l'uscio, e Mino dice:
- Assai m'ha' fatto stare, come colei che se'
stata molto lieta che io ci sia tornato.
Disse quella:
- Se tu se' troppo stato, è defetto del
sonno, però che io dormiva e non t'udía.
Dice il marito:
- Ben la faremo bene.
E toglie uno lume e va cercando ciò che
v'era insino a sotto il letto.
Dice la moglie:
- O che va' tu cercando?
Dice Mino:
- Tu ti mostri nuova; tu 'l saprai bene.
Dice quella:
- Io non so che tu ti di': sapera'tel pur tu.
Andando costui cercando tutta la casa,
pervenne nella bottega, dov'erano li crocifissi. Quando il crocifisso incarnato
lo sente ivi, pensi ciascuno come gli parea stare; e gli convenía stare
come gli altri che erano di legno; ed egli avea il battito della morte.
Aiutollo la fortuna, ché né Mino né altri mai averebbe
creduto essere in quella forma colui che era nascoso. Stato che Mino fu nella
bottega un poco, e non trovandolo, s'uscí fuori. Era questa bottega con
una porta dinanzi, la quale si serrava a chiave di fuori, però che uno
giovene che stava col detto Mino, ogni mattina l'apriva come s'aprono l'altre,
e dalla parte della casa era uno uscetto là, donde il detto Mino entrava
nella bottega; e quando ne uscía della bottega e andavane in casa,
serrava il detto uscetto a chiave, sí che il vivo crocifisso non se ne
poteva uscire, se avesse voluto.
Essendosi combattuto Mino il terzo della
notte, e non trovando alcuna cosa, la donna s'andò al letto, e disse al
marito:
- Va' tralunando quantunche tu vuogli; se tu
ti vuogli andare al letto, sí ti va'; e se no, va' per casa come le
gatte, quanto ti piace.
Dice Mino:
- Quand'io arò assai sofferto, io ti
darò a divedere che io non sono gatta, sozza troia, che maladetto sia il
dí che tu ci venisti.
Dice la moglie:
- Cotesto potre' dir'io: è bianco, o
vermiglio quello che favella?
- Io tel farò bene assapere innanzi che
sia molto.
Dice quella:
- Va' dormi, va', e farai il tuo migliore, o
tu lascia dormir me.
Le cose per istracca si rimasono per quella
notte; la donna s'addormentò, e ancora egli andò a dormire. Lo
parente, che di fuori aspettava come la cosa dovesse riuscire, standovi insino
passata la squilla, se n'andò a casa, dicendo: “Per certo, in tanto che
io andai di fuori per Mino, l'amante se ne sarà andato a casa sua”.
Levatosi la mattina Mino molto per tempo, e
ancora ragguardando per ogni buco, nella fine, avendo assai cercato,
aprí l'uscetto e venne nella bottega: e 'l suo garzone aperse la porta
di fuori da via della detta bottega.
E in questo, guardando Mino questi suoi
crocifissi, ebbe veduto due dita d'uno piede di colui che coperto stava.
Dice Mino fra sé stesso: “Per certo che
quest'è l'amico”. E guardando fra certi ferramenti, con che digrossava e
intagliava quelli crocifissi, non vidde ferro esser a lui piú adatto che
un'ascia che era tra essi. Presa quest'ascia, e accostatosi per salire verso il
crocifisso vivo, per tagliargli la principal cosa che quivi l'avea condotto,
colui, avvedutosi, schizza con un salto, dicendo:
- Non ischerzar con l'asce.
E levala fuori dell'aperta porta; Mino
drietoli parecchi passi, gridava: “Al ladro, al ladro”; colui s'andò per
li fatti suoi.
Alla donna, che tutto avea sentito,
capitò un converso de' frati predicatori che andava con la sporta per la
limosina per lo convento. Andato su per le scale, come talora fanno, disse:
- Frate Puccio, mostrate la sporta, e io vi
metterò del pane.
Quegli la diede. La donna, cavato il pane, vi
misse il fardellino che l'amante avea lasciato, e sopra esso gittò suso
il pane del frate e quattro pani de' suoi, e disse:
- Frate Puccio, per amor d'una donna che
recò qui questo fardellino dalla Stufa, dove pare che il tale ier sera
andasse, io l'ho messo sotto il pane nella vostra sporta acciò che nessuno
male si potesse pensare; io v'ho dato quattro pani; io vi priego (ché
egli sta presso alla vostra chiesa) quando n'andate, che voi glielo diate a
lui, che 'l troverrete a casa; e ditegli che la donna della Stufa gli manda i
suoi panni.
Dice Fra Puccio:
- Non piú! lasciate far me.
E vassi con Dio; e giugnendo all'uscio
dell'amante, mostrando chieder del pane, domandava:
- Ècci il tale?
Colui era nella camera terrena; udendosi
domandare, si fece all'uscio, e dice:
- Chi è là?
Il frate va a lui, e dàgli i panni,
dicendo:
- La donna della Stufa ve li manda.
E colui gli dié duo pani, e 'l frate
partissi. E l'amante considera bene ogni cosa, e subito ne va al campo di
Siena, e fu quasi de' primi vi fusse quella mattina, e là facea de' suoi
fatti, come se mai tal caso non fusse avvenuto. Mino quando ebbe assai
soffiato, essendo rimaso scornato del crocifisso, che s'era fuggito, ne va
verso la moglie dicendo:
- Sozza puttana, che di' che io sono gatta, e
che io ho beúto bianco e vermiglio, e nascondi i bagascioni tuoi in su'
crocifissi; e' convienne che tua madre il sappia.
Dice la donna:
- Di' tu a me?
Dice Mino:
- Anche dico alla merda dell'asino.
- E tu con cotesta ti favella, - disse la
donna.
Dice Mino:
- E anche non hai faccia, e non ti vergogni?
che non so ch'io mi tegno che io non ti ficchi un tizzon di fuoco nel tal
luogo.
Dice la donna:
- Non saresti ardito, s'io non ho fatto
l'uomperché; ché alla croce di Dio! stu mi mettessi mano addosso
non facesti mai cosa sí caro ti costasse.
Costui dice:
- Deh, troia fastidiosa, che facesti del
bagascione uno crocifisso, che cosí gli avess'io tagliato quello che io
volea com'egli s'è fuggito.
Dice la donna:
- Io non so che tu ti beli: qual crocifisso si
poté mai fuggire? non sono egli chiavati con aguti spannali? e se non
fusse stato chiavato, e tu te ne abbi il danno, se s'è fuggito
però che egli è tua colpa, e non mia.
Mino corre addosso alla donna e cominciala a
'ngoffare:
- Dunque m'hai tu vituperato e anco m'uccelli?
Come la donna si sente dare, che era molto
piú prosperevole che Mino, comincia a dare a lui; da' di qua, da' di
là, eccoti Mino in terra e la donna addossoli, e abburattalo per lo
modo. Dice la donna:
- Che vuoi tu dire? Pigliala comunche tu vuoi,
che vai inebbriando di qua e di là, e poi ne vieni in casa e chiamimi
puttana; io ti concerò peggio che la Tessa non acconciò
Calandrino: che maladetto sia chi mai maritò nessuna femina ad alcuno
dipintore, ché siete tutti fantastichi e lunatichi, e sempre andate
inebbriando e non vi vergognate.
Mino, veggendosi mal parato, priega la donna
che lui lasci levare, e ch'ella non gridi, acciò che i vicini non
sentino, che, traendo al romore, non trovassino la donna a cavallo. Quando la
donna udí questo, dice:
- Io vorrei volentieri che tutta la vicinanza
ci fosse.
E levossi suso, e cosí si levò
Mino col viso tutto pesto; e per lo migliore disse alla donna che gli
perdonasse, ché le male lingue gli avevano dato a creder quello che non
era, e che veramente quello crocifisso s'era fuggito per non essere stato confitto.
E andando il detto Mino per Siena, era domandato da quel suo parente che l'avea
indotto a questo:
- Come fu? come andò?
E Mino gli disse che tutta la casa avea cerco
e che mai non avea trovato alcuno; e che, guatando tra' crocifissi, l'uno gli
era caduto sul viso, e avealo concio come vedea. E cosí a tutti e'
Sanesi che domandavano: “Che è quello?” dicea che uno crocifisso gli era
caduto sul viso.
Ora cosí avvenne, che per lo migliore
si stette in pace dicendo fra sé medesimo: “Che bestia son io? io avea
sei crocifissi e sei me n'ho: io avea una moglie e una me n'ho; cosí non
l'avess'io! a darmi briga, potrò arrogere al danno, come al presente
m'è incontrato; e s'ella vorrà esser trista tutti gli uomini del
mondo non la potrebbono far esser buona”; se non intervenisse già come
intervenne a uno nella seguente novella.
Uno Fiorentino toglie per moglie una vedova
stata disonestissima di sua persona, e con poca fatica la gastiga sí
ch'ella diviene onesta.
Nella città di Firenze fu già
uno, secondo che io udi', che ebbe nome Gherardo Elisei, il quale tolse per
moglie una donna vedova; la quale essendo disonesta e vana con l'altro marito,
era stata tenuta assai cattiva di sua persona; e avea nome monna Ermellina.
Ora, come questo Gherardo tolse questa donna per moglie, molti suoi parenti e
amici, anzi che consumasse il matrimonio, dicono:
- Gherardo, che hai tu fatto? tu sei savio, e
hai tolto cui tu hai: che fama ti fie questa? - e molte altre cose.
Dice Gherardo:
- Io vi fo certi che io so chi costei, che io
ho tolto, è stata: e so che, s'ella non mutasse modo, io averei mal
fatto; ma con la grazia di Dio io credo far sí che con meco ella non fia
com'ella è stata, ma fia tutto il contrario; e però di questo non
ne prendete piú pensiero che me ne prenda io.
La brigata si strignea nelle spalle, e tra
loro se ne facean beffe, dicendo:
- Dio ti dia bene a fare.
E cosí dopo alquanti dí monna
Ermellina ne venne una sera a marito, e avendo cenato, ed essendo l'ora
d'andarsene al letto, n'andò alla camera, là dove Gherardo ancora
si rappresentò, com'è d'usanza; e serrato, monna Ermellina,
accostandosi al leccone, comincia a ragionare amorosamente col detto Gherardo;
e Gherardo si comincia a spogliare in farsettino, e monna Ermellina in giubba.
Ed essendo le cose tutte ben disposte a tal vicenda dalla parte di monna
Ermellina detta, e Gherardo esce dall'uno de' canti della camera con un bastone
in mano, e dà, e dà, e dà alla sposa novella. Costei
comincia a gridare, e quanto piú gridava e Gherardo piú
bastonava. Quando ebbe un pezzo cosí bastonato, e la donna dicendo:
- Oimè, fortuna, dove m'hai tu
condotto? ché, senza saper perché, la prima sera io sono
cosí acconcia da colui con cui io credea aver sommo piacere; volesse Dio
che io mi fosse ancora vedova, ché io era donna di me, e ora sono
sottoposta in forma e a cui io non sarò mai piú lieta.
E Gherardo rifà il giuoco; e bussato
insino dove volle, e la donna dicendo pur: “Perché mi fa' tu questo?”; e
Gherardo gli dice:
- Io non voglio che tu creda, Ermellina, che
io t'abbia tolta per moglie che io non abbia molto ben saputo che femina tu se'
stata; e bene so, e ho udito che costumi sono stati e' tuoi e quanta
onestà è stata nella tua persona; e credo che, se 'l marito che
avesti t'avessi gastigata di quello che ora t'ho gastigat'io, queste battiture
non bisognavono. E però considerando, ora che se' mia moglie, gli tuoi
passati costumi le tue disonestà e' tuoi vituperi non essere stati
gastigati, io, innanzi ch'io abbia voluto teco consumare il matrimonio, ho
voluto purgare ciò che tu hai fatto da quinci addietro con le presenti
battiture; acciò che, considerando tu se per li passati falli da te
commessi quando non eri mia moglie io t'ho data disciplina, pensa quella che io
farò e che battiture serebbono quelle che da me averai, se da quinci
innanzi, essendo mia moglie, di quelli non ti rimarrai, e piú non ti
dico: tu se' savia e 'l mondo e grande.
Brievemente, questa buona donna si
lagnò assai, e avea di che, facendo scuse di quello che Gherardo dicea. Alla
fine s'andò al letto, e non che quella notte, ma durante un mese o
piú non gli giovò trovarsi col marito, come quella che era tutta
pesta. Di tempo in tempo, rabbonacciandosi con Gherardo, queste battiture
ebbono tanta virtú che, com'ella era stata per li passati tempi
dissoluta e vana, cosí da indi innanzi fu delle care, delle compiute e
delle oneste donne della nostra città.
Oh quanti sono li dolorosi mariti che fanno
cattive mogli! piú ne sono cattive per difetto de' mariti che per lo
loro. Da' una fanciulla a uno fanciullo e lascia far loro. Che dottrina
imprenderà ella dall'ignorante giovane? e quella via ch'ella piglia, per
quella corre.
E non si truova sempre il bastone di Gherardo
né quello che si conterà nella seguente novella.
Fra Michele Porcelli truova una spiacevole
ostessa in uno albergo, e fra sé dice: “Se costei fusse mia moglie, io
la gastigherei sí, che ella muterebbe modo”. Il marito di quella muore;
Fra Michele la toglie per moglie e gastigala com'ella merita.
Passati sono circa a trent'anni, che fu uno
Imolese, chiamato Fra Michele Porcello, il quale era chiamato Fra Michele, non
perché fosse frate, ma era di quelli che hanno il terzo ordine di Santo
Francesco, e avea moglie, ed era un uomo malizioso e reo, e di diversa maniera;
e andava facendo sua mercanzia di merce per Romagna e per Toscana; poi si
tornava ad Imola, come vedea che per lui si facesse. Tornando costui una volta
tra l'altre verso Imola, giunse una sera a Tosignano, e smontò a un
albergo d'uno che avea nome Ugolino Castrone, il quale Ugolino avea per moglie
una donna assai spiacevole e smancerosa, chiamata monna Zoanna: sceso che fu
Fra Michel da cavallo, e venendosi rassettando, disse all'oste:
- Fa' che noi abbiàn ben da cena; hai
tu buon vino?
- Sí bene, voi starete bene.
Disse Fra Michele:
- Deh, fa' che noi abbiamo una insalata.
Disse Ugolino:
- Zoanna, - chiamando la moglie, - va',
cògli una insalata.
La Zoanna torce il grifo, e dice:
- Va', co' tela tu.
Il marito dice:
- Deh va' vi.
Ella risponde:
- Io non vi voglio andare.
Fra Michele, veggendo i modi di costei, si
rodea tutto di stizza. Ancora, avendo Fra Michele voglia di bere, dice
l'albergatore alla moglie:
- Deh va' per lo tal vino.
E porgeli l'orciuolo.
Dice madonna Zoanna:
- Va' tu, che tornerai piú tosto, e hai
l'orciuolo in mano, e sai meglio la botte di me.
Fra Michele, veggendo la spiacevolezza in
moltissime cose di costei, dice all'oste:
- Ugolino Castrone, tu se' ben castrone, anco
pecora; per certo, s'io fosse come te, io farei che questa tua moglie farebbe
quello ch'io gli dicesse.
Disse Ugolino:
- Fra Michele, se voi fuste com'io, fareste
quel che fo io.
Fra Michele si consumava di nequizia, veggendo
i modi fecciosi della moglie d'Ugolino, e fra sé stesso dicea: “Signore
Iddio, stu mi facessi tanta grazia che morisse la donna mia e morisse Ugolino,
per certo e' converrebbe che io togliessi costei per moglie, per gastigarla
della sua follia”. Passossi Fra Michele la sera come poteo, e la mattina se
n'andò ad Imola.
Avvenne che l'anno seguente in Romagna fu una
mortalità, per la quale morí Ugolino Castrone e la donna di Fra
Michele. Da ivi a parecchi mesi, cessata la pestilenza, e Fra Michele
adoprò tutti gl'ingegni ad avere per moglie madonna Zoanna; e in fine fu
adempiuto il suo intendimento. Venuta questa buona donna a marito, e andandosi
la sera a letto, dov'ella si credea esser vicitata con quello che sono le
novelle spose, e Fra Michele che non avea sgozzato ancor la 'nsalata da
Tosignano, la vicita con un bastone, e cominciagli a dare, e sanza restare
tanto gli diede che tutta la ruppe; e la donna gridando, egli era nulla,
ché costui gliene diede per un pasto, e poi s'andò a dormire.
Da ivi a due sere, e Fra Michele disse ch'ella
ponesse dell'acqua a fuoco, che si volea lavare i piedi; e la moglie, che non
dicea: “Va', ponla tu”, cosí fece; e poi levandola dal fuoco, e messala
nel bacino, Fra Michele si cosse tutti e' piedi, sí era calda. Com'egli
sente questo, non dice: che ci è dato? ; rimette l'acqua nell'orciuolo,
e riposela al fuoco, tanto ch'ella levò il bollore.
Come questo fu fatto, toglie il bacino, e
mettevi l'acqua, e dice alla moglie:
- Va', siedi, che io voglio lavare i piedi a
te.
Costei non volea; alla fine per paura di
peggio le convenne volere. Costui lavala con l'acqua bollente, la donna
squittisce: “oimè”; e tira i piedi a sé. Fra Michele gli tira
nell'acqua, e dàgli un pugno e dice:
- Tieni i piè fermi.
La donna dice:
- Trista, io mi cuoco tutta.
Dice Fra Michele:
- E’ si dice: “Togli moglie che ti cuoca”; e
io t'ho tolta per cuocer te, innanzi ch'io voglia che tu cuoca me.
E brievemente, e' la cosse sí, che
piú di quindici dí stette che quasi non potea andare, sí
era disolata. E un altro dí gli disse Fra Michele:
- Va' per lo vino.
La donna che non potea appena metter li piedi
in terra, tolse la 'nghestara, e andava a stento come potea. Com'ella è
in capo della scala, e Fra Michele di dietro gli dà un pugno, dicendoli:
- Va' tosto -; e gettala giú per la
scala; e poi aggiunge: - Credi tu che io sia Ugolino Castrone, che quando ti
disse: “Va' per lo vino”; e tu rispondesti: “Va'vi tu”?
E cosí questa donna Zoanna, cotta,
livida e percossa, convenía che facesse quello che quando ell'era sana
non volea fare.
Avvenne che un dí Fra Michele Porcello
serrò gli usci della casa per fare l'ottava con lei; questa,
avvedendosi, fuggí di sopra, e per una finestra d'in sul tetto se
n'andò fuggendo di tetto in tetto, tanto che giunse a una vicina di Fra
Michele, alla quale venendognene pietà, se la ritenne in casa; e poi alcuno
e vicino e vicina, venendo a pregar Fra Michele che ritogliesse la sua donna, e
che stesse con lei come dovesse, egli rispose che com'ella se n'era ita
cosí ritornasse; s'ella se n'era andata su per le tettora, per quella
medesima via ritornasse, e non per altra; e se ciò non facesse, non
aspettasse mai di ritornare in casa sua. La vicinanza sappiendo chi era Fra
Michele, feciono che su per le tetta, come le gatte, la donna ritornò al
macello. Com'ella fu in casa, e Fra Michele comincia a sonare le nacchere. La
donna macera e tormentata, dice al marito:
- Io ti priego che innanzi che tu mi tormenti
ogni dí a questo modo, senza saper perché, che tu mi dia morte.
Dice Fra Michele:
- Poiché tu non sai ancora
perché io fo questo, e io tel voglio dire. Tu ti ricordi bene quando io
venni una sera allo albergo a Tosignano, che tu eri moglie d'Ugolino Castrone;
e ricorditi tu quando egli ti disse che tu andassi a cogliere la insalata per
mi, e tu dicesti: “Va' vi tu”? - E su questa, gli diede un grandissimo pugno; e
poi dice:
- E quando disse: “Va' per lo tal vino”; e tu
dicesti: “Io non vi voglio andare”? - E dàgliene un altro.
- Allora me ne venne tanto sdegno che io
pregai Iddio che desse la morte a Ugolino Castrone e alla moglie che io avea,
acciò che io ti togliesse per moglie. Egli, come pietoso esauditore de'
miei prieghi, gli mandò ad esecuzione; e ha fatto sí che tu se'
mia moglie, acciò che quello gastigamento che 'l tuo Castrone non ti
dava, io te lo dea io; sí che ciò che t'ho fatto infino a qui
è stato per punirti de' falli e de' fastidiosi tuoi modi, quando eri sua
moglie. Or pensa che, essendo tu da quinci innanzi mia moglie, se tu vorrai
tener quelli modi, quello che io farò; per certo, ciò che io ho
fatto fino a qui ti parrà latte e mele; sí che a te stia oggimai,
se tu con le prove e io co' bastoni e con li spuntoni, se bisognerà.
La donna disse:
- Marito mio, se io ho fatto per li tempi
passati cosa che non si convegna, tu m'hai ben data la pena. Dio mi dia grazia
che da quinci innanzi io faccia sí che tu ti possa contentare; io me ne
'ngegnerò e Dio me ne dia la grazia.
Fra Michele disse:
- Messer Batacchio te n'ha fatta chiara; a te
stia.
Questa buona donna si mutò tutta di
costumi, come s'ella rinascesse; e non bisognò che Fra Michele
adoperasse, non che le battiture, ma la lingua, ch'ella s'immaginava quello che
egli dovesse volere, e non andando, ma volando per la casa, e fu bonissima
donna.
Io per me, come detto è, credo ch'e' mariti
siano quasi il tutto di fare e buone e cattive mogli. E qui si vede che quello
che 'l Castrone non avea saputo fare, fece il Porcello. E come che uno
proverbio dica: buona femmina e mala femmina vuol bastone; io sono colui che
credo che la mala femmina vuole bastone, ma alla buona non è di bisogno;
però che se le battiture si danno per far mutare i cattivi costumi in
buoni, alla mala femmina si vogliono dare perch'ella muti li rei costumi; ma
non alla buona, perché s'ella mutasse li buoni, potrebbe pigliare li
rei, come spesso interviene, quando li buoni cavalli sono battuti ed
aspreggiati, diventano restii.
Maestro Dino da Olena medico, cenando co'
Priori di Firenze una sera, essendo Dino di Geri Tigliamochi gonfaloniere di
justizia, fa tanto che 'l detto Dino non cena, volendo dar poi i confini al
detto maestro Dino.
Dino di Geri Tigliamochi fu uno cittadino di
Firenze mercatante, uso molto ne' paesi di Fiandra e d'Inghilterra. Era
lunghissimo e maghero, con uno smisurato gorgozzule; ed era molto schifo
d'udire o di vedere brutture, e per questo, favellando mezzo la lingua di
là, avea un poco del nuovo. Essendo gonfaloniere di justizia, fece
invitare maestro Dino a cena, e 'l detto maestro Dino era vie piú nuovo
che 'l detto Dino. Essendosi adunche posti a tavola, il detto gonfaloniere in
capo di tavola, e 'l maestro Dino allatogli, e poi era Ghino di Bernardo
d'Anselmo, che era priore, e forse componitore col maestro Dino di quello che
seguí della presente novella, posta la tavola, fu recato un ventre di
vitella in tavola; e cominciandosi a tagliare, dice il maestro Dino a Dino:
- Per quanto mangereste in una scodella, dove
fosse stata la merda parecchi mesi?
Dino guarda costui, e turbatosi, dice:
- È mala mescianza a chi è mal
costumato; porta via, porta.
Dice il maestro Dino:
- Che è questo che è venuto in
tavola? è ancor peggio.
Dino sconvolge il suo gorgozzule:
- E che parole son queste?
Dice il maestro Dino:
- Sono secondo quello che è venuto in
tavola per la prima vivanda: confessatemi il vero; non è questo ventre
il vasello dove è stata la feccia di questa bestia, poi ch'ella nacque?
E voi sete il signore che voi sete, e pascetevi di sí lorda vivanda?
- È mala mescianza, è mala
mescianza; levate via, - dice a' donzelli, - e 'n fé del Criatore vo'
non ci mangerè plus.
Dino infino a qui non mangiò né
del ventre, né alcuna cosa. Levata questa vivanda, vennono starne lesse;
e maestro Dino dice:
- Quest'acqua delle starne pute -; e dice allo
spenditore: - Dove le comperasti tu?
Dice lo spenditore:
- Da Francesco pollaiuolo.
E maestro Dino dice:
- Egli ne sono venute molte a questi
dí, e alcuno mio vicino n'ha comperate, credendo siano buone, poi l'ha
trovate tutte verminose; e queste fiano di quelle.
E Dino dice:
- È mala mescianza, mala mescianza,
nell'ora mala a tanto scostume -; e dà la sua scodella al famiglio, e
dice:
- To' via.
Dice maestro Dino:
- E’ mi conviene pur pur mangiare, s'io voglio
vivere; lascia stare.
E Dino in gote, e non mangia, e parea il Volto
santo.
Levata questa vivanda, vennono sardelle in
tocchetto. Dice il maestro Dino:
- Gonfaloniere, e' mi risovviene quando e'
miei fanciulli erano piccoli, che uscivano loro i bachi da dosso.
E Dino levasi:
– È mala mescianza a chi è mal
costumato; per Madonna di Parigi, che non m'avete lasciato mangiar stasera con
sí laida maniera di parlare; ma per mie foi non verrete piú a
questo albergo.
Maestro Dino ridea e pregavalo tornasse a
tavola, e non ci fu mai modo, ché se ne andò tra le camere,
dicendo:
- Nostro Signore vi doni ciattiva giornea; un
poltroniere venuto in tal magione, e tiensi esser gran maestro di musica, e le
sue parlanze sono piú da rubaldi che votono li giardini che da quelli
che debbon dare esempli e dottrine, come doverrebbe dar elli, che si può
dire esser vecchio mal vissuto.
Ghino di Bernardo, e gli altri signori, che di
ciò avevono grandissimo piacere, si levarono da tavola e andorono dove
Dino era, e trovaronlo molto in gran mescianza, e non voler vedere il maestro
Dino; pur tanto feciono, che un poco si raumiliò: e maestro Dino con lui
a' versi, tanto che si conciliò con lui. Ma poco duroe, però che
stando un pezzo, e maestro Dino volendosi partire, disse Ghino di Bernardo:
- Maestro, pigliate commiato da Dino e fategli
reverenza.
E 'l maestro Dino piglia per la mano Dino, e
dice:
- Messer lo gonfaloniere, con la grazia
vostra, datemi licenzia -; e quel li porge la mano; e 'l maestro Dino,
pigliandola, subito si volge, e mandate giú le brache, a un tratto gli
scappuccia il culo e 'l capo.
Or non piú; Dino si comincia afferrare:
- Pigliatelo, pigliatelo.
Ghino e gli altri diceano:
- O Dino, non gridate; anderemo nell'udienza,
e là faremo quello che fia da fare.
Maestro Dino dice:
- Signori, io mi vi raccomando che per aver
fatta debita reverenza io non perisca -; e pur scendendo le scale si va con
Dio.
Dino, rimaso furioso, la sera medesima va
nell'audienza, raguna i compagni, e mette il partito, ché era Proposto,
di mandare uno bullettino allo esecutore, e che 'l maestro Dino abbia i
confini. Metti il partito, e metti e rimetti, non si poté mai vincere.
Veggendo Dino questo, col gorgozzule gonfiato chiama li donzelli che facciano
accendere i torchi, ché se ne volea andare a casa. Li compagni
scoppiavono delle risa, e diceano:
- Doh, Dino, non andare istasera.
E Dino, brievemente, non rattemperandosi,
n'andò a casa, e la mattina fu mandato per lui; e non c'ebbe mai modo
che lo dí seguente tornasse in Palagio; tanto che uno de' signori, con
uno carbone, nella minore audienza ebbe dipinto nel muro proprio Dino con uno
gorgozzule grande, e con la gola lunga, che parea proprio desso. Essendo la
sera di notte, che Dino non era voluto tornare in Palagio, vi mandorono li
signori ser Piero delle Riformagioni, pregandolo dovesse tornare acciò
che e' fatti del comune non remanessino senza governo; e ancora per provvedere
che 'l maestro Dino fosse punito del fallo commesso. Dopo molte parole, Dino si
lasciò vincere e la mattina seguente tornò al Palagio, e come sul
dí giunse nell'udienza minore, ebbe veduto, essendo con Ghino di
Bernardo insieme, il viso ch'era stato dipinto nel muro; e guardando quello,
cominciò a soffiare: e Ghino dice:
- Deh, lasciate andare queste cose, non ve ne
combattete piú.
Dice Dino:
- Come diavolo mi di' tu questo, che m'ha
ancora dipinto in questo muro? E se tu non mi credi, vedilo.
Ghino, che scoppiava dentro sí gran
voglia avea di ridere, dice:
- Come, buona ventura, vi recate voi a noia
questo viso, e dite che sia dipinto per voi? Questo fu dipinto, già fa
piú tempo, per lo viso del re Carlo primo, che fu magro e lungo, col
naso sgrignuto. E perdonatemi, Dino, che io ho udito dire a molti cittadini che
'l vostro viso è proprio quello del re Carlo primo.
Dino a queste parole diede fede, e ancora si
racconsolò, sentendosi assomigliare al re Carlo primo: e stando alquanto,
ritornò in sul maestro Dino, e tiratosi nell'audienza, mette a partito
el bullettino e' confini, e non si vince, e disperavasene forte. Alla per fine
disse Ghino:
- Poiché questo partito non si vince,
commettete in due di noi che mandino per lo maestro Dino, e dicangli quello che
si conviene, facendogli una gran paura -; e cosí feciono.
E fu Ghino e un altro, che mandorono per lo
maestro Dino: e come fu venuto, e Ghino comincia a ridere, e in fine gli disse
che Dino il voleva pur per l'uomo morto, e che tutte l'altre cose averebbe
dimesse, e datosene pace, salvo che del trarre delle brache. Dice il maestro
Dino:
- Egli è una parte del mondo che
è grandissima, ed èvvi un re che è il maggiore, e ha molti
principi sotto sé, e chiamasi il re di Sara: quando uno fa reverenza a
uno di quelli principi, si trae il cappuccio; e quando si fa reverenza allo re
maggiore, si cava a un tratto il cappuccio e le brache; e io, considerando il
gonfaloniere della justizia essere il maggior signore, non che di questa provincia,
ma di tutta l'Italia, volendogli far reverenza, feci il simile che s'usa
colàe.
Udendo li due priori questa ragione, risono
ancora vie piú, e tornorono a Dino e agli altri, e dissono come aveano
vituperato il maestro Dino, e fattogli una gran villania; e che s'era scusato
con la tale usanza che è in tal paese; e se cosí era, non aver
elli tanto errato; pregando Dino che non se ne desse pensiero, e che a loro
lasciassono questa faccenda. Brievemente, a poco a poco Dino venne dimenticando
la ingiuria del maestro Dino, ma non sí che non gli tenesse favella
parecchi anni; e 'l maestro Dino di ciò ne godea, e dicea:
- Se non mi favellerà, e io non
andrò a medicarlo, quando avrà male -; e cosí stettono
buon tempo, infino a tanto che 'l maestro Tommaso del Garbo, dando loro a cena
una sera un ventre e delle starne, fe' loro far pace.
Sempre conviene che tra' signori officiali e
brigate sia uno che pe' suoi modi gli altri ne piglino diletto. Questo Dino fu
di quelli: non già per vizio, ma per costume, era biasimevole delle cose
lorde, e non volea udire; e perché maestro Dino ebbe piacere, e' dienne
a' signori. E però è grazia a Dio d'avere sí fatto stomaco
che ogni cosa patisca.
Uno contadino da Decomano viene a dolersi a
messer Francesco de' Medici che uno suo consorto gli vuol tòrre una
vigna, e allega si piacevolmente che messer Francesco fa ch'ella non gli
è tolta.
Fu a Decomano, non è molt'anni, uno
contadino assai agiato, e avea possessione insino in su quello di Vicchio;
là dove tenea a sue mani una bella vigna, la quale uno de' Medici gli
volea tòrre, ed era presso che per aversela. Veggendosi costui, che
Cenni credo avea nome, a mal partito, pensò d'andarsene a dolersene a
Firenze al maggiore della casa; e cosí fece; ché salito una
mattina a cavallo, andò a Firenze, e saputo che messer Francesco era il
maggiore, se n'andò a lui, e giunto là, disse:
- Messer Francesco, io vengo a Dio e a voi, a
pregarvi per l'amor di Dio, che io non sia rubato, se rubato non debbo essere.
Uno vostro consorto mi vuol tòrre una vigna, la quale io fo perduta, se
da voi non sono aiutato. E dicovi cosí, messer Francesco, che se egli la
dee avere, io voglio che l'abbia; e dirovvi in che modo. Voi dovete sapere, che
sete molto vissuto, che questo mondo corre per andazzi, e quando corre un
andazzo di vaiuolo, quando di pestilenze mortali, quando è andazzo che
si guastano tutti e' vini, quando è andazzo che in poco tempo
s'uccideranno molt'uomini, quando è andazzo che non si fa ragione a
persona: e cosí quando è andazzo d'una cosa, e quando d'un'altra.
E però, tornando a proposito, dico che contro a quelli non si pote far
riparo. Similmente quello di che io al presente vi vo' pregare per l'amor di
Dio, è questo: che s'egli è andazzo di tòr vigne, che il
vostro consorto s'abbia la mia vigna segnata e benedetta, però che
contro all'andazzo non ne potrei, né non ne voglio far difesa; ma, se
non fusse andazzo di tòr vigne, io vi prego caramente che la vigna mia
non mi sia tolta.
Udendo messer Francesco la piacevolezza di
costui, il domandò come avea nome; e quel gliel disse; e poi dice:
- Buon uomo, il mio consorto con teco non
potrebbe aver ragione, e sie certo che, andazzo o non andazzo che sia, la vigna
tua non ti fia tolta -; e disse: - Non t'incresca di aspettare un poco.
E mandò per quattro i maggiori della
casa; e dice loro questa piacevol novella; e piú, che chiama Cenni e
dice:
- Di' a costoro ciò che hai detto a me
-; e quelli 'l disse a littera.
Costoro tutti di concordia mandarono per lo
loro consorto che già s'avea messo a entrata la vigna, e riprendonlo del
fatto, e brievemente liberarono la vigna dalle mani di Faraone, e dissongli che
Cenni avea allegato la ragione degli andazzi, per forma che non potea avere il
torto; e che di ciò facesse sí che mai non ne sentissino alcuno
richiamo. E cosí promesse loro, poiché andazzo non era, di
liberare la vigna, e di non seguire piú la sua impresa.
Per certo la legge non arebbe in molto tempo
fatta fare quella ragione a Cenni, che l'allegare suo piacevole dell'andazzo
fece. E non se ne faccia alcuno beffe; ché chi vi porrà ben cura,
da buon tempo in qua, mi pare che 'l mondo sia corso per andazzi, salvo che
d'una cosa, cioè d'adoprare bene, ma di tutto il contrario è
stato bene andazzo, ed è durato gran tempo.
Il prete da Mont'Ughi, portando il corpo di
Cristo a uno infermo, veggendo uno su uno suo fico, con parole nuove e
disoneste lo grida, poco curandosi del sacramento che avea tra le mani.
Alla chiesa di San Martino a Mont'Ughi presso
a Firenze, fu poco tempo fa un prete che avea nome Ser... il quale era poco
devoto, ma piú tosto scellerato; e fra l'altre cose, tutta la chiesa
tenea mal coperta, e sopra l'altare peggio che in altro luogo era coperto, per
tal segnale, che 'l dí della sua festa, piovendo su l'altare, e' vicini
e gli altri diceano:
- Doh, prete, perché non cuopri tu che
non piova su l'altare?
E quelli rispondea:
- Tal sia di lui, se vuole che gli piova
addosso. E’ disse fiat , e fu fatto il mondo; ben può dir cuopri,
e fia coperto, e non gli pioverà addosso.
E cosí era di diversa condizione in
ogni cosa.
Avvenne per caso che, essendo ammalato a morte
un suo populano nel tempo di state, fu mandato per lui acciò che portasse
la comunione; ed egli pigliando il corpo di Cristo, andò per comunicare
lo infermo; e non essendosi molto dilungato dalla chiesa, guardando per un suo
campo, vide su uno fico uno garzone che mangiava e coglieva de' fichi suoi; e
come uomo non cattolico, né che andasse con la comunione nelle mani, ma
come uno malandrino disperato, voltosi a quello, disse gridando:
- Se il diavol mi dà grazia ch'io ponga
giú costui, io ti concerò sí che cotesti saranno i
peggiori fichi che tu manicassi mai.
Il garzone, che avea del reo, e anco forse
avea voglia di farli dir peggio, dice:
- O Domine , voi portate il Signore, et
ego vado in tentatione ficorum.
Dice il prete:
- Io fo boto a Dio che m'uccella! Che dirai?
Scendine, che sie mort'a ghiado.
Il garzone, avendo il corpo pieno, disse:
- Or ecco, io scendo, e' fichi tuoi ti rendo.
E tirò un peto che parve una bombarda;
e 'l prete se n'andò al suo viaggio tutto gonfiato; e 'l nostro Signore
tra 'l prete discreto, e 'l ghiottoncello che era sul fico, cosí fu
onorato; e l'infermo dal venerabile prete cosí ben disposto fu
comunicato.
Che diremo che fosse quella ostia da sí
devoto cherico sacrata e portata? Io per me non credo che cattivo arbore possa
fare buon frutto. E tutto il mondo n'è pieno di tali, che Dio il sa tra
cui mani è venuto.
Un calzolaio da San Ginegio tratta di
tòrre la terra a messer Ridolfo da Camerino, al quale essendo venuto
agli orecchi, con belle parole lo fa ricredente del suo errore, e perdonagli.
Ancora mi conviene tornare a una delle novelle
di messer Ridolfo da Camerino, la quale sta in questa forma. Uno calzolaio
della terra di San Ginegio, la qual tenea il detto messer Ridolfo, fu una volta
sí presuntuoso che cominciò a parlare e a trattare per via di
stato contro al detto messer Ridolfo; di che gli venne agli orecchi. Essendo il
detto messer Ridolfo nella detta terra, e saputo che ebbe il convenente del
fatto, non corse a furia, come molti stolti fanno; e non volle che queste cose
paressino, se non come da calzolaio. E ancora non volendo mostrare
viltà, ma piú tosto magnanimità, mostrò d'andare a
sollazzo per la terra; e andando dove questo calzolaio stava con la sua
stazzone, e messer Ridolfo si ferma e dice:
- Perché fa' tu quest'arte? - E quelli
dice: - Signor mio, per poter vivere - . E messer Ridolfo dice: - Non ci puoi
vivere con essa, non è tua arte e non è tuo mestiero, e non la
sai fare -; e toglie le forme e falle portar via.
Il calzolaio poté assai dire, che non
si trovasse senza le forme; e non sapendo che si fare, e non potendo pensare
quello che questo volesse dire, se ne va piú volte a messer Ridolfo a
richiedere le sue forme. Alla per fine v'andò una volta, e trovò
messer Ridolfo con una brigata di valentri uomini; e avvisandosi, se chiedesse
le forme dinanzi a tanti, gli verrebbe meglio fatto di riaverle, considerando
il detto messer Ridolfo per vergogna piú tosto gliene rendesse; e
fattosi innanzi, in presenza di tutti dice:
- Signor mio, io vi priego mi rendiate le mia
forme, ché io non posso lavorare, né far l'arte mia.
E messer Ridolfo guarda costui, e dice:
- Io ci t'ho detto, che non è l'arte
tua di cucire ciabatte e fare calzari.
E 'l calzolaio disse:
- O se questa non è l'arte mia, che
sempre ce l'ho fatta qual è la mia?
Disse messer Ridolfo:
- Ben ci hai domandato; l'arte tua è di
stare per questo bello palazzo, e darti alle cose piú alte; e io voglio
tener quelle forme, per imprender di cucire, e di fare le scarpe e' calzari, se
mi bisognassi.
Questo calzolaio, continuando le sue domande,
e messer Ridolfo facendo risposte strane e chiuse, e gli omeni che qui erano
pareano come smemorati a udire il calzolaio domandare le forme e le risposte
che 'l signor facea. Stati per alquanto spazio, e messer Ridolfo dice:
- Questo ciabattino che voi vedete qui, ha
trattato di tormi la signoria; e io, sappiendo ciò, e veggendo che
l'animo suo de' esser grandissimo, e non da tirare li cuoi con li denti, ma
piú tosto da esser signore in questi palazzi, gli ho tolto le forme, però
che, se cerca questo mestiero e parli che questo debba essere il suo, di quello
non ha a fare alcuna cosa, però che non è suo mestiere, ma
è molto vile e basso al suo grand'animo.
Questo calzolaio si scusava, e cominciorongli
a tremare li pippioni: e messer Ridolfo dice:
- Nella tua mal'ora, non ti pure scusare,
ch'io so ogni cosa, e voglioti condannare in presenza di costoro -; e disse a
uno che andasse per le forme.
Quando il calzolaio udí questo,
s'avvisò che con le dette forme il dovesse fare uccidere. Giunte le forme,
dice messer Ridolfo:
- Dappoi che ci hai detto innanzi a costoro
che questo è il tuo mestiero, e io ti voglio credere, e rendoti le
forme; ma lascia stare il mio mestiero che non è da te, né da tuo
pari, e torna a tagliare e a cucire le scarpe nella tua mal'ora; e va' e fammi
lo peggio che puoi.
Al calzolaio cominciò a tornare lo
spirito; e disse:
- Signor mio, - inginocchiandosi, - io prego
Dio che vi dia lunga e buona vita; e della grazia che mi avete fatta vi dia
quel merito che alla vostra virtú e alla vostra misericordia si
richiede. Io per me non sono da tanto che mai ve lo potesse meritare; ma bene
siate certo d'una cosa che l'animo mio, e ciò che io posso, è
tutto dato a voi.
E cosí si partí in quell'ora,
che mai non pensò, né in detto né in fatto, se non ad
esaltazione del suo signore. E 'l detto messer Ridolfo per questo ne divenne al
suo populo sí amato che tutti parve che... con un fervente amore ad ogni
suo bisogno.
Oh quanto egli è da commendare uno
signore quando per uno vile uomo gli è fatto simile offensa, che egli se
ne curi come curò costui, mostrando la sua magnanimità e l'animo
liberale, il quale il fa grande e montare fino alle stelle, per aver annullate
e fatto poca stima di quelle cose le quali molti vili fanno maggiori, temendo
che ogni mosca non gli offenda.
Minonna Brunelleschi, essendo cieco, di notte
guida altrui ad imbolare pesche; e alcun altro furto per lui piacevolmente
fatto.
Minonna Brunelleschi da Firenze fu ne' miei
dí, e fu cieco, come che in molte cose passava gli alluminati, per tale
che niuno suo vicino era che, se aveva a mettere cannella in botte di vino, non
mandasse per lo Minonna che la mettesse; e io piú volte il vidi che mai
non versava gocciola di vino, giucava a zara e andava solo sanza niuna guida.
Avea costui un suo luogo alle Panche, e avea per vicino un Giovanni Manfredi,
vocato Giogo. Avea appostato il Minonna nella vigna di questo Giogo certi
peschi carichi di bonissime pesche; e una sera di notte ebbe due compagni, e
disse:
- Volete voi venire meco in tal luogo per le
pesche?
Dissono costoro, ch'erano capitati a casa sua,
ed erano fiorentini:
- O noi non sappiamo il luogo noi.
Dice il Minonna:
- Non ve ne caglia; verrete, come io vi
guiderò, e recate questo sacco.
Costoro due guardano l'un l'altro, dicendo:
- Questa è ben gran cosa, che gli
alluminati sogliono guidar e' ciechi, e questo cieco vuol guidare gli
alluminati.
Infiammorono via piú d'andare, e
dissono:
- Andiamo, per vedere tanto nuova cosa.
Andorono, e troppo bene di campo in campo il
Minonna gli ebbe guidati; e giugnendo per entrare nella vigna, dov'erano li
peschi, questa era molto bene affossata, e con buona siepe. Dice il Minonna:
- Lasciate andare me innanzi; venite in
quaggiú, ché ci dee essere una cotale callaietta nascosa -; e
coloro dietro.
Quando fu alla callaia, dice il Minonna:
- Or passate qui, e tenete da man ritta, e
vedrete i peschi.
Costoro cosí fanno, e cosí
truovono ciò che dice; e 'l Minonna con tutto ciò fu a' peschi
quand'eglino; e coglievane egli per amendue loro: in fine egli empierono 'l
sacco; e 'l Minonna volea che gliel mettessono in collo. Costoro non vollono, e
pigliono questo sacco il meglio che possono, e tornansi a casa e vannosi a
letto.
La mattina il Minonna ed ellino se ne vanno a
Firenze, e questi due non potendosi tenere che la detta novella non
divolgassino, pervenne la detta cosa agli orecchi di Giovanni Manfredi. Non
potendosi il detto dar pace, sanza dir alcuna cosa, la seguente notte se ne va
con alcuno nell'orto del Minonna, e tagliato molti belli cavoli che v'erano, e
colti quelli frutti che poté portare, e fare danno, fece.
Arriva la novella al Minonna, e subito si
pensa essere stato Giovanni Manfredi; e comincia a soffiare che parea un porco
fedito, con un naso sgrignuto e con un leggío di drieto per ispalle, che
parea un dalfino quando sopra il mare si getta soffiando a indovinare tempesta.
Subito si mette la via fra gambe, e caccia il capo innanzi con la foggia, come
andava, per andare alle Panche; e passando con questo impeto dalla bottega di
Caperozzolo, di fuori nella via era uno bariglione su uno desco con non so che
cose da fare o lattovari o savori in molle, e davvi si fatta entro che 'l
bariglione e 'l desco, con ciò che v'era, andò per terra; e va
pur oltre a suo cammino.
Caperozzolo, o suo lavoratore, che pestava
dentro, vedendo questo, esce fuori e guata dietro al Minonna, gridando:
- Morto sie tu a ghiado, o non vedi tu lume?
che perdere postú gli occhi.
Il Minonna fece vista di non udire, e va pur
via, e giugne alle Panche, ed entra nell'orto, e va tastando li cavoli con
ciò che v'è, dolendosi forte, e massimamente de' cavoli de' quali
spesso mangiava gran minestre; e stette alcun dí, mostrando non sapere
chi ciò gli avesse fatto. Alla per fine pensò che la cosa non
rimanesse qui. Una sera ebbe due contadini, e pregolli fussino con lui, e
cosí fu; ché venuta la notte, con due sacca e con coltellini
andorono all'orto di Giovanni Manfredi, dove era un campo d'agli di smisurata
bellezza, e de' quali il detto Giovanni sempre ragionava, e questi agli
divegliendo a uno a uno, tagliarono li capi e mettevano ne' sacchi, e 'l gambo
rificcavono nella terra, e cosí tutti gli ebbono divelti e portati i
capi e lasciati i gambi nel luogo loro.
Da ivi a due dí, essendo e Giovanni e
Minonna al Trebbio, dove usavono, il Minonna si dolea de' cavoli suoi. Dice
Giovanni Manfredi:
- Io vorrei che mi fussino stati innanzi tolti
gli agli miei, che si guastassino come pare che si guastino.
Dice il Minonna:
- Come? egli erano cosí belli.
E quelli dice:
- E’ sono tutti appassati da ieri in qua.
Dice il Minonna:
- Saranno forse bruciolati.
Costui se ne va, e comprende troppo bene che
'l Minonna abbia fatto qualche cosa; ed entrato nell'orto, tira uno aglio,
tirane due, e' poté assai tirare che trovasse il capo a niuno. Subito
immaginò quel che era; e l'altro dí, essendo al Trebbio, non si
poté tenere il Giogo che non dicesse:
- Minonna, almeno ne avestú lasciato
qualche uno.
Disse il Minonna:
- Ha' tu il farnetico?
Disse il Giogo:
- Io l'ho bene, quando tu m'hai tolto gli agli
miei.
Dice il Minonna:
- Di' tu de' cavoli miei? mandastegli tu a
vendere alla Ciacca?
- Che Ciacca, che sia mort'a ghiado?
- Anzi sia tu.
- Anzi tu -; e vanno l'un contro all'altro per
darsi.
Aveano centocinquant'anni tra amendue, e uno
era cieco, e l'altro avea gli occhi arrovesciati che pareano foderati di
scarlatto. La gente fu su, feciono fare la pace; al Minonna rimasono gli agli,
al Giogo i cavoli... e mai non si vollono bene, e sempre borbottavano... niuno
per ammendarsi, aveano i piè nella fossa, e imbolavano agli e cavoli:
averebbono ben tolto altro, perché cane che lecchi cenere non gli fidar
farina.
Soccebonel di Frioli, andando a comprare panno
da uno ritagliatore, credendolo avere ingannato nella misura, e 'l ritagliatore
ha ingannato lui grossamente.
Fu in Frioli nel castello di Spilinbergo
già uno ritagliatore fiorentino; e andando uno friolano, che avea nome
Soccebonel, a comprare panno, cominciò a domandare del panno di qualche
bel colore, però che volea fare una cioppa da barons. Lo ritagliatore
dice:
- Vuo' tu celestrino?
- No.
- Vuogli verde?
- No.
- Vuogli sbiadato?
- No.
- Vuogli cagnazzo?
- No.
- Vuogli una cappa di cielo?
- Sí, sí, sí.
Avvisossi al nome, che vi fosse il sole e la
luna, e le stelle, e forse gran parte del Paradiso. Fatto venire questo cappa
di cielo, furono in concordia del pregio per quattro canne. Il ritagliatore
truova la canna, e dice a Soccebonel:
- Piglia costí, e comincia a metter su
la canna.
Il friolano metteva, e tirava il panno
piú su che la canna, quando uno sommesso, e quando piú, e stavasi
tanto attento che ad altro non guatava. Il fiorentino, che nel principio subito
se ne fu avveduto, quando mettea il panno su la canna lasciava mezzo braccio
della canna a drieto, e quando piú, sí che ogni quattro braccia
tornavano al buon uomo forse tre e mezzo. Misurate le quattro canne, e pagato,
il friolano se ne fa portare il panno; e perché lo 'nganno s'occultasse,
dice il venditore:
- Vuo' tu far bene? attuffalo in una bigoncia
d'acqua e lascialo stare tutta notte, sí che bea bene, e vedrai poi
panno ch'el fa.
Costui cosí fece; e la mattina lo scola
alquanto dall'acqua, e mandalo al cimatore, che l'asciughi nella soppressa e
che lo cimi. Cimato il panno, e Soccebonel va per esso, e dice:
- Che de' tu avere?
Dice el cimatore:
- E’ mi par nove braccia; da' nove soldi.
Dice costui:
- Come nove braccia? oimè! che di' tu?
Il cimatore il truova, e dice:
- Vedilo, misuralo tu.
Rimisuralo, e non lo truova piú; e
dice:
- Per lo corpo della madre di Jesu Cristo, che
mi serà stato furato.
E va al ritagliatore, e va di qua, e va di là;
l'uno gli dicea:
- Questi panni fiorentini non tornano nulla
all'acqua.
E il ritagliatore dicea:
- Guarda dov'egli stette la notte che 'l
mettesti in molle, che chi che sia non l'avesse imbolato.
Un altro dicea:
- Questi cimatori sono tutti ladri.
E un compagno del ritagliatore, che forse
sapea il fatto, dicea:
- Vuo' ti dica il vero, gentiluomo? Ché
non è molto che io udi' dire che uno levò un braccio di panno
fiorentino, e la sera l'attuffò, come tu facesti questo, in uno
bigonciuolo d'acqua, e lasciovvelo stare tutta notte, la mattina quando andava
per trarlo dell'acqua, egli lo trovò tanto rientrato che non vi
trovò nulla.
Dice Soccebonel:
- Au, può esser cest?
E que' rispose:
- Sí, può esser canestre.
Or cosí costui credendo ingannare,
rimase ingannato, e fu per impazzarne; e la cappa di cielo tornò che non
arebbe coperto un ciel d'un piccol forno; e la cappa da barons si
convertí in un mantellino, che parea un saltamindosso.
E cosí avviene spesse volte che tanto
sa altri quant'altri.
Maso del Saggio fa una gran ragunata di
cittadini che abbiano grandi nasi in Santo Piero Scheraggi, e poi con
piacevolezza dimostra loro ch'egli hanno grandissimi nasi.
In Firenze fu già uno piacevole e
sollazzevole uomo, che ebbe nome Maso del Saggio, e fu sensale. Veggendo costui
per la nostra terra una brigata di cittadini che aveano grandissimi nasi,
pensò di ragunarli insieme tutti una mattina, e preso tempo d'uno
dí, a uno a uno gli andò invitando, dicendo:
- Uno cittadino molto dabbene ti priega, che
tu sie domattina con gli altri che vi fiano in San Piero Scheraggio. E
perché tu non sappi al presente chi sia il cittadino, non te ne caglia,
però che non si dice chi, per alcuna cagione.
E cosí a uno a uno disse a tutti.
Costoro udendo cosí nuova...
NOVELLA XCVII( frammento)
... bocca, facendo: Sciu, u, u, u. Il prete, o
frate che vogliamo dire, come la vede con quest'atti, dice in verso la
ciovetta:
- E tu l'ha' tue?
E scagliando il calice verso lei con tutto il
vino disse:
- E tu t'abbi or questo al nome del diavolo.
Come ebbe scagliato il calice, e quelli vede
l'ostia in su l'altare, e non comprendendo ch'ella fosse stata sotto il calice,
dice:
- Ecco che ci ha aúto paura, e
perciò l'ha reportato qui -; e volgendosi al popolo disse per miracolo
come la ciovetta avea furata l'ostia, e che per paura della gittata di quel
calice verso li suoi occhi strabuzzanti l'avea renduta, e riposta su l'altare,
e aveasi ritenuto il vino.
La ciovetta parea che intendesse queste cose,
guardando ora il prete, ora il cherico, ora il populo, continuo, ora chinando
il capo a terra, e ora levandolo in alto, schiacciando col becco, facea: Sciu,
u, u, u. Quelli che erano con qualche intendimento ivi alla messa, non poteano
tenere le risa. Altri villani croi e grossi diceano:
- O nella mal'ora, a che ci tiene frate
Sbrilla la ciovetta presso all'altare, s'ella ci fura il corpo di Cristo?
E troppo bene lo credeano.
Frate Sbrilla, minacciata la ciovetta che non
starebbe piú in quel luogo, fecesi dare le ampolluzze al cherico, e
riforní il calice col vino, e compieo la messa.
E a questo modo, e tra cosí fatte mani,
e cosí discreti sacerdoti è condotto il nostro Signore; che
spegnere se ne possa il seme!
Benci Sacchetti trae ad una brigata un ventre
della pentola e mandaselo a casa per il fante, e in iscambio di quello mette
nella pentola una cappellina.
Nella città di Vinegia furono
già certi mercatanti fiorentini, i quali per lunga dimora aveano presa
amistà e compagnia insieme, per tale che le piú volte mangiavano
insieme, e spesso recava ciascuno la parte sua, e accozzavano insieme, e
faceano tanisca, e per quello che io udisse già io scrittore da mio
padre, il quale fu principio della presente novella, egli era uno Giovanni
Ducci, Tosco Ghinazzi, Piero di Lippo Buonagrazia, Giovannozzo di Bartolo Fede,
Noddo d'Andrea, ch'ancora è vivo, e Michel Cini, e Benci del Buon
Sacchetti, e certi altri. Avvenne per caso che Giovanni Ducci, el Tosco, e
Piero di Lippo, facendosi una vitella grandissima e bella, feciono borsa, e
comperorono il ventre per mangiarlo la seguente domenica a cena, e fra loro
puosono che niente se ne dicesse: ché, se gli altri compagni il
sapessono, non lo potremmo avere in pace, poco ne toccherebbe per uno.
Disse il Tosco:
- Cosí si vuol fare, ché io n'ho
aúto voglia un gran pezzo: io intendo farne corpacciata.
E cosí tennono il segreto, e messer
Gherardo Ventraia fu portato a casa Giovanni Ducci.
Quella medesima mattina, che era sabato,
andando, com'è d'usanza, Benci e Noddo a vedere la beccheria, per
comperare per la domenica, capitorono al desco dove la detta vitella si vendea.
Dice l'uno:
- O questa è bella carne.
- Ben di' vero.
- Quanto la libbra?
E comperaronne una pezza. E pesandola il
beccaio, dice:
- Gnaffe! i compagni vostri ebbono poco fa il
ventre.
Dice Benci:
- O chi?
E 'l beccaio dice:
- Giovanni Ducci, e tale, e tale.
- E a casa cui andò il ventre?
Dice il beccaio:
- A casa Giovanni Ducci; e là pare a
me, che lo mangeranno doman da sera.
Dicono costoro:
- Or sia con Dio.
Tolgono la carne, e partonsi; e tornando a
casa, dice l'uno all'altro:
- Questa cosa non vuole andare a questo modo.
Dice Noddo:
- Gnaffe! io piglierò la tenuta doman
da sera a buon'otta.
Dice Benci:
- Noddo, e' la non vuole andare a cotesto
modo; vuo' tu lasciar fare a me?
Dice Noddo:
- Sí bene.
Dice Benci.
- Non dir nulla; io credo far sí che
noi aremo il ventre, ed egli avranno la broda; sta' cheto, e non dir nulla: fa'
ch'io ti truovi domane due ore innanzi ora di cena, e farai com'io ti
dirò, e vedrai il piú bel giuoco che tu vedessi mai -; e
cosí si fermarono.
Benci, tornato a casa, va cercando d'uno
fodero di cappellina vecchio bianco, e per avventura n'ebbe trovato una
cappellina, la quale avea usato già il padre della donna sua che era
grandissima e sucida; levonne il panno e tolse il fodero, e apparecchiò
una bisaccia, e dentro vi misse il detto fodero; e trovò uno aguto di
mezzo braccio, e feceli dalla punta un poco d'oncino, e misse nella bisaccia.
Trovate queste masserizie, l'altro dí su l'ora imposta si trovò
con Noddo, ed ebbono Michele Cini, che era sensale di mercatanzia, e strettisi
insieme, dice Benci:
- Io non so, Michele, se tu sai questo fatto;
la cosa sta sí e sí.
Michele fu tosto accordato. Dice Benci:
- Tu anderai un poco innanzi, e chiamerai la
Benvegnuda, che ti rechi la chiave del fondaco, e che tu voglia vedere qualche
balla di mercatanzia; Noddo e io intreremo dentro, e tu la tieni a bada quanto
puoi; volgi e rivolgi le balle, e digli che t'aiuti; e andremo su alla cucina,
e lascia fare a noi.
E cosí ordinorono, menando Benci un suo
fante in mantello con la bisaccia e con l'altre masserizie. E Michele Cini
giugne, e picchia l'uscio, e chiama la Benvegnuda, che rechi la chiave del
fondaco. La Benvegnuda viene subito con le chiavi. Dice Michele:
- Va' apri, ché voglio veder certe
balle per farle vendere a Giovanni.
Dice la Benvegnuda:
- Serrate l'uscio.
Dice Michele:
- Giovanni è presso, che ne viene co'
mercatanti; lascialo pur stare aperto.
E cosí fece.
Andato ella per aprire il fondaco, la brigata
della bisaccia entrano dentro, e vanno alla cucina. Quando Michele vede andato
su Benci con gli altri, va nel fondaco, che la Benvegnuda avea aperto, e quivi
volgi e rivolgi, aiutandogli la fante per buon spazio. Benci e gli altri,
ch'erano in cucina, trovorono messer Gherardo che bollia forte, e Benci subito
recasi in mano le masserizie, che parea volesse travagliare, e cava fuori
l'aguto uncinuto e lo fodero della cappellina; e cacciato nella pentola il
detto uncino, piglia messer Gherardo con la sua donna monna Muletta; e
traendolo fuori del laveggio, il mise nella bisaccia, e diello al fante, e
disse:
- Vanne a casa, e non dir nulla.
Andato il fante, Benci caccia il fodero della
cappellina arrovesciato nella pentola, e pisciovvi entro, e coperta com'ella
stava, s'uscirono della cucina, e scendendo la scala, per l'uscio ancora aperto
se n'uscirono fuori. Michele, che era con la Benvegnuda nel fondaco, quando
crede essere stato assai dice:
- Per certo Giovanni Ducci ha aúto
qualche storpio; serra il fondaco, e io anderò a saper quello che fa.
La Benvegnuda cosí fece. Michele
s'andò con Dio, e sul Rialto trovato Noddo, che scoppiava di risa, dice:
- Ov'è Benci?
Dice Noddo:
- È ito a casa a far trarre il ventre
della bisaccia, e metterlo in una pentola a fuoco, perché se avesse
manco di cotto, che si cuoca; e dissemi, quando fosse ora, noi andassimo
là a cena.
E cosí feciono: ché su l'ora
della cena Noddo e Michele con la maggior festa del mondo andarono a manicare
il detto ventre, aspettando la gran festa che doveano avere di questa novella.
Dall'altra parte la brigata che avea comperato il ventre, s'avviano andare a
cena. Dicea Piero per la via:
- Io ho aúto voglia d'un ventre ben un
anno, e non m'è venuto fatto d'averlo.
Dice il Tosco:
- Altrettal te la dico.
Dice Giovanni:
- Istasera ce ne caveremo la voglia -; e
cosí ragionando, giunsono a casa: - O Benvegnuda, fa' che noi ceniamo.
Data l'acqua alle mani, si posono a tavola. La
Benvegnuda avea subito fatta la suppa, come si fa, con le spezie e tutto; e
caccia il manico del romaiolo nella pentola, trae fuori, e mette in uno catino
sí subito che avveduta non si fu di quello che era; ma subito porta a
tavola quello e la suppa; e costoro cominciano a manomettere la suppa, e
manicando truovano i taglieri, e fatto venire dell'aceto, e tutti scoperto il
catino, e prese le coltella per tagliare un pezzo del ventre, mena il coltello,
partire non si potea, e stettono buon pezzo.
Alla per fine dice uno:
- O che è cotesto?
Dice l'altro:
- Non so io, piglialo, e tiralo su.
- Buon buono! o che diavolo è questo? a
me par'egli una cappellina.
- Una cappellina?
Chi avea della suppa in bocca, getta fuori:
- Alle guagnele, che noi ce n'abbiamo una...
Chiama la Benvegnuda; ed ella giugne:
- Buon pro vi faccia.
- Tu sia la malvenuta, - dice Giovanni Ducci,
- o che ci hai tu recato in tavola?
Dice quella:
- Hovvi recato un ventre che voi mi mandaste.
Dice il Tosco, ch'era levato ritto, e stava
dal lato di fuori:
- Guata se egli è ventre.
E levalo suso alto.
Dice la Benvegnuda:
- Oimè, che vuol dir questo?
Dice il Tosco:
- Vuol dir panico pesto -; e aperta questa
cappellina, essendo la fante volta per tornar nella cucina, gli lo
cacciò in capo.
La fante gettalo in terra:
- Che diavolo è questo che voi fate?
Dice Giovanni:
- Vie' qua: dimmi il vero, chi c'è
venuto?
Ed ella dice:
- Venneci Michele Cini.
Dicono costoro:
- I nostri compagni ce l'hanno calata.
E sappiendo come Michele era venuto, e
ciò che avea fatto e detto, l'ebbono per lo fermo; dicendo Piero:
- Io ho ben veduto Noddo molto ridere da
dianzi in qua.
Dice l'altro:
- Come che ci abbiano fatto la piú
sucida beffa che noi avessimo mai, io credo ci abbiano fatto molto bene;
avevamo diviso la compagnia per un ventre.
Dice Giovanni:
- Truovaci qualche marzolino; e metti questa
cappellina in bucato, ché io la vorrò rendere al Benci, che
debb'essere stato il principio di tutto questo fatto.
Dissono gli altri:
- Me' faremo a mandarlilo ora -; e tolgono uno
piattello, e coprono; e dicono: - Va', di' a Benci che Giovanni Ducci gli manda
del ventre della vitella.
E cosí giugnendo a Benci con
l'ambasciata e col presente, dice Benci:
- Di' che gran merzè; ma che 'l
tavernaio l'ingannò, ché cotesto è di pecora, e non
è di vitella.
Ritorna il fante, e dice quello che Benci e
gli altri hanno detto, e ch'egli era di pecora. Dice il Tosco:
- Ed egli ben ci ha trattato come pecore.
E con tutto questo, quelli che l'ebbono, e
quelli che 'l doveano mangiare, furono troppo contenti di sí bella
beffa; e poi, trovandosi l'uno con l'altro, tutti rideano a un modo, per tale
che tutta Vinegia otto dí n'ebbe piacere.
Oggi se ne ucciderebbono gli uomini; e nota
che da questo si dice: “Egli ha fatto una sucida beffa” però che quella
cappellina era sucidissima.
E cosí si davano i mercatanti diletto,
e insieme, di ciò che si faceano, erano contenti, e aveanlo a caro. Ma
io credo bene che poi sia intervenuto il contrario; però che le risa son
quasi per tutto convertite in pianto per li difetti umani, o per li iudicii
divini.
Bartolino farsettaio, veggendo la sua donna
esser molto nera, con belle parole la morde, come ch'ella non mostrasse
intenderle.
Bartolino farsettaio menò moglie una
donna vedova, la quale era nerissima; e la sera andando al letto, questa donna
era tutta spogliata, e sedea sul letto, segnandosi, dicendo sue orazioni.
Bartolino era già coricato, e non coricandosi la donna, e quelli la
guata, e pareagli ch'ella fosse in gonnella monachina, però che le carne
sua aveano quel colore. Dice Bartolino:
- Spogliati, e vatti al letto.
Dice la donna:
- Io sono spogliata.
Bartolino la tocca; ed ella squittisce.
- O di' tu di vero? entra sotto.
Ed ella entrò.
Questo ho detto per tanto ch'ella era
nerissima, tanto che fra l'altre volte Bartolino desinando una mattina carne di
castrone, e oltre disse facesse molto bene della salsa, ché n'era vago.
Venneli innanzi piccola scodellina di salsa. Dice Bartolino:
- O che vuol dir questo, che io ho sí
poca salsa?
La donna disse:
- E’ non si trovorono dell'erbe.
Dice Bartolino:
- E’ mi pare bene che se ne trovassino, che tu
te l'hai mangiata, per tal segnale che tu hai il viso tutto verde.
Dice la donna:
- E’ non è quel che tu credi.
- O che è?
- È che io mi voglio levare questa
carne salvatica di sopra, che per lo stare in contado è arrozzita.
Dice Bartolino:
- Datte ben fatica, che poi che tu foste mia
moglie t'ha' fatto piú volte il dibuccio, come che tu creda che io non
me ne sia avveduto; e quanto piú cavi, piú mi pare che truovi il
nero; e però per lo mio amore, donna mia, non cavare piú,
però che tu potrai trovare lo 'nferno, tanto anderai giú.
La donna disse:
- Deh, ben istà; io voglio pur
comparire come l'altre, e non voglio parere una manimorcia.
Dice Bartolino:
- Or fa' che ti piace, ch'egli è meglio
a mio parere che tu cuopra il tristo, anzi che tu lo scuopra.
La donna disse:
- Non so che tristo; se io sarò trista,
io me n'avrò il danno.
E se mai si fece uno dibuccio, da questa volta
in là se ne fece quattro, tanto che ella diventò un'aringa nera,
e col suo senno s'andò sempre al mercato, parendoli esser bellissima; e
Bartolino stette contento, e alla mostarda e alla salsa.
Molto è ingannata la donna di sé
per lo vizio della vanagloria; e quanto piú si vede nello specchio
sozza, meno si conosce; ma con nuove arti s'ingegna pur di comparire, non
lasciando stare né 'l viso, né alcuno membro come Dio l'ha
creato; e non pensa che la piú bella che sia, in piccol tempo, come un
fiore, vien meno, e diventa secca nell'ultima vecchiezza, e in fine diventa uno
testio.
Romolo del Bianco dice al frate in Santa
Reparata, predicando dell'usura, che predichi di quelli che accattono,
però che ivi erano tutti poveri.
Una piccola novelletta m'è venuto
voglia di raccontare di uno vecchierello fiorentino, il quale ha bene
ottant'anni, ed è ancora vivo, e ha nome Romolo del Bianco. Costui ha le
piú nuove parole del mondo alle mani, e la maggior parte come
filosofiche. Andando di quaresima costui alla predica che si fa la sera alla
chiesa maggiore di Santa Reparata, alla qual predica vanno tutti poveri
lavoranti di lana, poi che sono usciti, e serrate le botteghe, e fanti e fante
e servigiali ancora a quella vanno; uno giovane frate romitano ogni sera
predicava dell'usura, e che ciascuno si guardasse dal prestare, però
ch'ell'era quella cosa che conducea l'uomo a dannazione; e poi ritornava pure
in usura e su' contratti inleciti. Quando Romolo del Bianco assai ha bene udito
di questa usura, levasi su, e dice:
- Messer lo frate, io ve l'ho creduto dire
già è parecchie sere, ma sommene tenuto, ché credea che
voi uscisse a predicare d'altra matera che dell'usura; ora mi pare che voi non
sete per predicare d'altro; io vi voglio far chiaro che voi vi perdete le
parole, però che quanti voi ne vedete a questa predica accattano, e non
prestano, ché non hanno che, e io sono il primo. E però, se voi
ci sapete dare alcuno conforto sopra li nostri debiti e sopra che dobbiamo dare
altrui, io ve ne priego; quanto che no, e io e gli altri che ci sono, potremo
fare senza venire alla vostra predica.
Il frate, e tutta la predica, come smemorati
guatavono onde questa boce venía, però che v'era buio, che quasi
non vedea l'un l'altro; e pur scorsono che era Romolo del Bianco, dicendo
tutti:
- Egli ha molto ben ragione, ché non
c'è alcuno di noi che non abbia piú debito che la lepre.
E 'l frate da quindi innanzi predicò
della povertà, come con pazienza si volea comportare; dicendo spesso: “Beati
pauperes, ecc. ”, e fu loro grandissimo conforto per le parole che Romolo
avea predicate al predicatore.
E però conviene che il predicatore sia
sí discreto che se predica a una gente in una terra, che sieno ricchi
per usure, molto li riprenda su questo, e se predica a' poveri, li conforti su
la povertà; se sono macolati di sfrenate concupiscenze, contro a quelle
dicano, e da estorsioni, sí di ruberie, e di guerre, e cosí degli
altri vizii de' fare il simile; acciò che non sia ripreso da uno pover
uomo come fu colui.