Franco Sacchetti

 

Il Trecentonovelle
    
(parte 2: novelle CI – CLXXV)


 

NOVELLA CI

 

Giovanni Apostolo sotto ombra di santa persona, entra in un romitoro, avendo a fare con tre romite, che piú non ve n'avea.

 

Fu a Todi, non è molto, uno che era chiamato Giovanni dell'Innamorato, ed era di questi che si chiamano Apostoli, che vanno con le fogge vestiti di bigio sanza levare mai gli occhi in alto; e ancora facea in Todi l'officio del barbiere.

Era costui molto usato d'andare di fuori in certi luoghi di Todi, e spesso passava da uno romitoro, dove erano tre giovene romite, che l'una era bellissima quanto potesse essere. E 'l detto Giovanni era spesse volte domandato:

- Perché hai tu per soprannome dello 'nnamorato?

E quelli rispondea:

- Perché sono innamorato della grazia di Jesu.

E quasi da tutti era tenuto un santo, e spezialmente da queste tre romite, le quali a lui erano molto devote.

E questo Giovanni dicea che era innamorato di Jesu, e molto segretamente era innamorato piú della bella romita. Andò questo Giovanni un dí fuori di Todi a una religione di monaci presso a tre miglia, e tornando la sera tardi per mal tempo freddo e nevicoso, giunse a quel romitorio a ora che in Todi non serebbe entrato, sí era sera, e ciò fece bene in prova. Giunto là, picchia la ruota.

- Domine, chi è?

Risponde:

- Sono il vostro Giovanni dello 'nnamorato.

- O che andate voi facendo a quest'otta?

E quelli dice:

- Io andai istamane alla tale badía, e sommi oggi stato con don Fortunato, e ora tornava a Todi, e l'ora tarda e 'l tempo reo m'hanno condotto qui, e non so che mi fare.

A questo romitoro non era presso né casa né tetto. Dicono le romite:

- Che fu a muovervi cosí tardi?

Dice l'Apostolo:

- E’ non è stato sole, li nuvoli m'hanno ingannato: poiché la cosa è qui, io vi priego che mi mettiate un poco costí dentro al coperto.

Dicono le romite:

- O non sapete voi che noi non ci mettiamo persona?

Dice l'Apostolo:

- E’ non s'intende per me, che sono quel che voi, dalla parte del Signore: e ancora il caso della notte, e del tempo che qui m'ha condotto, è cosa di necessità; e voi sapete che 'l nostro Signore ci comanda che noi aiutiamo quelli che sono in necessità.

Le donne, ch'erano vergini, dierono fede alle suo parole, e apersonli. Quando viene che, dette l'ore e mangiato un poco, si debbono andare a posare, dice Giovanni:

- Andatevi pure a dormire, io mi dormirò su questa panchetta.

Aveano queste un lettuccio solo, e dicono:

- Noi ci getteremo su queste casse, e tu ne va' nel letto.

Brievemente, non volle; ma disse:

- Andatevi al letto, e io mi dormirò in qualche modo.

Costoro se n'andorono in questo letticciuolo; la bella si colicò da capo, e un'altra allatoli dalla proda lungo il muro, e da piede lungo il muro si colicò la terza. E stando un poco, dice una romita:

- Giovanni, e' ci incresce di te, considerando il freddo che è.

Dice Giovanni:

- Io il sento bene, e ho ben paura che non mi dia qualche beccata, che io triemo tutto -; e piglia una lucerna che v'era accesa, e dice: - Io voglio andare qui in cucina, e accenderò un poco di fuoco -; e ito là, sul focolare non era fuoco.

Come ciò vide, s'immaginò: “S'io spengo la lucerna, fuoco non c'è piú, io verrò meglio ad effetto de' fatti miei”; e spenta la lucerna, dice:

- Oimè, io volea accendere un poco di fuoco, ed egli è spento la lucerna.

- Come ci farai? - disse la piú bella romita.

Dice Giovanni:

- Poiché qui sono (e accostasi alla lettiera) io enterrò in questa proda qui da' tuo' piedi -; e tastando con le mani, s'abbatte a toccare il viso alla romita; e andando in giú, entrò in quella proda, e dice: - Perdonatemi, che meglio è fare cosí che morire.

Le romite stavano chete piú per vergogna che per altro, e forse alcuna dormía. Come Giovanni è nel letto, egli era piccolo, non potea fare non toccasse della bella romita, e prima i piedi, i quali erano morbidissimi. Dicea Giovanni:

- Benedetto sia Jesu Cristo, che sí belli piedi fece.

E dai piedi tocca le gambe:

- Benedetto sie tu, Jesu, che sí belle gambe creasti.

Va al ginocchio:

- Sempre sia lodato il Signore, che cosí bel ginocchio formò.

Tocca piú su le cosce:

- O benedetta sia la virtú divina, che sí nobil cosa generò.

Dice la romita:

- Giovanni, non andar piú su, ché c'è lo 'nferno.

Dice Giovanni:

- E io ho qui con meco il diavolo, che tutto il tempo della mia vita ho cercato di metterlo in inferno -; e accostasi a costei, mettendo il diavolo in inferno, come che con le mani un poco si contendesse.

E dicea:

- Che è questo, Giovanni, che tu fai? noi ci saremmo tutte confessate da te, e io spezialmente, e tu tieni cosí fatti modi.

Dice Giovanni:

- Credi tu che Jesu abbia fatta la tua bellezza perch'ella si perda? Non lo credere.

Quando Giovanni fu stato quello che volle, tornò alla sua proda. L'altre due romite, che forse aveano fatto vista di dormire, dice quella che è allato a Giovanni da lato del muro:

- O che trigenda è questa istanotte, Giovanni? In verità di Jesu, che tu ci fai poco onore, e non dovevi entrare nel letto nostro.

Dice Giovanni:

- O santa sie tu; che credi tu che io abbia fatto altro che bene? Io non ci ho detto parola che non abbia lodato il Salvadore. E poi, non pensare che alla vostra fragilità se non fosse aiutato, il demonio piglierebbe gran possa sopra di voi; e quello che io ho fatto appunto sta cosí -; e fassi verso costei, e comincia a' piedi, come all'altra; e tutto, come avea fatto a lei, fece a costei.

Sentendo la terza il tramestio, ed essendo stata in ascolto, dice:

- In buona fé, Giovanni, se noi t'aprimmo, tu ce n'hai renduto buon merito.

Dice Giovanni:

- Sciocche che voi sete! credete voi che ciò che io ho fatto sia altro che bene? Credete voi che molte rinchiuse come voi non si disperassono, se alcuno mio pari spesse volte non desse loro di questi conforti? Voi sete giovani, e sete femine: credete voi che per questo ne diminuisca la gloria di Dio in voi? E voi sapete che con la sua bocca disse che noi provassimo ogni cosa, e quello che è buono tenessimo.

E questo è anco a' miei pari utilissimo, però che, come io abbia questo abito, sono pur uomo, e spesso mi assaliscono gli amorosi desiderii; e a questi non è modo che s'attutassino mai, se non si domassono e', come si domano, con voi. E io cosí ho fatto e farò quanto sia di vostro piacere, e non piú.

Dice questa romita:

- Voi dite che il nostro Signore dice che si vuole provare ogni cosa, e 'l buono ritenere, io non ho provato nulla, sí che io non so quello ch'io mi debba ritenere.

Dice Giovanni:

- Io lodo Dio, toccando li membri, e cominciando dal piede -; e accostasi a costei: - e quando io son qui allo 'nferno, e io v'attuto el mio diavolo entro -; e cosí fece, come all'altre, ed ella si stette, perché le some furono ragguagliate.

E Giovanni, fatta tutta la cerca, si ritornò al luogo suo là dove trovò i piedi piú morbidi; e riposatosi, e dormito un pezzo, ritornò alla bella romita a confortarla, e spegnere, il fuoco a lui, la quale non si contendea troppo. La mattina per tempissimo levandosi, disse:

- Suore mie, io vi ringrazio quanto posso della vostra carità, che ver me usaste ier sera, ad accettarmi in questa vostra casetta santa; quello Signore che mi ci condusse dia grazia e a voi e a me di salvare l'anime nostre, rendendovi quel merito che desiderate. A me pare essere già levato in alto verso Jesu parecchie braccia, essendo stato con la vostra santità. Se io ho a far per alcun tempo alcuna cosa, fate di me sicuramente come dovete.

Elle rispondono:

- Giovanni, noi ti preghiamo che ti sia raccomandato questo piccolo romitorio, e che esso vegni a vicitare come tua casa; va' nella pace di Dio.

E cosí si partí, che parea, quando giunse a Todi, uno cappone vero.

E piú tempo continuò questa cosí fatta vicitazione, per forma che diventò, di fresco e colorito, quasi magrissimo e pallido, e andava onesto, che parea San Gherardo da Villamagna, essendo tenuto santo; e quando morí ogni uomo e femina gli andava a baciar la mano, dicendo che facea miracoli.

Or guardate quanto è nascosa la ipocrisia del mondo, che colui ch'era della condizione di sopra scritta si fece piú tosto santo nella sua fine. O quanti ne sono tenuti santi e beati, che le loro anime non vi sono presso per la ipocrisia che sempre regnò; e troppo è difficile a poter cognoscere il cuore, o gli segreti dentro dell'uomo.

 

 

 

NOVELLA CII

 

Uno tavernaio di Settimo, non potendo mettere e appiccare un porco alla caviglia, grida accurr'uomo e fa trarre tutto il paese: giunta la moltitudine, domanda aiuto, ed èlli fatto.

 

Presso a Settimo è un luogo in su la strada che si chiama la Casellina, e sempre v'è stato un tavernaio che ha tagliato carne, e fra l'altre, bonissime vitelle e gran porci. Avvenne per caso che, essendovi un beccaio grassissimo, non è gran tempo, comprò un porco grassissimo, che pesava libbre quattrocento; e una mattina per tempissimo, avendolo morto, abbruciato e concio, volendolo appiccare alla caviglia, e levarlo da terra, per niuno modo il poté fare; e aiuto non avea, se non d'una sua donna, che gli avea aiutato insino allora, e abbruciare e fare, ed era poco prosperosa, e a quello poco gli potea dare aiuto Questo beccaio aspettò ben un'ora che passasse chi che sia, mai non vi passò persona; e se alcuno vi passò, era o femine o fanciulli che niente venía a dire.

Alla per fine, essendo costui trafelato e quasi come disperato di non lo potere appiccare alla caviglia, si rizza in punta di piedi, volgendosi attorno attorno, con le maggior grida che gli uscissono di bocca, gridando: “accurr'uomo, accurr'uomo” per sí fatta maniera che duecento contadini che erano a lavorare per li campi chi con marra e chi con vanga trasse, dicendo: “Che è? che è?” avvisandosi fosse stato un lupo, che usava in quelle contrade, e avea morto assai fanciulli.

Dice il beccaio:

- Come, che è? Ho morto questo porco, ed egli ha presso che morto me, volendolo appiccare alla caviglia, e mai c'è passato chi m'abbia aiutato ben un'ora; e sono tutto trafelato, che mai simile fatica non durai; e però, fratelli miei, aiutatemi a levarlo, sí che io l'appicchi alla caviglia.

E 'l romore si leva tra quelli che erano tratti:

- Deh, tagliato sia tu a pezzi come tu taglierai cotesto porco -; diceano la maggior parte. - Dunque hai tu messo a romore questo paese, per appiccare un porco?

Quelli si scusava:

- Io non ho potuto fare altro; io l'ho fatto per voi, come per me, che l'avete a manicare.

Altri diceano:

- Io fo boto a Dio, che noi ti accuseremo al Podestà, e converrà che tu ci ristori dello scioperio nostro; e anco sarai condannato di mettere a romore questa contrada.

Un'altra brigata, che vi davano poco d'essere stati scioperati, rideano il meglio che poteano, e vannone certi verso lui, e aiutanlo.

Dice il tavernaio:

- Quella di coloro è cattiva discrizione, che dice m'accuseranno: che dovea io fare?

Quelli che erano iti aiutarlo erano giovani, e diceano:

- Tu di' vero, e facesti quello che tu dovevi -; e levoronlo suso, e appiccaronlo alla caviglia.

E 'l tavernaio disse loro pianamente:

- Venite domattina asciolver meco, ché io voglio ch'e' migliacci sien vostri.

Egli accettarono e asciolverono molto bene la domenica mattina; poi il dí ritrovandosi a loro usanze, quelli savi riprendeano molto il tavernaio, dicendo che gli si verrebbe gran punizione. Quelli giovani, che aveano aúti de' migliacci, si volgeano a costoro, dicendo:

- E’ vi par'esser piú savi che Matasalao, e ciascun dice la sua: anzi fece molto bene; che dovea far costui, se non avea aiuto?

Dicono quest'altri:

- Ben foste di quelli che gli aiutasti; cosí spendeste voi l'avanzo del tempo vostro che ci avete a vivere.

E dice un altro:

- Dio il volesse, ché noi c'empiemmo stamane molto bene il corpo di quel porco con buon migliacci.

- Oh, non maraviglia.

- Se voi ve ne fate maraviglia, e voi v'abbiate il danno, che voi non ve ne ugneste il grifo.

E cosí rimase la cosa, che i cittadini che erano attorno per le ville n'ebbono per buon pezzo piacere col beccaio della detta novella, avendolo molto per piacevole, piú assai che non lo tenevono in prima. Ed egli diede sempre poi buona carne a quelli che l'aiutorono, e fece loro miglior mercato ch'agli altri. E però dice: “Servi, e non guardare a cui, e averai de' migliacci”.

 

NOVELLA CIII

 

Uno prete, portando il corpo di Cristo, e passando la Sieve con esso, il fiume cresce, ed elli s'aiuta, e con una bella risposta dice che ha campato il corpo di Cristo a certi che erano in su la riva.

 

Presso a Sieve fu già un prete, il quale avea nome ser Diedato, ed era piacevole e non molto cattolico, il quale avendo a portare il corpo di Cristo a uno infermo, ed essendo stato venuto per lui di là dalla Sieve, e convenendo che il detto prete, andando a comunicare il detto infermo, guadasse l'acqua, disse a quelli che erano venuti per lui:

- Andatevene innanzi, e aspettatemi dalla proda di là dal fiume, sí che io veggia dov'è il passo, e poi ce n'anderemo insieme.

Quelli, come il prete disse, cosí andorono. Andati che furono, il prete trova il corpo di Cristo e 'l cherico con la campanuzza, e mettesi in via, e giunti in su la proda per passare di là, ser Diedato e 'l cherico si mettono a passare. Il cherico avea una mazza e andava innanzi tastando il guado. E come spesso adiviene, che, essendo piovuto nel Mugello, la Sieve cominciò a crescere, quelli che aspettavano il prete su la sponda, gridavano:

- Passate tosto, ché 'l fiume cresce.

Quelli s'affrettano; l'acqua era già alla cintura al prete, e pur si studiava quanto potea, levando in alto le mani, con le quali tenea il corpo di Cristo; e l'acqua pur crescea tanto che gli giugnea al bellico. E nel vero si sarebbe molto meglio il prete difeso, se non che convenía guardasse di salvare con le braccia alte il corpo di Cristo; pure, aiutandosi quanto poteo, a grandissima pena giunse alla proda, là dove erano quelli che l'aspettavono, li quali dissono:

- Ser Diedato, voi avete molto da ringraziare il nostro Signore Jesu Cristo, il quale avete in mano, ché per certo noi vi vedemmo annegato, se non fosse stato il suo aiuto.

Dice ser Diedato:

- In buona fé, se io non avesse aiutato lui altrimenti che elli aiutasse me, noi seremmo affogati ed elli ed io.

Disse uno di quelli:

- E’ non mi dispiace la ragion vostra.

E racconcio che si fu, col cherico insieme con la campanuzza si missono in via, e andarono a comunicare il detto infermo. E questa novella si divulgò per tutto infino a Firenze, e nacquene quistione, piú per diletto che per altro, quale aiutasse l'uno l'altro. E, bontà della nostra fede ch'è molto ampliata, li piú diceano che 'l prete avea condotto ogni cosa a salvamento; essendo assai che allegavano a chi dicesse il contrario:

- Se tu fossi in uno gran pelago e fossi per affogare, qual vorresti innanzi avere addosso, o 'l vangelo di Santo Giovanni, o la zucca da notare?

Udendo questa ultima parte, tutti concorsono che vorrebbono innanzi avere la zucca. E cosí la ragione di ser Diedato fu confermata; e dell'altra, dove tutta la nostra fede de' stare, ne fu fatto beffe.

Quando io penso quanta fede è, via meno ne truovo che io non credo; però che ciascuno va drieto a quelle cose che giovano al corpo, e non all'anima. Il prete bestia volle dire che avea aiutato il nostro Signore, come se avesse gran bisogno dell'aiuto d'uno pretignuolo.

Se lo disse per motti ancora fece gran male. L'altro diede il partito d'una zucca vota al vangelo di Santo Giovanni; e noi siamo ben zucche vote, e nella fine ciascuno se n'ha vedere.

 

 

NOVELLA CIV

 

Messer Ridolfo da Camerino, per avere diletto d'alcuno, dice a Bologna una novella vera, che par miracolo; e per gli altri gli è risposto con altre due novelle, piú vere e incredibili che la sua.

 

Essendo a Bologna messer Ridolfo da Camerino, generale capitano della Lega, che era col Comune di Firenze contro a' Pastori della Chiesa, erano l'ambasciadori del Comune di Firenze, tra' quali fui io scrittore, in quelli tempi che 'l cardinale di Genèva passò di qua co' Brettoni. Ed essendo un dí a casa del detto messer Ridolfo e io e altri, appresso alla piazza de' frati Predicatori di Bologna, e uno morto era portato a sepellire. Veggendo ciò messer Ridolfo, si volge a noi, dicendo:

- Che nuova usanza ho veduto in alcun paese, che quando uno è portato alla fossa, drieto gli vanno una gran brigata, tra' quali molti innanzi vanno in camicia cantando, e poi ne vanno drieto a costoro grandissimo numero d'uomini e di donne piangendo; e questi che piangono, in fine danno denari, e pagono quelli che cantano!

Dice subito uno ambasciadore, che avea un poco del nuovo, e messer Ridolfo se n'era accorto:

- O dove si fa cotesto?

A messer Ridolfo e gli altri vennono le risa grandissime, dicendo:

- Fassi in ogni luogo.

Ancora non lo intese. E io dissi:

- E’ ci è via piú nuova cosa, e non dirò di lunge di strani paesi, che io veggio in Bologna portare il vino nelle ceste e mangiare i cocchiumi delle botti.

Ciascun dice:

- Vogliàn noi fare a chi maggiore la dice?

- Io non so che maggiore: non vedete voi che ora di vendemmia portare il mosto in quelli cestoni? Non vedete voi che mangiano per casa cocchiumi bianchi di botti?

E cosí era. Dice un altro:

- Quando io venni in Bologna, io trovai piú nuova cosa, ch'io mi scontrai in uno, presso di qui due miglia, che avea il capo di ferro e le gambe di legno, e favellava con le spalle.

- O questa è ben piú nuova, - dicon tutti.

Dice costui: - Ell'è piú vera che l'altre.

Dicono elli: - Deh, dicci come, se ti cal di me.

- E io vel voglio dire: io trovai un uomo con una cervelliera in capo ch'andava a cogliere pine nel pineto di Ravenna, e andava a gruccie; e domandandolo se uno famiglio che io avea mandato innanzi, avea veduto, e quelli ristrinse le spalle, dicendo con esse che non l'avea veduto.

Or cosí si raccontarono qui per diletto quelli veri che aveano faccia di menzogna. E ben v'erano de' nuovi uomini, ché v'era tale che avea comprato oche, e turato loro gli orecchi con la bambagia, l'avea messe sotto la lettiera dove dormía nell'albergo di Felice Ammannati, dicendo ch'elle non ingrassavono per lo star molto in ascolto, e non beccavono; e però avea turato loro gli orecchi. Ma io scrittore il posso dire di veduta, ch'ell'avevono appuzzato la camera con tutto l'albergo in forma che gli osti non vi voleano stare; e ben lo seppe Felice Ammannati che con tutto il puzzo ne fece di belle novelle, pigliandone con altrui gran diletto. E’ si conviene molte volte dare inframesse di frasconi, e mostrare di nuove novelle, nate da nuovi uomeni, come erano queste.

E benché nel primo dire paiano frasche e bugie, nell'effetto son pur vere, e la novità degli uomini si truova di molti modi, i quali il piú delle volte sono veri, e non paiono.

 

 

NOVELLA CV

 

 

Essendo amunito messer Valore che muti foggia, mettesi il cappuccio a gote, che mai piú non l'avea portato.

 

Messer Valore de' Buondelmonti, del quale adrieto è assai dimostrato chi fu, usando sue diversità e sue nuove maniere, fu uno dí da' suoi consorti amunito che se non mutasse foggia elli lo metterebbono in luogo che se n'avvedrebbe che l'avessino per male. Messer Valore risponde a costoro:

- Io v'ho inteso, e non vi bisogna piú dire, che siate certi ch'io muterò foggia, poiché voi volete.

Ed e' risposono:

- Fatelo per lo vostro migliore, sí che noi ce n'avveggiamo.

E quelli disse:

- Io lo farò.

E vassene a casa, e chiama “Mamma” (una sua madre che ave' ben novantacinqu'anni, ed egli n'avea settantacinque); e dice quello che gli hanno detto e' suoi consorti e ch'ella gli truovi li suoi cappucci, ch'egli intendea di portare il cappuccio a gote, che sempre l'avea portato a foggia. E trovatone uno largo, la mattina sel mise, e uscí fuori col cappuccio a gote, e andando per Firenze, pensate nuova cosa che parea, ché sempre l'avea portato a foggia. Chi lo vedea, dicea:

- O che è questo, messer Valore? io non vi conoscea; avete voi i gattoni?

- Anzi ho mutato foggia, che m'hanno detto i miei consorti che se io non muto foggia, che mi metteranno in prigione; e però siate mie' testimoni che io l'ho mutata.

E cosí andò per Firenze rispondendo a chiunque il domandava, tanto ch'e' consorti dissono un dí.

- Messer Valore, ancor son questi de' modi?

Onde messer Valore, per disperato, e per levarsi loro dinanzi, se n'andò in contado a Montebuoni, e là facea sue faccende: e fra l'altre un dí facea fare un muro a terra; e arrivando là certi suoi vicini, dicono:

- Che è questo, messer Valore? o voi murate a terra, e riprenderesti tutti gli altri uomini?

Dice messer Valore:

- Egli è meglio tenere a terra che vendere a calcina; e' mi conviene essere buon garzone, ch'e' consorti miei m'hanno minacciato e non vogliono ch'io porti foggia; e quando voi ne vedete alcuno di loro, vi priego dichiate come io sono disposto e come io fo masserizia.

E cosí si partirono, ed egli stette piú tempo in contado, e le sue cose uscirono di mente a' suoi consorti.

Avea presa la forma e avea passato settantacinque anni; impossibile era che mutasse foggia dell'animo: quella del cappuccio fu agievole a mutare. Vecchio di tempo e nuovo di costumi, come che siano differenti, rade volte si parte l'uno dall'altro.

 

 

NOVELLA CVI

 

Una moglie d'uno orafo riprendendo il marito d'avere aúto a far con altra, ed elli riprende lei per simigliante cosa; ed ella risponde che l'ha fatto in utile della casa, e vince la quistione.

 

Nel borgo alla Noce nella città di Firenze fu già uno orafo d'ottone, e avea una sua moglie molto cortese della sua persona, ed elli se n'avvedea in gran parte; ma per lo migliore, e per aver pace, sel tacea. Avvenne caso che questa donna infermò, ed ebbe lunga malattia, per tale che il marito alcuna volta s'era infardato con un'altra trista, e alla donna, o moglie che vogliamo dire, era la detta cosa venuta agli orecchi; di che cominciò ad avere parole col marito, e tra molte parole cominciò a dire:

- Tu hai uno grande pensiero de' fatti miei, che mentre che io sono stata per morire, e tu se' stato or con una trista, or con un'altra.

Dice il marito:

- Oggimai dich'io che tu se' guarita, poiché tu cominci a squittire.

- Che squittire con la mala pasqua! Sí, che io sono coccoveggia. Parevati mill'anni che io morisse; non t'è venuto fatto. So che tu stavi a barba spimacciata, per torti poi una di queste tue triste.

Dice il marito:

- Io son certo che qualche buona panichina t'ha messo nel capo questi imbratti.

- Ben che tu se' imbratto e vituperio con tuo' struffinacci: va' struffinati con essi quanto tu vuogli che a me non t'accosterai tu piú, sozzo can vituperato.

Quando costui ha assai udito, dice a costei:

- Io mi sono assai stato cheto, e per li tempi passati e ora; ma io non mi posso piú tenere. Deh dimmi, buona femina, che ti par esser Santa Verdiana che dava mangiare alle serpi: non credi tu che io sappia chi tu se'? e non ti misuri, e biasimi pur me, e taglimi legne addosso. Se fusse pur quel che tu di', tu hai aúto male cotanto tempo, e teco non ho potuto usare, e per questo se io fosse ito ad altra femina, non sarebbe stato cosí grande avolterio, ma io che sono stato sano già cotanto tempo, e tu hai potuto usare con me come l'altre usano co' loro mariti, e ha' mi fatto fallo, e non credi forse che io lo sappia? ben lo so bene.

Dice la moglie:

- E tu tel sappi, che se io l'ho fatto, l'ho fatto in utile della casa col nostro lavoratore, che ci fa buona misura e dacci le staia colme. Ma tu l'hai fatto in danno della casa, e tu 'l sai che hai messo in culo a queste tue troiacce, e metti ciò che tu puoi.

Dice il marito:

- A me pare che tu sia fatta una trecca baldella; io non sono per perdermi piú il fiato con teco.

Dice quella:

- Io ne son certa che tu lo vuoi ben perdere con l'altre.

Dice il marito:

- Sa' com'è del fatto? fa' come ti piace, che poco impaccio m'ho dato da quinci addietro, e vie meno me ne darò da quinci innanzi. Una cosa ti ricordarò: abbi a mente l'onore tuo e pensa che tu déi morire.

Disse la moglie:

- Pènsavi pur tu, che morrai prima di me.

Disse il marito:

- E cosí sia; tu m'hai ben fracido; io te la do per vinta.

Dice la moglie:

- E tuttavia mi di' villania, sí che io sono quella che t'ho fracido; va' domandane i cessami tuoi, se t'hanno fracido o eglino, o io, ché tu non fosti mai degno d'avermi, che maladetta sia la fortuna, ché mio padre mi potea maritare a Baldo Baldovini che serei stata con lui come gemma in anello; e poi mi diede a una bella gioia.

Dice il marito:

- Io ti dico che io te la do per vinta; lasciami vivere -; e volte le spalle, se n'andò alla bottega e tornossi nel modo suo di prima: che se avesse trovato con lei quello dello staio colmo, facea vista di non vedere.

Ed ella, come buona massaia, sempre s'ingegnò di fare la faccenda in utile della casa, infin ch'ella poteo.

 

 

NOVELLA CVII

 

Volpe degli Altoviti, essendo a tagliere con uno, taglia testicciuole di cavretto, e 'l compagno, mentre che taglia, si mangia l'occhi; il quale, ciò veggendo, gli proffera si mangi anco i suoi.

 

Io ho pur voglia di raccontare una brieve novelletta, e piacevole, la quale col piú bel motto del mondo gittò a mensa uno degli Altoviti chiamato il Volpe. Il quale essendo ad un suo luogo in una villa che si chiama Palazzuolo, presso all'Ancisa a un miglio, gli capitorono di maggio certi Pratesi che andavano verso Arezzo; ed elli per sua cortesia li ritenne la sera a cena e albergo. Ed essendo venuta l'ora della cena, e postosi a tavola, vennono certe testicciuole di cavretto; e 'l Volpe, essendo a tagliere con uno di loro, recasi innanzi una testicciuola e cominciala a partire: e messo un occhio sul tagliere, il Pratese, sanza aspettar altro, subito il piglia e manucaselo. E 'l Volpe pone in sul tagliere l'altro; e come fu in sul tagliere, e quelli fa il somigliante. Quando il Volpe vede questo, pon giuso il coltello, e voltosi verso costui, alzando le mani agli occhi, e sciarpatili, fu tutt'uno, dicendo a questo Pratese:

- Deh, mangiati anco questi per lo mio amore.

Il Pratese conobbe il motto e vergognossi, dicendo che avea il pensiero altrove. Dissono i compagni:

- Per certo tu se' assai piacevole compagnone a tagliere.

E costui disse:

- Volpe mio, io l'ho in boto: che poi che gli occhi d'una giovane m'uccisono, essendo da loro morto, io mi botai sempre mangiare gli occhi, ovunche io gli trovasse, com'uomo che fo una mia vendetta.

Il Volpe udendo questo, levasi e dilungasi da lui su uno deschetto:

- Alle guagnele! se codesto è, quelli che io ti profferea tu non se' per avere; e se mai tu mangerai piú meco, io vorrò il salvocondotto per gli occhi, o tu ti anderai con Dio.

L'amico lasciava pur dire e foderavasi, dando al tagliere il comandamento dello sgombrare, tale che se 'l Volpe avesse posto piú occhi che non furono mai di cera appiccati a Santa Lucia, tutti se gli arebbe mangiati. E cosí si recò la cattività in ischerzo, ridendosi del suo costume. E 'l Volpe poi sel menò una volta a cena, e non gli dié testicciuole né occhi, ma diégli peducci, sí ch'egli apparasse a sonar le sampogne, o di sonare zuffoli diventasse buon maestro. E cosí con piacere e con diletto, e con nuove vivande venne sí digrossando questo Pratese, che era uno grandissimo manicatore, che rado poi volle mangiare col Volpe, assai lo invitasse.

Grande scostume è, stando a un tagliere con un altro, che uno non ha tanta temperanza che si possa un poco aspettare, e non fa la ragione del compagno. A molti n'è stata fatta tanta vergogna che sarebbe meglio che avessono fatto tre dí dieta.

 

 

NOVELLA CVIII

 

Testa da Todi, essendo de' Priori, ha sotto carne arrostita insalata, e uno catello all'olore gli entra sotto, e abbaia, e tanto fa ch'elli la getta, e rimane scornato.

 

Al tempo d'Urbano papa V, era per lo detto papa nella terra di Todi uno suo nipote, ch'avea nome messer Guglielmo, assai cavaliere dabbene, a tener luogotenente per lo detto papa. Era l'officio de' priori nel loro palagio, ed era di loro priore de' priori, al modo loro, e al modo nostro è chiamato il proposto, e avea nome Testa, il quale avea per usanza ogni mattina di bere a buon'ora; e fra l'altre mattine una mattina, perché 'l vino non gli facesse noia, e anco per potere bere meglio, prese una fetta di carne salata, e con uno pane sotto se n'andò alla cucina, e mettendo la detta carne su la bracia, come la si fu un poco riscaldata, e messer Guglielmo giugne, che vuole favellare a' priori, e subito e chiamato il proposto:

- Venite che messer Guglielmo è venuto che vuole favellare a' priori.

Il Testa, ch'era proposto, subito per non perdere quella sua arrosticciana o carbonata che vogliamo dire, mettela in uno pane e cacciasela sotto e giugne in sala, ed entra nell'audienza, trovando i compagni, e chiamando messer Guglielmo.

Avea il detto messer Guglielmo uno catello quasi tra botolo e bracchetto, e mai non si partiva da lui; ed essendo tra lui e tra' priori, sentí l'odore della carne salata, e andava pur col muso fiutando a uno a uno, e poi si fermava al proposto, e piú volte andandogli intorno, ora levandosi ritto, e ora intrandogli sotto il mantello, e alcuna volta ulolava. Alla perfine, non partendosi questo cane, ma stropicciando il proposto attorno attorno, el proposto cava il pane e la carne secca di sotto e gettala al cane e dice:

- E tu te l'abbi al nome del diavolo.

Gli altri priori come grossi diceano:

- E che hai tu dato al cane, proposto?

Ed egli dicea:

- Andate pur dietro a quello che siamo per fare.

Dice messer Guglielmo:

- Guarda, signori, quanto il vostro proposto è amator della chiesa di Roma; che non che sia tenero di monsignor lo papa o di me, che sono suo vicario, ma egli è tenero di uno mio vile cagnucciuolo, al quale vedete che ha dato cosí ben da mangiare in questa mattina.

Tutti i priori parvono montoni, sí stettono cheti, e al proposto parve aver pisciato nel vaglio, tanto che quasi per vergogna ammutolò. E 'l cavaliere detta la sua faccenda si partí, raccontando poi al papa Urbano la piacevole novella del proposto di Todi e del suo cucciolino; della quale il papa e gli altri della sua Corte che 'l seppono, piú tempo, dicendo questa novella, n'ebbono piacere grandissimo.

Ancora s'usano di simili reggimenti che pasciuti e avvinazzati vanno sempre ad ordinare e dare li loro consigli; ed ella sta come la sta, e Italia il sa, che con molte fatiche, di male in peggio va.

 

NOVELLA CIX

 

Uno va podestà, e lascia che la donna abbia guardia d'una botte di vino, sí che la ritrovi. Ella il dà a un suo divoto frate, e 'l marito, tornato d'officio, non se ne ricordò; di che ella pone a' Servi una botte di cera.

 

Presso alla chiesa de' Servi da Firenze fu già un uomo d'assai buona condizione, e avea una sua donna molto bella. Il quale essendo per andar podestà del Borgo a Santo Lorenzo, lasciò e comandò alla moglie che d'una sua botte di finissimo vino vermiglio per alcuna persona non se ne dovesse cavare; ma che gli lo dovesse serbare, sí che alla sua tornata trovasse e la botte e 'l vino nella forma che lasciava. La moglie disse che ciò che dicea, serebbe fatto; il marito andò in signoria, e la moglie rimase a fare la masserizia. Essendo questa donna stata circa due mesi, uno frate suo confessore o devoto, della detta chiesa de' Servi, cominciò ad esser di mala voglia, e la donna vicitandolo alcuna volta, e domandando come stava, ed elli rispondea che stava bene s'elli trovasse uno vino che li piacesse. Disse la donna:

- Io credo che in casa ne sia uno finissimo; ma il mio marito m'ha fatto tale comandamento che io non ardirei di toccarlo.

Udendo il frate questo, grandissima volontà gli venne d'averne, dicendo alla donna:

- Deh, mandatemene una piccola ingastaduzza pur per assaggiare.

La donna disse:

- Per una inghestara sia che vuole, ch'io ve la manderò.

E mandatoli la detta inghestada, al frate gli piacque sí che gli parve gli rimettesse la vita addosso; e raccomandandosi molto a questa donna, di guastada in boccaletto, e di boccaletto in guastada, il frate visitò sí questa botte, che un mese innanzi che 'l detto tornasse dell'officio, il vino ebbe del basso, e 'l frate era guarito e gagliardo.

Dice un dí la donna al frate:

- Oimè trista, come farò che 'l marito mio è per tornare, e la botte che mi raccomandò cotanto è vota?

Dice il frate:

- Buona donna, non ti dare pensiero; raccomandati e botati a questa nostra Annunziata, e lascia fare a lei.

Dice la donna:

- Se la mi fa grazia che 'l mio marito non mi tormenti per questa botte del vino, io gli porrò una botte di cera.

Disse il frate:

- E cosí fa', e vedrai ch'ella t'aiuterà.

Compiuti li sei mesi, el marito tornò di podesteria, e come che s'andasse la cosa, affatappiato o aoppiato che fosse, giammai non si ricordò né di questa botte, né del vino, se non come mai non fosse stato in quella casa. La donna piú volte disse questo al frate, il quale le disse:

- Siate certa ch'Ella non abbandonò mai persona, e ha fatti sempre grandissimi miracoli.

Onde la donna fece fare una botte di cera, e mandolla alla detta Annunziata de' Servi, per aver vota una botte di vino, e per essere tornato il suo marito di podesteria sanza la memoria.

Di questi boti e di simili ogni dí si fanno, li quali son piú tosto una idolatria che fede cristiana. E io scrittore vidi già uno ch'avea perduto una gatta, botarsi, se la ritrovasse, mandarla di cera a nostra Donna d'Orto San Michele, e cosí fece.

O non è questa non mancanza di fede, ma uno gabbamento di Dio e di nostra Donna e di tutti suoi Santi? E’ vuole il cuore e la mente nostra; non va caendo immagini di cera, né queste borie e vanità. Chi si recasse ben la mente al petto, e' vederebbe che molti lacciuoli, con li quali si crede andare in paradiso, le piú volte tirano altrui allo inferno.

 

 

NOVELLA CX

 

Uno gottoso facendo uccidere un porco di Santo Antonio, il porco gli fugge addosso in sul letto, e tutto il pesta, e assanna chi l'ha voluto uccidere, e campa.

 

E’ fu non è ancora molt'anni, uno mio vicino, il quale era tanto perduto di gotte che quasi mai di gran tempo non era possuto uscire del letto; e per questa sua malattia non avea perduto la gola, né alcun dente ancora, ma sempre agognava come potesse menare le mascelle. Avea fatto suo refettoro costui in una camera terrena appresso alla via, donde s'entrava nella sua casa, e ivi molti suoi calonaci s'andavano a stare con lui vicitandolo molto spesso, però che mai altro che mangiare e bere non si facea nel detto luogo. Avvenne per caso che due porci di Santo Antonio, bellissimi, quasi ogni dí entravono dalla porta da via, e poi subitamente entravono nella detta camera. Un giorno fra gli altri, essendo entrati questi porci nella detta camera, dice il gottoso a uno suo mazzamortone contadino:

- Che recadía è questa di questi porci? voglianne noi uccidere uno?

Risponde quelli:

- Purché voi vogliate.

Dice alcun che v'era:

- Oimè non ischerzate con Santo Antonio.

Dice il gottoso:

- Se' tu di questi sciocchi ancora tu che credi che Santo Antonio abbia a insalare carne? per cui? per la sua famiglia? tu sa' bene che colassú non si bee e non si mangia, ma questi suoi gaglioffi col T nel petto, sono quelli che divorano e dannoci a credere queste frasche; tutto il peccato si sia mio; lasciate fare a me.

E dice al fante:

- Troverrai una scure e appoggera'la in cotesto canto, e lascerai poscia governare a me questo fatto.

E cosí fu messo in ordine.

L'altra mattina, non essendovi altri ch'elli nel letto attratto, come ho detto, e questo suo fante, ed ecco li porci, ed entrono nella camera. Dice il gottoso al fante:

- Serra l'uscio e fornisci.

Quelli era un bastracone che averebbe gittato in terra una casa. Piglia la scure e mena, e dà con essa al porco nel capo; e non gli dié di sodo, ché la scure schianci; e 'l porco fedito, gittando molto sangue, gettasi sul letto, e l'altro dietrogli, e volgonsi verso il fante, facendo gran romore. Il gottoso che avea i porci addosso, comincia a gridare. Il fante il vuole soccorrere; sale sulla cassa, per cacciare li porci; e' porci, com'è di loro usanza, co' visi volti al fante gli si faceano incontro e continuo ammaccavano il gottoso; e 'l gottoso gridava; e' porci, quando il sentivano, grufolavano verso il suo viso, uscendo tuttavia il sangue, che parea una doccia. Il fante combattea di su la cassa, e non potendoli per alcun modo cacciare, sale sul letto, e su questo salire, pose i piedi su' piè del gottoso; il quale comincia a gridare:

- Accurr'uomo, ch'io son morto, - e avea il viso tutto sanguinoso.

E 'l fante come fu sul letto, e un porco l'assannò per la gamba, e comincia a gridare anco elli; e cosí in questa baruffa, pigiando i porci il gottoso, gridando il gottoso, che avea ben di che, lamentandosi il fante, e stridendo i porci, la famiglia del capitano passando per la via sente questo romore, corre dentro: - Avrí za -; e caccia in terra l'uscio della camera ch'era serrato, ed entrando dentro il cavaliere vede il gottoso col viso tutto insanguinato, vede il fante sul letto tra' porci fedito, e vede fedito un porco su la testa.

- Che vuol dir questo? - con le spade e co' berrovieri, facendosi contro a' porci, percotendoli; e' porci difendendosi, ma non potendo piú, facendosi adrieto, caddono tra la lettiera e 'l muro, ed eranvi sí stivati che uscire non ne poteano; e per questo faceano si grande le strida, e 'l gottoso i mugli, e 'l fante i dolori, e la famiglia il romore, per sí fatto modo che parea l'inferno; e tutto il mondo era tratto e traea; e ancora non avea potuto il cavaliere sapere quello che questo fosse.

Alla perfine il gottoso che appena potea favellare, e perché favellasse, per lo romore de' porci non era udito, dice:

- Oimè, io sono morto, io sono tutto lacero; volendo fare cacciare fuori questi porci, e' ci si rivolsono addosso, e hannomi concio come voi vedete.

E’ porci tuttavia stridivano.

Udito ciò il cavaliere, va col bastone verso i porci, dicendo:

- Nella mal'ora, doveteci uccidere gli uomeni? - e dà loro del bastone.

Egli erano in soppressa, e perché avessono voluto, non ne potevano uscire. Essendo il cavaliere quasi stracco, e udendo la cagione, disse alla famiglia:

- Jamoci -; e cosí si partí.

Rimasa cosí la cosa, li porci non si poterono mai trarre di quel luogo che convenne che 'l gottoso fosse portato altrove, e convenne si disfacesse la lettiera; e con questo erano sí accanati e accesi che fu gran pena a poterli cacciar fuori. E cosí terminò questa caccia che 'l gottoso ne venne presso a morte, essendo le carne sue tutte peste; sopra le gotte ebbe male sopra male, non potendo guarire in parecchi mesi delle pedate e percosse de' porci. Il fante fu per perderne la gamba. Santo Antonio fece questo miracolo, e però dice: “Scherza co' fanti e lascia stare i santi”.

 

 

NOVELLA CXI

 

Frate Stefano, dicendo che con l'ortica farà levare la figliuola della comare, che piú non dorma, ha a fare di lei; e la fanciulla gridando, e la madre dice che faccia forte, sí ch'ella si levi, credendo che faccia con l'ortica; poi in fine lo conobbe per falso compare e piú non volle sua domestichezza.

 

Nella Marca in uno castello che si chiama San Mattia in Casciano, officiava in una chiesa un frate che avea nome frate Stefano; il quale presso alla chiesa avea per vicino una sua comare e costei avea una bella figliuola d'etade di quattordici anni o quindici. Ed essendo nel tempo della state che comunemente alli giovani piace il dormire, dormendo questa fanciulla che avea nome Giovanna, e chiamandola la madre che si levasse, ed ella rispondea che si levava; e chiamando molte volte: “Giovanna, levati”; ed ella dicendo: “Io mi levo”; e non levandosi; lo detto frate Stefano, udendo tanto chiamare, ed essendo nella chiesa, subito si trae le brache, e lasciale in un canto; e colse, che ve n'avea presso, parecchi gambi d'ortica, ed esce fuori della chiesa, e va verso la sua comare, dicendo:

- Comare mia, vuo' tu che io la vadia a orticheggiare, sí ch'ella si lievi?

La madre disse:

- Io ve ne prego - : avvisandosi che questo suo compare e parrocchiano fosse cattolico, come dovea essere.

Giunse frate Stefano al letto, dov'era la detta Giovanna, e scoprendo li panni del letto montò addosso alla detta Giovanna pigliando e piacere e diletto, ma non sanza fatica, però che la detta fanciulla piangea e gridava. La madre sentendola, dicea:

- Orticheggiala, orticheggiala, frate Stefano.

E lo detto frate Stefano dicea:

- Lascia fare a me -; e diceva frate Stefano: - E levera'tici, cattiva.

E la madre dicea pure:

- Orticheggiala, orticheggiala, sí che si lievi.

E finalmente avendola orticheggiata per questa maniera, e adempiute le sue lascive volontati, ritornò verso la comare con l'ortica in mano; ritornando alla chiesa, dice alla comare:

- Ognora ch'ella non si lieva, chiama pur me, vedrai come io la orticheggerò.

Partito lo frate, la Giovanna si levò piangendo, e vanne verso la madre; la qual disse:

- Hatti bene orticheggiata?

La Giovanna disse:

- Altro ci ha che ortica; andate a veder lo letto.

E la madre l'andò a vedere, e vide li segni che frate Stefano l'avea tradita e vituperata; e cominciò a dire:

- Compare falso, tu m'hai ingannata; ma per la morte di Dio te ne pagherò.

Quel dí medesimo frate Stefano ebbe sí poca faccia che domandò la comare se la sua figliuola s'era levata. Ed ella rispose:

- Vanne, compare falso, che per la passion di Dio non ce ne beccherai mai piú - : e non gli entrò mai piú in casa.

Non è adunque maraviglia se le piú non vogliono presso frati o preti, da poi che cosí sfrenatamente assaliscono le femine. Un altro, e io scrittore sono di quelli, che facendo prima mille madriali e ballate, non acquisteremo un saluto; e costui, venutoli il pensiero, calate le vele e lasciate in guardia a quelli Santi dipinti della chiesa, n'andò, come uno indomito toro, a congiungersi con una fanciulla.

E perciò ha provveduto bene la città di Vinegia, che poiché altri non si può vendicare sopra lor mogli o figliuole, che a ciascuno sia lecito sanza pena fedire i cherici di qualunque fedite non muoiano ellino, ed ènne pena soldi cinquanta; e chi è stato là, l'ha potuto vedere; ché pochi preti vi sono che non abbiano di gran catenacci per lo volto. E di questo freno è infrenata la loro trascurata e dissoluta baldanza.

 

 

NOVELLA CXII

 

Essendo Salvestro Brunelleschi a ragionamento con certi, come l'avere a fare con le mogli era dannoso; e Franco Sacchetti dicendo che di ciò ingrassava; la moglie del detto Salvestro udendo ciò da una finestra, fa ciò ch'ella puote la notte perché 'l suo marito ingrassi.

 

Non è ancora dieci anni che Salvestro Brunelleschi, molto piacevolissimo uomo, diede cena a una brigata, tra la quale mi trovai io scrittore. E avendo il detto comperato una filza di salsiccioni per metterne su ogni tagliere uno lesso, avendogli fatti lessare, gli misse a freddare su una finestra. Quando la brigata fu a tavola, vennono su' taglieri capponi lessi; dicendo Salvestro:

- Signori, io mi vi scuso che vi avevo a dar salsicciuoli che erano su una finestra a freddare; non ve gli ho trovati; non so se gatta o altri gli avesse tolti.

Dico io:

- Per certo serà stato uno nibbio che io vidi testè per aria con una filza che portava; e' siano stati dessi.

E cosí fu; che per maggior prova piú di sei mesi continuò ogni dí a quell'ora venire verso la detta finestra, avvisandosi ogni dí fosse pola.

Ora avendo cenato, e usciti fuori, avendo il detto Salvestro una sua donna piacevolissima com'egli, ed era Friolana, stando quella sera alla finestra; e su una panca appiè della sua casa essendovi molti vicini, com'è d'usanza, ed eranvi de' ben satolli, e io scrittore mi trovai tra quelli; vi si cominciò a ragionare dell'usar con le mogli, e la proposta fu: quanto l'uomo rimanea vinto per quella faccenda. Dice Salvestro:

- Quando io ho aúto a fare della donna, mi par essere nell'altro mondo, sí rimango vinto.

Dice un altro:

- A me comincia andare la cappellina in su l'occhio manco.

Dice un altro:

- A me intervien peggio, ché quando io mi voglio trovare con la donna mia, la cappellina si rimane sul capezzale.

Dice uno, che ha nome Cambio Arrighi; avea settant'anni:

- Io non so che voi vi dite; quando io sono stato una volta con la mia per quello affare, e' mi par esser piú leggiero che una penna.

Dice Salvestro:

- Sta' con lei due volte, e volerai.

Io udendo costoro, dico:

- Io ho gran vantaggio da voi, che l'usar con la donna mia mi tiene grasso e gagliardo; quanto piú uso con lei, piú ingrasso.

La donna Friolana ci era sopra capo a una finestra, com'ho detto, e ogni cosa notava. E uno maestro Conco, il quale era di barattiere divenuto pollaiuolo, e di pollaiuolo era diventato medico, che era vago delle femine come i fanciulli delle palmate, dice:

- O sciocchi, sciocchi, e' non è piú inferma cosa a' vostri corpi, e da cacciarvi piú tosto sotterra, che quello di che voi dite.

Venne la notte, e partí questo ragionamento, e ciascuno s'andò a casa. Salvestro andatosi a letto con la sua donna che ogni cosa aveva udita, la donna gli s'accosta allato e dice:

- Salvestro, ora m'avveggio perché tu se' cosí magro; e ben veggio che Franco ha detto istasera il vero di quello che voi ragionavate.

Dice Salvestro: - Di che?

Dice quella:

- O tu ti mostri delle cento miglia; ciascuno degli altri dicea che l'usar con le loro mogli gli cacciava sotterra, e Franco disse che ne ingrassava; e però se tu se' magro, egli è stato tuo difetto; io intendo che tu ingrassi -; e tanto fece, che convenne che Salvestro piú volte si sforzasse se potea ingrassare.

Venuta la mattina, e io mi stava su la panca da via, e Salvestro scendendo la scala, uscendo fuori, e io salutandolo gli do il buon dí. E quelli risponde:

- Cotesto non dich'io a te, ma piú tosto ho voglia di dire che Dio ti dia cento milia malanni.

E io dico:

- Perché?

E quelli dice:

- Come perché? tu stai la sera a dire che l'usare con la tua donna t'ingrassa, e la donna mia t'udí; ella mi giunse istanotte, dicendo: “Or veggio perché tu se' magro; alla croce di Dio, e' conviene che tu ingrassi”; e hammi fatto, per le tue parole, far quelle cose, che Dio sa come sono sofficiente a ciò.

Continuo era la donna alla finestra, e con grandissime risa dicea ch'ella intendea d'ingrassare Salvestro, com'era ingrassato io: “e quel maestro di firusica del Conco, che disse sí e sí, che Dio gli dia il malanno, che sta con la bottega piena d'orci invetriati e di torni da balestra, e tiravi su le gambe attratte, e' andò pur l'altro dí a Peretola a tagliare uno gavocciolo tra la coscia e 'l corpo; gli trasse il granello, e morissene, che arso sia elli, com'egli è degno; sta a dire che noi cacciamo sotterra i mariti; e' gli si vorrebbe ben fare quello che merita; lasci stare le mogli, con la mala ventura, ché egli non può parlare di quello che non prova; tanto s'intende di questo, quanto della medicina; ché bene è tristo chi alle mani gli viene”. E poi voltasi verso me disse:

- E’ par bene che Franco conosca quanto il maestro Conco: e' non vi fu niuno che dicesse il vero, altri ch'elli. E tu, Salvestro, ne potrai bene scoppiare, che giugni fuori e non lo saluti, per quello che disse; che converrà, o vuogli tu, o no, che io m'ingegni d'ingrassarti.

Or cosí, per le mie parole, fu condotto il detto Salvestro che spesse volte convenía che vegliasse, che volentieri averebbe dormito; e la donna lo studiava, e quanto piú lo studiava, piú dimagrava; tanto che la donna gli dicea spesse volte:

- Per certo, Salvestro, tu se' di cattiva razza; quando io credo che tu ingrassi, e tu dimagheri; averesti tu la pipita?

- Gnaffe sí ch'io l'ho; ma né mica l'hai tu, tanto becchi volentieri.

Quando ebbono avuto in su questo un pezzo di piacere, ne feciono pace, e tornoronsi in sul dormire, e in sul russare, standosi pianamente, come la natura richiedea.

 

 

 

 

NOVELLA CXIII

 

 

Al proposto di San Miniato un venerdí santo da uno della brigata delli scopatori, con la bocca, è tolta l'offerta che avea su l'altare.

 

In San Miniato al Tedesco, che oggi si chiama fiorentino, fu un proposto ricco, come ancora oggi si vede la rendita di quello propostato, ma era tanto avaro che Mida non fu il terzo. Avvenne per caso che uno venerdí santo andandosi a visitar le chiese, e offerere su gli altari ogni maniera di gente, e oltre a questo molte compagnie e regole di battuti, col Crocifisso innanzi; avvicinandosi su la nona, il proposto s'accostò all'altare per vedere come fosse fornito; e vedutovi suso assai danari, gli cominciò a raccogliere per riporli però che mezzo dí era passato, sperando non dovervi venire piú a dare offerta alcuna gente. E raccolti i detti danari su uno monticello in su l'altare, e aprendo la tasca per mettervegli entro, ed ecco giugnere una compagnia di battuti, per inginocchiarsi all'altare e offerere: come vede costoro, levasi dall'altare, e lasciavi li denari; e 'l cherico da parte; pensando che quando elli vedessino tanti danari, maggiore divozione gittasse al suo maggiore altare; e partissi, e uscío per alquanto fuori della chiesa. Quando gli scopatori ebbono dinanzi a quello altare orato inginocchione quanto vollono, vanno a baciar l'altare, e cosí giugnendo all'altare, uno di loro gittato gli occhi a quel monticello de' dinari, mandato un poco la visiera dell'elmo, facendo vista di baciare l'altare, pose la bocca aperta su' detti danari, e quanti con la bocca ne poteo pigliare, tanti ne pigliò; e data la volta, seguendo gli altri, s'uscío fuori. Stando alquanto, il proposto torna per ricogliere, e credendo ch'e' denari fosseno cresciuti, gli trova scemati per sí fatto modo che sanza riguardare o come, o che, dice al cherico:

- Ove sono questi denari?

Dice il cherico:

- E’ sono come voi gli lasciasti.

- Come sono, com'io gli lasciai? - dice il proposto. Piglia costui, e dagliene per uno pasto.

Il cherico si scusò assai, ma niente gli valse, e 'l proposto stette di ciò gonfiato e tristo un buon tempo, non potendo mai sapere che viaggio avessono fatto detti denari; e colui che se n'empié la bocca, con alcuno compagno fece che si convertirono in capponi; e per l'anima del proposto feciono tra loro una bella piatanza; ed elli con l'avanzo che v'erano rimasi si stette misero e tapino.

 

 

NOVELLA CXIV

 

Dante Allighieri fa conoscente uno fabbro e uno asinaio del loro errore, perché con nuovi volgari cantavano il libro suo.

 

Lo eccellentissimo poeta volgare, la cui fama in perpetuo non verrà meno, Dante Allighieri fiorentino, era vicino in Firenze alla famiglia degli Adimari; ed essendo apparito caso che un giovane cavaliere di quella famiglia, per non so che delitto, era impacciato, e per esser condennato per ordine di justizia da uno esecutore, il quale parea avere amistà col detto Dante, fu dal detto cavaliere pregato che pregasse l'esecutore che gli fosse raccomandato. Dante disse che 'l farebbe volentieri. Quando ebbe desinato, esce di casa, e avviasi per andare a fare la faccenda, e passando per porta San Piero, battendo ferro uno fabbro su la 'ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare, e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando, che parea a Dante ricever di quello grandissima ingiuria. Non dice altro, se non che s'accosta alla bottega del fabbro, là dove avea di molti ferri con che facea l'arte; piglia Dante il martello e gettalo per la via, piglia le tanaglie e getta per la via, piglia le bilance e getta per la via, e cosí gittò molti ferramenti. Il fabbro, voltosi con uno atto bestiale, dice:

- Che diavol fate voi? sete voi impazzato?

Dice Dante:

- O tu che fai?

- Fo l'arte mia, - dice il fabbro, - e voi guastate le mie masserizie, gittandole per la via.

Dice Dante:

- Se tu non vuogli che io guasti le cose tue, non guastare le mie.

Disse il fabbro:

- O che vi guast'io?

Disse Dante:

- Tu canti il libro e non lo di' com'io lo feci; io non ho altr'arte, e tu me la guasti.

Il fabbro gonfiato, non sapendo rispondere, raccoglie le cose e torna al suo lavoro; e se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancelotto e lasciò stare il Dante; e Dante n'andò all'esecutore, com'era inviato. E giugnendo all'esecutore, e considerando che 'l cavaliere degli Adimari che l'avea pregato, era un giovane altiero e poco grazioso quando andava per la città, e spezialmente a cavallo, che andava sí con le gambe aperte che tenea la via, se non era molto larga, che chi passava convenía gli forbisse le punte delle scarpette; e a Dante che tutto vedea, sempre gli erano dispiaciuti cosí fatti portamenti; dice Dante allo esecutore.

- Voi avete dinanzi alla vostra Corte il tale cavaliere per lo tale delitto; io ve lo raccomando, come che egli tiene modi sí fatti che meriterebbe maggior pena; e io mi credo che usurpar quello del Comune è grandissimo delitto.

Dante non lo disse a sordo; però che l'esecutore domandò che cosa era quella del Comune che usurpava. Dante rispose:

- Quando cavalca per la città, e' va sí con le gambe aperte a cavallo, che chi lo scontra conviene che si torni adrieto, e non puote andare a suo viaggio.

Disse l'esecutore:

- E parciti questo una beffa? egli è maggior delitto che l'altro.

Disse Dante:

- Or ecco, io sono suo vicino, io ve lo raccomando.

E tornasi a casa, là dove dal cavaliere fu domandato come il fatto stava.

Dante disse:

- E’ m'ha risposto bene.

Stando alcun dí, il cavaliere è richiesto che si vada a scusare dell'inquisizioni. Egli comparisce, ed essendogli letta la prima, e 'l giudice gli fa leggere la seconda del suo cavalcare cosí largamente. Il cavaliere, sentendosi raddoppiare le pene, dice fra sé stesso: “Ben ho guadagnato, che dove per la venuta di Dante credea esser prosciolto, e io sarò condennato doppiamente”.

Scusato, accusato, che si fu, tornasi a casa, e trovando Dante, dice:

- In buona fé, tu m'hai ben servito, che l'esecutore mi volea condennare d'una cosa, innanzi che tu v'andassi; dappoi che tu v'andasti, mi vuole condennare di due -; e molto adirato verso Dante disse: - Se mi condannerà, io sono sofficiente a pagare, e quando che sia ne meriterò chi me n'è cagione.

Disse Dante:

- Io vi ho raccomandato tanto, che se fuste mio figliuolo piú non si potrebbe fare; se lo esecutore facesse altro, io non ne sono cagione.

Il cavaliere, crollando la testa, s'andò a casa. Da ivi a pochi dí fu condennato in lire mille per lo primo delitto, e in altre mille per lo cavalcare largo; onde mai non lo poté sgozzare né egli, né tutta la casa degli Adimari.

E per questo, essendo la principal cagione, da ivi a poco tempo fu per Bianco cacciato di Firenze, e poi morí in esilio, non sanza vergogna del suo Comune, nella città di Ravenna.

 

 

NOVELLA CXV

 

Dante Allighieri, sentendo uno asinaio cantare il libro suo, e dire: arri; il percosse dicendo: cotesto non vi miss'io; e lo rimanente come dice la novella.

 

Ancora questa novella passata mi pigne a doverne dire un'altra del detto poeta, la quale è breve, ed è bella. Andandosi un dí il detto Dante per suo diporto in alcuna parte per la città di Firenze, e portando la gorgiera e la bracciaiuola, come allora si facea per usanza, scontrò uno asinaio, il quale avea certe some di spazzatura innanzi; il quale asinaio andava drieto agli asini, cantando il libro di Dante, e quando avea cantato un pezzo, toccava l'asino, e diceva:

- Arri.

Scontrandosi Dante in costui, con la bracciaiuola li diede una grande batacchiata su le spalle, dicendo:

- Cotesto arri  non vi miss'io.

Colui non sapea né chi si fosse Dante, né per quello che gli desse; se non che tocca gli asini forte, e pur:

- Arri, arri.

Quando fu un poco dilungato, si volge a Dante, cavandoli la lingua, e facendoli con la mano la fica, dicendo:

- Togli.

Dante veduto costui, dice:

- Io non ti darei una delle mie per cento delle tue.

O dolci parole piene di filosofia! che sono molti che sarebbono corsi dietro all'asinaio, e gridando e nabissando ancora tali che averebbono gittate le pietre; e 'l savio poeta confuse l'asinaio, avendo commendazione da qualunche intorno l'avea udito, con cosí savia parola, la quale gittò contro a un sí vile uomo come fu quell'asinaio.

 

 

NOVELLA CXVI

 

 

Prete Juccio della Marca è accusato allo Inquisitore per le sue cose lascivie, ed essendo dinanzi a lui, gli dà di piglio a' granelli in forma che mai non li lasciò, che lo prosciolse.

 

E’ mi conviene pur tornare nella Marca, però che di piacevoli uomeni sempre è stata piena. Fu nella terra di Montecchio già un prete, il quale avea nome prete Juccio, il quale era cattivo in ogni crimine di lussuria; e per questo, purch'egli avesse possuto contentare le sue volontà, ogni affezione vi mettea, come se nel Vangelo per la bocca di Cristo gli fosse comandato; e sempre avea per usanza d'andare sanza panni di gamba. Avvenne per caso che, arrivando nella detta terra uno Inquisitore dell'ordine di Santo Francesco, questo prete Juccio li fu accusato de' suoi cattivi costumi; e fra l'altre cose, fu detto allo Inquisitore che elli non portava panni di gamba:

- E questo, venendo a voi, il potrete fare vedere, e seretene certo; e secondo li vostri decreti senza brache non si puote cantar messa, ed elli la canta tutto dí.

Udito l'Inquisitore gli accusatori, fece richiedere prete Juccio, il quale di presente comparí. Come lo Inquisitore il vide, disse:

- Fatti in cià ad escusarti d'una inquisizione.

E quelli accostasi a lui. Dice l'Inquisitore:

- Èmmi detto che ci vai sanza brache.

Dice prete Juccio:

- Signor mio, egli è vero, che per questi caldi non le posso portare.

Dice lo Inquisitore:

- Anzi ci vai senz'esse, per esser piú presto alli stimoli della lussuria.

- Come che sia, io sono a' vostri comandamenti.

Dice lo Inquisitore:

- Se' tu prete Juccio, il quale fai tante cattivanze?

E quelli rispose:

- Non fe' mai niuna cattività.

E detto questo, dà di piglio alli testicoli con l'altre appartinenze dello Inquisitore, e dice:

- Perché tenete voi questo pascipeco? questo è quello che va facendo le cattivanze, e contra li comandamenti di Dio -; e tirando quanto potea, dicendo: - Mai non ti lascerò il tuo pascipeco, se tu non mi prosciogli d'ogni cosa che lo mio pascipeco ha fatto.

E tanto tirò che lo Inquisitore per forza l'assolveo della formata inquisizione. E partendosi il detto Inquisitore, prete Juccio ringraziò il pascipeco dello Inquisitore, lo quale l'avea assoluto de' suoi peccati, dicendo quel verso delle letane: Propitius esto, parce nobis domine . E cosí per nuovo modo fu deliberato prete Juccio; e l'Inquisitore se n'andò con la borsa e col pascipeco molto ristretto e forte indolinzito, in forma ch'andando a cavallo, dalla sella era molestato piú che non averebbe voluto.

E cosí questi cherici marchigiani, andando sbracati, sono sí fieri, che ogni persona fanno venire a ubbidienza, se non s'abbattessino a messer Dolcibene, che gli sapea capponare.

 

 

NOVELLA CXVII

 

Messer Dolcibene, essendo nella città di Padova, e non volendo il Signore che si partisse, con una nuova e sottile astuzia al suo dispetto si parte.

 

Nella città di Padova con messer Francesco vecchio da Carrara si trovò messer Dolcibene, il quale a drieto in piú novelle è stato raccontato, a una sua festa; ed essendo stato piú dí, e avendo aúto quella utilità che gli uomeni di corte, che traggono a' signori, possono avere, e piú nulla sperando, pensò di voler mutare asgiere e di partirsi, chiedendo commiato al signore. Il signore, veggendo che costui si volea partire, perché non vedea da potere piú trarre a sé, non lo licenziò; ed elli pur ritornando a domandar licenza, però che non avendo il bullettino non potea uscire di Padova, il signore ordinò con quelli delle bullette gli facessino il bullettino, e a quelli delle porte avea ordinato non lo lasciassono andare, se elli medesimo, o suo famiglio, non dicesse loro. Messer Dolcibene, andando e' co' bullettini e con licenza, pervenuto alla porta per uscir fuori, niuna cosa gli valea. Ritornando in fine al signore e dicendogli: - Al nome del diavolo, non mi straziar piú, lasciamene andare -; dice il signore:

- Va', per me non ti tengo; e acciò che tu 'l creda bene, tu vedrai testeso la prova.

E chiamò messer Ugolino Scovrigni, e disse:

- Sali a cavallo, e va' con Dolcibene, e di' a' portinari lo lascino andare.

A messer Dolcibene parve esser licenziato da dovero, e muovesi col detto messer Ugolino; e come furono alla porta, dice messer Ugolino:

- Lasciate andare messer Dolcibene, e io ve lo dico per bocca del signore.

Dissono i portinari:

- Se il signore il dicesse qui in persona, noi non siamo per lasciarlo andare.

Messer Ugolino strigne le spalle, e tornasi con messer Dolcibene al signore, e dice quello ch'e' portinari hanno detto. E 'l signore mostra di adirarsi, e dice:

- Dunque m'hanno i miei servi per cosí dappoco? per lo corpo e per lo sangue, che io scavezzerò loro le braccia su la colla.

Messer Dolcibene, che s'avvedea, dice al signore:

- Deh, non facciamo tanti atti; tu fai fare tutto questo, e fa' lo per istraziarmi; ma quando io mel porrò in cuore, io me n'andrò a tuo dispetto.

Disse il signore:

- Se tu puo' far cotesto, o che vieni per licenzia e per bullette? vattene ogni ora segnato e benedetto.

Disse messer Dolcibene:

- Vuo' tu, s'io posso?

Disse il signore:

- Sí sí, va' pur via.

E messer Dolcibene si parte, e vassene a uno luogo s'uccideano li castroni e' porci; e toglie uno coltellaccio, e tutto quanto l'avviluppò nel sangue, e sale a cavallo, e portalo alla scoperta in alto, mostrando che con esso avesse fatto omicidio; e dà degli sproni, correndo verso la porta. La gente gridava: “Che è, che è?” E chi dicea: “Piglia”; e chi: “Pigliate”; e messer Dolcibene gridava:

- Oimè lasciatemi andare, ch'io ho morto il todesco Casalino.

Come la gente udiva questo, chi a man giunte gli priega drieto, e chi in un modo, e chi in un altro, dicendo:

- Dio ti dia grazia che tu scampi e che tu vada salvo.

Giugnendo alla porta, i portinari si fanno incontro per pigliarlo e con le spade e con lance, e averebbonlo fatto; ma come udirono lui dire avere morto il tedesco Casalino, le lance e le spade di piatto si menavono, e davano maggiori colpi che poteano su la groppa al cavallo, gridando: “Piglia, piglia”; ogni cosa feciono, perché fuggisse bene; e cosí, uscendo fuori della porta a sproni battuti, s'andò con Dio.

E acciò che questa novella sia meglio gustata, questo tedesco Casciolino fu il piú sgraziato padovano che mai fosse in Padova, e non era niuno, non che bene gli volesse, ma che non bramasse a lui venire ogni male. Era ricchissimo, e per questa disgrazia si partí di Padova con ciò ch'egli avea, e vennesene a Firenze, e comperò casa, e puosesi su la piazza di Santa Croce; e comperò il bel luogo da Rusciano, il quale è oggi di messer Antonio degli Alberti. E come in Padova non avea grazia in persona, in Firenze n'ebbe vie meno, e ivi si morí. Il signore di Padova, sentendo in che maniera messer Dolcibene se n'era andato, pensi ciascuno che piacer ne prese, non ch'elli, ma tutta Padova. E 'l tedesco Casalino era guardato da ciascuno con gran risa; ed elli n'aombrò di questa novella per sí fatta maniera che quasi ne parea fatto piú tristo che prima. Messer Dolcibene, uscito di Padova, se n'andò ricercando i signori di Lombardia, e con questa novella guadagnò di molte robe, e ritornossi a Firenze con esse. E ritrovandosi fra' rigattieri, poiché con esse ebbe fatto un pezzo la mostra, le recò a contanti; e poi se n'andò a un suo luogo a Leccio in Valdimarina, e con quelli danari fece fare di be' lavori.

 

 

NOVELLA CXVIII

 

Il piovano da Giogoli ingannato da un suo fante, il quale con una gran piacevolezza li fichi buoni per sé mangiava, e' cattivi portava al piovano; dopo non molti dí veduto il fatto, n'ebbono gran sollazzo.

 

Alla pieve a Giogoli, presso a Firenze, poco tempo fa, fu un piovano, che avea un suo fante, il quale quasi ogni cosa a lui opportuna facea, insino al cuocere. Essendo di settembre, e avendo in un suo orto un bel fico castagnuolo, e avea molti belli fichi; una mattina dice il piovano al detto fante:

- Va' togli quel canestro, e va' al tale fico, ch'io vi gli vidi molto belli ieri, e recamene.

Il fante tolse il canestro e andò al detto fico, e salendovi suso, veggendoli molto belli, e assai di quelli pengiglianti, che aveano la lagrima, si mettea in bocca, che parea ch'egli avesse a fare una sua vendetta; e quando cogliea, per suo mangiare, uno di quelli cosí fatti fichi che aveano la lagrima, dicea:

- Non pianger no, che non ti mangerà messere -; e mandava giú; e se mille fichi avesse mangiato con quella lagrima, a ciascun dicea: - Non pianger no, non ti mangerà messere -; e manicavaselo elli.

Nel canestro mettea fichi tortoni, o con la bocca aperta, che appena gli averebbono mangiati i porci; e portali al piovano; il quale veggendoli, dice:

- Son questi fichi del fico ch'io ti dissi?

Disse il fante:

- Messer sí.

E piú mattine il piovano mandò il detto fante, e mai non poté avere un buon fico. Una mattina fra l'altre, avendolo mandato il piovano per li detti fichi, dice a un suo cherico:

- Deh, va' sotto la tale pergola, e guarda che 'l fante non ti veggia, e vedi di qual fichi mi reca, e quello che fa; che per certo altro che Dio non può fare che costui mi rechi de' fichi di quel fico.

E 'l cherico va sotto la pergola e sta in guato, accostandosi piú al fico, dove il fante era, che potea. Essendovi su il fante, ebbe veduto troppo bene che, cogliendo quelli piú belli fichi, che piagnevano dell'inganno del loro signore, il fante, sanza partirli, se gli mangiava, dicendo a ciascuno:

- Non pianger no, non ti manicherà messere.

Quando il cherico ha veduto e udito il fatto, catalone catalone, se ne va e torna al piovano, e dice:

- Messere, e' ci è la piú bella novella che voi udiste mai; il vostro buon garzone va troppo bene al fico, dove voi il mandate, e quelli belli che voi vorreste e che al becco hanno la lagrima, tutti gli manuca per sé; ed ècci peggio delle beffe che fa di voi: ché ciascuno che gli viene alle mani di quegli, dice: “Non pianger no, non ti mangerà messere”; e manucaseli tutti a questo modo.

Dice il piovano:

- Per certo questa è ben bella novella; ben dicea io, questo non poter mai essere -; e aspetta che lo amico torni co' fichi, ed eccolo tornare.

Il piovano scuopre il canestro, e non truova se non fichi duri e a bocca aperta. Volgesi al fante:

- Deh morto sie tu a ghiado; quanto io ho assai sofferto! che fichi son questi che tu m'hai recato parecchi mattine?

Quelli risponde:

- Messere, son di quel fico che voi mi mandaste

Dice il piovano:

- E tu di' vero, ma di quelli del lamento della Maddalena non me ne tocca niuno a me.

Dice il fante:

- Che hanno a fare i fichi con la Maddalena?

- Ben lo sai tu, - dice il piovano, - come tu hai consolato quelli che aveano la lagrima, che se' stato sí pietoso del piagnere che faceano che tu gli hai tutti divorati.

Il fante si difendea; ma pur sentendo dire il piovano, con la testimonianza del cherico, ebbe per certo il guato essere scoperto, e dice:

- Messer lo piovano, quello che io facea io mel credea fare per vostro vantaggio; io vi recava de' fichi che stavano divisi e a bocca aperta. E perché ve gli recava partiti e divisi? Perché voi sempre gli partite, quando gli mangiate; e perciò che non gli aveste a partire, e non duraste quella fatica; che quanto io per me, non ne parto mai niuno, e però mangiava gl'interi. L'altra ragione, il perché io ve gli recava a bocca aperta, tenendo per me e mangiando quelli della lagrima, è perché io conosco che le cose allegre vogliono esser de' signori, e le triste de' fanti. Io vi recava i fichi lieti e che rideano di sí gran volontà con la bocca aperta, che se avessino aúto denti, tutti si sarebbono annoverati; e per me mi toglieva li tristi di pianto e lagrimosi.

Dice il piovano:

- Per certo, tu m'hai rendute ragioni che tu déi molto ben sapere il Rinforzato -; e fra sé medesimo godea di questa novella; ma pur non sí, che trovando da ivi a pochi dí che 'l fante detto allegando un testo del Codico, gli facea danno in cucina, lo mandò via, essendo rimaso il detto piovano molto piú sperto e piú cauto.

 

 

 

NOVELLA CXIX

 

Messer Gentile da Camerino, mandando l'oste a Matelica, certi fanti da Bovegliano, essendo ebbri, combàttieno uno pagliaio, e nella fine, cogliendo ciriege, sono tutti presi.

 

Messer Gentile da Camerino fece bandire una volta per lo suo territorio che cotanti per centinaio dovessino con le loro arme comparire, sapendo che volea mandare l'oste a Matelica; e per obbedire, ogni suo sottoposto s'apparecchiò d'andare nella detta oste; e fra gli altri comuni e ville, andarono alla detta Matelica una nuova generazione di gente d'una villa che si chiama la pieve di Bovegliano; della qual villa si partirono per andar nell'oste trenta e dieci buon fanti, e ben armati tutti si misseno in cammino, e arrivorono ad una taverna, dove la detta brigata si rinfrescarono; e poi che ebbono molto ben beúto, che tutti erano obbriachi, andarono in su un'aia, dove era un grande pagliaio di paglia, e chi si voltolava di qua, e chi di là. Disse uno di loro che avea nome Nazzetto:

- Brigata, noi andiamo nell'oste a Matelica, e se noi non proviamo prima le nostre persone, innanzi che giugniamo a Matelica, non sapremo che fare, e là saremo vituperati; e perciò credo che sia lo meglio che noi diamo la battaglia a questo pagliaio, e facciamo ragione che sia un castello; e come faremo qui, cosí faremo a Matelica.

E cosí si furono accordati; e armandosi tutti di palvesi, e di rotelle, e di balestra, e lancioni; tutti ad una voce gridando: “Alla terra, alla terra”; alcuno gridava: “Arrendetevi, cattivelli”; e gittansi addosso al detto pagliaio, lanciando forte e balestrando verrettoni, facendo gran prove contro al detto pagliaio.

Ma il migliore fante che ci fosse, fu Nanziuolo di Nazzarello, che lanciò la lancia per fino allo stocco nel detto pagliaio. E questo detto: “infino allo stocco”, s'intende, secondo il vulgare della Marca, quando tutto il ferro v'è entrato dentro. E tanto fecero la detta brigata che tutto lo detto pagliaio buttorono per terra, e poi si coricorono a dormire nella detta paglia; e traversando le gambe e intraversando l'una sopra l'altra, quando si svegliarono, e uno guarda fra le dette gambe, e videle cosí infrascate. Dice alla brigata:

- Fratelli miei, come faremo noi, che non serà chi ci recappi queste gambe, perché io non so qual si sieno le mie.

E l'altro rispondea:

- Per le maraviglie di Dio, che tu dici lo vero che non reconosciamo le gambe l'uno dell'altro.

E chi facea boto a San Venanzo, e chi a San Givingio, e chi a Santo Iemino, e chi a uno, e chi a un altro, che li campasse e rendesse le sue gambe. E standosi in questa maniera, passando uno da San Genagio, il quale avea nome Giovanni di Casuccio, ed era abbottonato d'argento dal capezzale infino al piede, da loro fu chiamato, dicendo:

- Noi ti preghiamo che ritruovi a ciascuno di noi le nostre gambe, e a ciascuno rendi le sue.

Lo detto Joanni, facendosi presso a costoro, disse:

- E che mi ci darete, se io ce le ritruovo?

Furono in patto di darli soldi dieci per ciascuno; egli furono contenti, e pagaronlo innanzi tratto; e chi diede danari e chi pegni.

Quando fu da ciascuno accordato, ed egli piglia uno bastone e gitta tra le gambe di questi pappacchioni. Quando egli veggiono questo, ciascuno si tira le sue gambe sotto, e ciascuno riebbe e riconobbe le sue; e lodando lo detto Joanni per buon maestro, e Santo Venanzo, e gli altri santi, a cui s'aveano raccomandati, che aveano mandato costui perché non fossono vituperati, pigliando ciascuno le loro arme e le loro gambe, e andarono a Matelica. Giugnendo nel campo lo dí seguente, li trenta e dieci buon fanti dalla pieve di Bovegliano andarono a mangiare le ciriege per una vigna, e chi stava ad alto e chi a terra. Quelli di Matelica uscirono fuori a scaramucciare; e traendo uno d'uno balestro, uno di questi che stava a terra, cominciò a gridare e lamentare, dicendo:

- O compagno mio, acciutemi, che io sono morto -; tenendosi l'arme a' fianchi, parendoli esser morto, come dicea, solo per lo diserrare del balestro.

E 'l compagno scende del ciriegio, e guarda costui e dice:

- Che hai tu?

E quelli dice:

- Guarda a chinche è colto quillo, quillo che fu su per l'aere.

E lo compagno guarda, e dice:

- E qui non è niente.

Ed elli risponde:

- Se no è qui, adunque è in quella folta sepe.

E stando in questa questione, li Matelicani furono alla detta brigata, e pigliarono, delli trenta e dieci buon fanti, trenta e undici. Alli quali, a cui furono tratti i denti, a cui mozzi gli orecchi; e pagarono quello che poteano per uscire di prigione. E cosí capitarono questi gagliardi, che, essendo armati di mosto, combatterono con la paglia, e poi appiè d'un ciriegio furono vinti, senza fare alcuna difesa.

 

 

NOVELLA CXX

 

Essendo messo di notte un bando in Firenze da casa Bardi, un cherico, essendo entrato in uno monimento per certe faccende, comincia a gridare, e 'l banditore si fugge, credendo sia stata un'anima.

 

Al tempo che 'l Duca d'Atene signoreggiava Firenze, morí un cavaliere de' Bardi, il quale fu riposto in uno monimento da Santa Maria sopr'Arno, che ancora oggi si vede essere nel muro dalla faccia dinanzi, il quale è sopra la via. E la notte vegnente, essendo salito alcuno cherico sul detto monimento, e avendolo scoperchiato, ed entratovi dentro per ispogliare il detto cavaliere morto, per alcun caso convenne andare un bando per parte del Duca in quell'ora della notte; e giugnendo il banditore a bandire nella via appiè del detto monimento, come ebbe compiuto el bando, e costui che era nel monimento si lieva, uscendo mezzo della sepoltura, e percotendo le mani, gridoe:

- Sia, sia, sia.

Il banditore veggendo e udendo il romore e le grida uscire con un corpo di un monimento, dà delli sproni al cavallo, e levala, come avesse mille diavoli addosso, credendo fermamente che anime di quello monimento si fossono levate e avessono fatto il detto romore, affermando il detto banditore a ciascuno che per certo di quella sepoltura un'anima, levandosi, dicendo: “Sia, sia, sia”, gli avea messa tal paura addosso che mai non che credesse bandire piú, ma che il fiato suo avea perduto in tal forma ch'egli era molto presso a morte.

Tutta Firenze il giorno seguente andorono a vedere il detto monimento; chi tralunava di qua e chi di là; nella fine dissono che 'l banditore ave' aúto le traveggole e che non sapea quello che si dicea. Il Duca, sappiendo questo, volle sapere dal banditore questo fatto; e alla fine, credendo che l'avesse fatto per mettere la terra a romore, lo volea fare impiccare. Poi per la paura aúta il banditore parea che fosse invasato e fuori della memoria, e per questo campò la vita; che 'l Duca il fece cassare, e mai piú non fu banditore, e anco ne fu contento. Nuovi casi s'accozzorono insieme a far maravigliare il Duca e tutti i cittadini, e a far presso che impiccare il banditore. E per questo e per moltr'altre cose si può comprendere come la fortuna spesso avvilisce chi va piú di sicuro; come costui, che per bandire fu per morire.

 

NOVELLA CXXI

 

 

Avendo maestro Antonio da Ferrara a Ravenna perduto a zara, capita nella chiesa dov'è il corpo di Dante, e levando tutte le candele dinanzi al Crocifisso, le porta tutte e appiccale al sepolcro di detto Dante.

 

Maestro Antonio da Ferrara fu uno valentissimo uomo quasi poeta, e avea dell'uomo di corte; ma molto era vizioso e peccatore. Essendo in Ravenna al tempo che avea la signoria messer Bernardino da Polenta, avvenne per caso che 'l detto maestro Antonio, essendo grandissimo giucatore, e avendo un dí giucato, e perduto quasi ciò che avea, e come disperato vivendo, entrò nella chiesa de' Frati Minori, dov'è il sepolcro del corpo del fiorentino poeta Dante; e avendo veduto uno antico Crocifisso, quasi mezzo arso e affumicato per la gran quantità della luminaria che vi si ponea; e veggendo a quello allora molte candele accese, subito se ne va là e dato di piglio a tutte le candele e moccoli che quivi ardevano, subito, andando verso il sepolcro di Dante, a quello le puose dicendo:

- Togli, che tu ne se' ben piú degno di lui.

La gente, veggendo questo, pieni di maraviglia diceano:

- Che vuol dir questo? - e tutti guatavano l'uno l'altro.

Uno spenditore del signore, passando in quell'ora per la chiesa, e avendo veduto questo, tornato che fu al palagio, dice al signore quello che ha veduto fare a maestro Antonio. Il signore, come sono tutti vaghi di cosí fatte cose, fece sentire all'arcivescovo di Ravenna quello che maestro Antonio avea fatto, e che lo facesse venire a lui, facendoli vista di formare processo sopra la eretica pravità per paterino. L'arcivescovo ebbe subito commesso che fosse richiesto; e quelli comparí; ed essendoli letto il processo che si scusasse, e' non disdisse alcuna cosa, ma tutto confessò, dicendo all'arcivescovo:

- Se voi mi doveste ardere, altro non vi direi; però che sempre mi sono raccomandato al Crocifisso e mai altro che male non mi fece; e ancora tanta cera veggendoli mettere che è quasi mezz'arso (cosí fuss'elli tutto), io gli levai quelli lumi e puosigli al sepolcro di Dante, il quale mi parea che gli meriti piú di lui; e se non mi credete, veggansi le scritture dell'uno e dell'altro. Voi giudicherete quelle di Dante esser maravigliose sopra natura a intelletto umano; e le cose evangeliche esser grosse; e se pur ve n'avesse dell'alte e maravigliose, non è gran cosa, che colui che vede il tutto e ha il tutto, dimostri nelle scritture parte del tutto. Ma la gran cosa è che un uomo minimo come Dante, non avendo, non che il tutto, ma alcuna parte del tutto, ha veduto il tutto e ha scritto il tutto; e però mi pare che sia piú degno di lui di quella luminaria; e a lui da quinci innanzi mi voglio raccomandare; e voi vi fate l'oficio vostro e state bene ad agio, che per lo suo amore fuggite tutti il disagio e vivete come poltroni. E quando da me vorrete sapere piú il chiaro, io vel dirò altra volta, che io non abbia giucato ciò che io ho.

All'arcivescovo parve essere impacciato, e disse:

- Dunque avete voi giucato e avete perduto? tornerete altra volta.

Disse maestro Antonio:

- Cosí aveste voi perduto voi, e tutti i vostri pari, ciò che voi avete, ch'io ne sarei molto allegro. Il tornare a voi starà a me; e con tornare, e senza tornare, mi troverrete sempre cosí disposto o peggio.

L'arcivescovo disse:

- Mo andeve con Dio o volí con Diavolo, e se io mandassi per voi, non ci verrete. Andate almeno a dar di queste frutte al signore, che avete dato a mi -; e cosí si partí.

Il signore, saputo ciò che era stato, e piacendoli le ragioni del maestro Antonio, gli fece alcuno dono, sí che potesse giucare; e delle candele poste a Dante piú dí con lui n'ebbe gran piacere; e poi se n'andò a Ferrara forse meglio disposto che maestro Antonio. In quelli tempi che morí papa Urbano quinto, una tavola essendo di lui posta in una nobile chiesa d'una gran città, vidi a quella essere posto un torchio acceso di dua libbre, e al Crocifisso, il quale non era molto di lungi, era una trista candeluzza d'uno denaio. Pigliò il detto torchio, e appiccandolo al Crocifisso, disse:

- Sia nella mal'ora se noi vogliamo volgere e mutare la signoria del cielo, come noi mutiamo tutto dí quelle della terra.

E cosí se n'andò a casa. Questa fu cosí bella e notabile parola, come mai potesse avvenire a simile materia.

 

 

NOVELLA CXXII

 

Messer Giovanni da Negroponte, avendo perduto a zara ciò ch' elli avea, andò per vendicarsi, e uccise uno che facea li dadi.

 

Messer Giovanni da Negroponte, avendo un dí perduto a zara ciò ch'egli avea, essendo grandissimo e valente uomo di corte, caldo caldo, con l'ira e con l'impeto del giuoco, andò con un coltello a trovare uno che facea dadi, e sí l'uccise. Ed essendo preso e menato dinanzi al signore di quella terra, che era despoto... il quale gli volea tutto il suo bene, dal signore fu domandato:

- Doh, messer Giovanni, che v'ha mosso a uccidere uno vile uomo e mettere alla morte voi?

Quelli rispose:

- Signor mio, solo l'affezione che io porto alla vostra persona, pensando l'amore che mi portate; e la ragione è questa. Io avea perduto a giuoco ciò ch'io avea, e fui presso a una dramma per uccidermi; e disponendomi pur di fare omicidio, e considerando l'amore che mi portate, e che senza me non sapete stare; perché voi non perdeste me, e perché io non perdesse voi, andai a dar luogo all'ira sopra colui che faceva i dadi, pensando quella essere dignissima vendetta; però che molti signori e vostri pari mettono spesse volte pene a chi giuoca; ma considerando quanti mali dal giuoco vengono, io credo che serebbe molto meglio a tutto il giro della terra spegnere tutti gli altri, come io ho spento questo uno, che lasciarli in vita; e pensate quanti mali dal giuoco vegnono, e forse le ragioni mie non vi doverranno dispiacere.

Il signore, ch'era di perfetta condizione, pensò le ottime ragioni di messer Giovanni da Negroponte, fece legge che per tutto suo terreno fosse pena l'avere e la persona a qualunche facesse dadi, e che ancora chi gli facesse potesse esser morto sanza alcuna pena; e a qualunque fossono trovati addosso, pena di lire mille, o la mano; e chi giucasse, dove dadi fossono, pena l'avere e la persona. E cosí spense per tutto suo terreno questa pessima barba e questa maligna radice; la qual'è biestemmar Dio, consumare le ricchezze, congiugnimento di superbia e ira, per avarizia cercar furti e ruberie, uccidere e... darsi al vizio della gola, e per questo venire alle sfrenate lussurie e a tutti i mali che può far natura. E a messer Giovanni da Negroponte fu perdonato; e quello che facea i dadi, e che fu morto, se n'ebbe il danno.

 

 

NOVELLA CXXIII

 

Vitale da Pietra Santa, per introdotto della moglie, dice al figliuolo che ha studiato in legge, che tagli uno cappone per gramatica. Egli lo taglia in forma che, dalla sua parte in fuori, ne tocca agli altri molto poco.

 

Nel castello di Pietra Santa, in quello di Lucca, fu già un castellano abitante in quello, ch'avea nome Vitale. Era, secondo di là, abiente, e orrevole contadino; ed essendogli morta una sua donna, lasciandogli uno figliuolo d'anni venti, e due figliuole femine, da' sette infino a' dieci anni, gli venne pensiero che questo suo figliuolo, che già era bonissimo gramatico, di farlo studiare in legge, e mandollo a Bologna. E mentre che era a Bologna, il detto Vitale tolse moglie. E stando insieme, come per li tempi avviene, Vitale cominciò aver novelle come questo suo figliuolo diveniva valentissimo; e quando bisognava danari pe' libri, e quando per le spese per la sua vita, el padre mandava quando quaranta e quando cinquanta fiorini: e molto di danari si votava la casa. La donna di Vitale, e matrigna del giovane che studiava a Bologna, veggendo mandare questi danari cosí spesso, e pensando che per questo a lei diminuiva la prebenda, cominciò a mormorare, e dice al marito:

- Or getta ben via questi parecchi danari che ci sono; mandagli bene, e non sai a cui.

Dice il marito:

- Donna mia, che è quel che tu di'? o non pensi tu quello che ci varrà, e l'onore e l'utile? Se questo mio figliuolo serà giudico, potrà poi esser dottorio conventinato, che ne saremo saltati in perpetuo seculo.

Dice la donna:

- Io non so che secolo; io mi credo che tu se' ingannato, e che costui, a cui tu mandi ciò che puoi fare e dire, sia un corpo morto, e consumiti per lui.

E in questa maniera la donna s'avea sí recato in costume di dire questo corpo morto che come il marito mandava o denari o altro, cosí costei era alle mani, dicendo al marito:

- Manda, manda, consumati bene, per dar ciò che tu hai a questo tuo corpo morto.

Continuando questa cosa in sí fatta maniera, agli orecchi del giovane che studiava in Bologna pervenne come la matrigna il chiamava in questa contesa che facea col marito “corpo morto”. Il giovane lo tenne a mente; ed essendo stato alquanti anni a Bologna e bene innanzi nella legge civile, venne a Pietra Santa a vedere il padre e l'altra famiglia. E 'l padre, veggendolo, ed essendo piú lieto che lungo, fece tirare il collo a un cappone, e disse lo facesse arrosto, e invitò il prete loro parrocchiano a cena.

Venendo l'ora e postisi a tavola, in capo il prete, allato a lui il padre, poi la matrigna e seguentemente le due fanciulle, ch'erano da marito, il giovane studente si pose a sedere di fuori su uno deschetto. Venuto il cappone in tavola, la matrigna, che guatava il figliastro in cagnesco, a ceffo torto, comincia a pispigliare pianamente al marito, dicendo:

- Che non gli di' tu che tagli questo cappone per gramatica, e vedrai s'egli ha apparato nulla?

Il marito semplice gli dice:

- Tu se' di fuori sul deschetto, a te sta il tagliare; ma una cosa voglio, che tu cel tagli per gramatica.

Dice il giovane, ch'avea quasi compreso il fatto:

- Molto volontieri.

Recasi il cappone innanzi, e piglia il coltello, e tagliandogli la cresta, la pone su uno tagliere e dàlla al prete, dicendo:

- Voi siete nostro padre spirituale e portate la cherica; e però vi do la cherica del cappone, cioè la cresta.

Poi tagliò il capo, e per simile forma lo diede al padre, dicendo:

- E voi siete il capo della famiglia, e però vi do il capo.

Poi tagliò le gambe co' piedi, e diedele alla matrigna, dicendo:

- A voi s'appartiene andar faccendo la masserizia della casa, e andare e giú e su, e questo non si può far senza le gambe; e però ve le do per vostra parte.

E poi tagliò li sommoli dell'alie, e puoseli su uno tagliere alle sue sirocchie, e disse:

- Costoro hanno tosto a uscire di casa, e volare fuori; e però conviene abbiano l'alie, e cosí le do loro. Io sono un corpo morto: essendo cosí, e cosí confesso, per mia parte mi torrò questo corpo morto -; e comincia a tagliare, e mangia gagliardamente.

E se la matrigna l'avea prima guatato in cagnesco, ora lo guatò a squarciasacco, dicendo:

- Guatate gioia! - e pian piano dicea al marito: - Or togli la spesa che tu hai fatta.

E assai si poté borbottare, che la brigata che v'era l'averebbono voluto tagliare in volgare, e spezialmente il prete, che parea che avesse il mitrito, specchiandosi in quella cresta. Da indi a pochi dí, essendo il giovane per tornare a Bologna, fece piacevolmente certo tutti il perché avea partito il cappone per sí fatta forma. E spezialmente con una mezza piacevolezza dimostrò alla matrigna il suo errore; e partissi e dagli altri e da lei con amore; come che io credo che ella dicesse con la mente: “Va', che non ci possi mai tornare”.

 

 

NOVELLA CXXIV

 

Giovanni Cascio fa temperare Noddo, essendo a tagliere con lui, di non mangiare li maccheroni caldi, con una nuova astuzia.

 

Noddo d'Andrea, il quale al presente vive, è stato grandissimo mangiatore, e di calde vivande mai non s'è curato, se non come s'elle andassono giú per un pozzo, quando se l'ha messe giú per la gola. E io scrittore ne potrei far prova, che avendo mandato uno tegame con uno lombo, e con arista al forno, e 'l detto Noddo avendone mandato un altro con un busecchio pieno non so di che, al fornaio, mandando Noddo per lo suo, gli venne dato il mio; il quale come gli venne innanzi, subito trangusgiando e l'arista e poi il lombo, tenendolo in mano intero, dandovi il morso entro, dice la donna sua:

- Che fa' tu? questo non è il tuo busecchio; questo tegame è carne d'altrui, e non è la nostra.

Quando l'ebbe presso che recata a fine, facendo vista di non udir la donna, dà alla fante il tegame con quell'ossa che erano rimase, e dice:

- Va' al fornaio, che mi mandi el mio tegame, che questo non è il mio.

Il fornaio, senza metter molto cura su la detta faccenda, cercò di quello dov'era il busecchio, e mandòglilo. E 'l fante mio va poi per lo mio tegame: il quale giunto, e scoprendolo, poco v'avea altro che ossa. Dico al fante:

- Va' al fornaio, e sappi se io ho a far dadi.

Il fornaio si scusò dell'errore, e Noddo con molte risa si mangiò la cena sua e la mia, non curando caldo che fosse in essa, facendo tosto tosto. Or questo voglio aver detto, ad informazione di cosí fatta natura, venendo ad una piccola novelletta delle sue. Egli pregava pure Dio, quando fosse stato a mangiare con altrui, che la vivanda fosse rovente, acciò che mangiasse la parte del compagno; e quando erano pere guaste ben calde, al compagno rimaneva il tagliere: d'altro non potea far ragione. Avvenne per caso una volta che mangiando Noddo e altri insieme, ed essendo posto Noddo a tagliere con uno piacevole uomo, chiamato Giovanni Cascio; e venendo maccheroni boglientissimi; e 'l detto Giovanni, avendo piú volte udito de' costumi di Noddo, veggendosi posto a tagliere con lui, dicea fra sé medesimo: “Io son pur bene arrivato, che credendo venire a desinare, e io sarò venuto a vedere trangusgiare Noddo, e anco i maccheroni per piú acconcio del fatto; purché non manuchi me, io n'andrò bene”. Noddo comincia a raguazzare i maccheroni, avviluppa, e caccia giú; e n'avea già mandati sei bocconi giú, che Giovanni avea ancora il primo boccone su la forchetta, e non ardiva, veggendolo molto fumicare, appressarlosi alla bocca. E considerando che questa vivanda conveniva tutta andarne in Cafarnau, se non tenesse altro modo, disse fra sé stesso: “Per certo tutta la parte mia non dee costui divorare”. Come Noddo pigliava uno boccone, ed egli ne pigliava un altro, e gittavalo in terra al cane, e avendolo fatto piú volte, dice Noddo:

- Omei, che fa' tu?

Dice Giovanni:

- Anzi tu che fai? non voglio che tu manuchi la parte mia; vogliola dare al cane.

Noddo ride, e studiavasi; e Giovanni Cascio si studiava e gittava al cane.

Alla per fine dice Noddo:

- Or oltre, facciamo adagio, e non gli gittare.

E quelli risponde:

- E’ mi tocca torre due bocconi, quando tu uno, per ristoro di quello che hai mangiato, non avendo io potuto mangiare uno boccone.

Noddo si contendea; e Giovanni dicendo:

- Se tu torrai piú che uno boccone, quando io due, io gittarò la parte mia al cane.

Finalmente Noddo consentí, e convenne che mangiasse a ragione; la qual cosa in tutta la vita sua non avea fatto, né avea trovato chi a tavola il tenesse a siepe. E la detta novella piacque piú a quelli che v'erano a mangiare, che tutte le vivande che ebbono in quella mattina. Cosí trovò, chi sanza misura trangusgiava, chi gli diede ordine di mangiare consolatamente con una nuova esperienza.

 

 

NOVELLA CXXV

 

Re Carlo Magno, credendo fare tornare alla fede... Giudeo, il detto... essendo a mensa con lui, lo riprende come egli non osserva la fede cristiana come si dee, onde il detto... testa rimane quasi conquiso.

 

Re Carlo Magno fu re sopra tutti gli altri, che mai il mondo avesse, d'assai, e coraggioso molto, tanto che praticando di valorosi cristiani signori, costui, e lo re Artú, e Gottifredi di Buglione, sono di piú virtú tre reputati; e' Pagani sono altri tre, Ettore, e Alessandro Magno, e Cesare; e tre judei, David, Josuè, e Juda Maccabeo. Tornando alla storia, avendo acquistato lo re Carlo Magno tutta la Spagna, gli venne per le mani uno Spagnuolo, o Judeo, o al tutto Pagano, il quale era uomo di molto sentimento e industria. Di che lo re, considerando la virtú dello Spagnuolo, s'ingegnò che tornasse alla fede cristiana, e venneli fatto.

Ed essendo una mattina a mangiar col detto re, stando ad alto a mensa, come usano li signori, uno poverello era là a basso, quasi in terra o su basso sedere a una povera mensa, e desinava. E questo era che sempre questo re, quando mangiava, dava mangiare a uno povero, o a piú, per simile forma, per ben dell'anima sua. Veggendo lo Spagnuolo questo povero mangiare in tal maniera, domandò il re chi colui era e quello che significava il mangiar suo per quel modo. E lo re rispose:

- Quello si è un povero di Cristo; e quella limosina che io fo a lui, fo a Cristo; però che, come tu sai, e' n'ammaestra che, qualunche ora noi facciamo carità a uno di questi suoi minimi poverelli, noi la facciamo a lui.

Dice lo Spagnuolo:

- Monsignore, voletemi perdonar quello che io dirò?

- Di' ciò che tu vuogli.

E quelli dice:

- Assai cose stolte ho trovato in questa vostra fede e questa mi par maggior che alcuna dell'altre. Però che se voi tenete per vera fede che quel poverello sia il vostro Signore Jesu Cristo, qual'è la ragione che voi gli date mangiar vilmente colà in terra e voi cosí onorevolmente mangiate quassú in alto? a me mi pare, secondo il dir vostro, che doverreste fare il contrario, cioè mangiare là voi, ed egli mangiasse qui nel luogo vostro.

Lo re veggendosi mordere per modo che male si potea difendere, allegò assai cose, ma non sí che lo Spagnuolo non rimanesse al di sopra di quello che avea detto, e dove credette il signore fare accostar costui alla fede, egli lo fece dilungare piú di cento miglia, e ritornò nella fede sua di prima. E non disse il vero questo Spagnuolo? che cristiani siàn noi, e che fé è la nostra? delle cose che non ci costano, largamente le diamo a Dio, come paternostri, avemarie e altre orazioni, darci delle mani nel petto, metterci canavacci in dosso e cacciarci le mosche dalle rene, andare alle processioni e alle chiese, stare devoti alle messe e simili cose, che non ci costano; ma se si darà mangiare al povero: dàgli un poco di broda, mettilo in un canto, come un cane; farassi una piatanza: votiamo la botte del vin cattivo, fassi macinare il grano intignato, e l'altre vivande, di quelle che non piacciono a noi, le diamo a Cristo.

Crediamo che sia struzzolo, che patisce il ferro. Chi avrà la figliuola guercia, sciancata, o contraffatta, dice: “Io la voglio dare a Dio”; la buona e la bella tien per sé. Chi ha il cattivo figliuolo, prega Iddio che 'l chiami a sé; chi l'ha buono, prega Dio che non lo chiami a sé, ma che li dia lunga vita. E cosí potrei contare migliaia di cose, che tutte le peggiori diamo a quel Signore che a noi ha donato e prestato ogni cosa. Sí che per certo la ragione dello Spagnuolo fu perfetta, perché nel mondo la ipocrisia ha sottoposto l'umana fede.

 

 

 

NOVELLA CXXVI

 

 

Papa Bonifazio morde con una parola messer Rossellino della Tosa, il quale con una piacevole risposta si difende.

 

Messer Rossellino della Tosa da Firenze fu uno cavaliere molto dabbene; il quale, avendo bene ottant'anni, fu mandato ambasciadore a papa Bonifazio. Questo messer Rossellino, come che avesse gran tempo, spesso spesso gli nascea un figliuolo; e al detto papa piú volte quasi per cosa maravigliosa era stato detto. Di che avendo il detto messer Rossellino sposta la sua ambasciata, e 'l papa avendo ben considerato messer Rossellino, come quelli che avea udito de' figliuoli che gli nasceano, disse:

- Doh, messer Rossellino, vo' siete antico di cotanto tempo, secondo che ho udito; io sento che ogni dí avete uno figliuolo; questa è grandissima grazia, che viene da Dio; per alta ragione ella si può dire cosa maravigliosa.

Messer Rossellino, udendo il papa, disse:

- Padre Santo, vegna l'agnello donde vuole, nasca elli dentro alla mia cortina, io non me ne curo.

Udendo il papa le sue parole, disse:

- Messer Rossellino, voi foste sempre savio cavaliere e ora mi parete piú savio che mai, pensando che di quelle cose che non si può far pruova, e andarla cercando serebbe cosa stolta, voi prendete quella parte che alcuno non vi potrebbe apporre.

Messer Rossellino rispose:

- Padre Santo, io ho sempremai udito dire che tanto ha l'uomo briga, quant'elli se ne dà -; e cosí finirono questi ragionamenti.

Ma molti ignoranti averanno figliuoli, e sarà alcuno domandato: “È tuo questo?” e quelli risponde: “Io credo di sí, ma io non ne so altro”. E chi dicesse a lui che possederà quello del padre con grande avere: “E tu come sai che tu sie figliuolo di cui tu ti tieni?” non lo saprebbe né provare né mostrare. Adunque questo valente cavaliere, essendo trafitto dal papa delle cose incerte, se le fece certe; e molti matti, come di sopra ho detto, le certe faranno incerte, e con loro vergogna, e con loro vituperio.

 

 

NOVELLA CXXVII

 

 

Messer Rinaldello da Meza dell'Oreno, essendo in Firenze, e veggendo molti giudici, si maraviglia come Firenze non è disfatta considerando che un solo ha consumato la sua patria.

 

Uno cavaliere chiamato messer Rinaldello da una terra, che si chiama Meza dell'Oreno, arrivò una volta nella città di Firenze; e stando in quella per alquanti dí, venne per caso che questo gentiluomo vidde a uno mogliazzo gran numero di cittadini, tra' quali, come interviene, dinanzi andavono molti addobbati con vaio. E quelli, veggendoli, domandò alcuni fiorentini chi erano quelli che portavano vaio e che andavano innanzi. Fugli risposto che erano cavalieri, e giudici, e medici. Dice il gentiluomo: - E quanti giudici vi sono?

E quelli guatano, e cominciano a noverare: - Quattro e altri tre, sette: èvvene sette.

E quelli dice: - E haccene piú?

Risposono: - Sí bene.

E messer Rinaldello disse allora, segnandosi e guardando in alto le case della città: - Oh che miracolo è questo, che in questa città sia alcuna casa che non sia disfatta, e sia per terra!

I Fiorentini udendo costui e vedendolo segnare, dissono:

- E di che vi maravigliate voi?

E quelli rispose:

- Io vel dirò. Io sono d'una città, che si chiama Meza dell'Oreno, la quale è stata grande e nobile città, e in grande concordia e pace; e in tale maladetta ora e punto uno ricco uomo di quella mandò un suo figliuolo a studiare a Bologna, e fecelo giudice, che tornando in quella terra, giammai non abbiamo sentito che ben sia; in discordia ci ha messi; la pace, che solevamo avere, è convertita in guerra, noi stiamo tanto male, quanto mai stemmo bene; e questo tutto viene da questo iudicio, che in quella è venuto. E però pensando che voi mi dite, la quantità che di questi giudici qui avete, io mi maraviglio che, avendo un solo, ha cosí guasta la nostra terra, che questi, che tanti avete, qui abbiano lasciato pietra sopra pietra.

Li Fiorentini, udendo costui, dissono, ridendo:

- Volete voi che noi diciamo il vero? e' ci danno la mala pasqua.

Il cavaliere rispose:

- Se non v'hanno fatto altro, voi n'avete buon mercato; ché a noi ha dato quell'uno la mala ventura per tutti li tempi che viveremo, e noi e li nostri discendenti.

E cosí finirono le parole.

E quando io considero bene chi sono ne' presenti tempi questi con li vai in testa, io penso messer Rinaldello aver detto il vero; e considero poter avere poca pace il luogo dove stanno, e meno chi a loro crede; e la prova il dimostra: che quella terra marina, che tanto è stata nel suo buon reggimento, giammai non ebbe alcuno judice; giammai viniziano non ne fu alcuno. E Norcia, che è piccola terra a rispetto di quella, mai non volle di questi giudici, né chi sotto coverta di scienza l'avesse voluta guastare; per tal segnale, che ne' loro consigli non vogliono alcun troppo savio, e dicono: “Escanne fuori li sapii”. E con questo si regge cosí bene come terricciuola d'Italia.

 

 

NOVELLA CXXVIII

 

Il vescovo Antonio fiorentino con uno piacevole motto confonde certi gentiluomini fiorentini, li quali si doleano che a un suo fedele e servitore, e loro congiunto, essendo morto per usuraio, non lo lasciava sotterrare.

 

Fu in Firenze per li tempi passati uno vescovo Antonio, vescovo di quella città, uomo molto venerabile e dabbene; il quale avea uno suo cordiale amico e servidore, della famiglia de' Pazzi di Firenze, ben veramente gentiluomo, che uccellare, e cacciare, e cavalcare, e ogni altra cosa da diletto ottimamente facea. Avea certi suoi danari, e prestavagli a usura. Il detto vescovo non sapea né stare, né andare, che questo gentiluomo appena mai si potesse partire da lui. Avvenne per caso che questo de' Pazzi, avendo grande infirmità, si morí. Come fu morto, il vescovo manda a vietarli la sepoltura, e che non sia sotterrato in sagrato s'e' libri suoi non gli sono appresentati, e se non si soda di rendere a ciascuno da cui elli avesse aúto usura. Alli suoi congiunti e consorti parve questa una nuova cosa, pensando l'amore che detto vescovo portava al morto; e mossonsi certi di loro e andaronsene al vescovo; li quali, a lui giunti, fatta primamente la reverenza, dissono:

- Venerabile padre, noi vegnamo alla vostra paternità, che, come voi sapete, egli è piaciuto a Dio di chiamare a sé il tale vostro servitore e nostro consorto; ed è venuto alla sua casa e vostro messo e comandamento, che elli non sia sotterrato se non sono fatte quelle cose che si appartengono di fare quando uno usuraio muore. Di che, considerando quanto il tenevate per figliuolo e servidore, maravigliàncene forte, pregandovi per la vostra benignità, e per non oscurare la sua fama, e per quello amore, il quale sempre gli avete portato, che vi debba piacere in questo fine della sua vita vi sia raccomandato.

Il vescovo, avendo uditi costoro, rispose:

- Io vi confesso che al vostro consorto, il quale morto è, portai nella sua vita tanto amore quanto ad alcuno io portasse mai; ma la cagione di partire questo amore non è venuta da me, ma è venuta da lui; e però m'abbiate per iscusato, però che io seguo gli ordini del vescovado, li quali io ho giurato di seguire. S'egli ha fatto cauzione, bene sta; quanto che no, fate di sodare e appresentare e' libri, e io mi porterò il piú benignamente che potrò.

E cosí convenne che facessono. E 'l vescovo si portò poi sí, e con la sua prudenza, e con la virtú di Santo Giovanni Boccadoro, che a' consorti del morto, parendo smemorati della risposta del vescovo, convenne esser contenti: e 'l morto fu sotterrato.

Bella risposta fu quella del vescovo, s'ella non fosse stata mossa da avarizia; e veramente si vede ogni amor mancare, purché l'uomo possa tirare a sé, e spezialmente e' cherici, che per lo denaio ad ogni cosa si mettono, non curando ch'ella sia o onesta o disonesta. E non dico per questo vescovo, che fu valentre uomo, ma dicolo per la maggior parte comunemente.

 

 

NOVELLA CXXIX

 

 

Marabotto da Macerata con una nuova lettera, richieggendo di battaglia un gran Tedesco, libera per piú mesi la sua patria che non è cavalcata.

 

Al tempo che la Chiesa di Roma perdeo la Marca d'Ancona, fu un uomo che si chiamava Marabotto da Macerata ed era grandissimo di persona; ed essendo guerra nella detta Marca, uno Todesco, che avea nome Sciversmars, era al soldo della Chiesa, e la stanza sua era a Monte Fano. Facendo gran guerra il detto Tedesco a Macerata, lo detto Marabotto andò alli Priori di Macerata, e domandò licenza, che volea mandare una lettera allo detto Sciversmars, a richiederlo di battaglia, e per li Priori gli fu conceduta. Lo detto Marabotto scrisse la lettera in questa forma: “A voi, nobile uomo Sciversmars della Magna, Marabotto della Valle d'Ebron vi saluta. Ho udito dire della vostra nobilità, e che voi sete un buon uomo d'arme, e che a queste contrade avete fatto grandissima guerra contr'a' villani; e io sono venuto dalle mia contrade con settecento cavalli per trovare di buoni uomini d'armi, e provare la mia persona con loro, e non con li villani. E perciò vi prego che vi vogliate provar con meco su nel campo, solo, ed eleggere il campo dove vi piace, che mi pare mill'anni che io vi sia; e se non volessi combattere solo con meco a corpo a corpo, pigliate de' vostri quel numero che vi piace di venire, e io verrò con altrettanti; e ancora vi farò vantaggio, che la mia brigata serà meno dieci che la vostra per ogni cento combattitori. E questo vi priego quanto posso che facciate, e non vogliate provar la vostra gentilezza co' villani, ma con buoni uomeni d'arme. E di questo vi piaccia subito per vostra lettera farmi risposta, ecc., e da mo innanzi per questo terreno non venire, perciò che io vi tratteria come inimico mortale”.

Avendo Sciversmars la detta lettera, e udendo il nome maraviglioso di chi la mandava, e ch'egli era della Valle d'Ebron, tutto invilí, immaginando costui non dover esser altro che gran fatto; e mai non iscrisse, né fece risposta. E per questa cosí fatta lettera impaurito, piú mesi stette che non fece guerra, né cavalcò sul terreno di Macerata, solo per paura del detto Marabotto.

Questa di questo Marabotto fu sottile inventiva, che con un poco d'inchiostro cacciò il nemico della sua terra, e valse quella lettera assai piú a Macerata che non serebbono valuti trecento uomeni a cavallo.

 

 

NOVELLA CXXX

 

Berto Folchi è preso, standosi al fuoco, da una gatta, e se non fosse la moglie che con un sottile avviso il liberoe, egli ne venía a pericolo di morte.

 

Adrieto in una novella è dimostrato come Berto Folchi fu colto in iscambio d'una botta; ora in questa piccola novelletta voglio mostrare come fu colto in iscambio d'uno topo; la quale sta per questa forma. Il detto Berto, essendo del mese d'ottobre, ed essendo a uno suo luogo a Scandicci, contado di Firenze, avea uno ciccione nel sedere, appunto dove si tiene il brachiere; ed era sí velenoso che molti dí gli avea quasi dato un poco di febbre; e convenía che per quello s'andasse e stesse per casa sanza panni di gamba.

Avvenne che una sera, avendo quattro bellissimi tordi, e volendoli arrostire a suo modo, avea detto a una sua fanticella gli recasse a un fuoco che era in sala; e quivi acconciando lo schedone, ponendosi a sedere su uno deschetto e pigliando la paletta, e acconciando il fuoco, e volendo che li detti tordi per ragione fossono cotti per mangiarseli in santa pace con la sua donna; essendo una sua gatta sotto il deschetto, come sempre stanno, ebbe veduta la masserizia di Berto pengigliare tra li piè del deschetto; avvisandosi forsi quella essere un topo, avventasi e dàgli d'uncico.

Come Berto si sente cosí preso, getta le mani verso la gatta, e pigliandola, se la volea levar da dosso; ma quanto piú questo facea, la gatta, facendo gnao, piú l'afferrava; tanto che per la pena cominciò a gridare. La fante, che volgea lo schedone, dicea:

- Che avete voi, Berto?

E Berto dicea:

- Non lo vedi tu?

E la fante, bench'ella il vedesse, non ardiva accostarsi per onestà verso le masserizie di Berto, ma comincia a chiamar la gatta: “Muscina, musci, musci, muscina”; e brevemente la gatta, non che ella il lasciasse, ma continuo piú strignea; tanto che Berto continuando le strida, e la donna, sentendolo, subito corse.

Come Berto la vede, dice:

- Oimè, donna mia, io muoio; la gatta m'ha preso, come tu puoi vedere; io muoio, io muoio.

La donna tenera del suo marito e delle sue masserizie, gettasi là, e piglia la gatta e strignela perché le lasci: e la gatta allora piú afferrava: poi la piglia per la gola e strigne perch'ell'apra la bocca. S'ella l'apriva, a mano a mano con un morso ripigliava; tanto che Berto comincia a gridare: “Accurr'uomo”. La donna, vedendosi mal parata, come savia e avveduta e tenera delle carni del marito, pensò un sottil modo: ch'ella prese lo schedone de' quattro tordi, che era a fuoco, che appena erano caldi, e accosta i tordi al ceffo della gatta. La gatta, che era affamata, sentendo l'odore de' tordi, lascia i calonaci e dà d'uncico a' tordi, li quali strascicò con tutto lo schedone per tutta la casa, e a piú bell'agio del mondo gli mangiò, però che la donna e la fante aveano altra faccenda tra mano e di quelli poco si curavano.

Berto uscito tra le branche della gatta, e per le strette e per li graffi, parea morto; le sue masserizie erano tutte azzannate, e parea vi fosse fatto su alla trottola.

La valentre donna mandò per uno medico de jure coglionica, e fecelo curare. Il quale ebbe assai che fare piú di due mesi a guarirlo; e se non fosse la buona moglie, che volle innanzi perder la cena che 'l marito, Berto Folchi era a pericolo di non esser mai piú uomo; e sempre da indi innanzi tenne Berto avere la vita per la sua valentrissima donna.

 

 

NOVELLA CXXXI

 

 

Essendo andato una volta Salvestro Brunelleschi al bagno per contentar la donna, per generare figliuoli, la donna l'altro anno vi vuole ritornare; Salvestro gli dice che non è piú buono a ciò, e ch'ella provi con altrui, e la donna vi va sanza lui.

 

Salvestro Brunelleschi, del quale adrieto è fatta menzione, avendo una sua donna piacevolissima friolana, e non avendo alcuno figliuolo, e la donna avendone molto maggior voglia d'aver di lui, disse uno dí:

- Salvestro, e' m'è detto se noi andiamo al bagno a Petriuolo, che io ingrosserò e avremo figliuoli.

Salvestro dicea:

- Donna mia, ella vuol essere altr'acqua che quella del bagno.

La donna si fermò a volere che Salvestro con lei andassono al bagno, e Salvestro convenne che consentisse; e prese le purgagioni, e saputo il modo che avevano a tenere, il quale era o d'uccidere Salvestro, o aver figliuoli, si mossono una mattina, e giugnendo alla fonte di San Piero Gattolino, trovarono uno piovano de' Macchi che abbeverava uno suo ronzino, ed era molto goditore, il quale domandò Salvestro dove andava. Salvestro disse:

- Andiamo al bagno, benché io potrei dire che io vo al macello.

Dice il piovano:

- Per certo voi non dovete andare senza me, e vedrete com'io vi farò godere.

Salvestro disse:

- Sia nella buon'ora -; e cosí si missono in camino.

E questo piovano volle essere lo spenditore, comprando le migliori vivande che potea, sí che stettono alla paperina. Ed essendo a Petriuolo, e bagnandosi, come a casa tornati erano, e la moglie dicea a Salvestro:

- Tu sai bene quello che 'l medico disse -; e accostandosi al leccone, convenía che Salvestro consumasse il matrimonio.

E tanto seguí questa faccenda che, non che consumasse il matrimonio, egli ebbe quasi tutto che consumato sé; tanto che tornati a Firenze gli venne una gran malattia, tal che ne venne presso a morte. E con tutto il male dicea alla donna:

- Noi abbiàn pur ben procacciato; per procacciare uno fanciullo ha' voluto perdere il marito.

E pur guerito, e la donna non ingrossata, stettono circa un anno; ed essendo detto alla donna da altre donne che 'l bagno si volea continuare, a voler fare figliuoli, e giugnendo a Salvestro questa sua donna un dí, gli dice ch'ella vorrebbe ritornare al bagno, però che gli è detto che per una volta non giova alcuna cosa, se non si continua d'andarvi spesso. Salvestro, udendo la moglie, e veggendo come della prima volta n'era arrivato, dice:

- Donna mia, tu sai che noi v'andammo anno, e misi tutta la forza mia e l'ingegno perché tu adempissi il tuo appetito di far figliuoli; e sai che per quello io ne venni in fine di morte; io non ci serei piú buono a questo; se tu ti vuogli andare tu stessa, va', e prova con altrui, che quanto io non ci son buono.

La donna cominciò a ridere; e Salvestro disse:

- Tu ridi? Io ti dico va' nella buon'ora, e togli quelli danari che tu vuogli; e pruova la tua ventura con chi ti piace, ché quanto io ho provata la mia fino alla morte, e veggio che io non ci son buono a nulla.

La donna non poté mai menarvi Salvestro, e andovvisi ella, e menò alcuno suo parente; e come ch'ella si facesse, ella ha ancora a ingrossare; e da ivi a poco tempo si morí, e Salvestro si rimase, e non andò al bagno per non conducersi a morte per acquistar figliuoli.

E fu molto savio; però che, delle sei volte, le cinque l'uomo ha volontà d'aver figliuoli, li quali son poi suoi nimici desiderando la morte del padre per esser liberi.

 

 

NOVELLA CXXXII

 

Essendo stati assaliti quelli da Macerata dal conte Luzzo, una notte venendo una grande acqua, credendo che siano li nimici, con nuovi modi tutta la terra va a romore.

 

Nel tempo che 'l comune di Firenze e gli altri collegati feciono perdere gran parte della Marca alla Chiesa di Roma, il conte Luzzo venne nella Marca con piú di mille lance, e puose il campo a Macerata dal lato d'una porta che si chiama la porta di San Salvadore; e dall'altro lato si puose messer Rinalduccio da Monteverde, che allora era signore di Fermo; puose lo campo da un'altra porta, cioè alla porta del mercato; e ivi al terzo dí dierono la battaglia alla terra, credendola aver per forza. E lo conte Luzzo con la sua brigata ruppono le mura appresso delle mura di San Salvadore in tre luoghi, avvegnadio che della sua gente assai ne fossono feriti e morti. E partendosi il quarto dí la detta oste, e ritornando in quello di Fermo, da ivi a pochi dí, una sera a tre ore di notte, venne una grandissima acqua a Macerata; e correndo forte le vie della terra, menando l'acqua ogni bruttura delle strade, turò una fogna. Di che l'acqua non possendo uscire di fuori, né fare il suo corso, entrò per le case che gli erano dappresso. Di che andando una femina per lo vino, ché volea cenare, andando di sicuro, trovò la casa piena d'acqua; e prima che di ciò s'accorgesse, entrò nell'acqua infino alle cosce, e forse piú su, ond'ella cominciò a gridare: “Accurr'uomo”. Lo marito correndo al romore per aiutare la moglie, e 'l lume si spense, si trovò nella detta acqua; ed essendo nell'acqua cominciò a gridare: “Accurr'uomo”. Li vicini, udendo il romore, scendeano le scale per sapere che fosse: e quando erano all'uscio non poteano uscire fuori per l'acqua che era per le vie e per le case. Di che anco eglino cominciarono a gridare, avvisandosi fosse il diluvio. Lo guardiano che stava nella terra cominciò a chiamare le guardie, udendo lo romore, chiamò lo cancelliero e li priori, dicendo che alla porta di San Salvadore si gridava: “All'arme, all'arme!” E li priori diceano:

- Odi mo che che dice.

E lo guardiano dice:

- Elli gridano che la gente è dentro.

Li priori rispondono e dicono:

- Suona, campanaro, suona, campanaro, all'arme; che sie impeso!

Lo campanaro cominciò a sonare all'arme. Le guardie che erano in piazza, pigliarono l'arme, e vanno alle bocche delle vie della piazza, mettendo le catene, gridando:

- All'arme, all'arme.

Ogni gente, sentendo la campana, usciva fuori armata, pensando essere assaliti dal conte Luzzo; e venendo in piazza, trovorono le guardie a difendere le catene della piazza: li quali gridavano: “Chi è là, chi è là?” e chi diceva: “Viva messer Ridolfo”; e chi rispondea: “Amici, amici”; ed era sí grande lo romore che non s'udía l'un l'altro, essendo tutto lo populo armato in piazza, aspettando la gente ad ora ad ora, però che molti diceano che la gente era dentro, e che era giunta a una chiesa che si chiama San Giorgio, la quale è a mezza via dalla porta alla piazza.

Vedendo li priori che niuno non venía, mandando certi messi verso la detta porta per sapere novelle, e molti ve n'andorono che feciono come il corbo, che mai non tornorono. Fra li quali fu mandato un frate Antonio dell'ordine di Santo Antonio, il quale avea uno palvese in braccio e con uno battaglio d'una sua campana in collo, il quale il dí dinanzi era caduto da una sua campana; andando per sapere del romore e recarne novelle, ritornando con la imbasciata, lo detto frate cadde sul detto palvese, e perché elli era molto grande che parea uno gigante, non potendo sbracciar lo palvese, non si potea levare, ed era poco dilungi dalla piazza; un altro stava su la via poco dilungi dalla piazza, udendo il detto fracasso del palvese che facea il detto frate per levarsi e non potea, cominciò a gridare:

- A me, brigata, che ecco la gente.

Un altro cominciò a gridare:

- A loro, a loro.

E una parte uscí fuori delle catene e andavano per la via, gridando:

- Alla morte, alla morte.

E quando furono presso al frate che era in terra, chi gridava:

- Chi e' tu?

E chi gridava:

- Rendite, traditore.

E chi gridava:

- Chi vive?

E 'l frate che giacea in terra, gridava:

- Accorrete per l'amor di Dio.

Vedendo costoro che questo era il frate, con gran pena lo levarono su. Egli era tutto dirotto, però che quando cadde in terra, il battaglio uscendogli di mano, e l'uncino s'appiccò allo scapulare, e volendosi lo detto frate rilevare, lo battaglio gli avea molto dato per gli fianchi e per le reni; e per questo tutto era pesto ed era quasi mezzo morto. E ritornando alla piazza con la detta brigata, andò alli priori dicendo la novella della detta acqua, e com'elli era caduto, e al pericolo ch'elli era stato; dicendo che, se quello guardiano che lo udí bussare non l'avesse udito, ch'egli sería morto ivi; dicendo alli priori che, poiché Dio l'avea campato di questo, che mai palvese non portaria piú; e com'elli giugnesse a casa, di quello farebbe mille pezzi, per non portarlo mai piú. Li priori udendo la detta novella, ritornò loro il polso che quasi aveano perduto, dando licenza ad ogni uomo che ritornasse a casa. E di questa novella, e per Macerata e per l'altre terre da presso, piú dí n'ebbono gran piacere considerando all'acqua e alla caduta di frate Antonio.

E cosí sono spesse volte e ignoranti e matti i popoli che in tempo di guerra massimamente, cadendo un quarto di noci, o rompendo una gatta uno catino, si moveranno a romore credendo che siano inimici: e su questo come tordi ebbri s'anderanno avviluppando perdendo ogni loro intelletto.

 

 

NOVELLA CXXXIII

 

 

Uberto degli Strozzi, essendo de' Priori, al tempo che lo Imperadore Carlo passò a pigliare la corona, in uno dí con due piacevoli detti quella tristizia fa convertire in risa.

 

Quando lo imperadore Carlo re di Buem passò in Italia a pigliare la corona, essendo in Italia molto prosperato, e spezialmente in Toscana, avendo Pisa e Siena e Lucca, a' Fiorentini parea stare assai male. Era fra quelli tempi de' priori Uberto degli Strozzi e Salvino Beccanugi, e altri loro compagni; li quali facendo un consiglio di richesti, ed essendo molti cittadini ragunati nella sala, e confortandosi per li savi la gente; dicendo alcuni esso, per non aver denari, convenirsi tosto partire di Toscana; altri diceano: “Di maggiori pericoli siamo campati”; e confortavasi la brigata molto con gli aglietti, Uberto degli Strozzi che era de' priori, era uno uomo antico e piacevolissimo quanto avesse la nostra città, e con questo era molto povero; Salvino Beccanugi era anco poverissimo. Di che essendo nel consiglio de' richiesti per li consiglieri detto quanto facea di bisogno; Uberto degli Strozzi per l'ufficio de' priori si levò su, e disse:

- Savi consiglieri, i Signori hanno udito li vostri consigli, e veggendogli molto uniti n'hanno preso grandissimo conforto, pensando tosto metterli ad esecuzione. Una cosa vi voglio dire come Uberto: il diavolo non è nero come si dipigne. Questo imperadore ci può star molti dí, come volare per aria; però che veramente sappiamo ch'egli è piú povero che non è Salvino Beccanugi, che è qui nostro compagno.

Salvino era molto antico: sente dire questo a Uberto, levasi e faglisi incontro, dicendo:

- Che di' tu, che di' tu di me? che povero? io sono piú ricco di te.

Ed era sí infiammato che Uberto non potea fare conclusione al suo dire; e dice:

- Per dire il vero, non sono lasciato dire: Salvino m'interrompe il dire; apri la porta, e andatevi con Dio.

Or di questo Salvino non si potea dar pace, perché rimase tutto scornato, contendendo con Uberto. E Uberto li dicea:

- Deh, Salvino, dattene pace; che cosí foss'io ricco io, come tu se' de' piú poveri uomeni ch'io sappia.

E Salvino piú infiammava. E durò la detta questione tanto che, tornati nella udienza, fece il proposto venire un buon vino e de' confetti, e fece far pace insieme a quelli due poveri gentiluomeni. E quel dí medesimo, essendo andato Rosso de' Ricci, che poi fu messer Rosso, a provvedere alle castella, tornò dinanzi a' Signori, e ragionando e rapportando: il tale castello ha bisogno della tal cosa, e lo tale della tale, disse come al castello di Fucecchio bisognava vi si mandassono tre bombarde. Come Uberto l'ebbe udito, alza la gamba e lascia andare una gran coreggia, dicendo:

- Eccon'una, fatti dare a' compagni l'altre due.

Rosso, sentendo la bombarda, ristrignesi nelle spalle, ed esce fuori dicendo:

- Io sono pagato pur di buona moneta da questi mie' Signori; se io avessi tal onore dell'altre cose, io potrei star molto lieto.

I priori smascellavano delle risa, e fra quelle riprendeano Uberto; e spezialmente Salvino che dicea:

-                                 Io fo bot'a Dio; Uberto...   tutti gli uomini per asini tu troverrai... che ti farà di quello, che ben ti... –

Dice Uberto:

- E’ non ne poteva andar di meno... una brigata si vanno trastullando alle spese del comune; e poi tornano, e per mostrare abbiano fatte cose maravigliose dicono che si mandino le bombarde a Peteccio. Io torrei a sostenere che Aristotile non averebbe meglio risposto, e che in questo palagio mai non si fece piú bella risposta a simile materia.

E’ priori con le risa pensarono forse Uberto non avere il torto; e a Rosso dissono che metterebbono ad esecuzione quello che a loro avea rapportato; e ancora il commendavano che ottimamente avea fatto. E Uberto dicendo:

- Non guardare, Rosso, alla risposta che io ti feci, però che 'l male del fianco m'ha assalito già fa due dí: non te ne curare.

Rosso rispose come si convenía, e nel commiato disse:

- Ogni acconcio d'Uberto è mio, e spezialmente essendo de' miei Signori; però che le cattive cose non si vogliono tenere, ma voglionsi lasciare andare -; e andossi con Dio.

 

 

NOVELLA CXXXIV

 

Petruccio da Perugia, essendoli dato per debitore il Crocifisso dal suo prete, va con una scure percotendo il Crocifisso, e volendo da lui per ogni denaio cento, in fine è pagato.

 

In quello di Perugia fu già uno che avea nome Petruccio, uomo di nuova condizione, assai diverso. E andando ogni domenica a udire la messa al suo popolo, ad una chiesa che si chiama Santo Agapito, il prete ricogliendo l'offerta dicea com'è d'usanza: Centum per unum accipietis et possidebitis vitam aeternam ; e mettea li danari in uno ceppo che era ivi presso collegato nel legno appiè d'un Crocifisso. Di che continuando queste messe e questa offerta, disse un dí Petruccio al prete:

- Questo cento per uno che ci promettete, e quando gli averemo? e chi ce li de' dare?

Disse il prete:

- Questo nostro Signore, il quale è qui in croce, ogni volta che tu vorrai, purché tu voglia, ti renderà cento per uno; ed elli li riceve, come tu vedi, che tutti gli do a lui, mettendoli in quel ceppo.

Disse Petruccio:

- Se cotesto è, ben mi piace.

Sta un mese e sta due; e avvisandosi che 'l Nostro Signore si movesse a dargli cento per uno, e 'l pagamento non venía; né colui, cioè Nostro Signore che gli era dato in pagamento, non si movea; una sera disse Petruccio:

- Io non sono pagato dal debitore che 'l prete piú volte m'ha assegnato; piú non intendo di aspettare. Per certo conviene ch'io sappia se io debbo esser pagato da questo debitore che 'l prete m'ha dato tante volte.

E toglie una scure, e vassene un dí nella chiesa, rimpetto al Nostro Signore, e dice:

- Rendimi li miei denari.

Nostro Signore si stava, e fermo e cheto; dice Petruccio:

- E’ par che tu mi gabbi; e peggio, che non mi rispondi; per le chiabellate e per le budella, che conviene che tu mi paghi -; e dà della scure sí fatta nel ceppo, dov'erano i denari, che 'l ceppo si spezzò, e con tutti li denari e con lo Crocifisso ne viene in terra.

Veggendo Petruccio li denari per terra, ricolse li denari, e dice:

- Va', tu non mi credevi; cosí t'acconcerò io, se non mi paghi; non ci ho ancor del sacco le cordelle - , e vassene con dieci lire, o circa.

Torna il prete alla chiesa, vede questo fracasso per terra, volgesi a una casiera che avea, e dice:

- Chi diavol c'è stato? che truovo lo cippo spezzato, e rubati li danari, e 'l Crocifisso per terra, come che di quello poco mi curo.

Dice la casiera:

- Io ci vidi entrare Petruccio; non so se l'avesse fatto elli.

Il prete va, e truova Petruccio, e dice:

- Io ci ho trovato il tal lavorío fatto in chiesa; ed èmmi detto tu fosti là; averesti veduto chi ce l'avesse fatto?

Dice Petruccio:

- Hoccelo fatto io.

Disse il prete:

- O perché?

E Petruccio risponde:

- Questo è lo pagamento delle promesse che m'hai detto, che sí novo ci ti mostri? mille volte m'hai promesso che ci riceverò cento per uno, e che quello che buttai per terra me gli dovea dare, [né mai] non ci pote' aver danaro, se non fusse [quello] che ci ho fatto, bontà della scura.

E dicoti ancora che ne rimango aver assai; se non ci fai accordare, e non trovass'io pagatore, lo giuoco che ho fatto a quisto farò a te isso.

Il prete dice:

- Ah Petruccio mio! tu non m'hai bene inteso; ché io ti dicea che cento per uno ti darebbe nell'altro mondo.

Dice Petruccio:

- Sicché m'assegni quello che non saccio? e che saccio che ci sia nell'altro mondo? e che bisogno ci avrò là di denari? arò a comprare delle fave? se non ci sono pagato interamente, vedrai quello che ti farò.

Il prete veggendosi mal parato, e che per questo venía a perder la divozione della chiesa, s'accordò con Petruccio, e diégli altrettanti denari, e pregollo che mai piú offerta non gli desse; e cosí fece.

E cosí questo prete pagò a contanti quello, di che facea debitore Cristo nell'altro mondo. E intervenisse cosí agli altri, non bisognerebbe dire: Centum per unum accipietis.

 

 

NOVELLA CXXXV

 

Bertino da Castelfalfi, facendo una cortese lemosina a uno saccardo povero e infermo, essendo da' nimici preso, dal detto saccardo in avere e in persona è liberato.

 

Come nella precedente novella era assegnato al Perugino cento per uno nell'altro mondo, cosí nella seguente voglio dimostrare come un buon uomo, servendo un vile saccardo con uno dono d'una piccola cosa, fu meritato da lui e dell'avere e della persona; e non è mill'anni che questo fu, ma è sí piccolo tempo che io ho favellato al buon uomo a cui questa novella che io racconterò, avvenne; il quale fu Bertino da Castelfalfi, uomo di bonissima condizione, e asgiato contadino, e, secondo suo pari, ricco di bestiame. Aveva recato costui, nel tempo ch'e' Fiorentini aveano guerra col conte di Virtú, anno 1391, suoi casci freschi, fatti di pochi dí, a vendere al mercato a Santo Miniato, e stando su la piazza con questi casci, e uno saccardo infermo con uno pezzo di pane in mano domandò a questo Bertino un poco di quel cascio, per mangiarlo con quel pane. Bertino disse:

- To' ciò che tu vuogli -; ed egli peritandosi, e Bertino ne tolse uno, e disse: - Togli, mangia -; e avea questo Bertino molto grosso il dito grosso della mano ritta.

Lo saccardo, togliendo il cascio, si puose ivi a sedere; e pigliandone uno pezzo, lo mangiò con quello cotanto pane che avea. Quando l'ebbe mangiato, disse:

- Gnaffe, buon uomo, io non ho alcuno denaio da darti, e non ho piú pane.

Bertino avendo pietà di costui, avea due pani con seco, toglie questi due pani, e disse:

- Vie' qua con meco -; e toglie l'avanzo del cascio, e menollo alla taverna, e ivi gli mise li due pani innanzi, e disse: - Mangia gagliardamente.

Essendo costui ed elli alla taverna, mangiò quanto li piacque e del pane e del cascio di Bertino; e del vino, che Bertino fece venire, bevve quanto gli fu di piacere. Fatto che Bertino ebbe questa cortese lemosina, disse:

- Va', che sie benedetto -; e partissi.

Avvenne poi per caso che certa gente d'arme de' nimici, cavalcando verso Castelfalfi se ne menorono molto bestiame minuto del detto Bertino. E avendolo menato, feciono loro avviso che colui, di cui egli era, andrebbe per riscattarlo; e missono certo aguato. E cosí venne lor fatto; che andando Bertino co' suoi fiorini, da costoro fu preso e menato a Casole, su quel di Volterra: e là fu nelle gambe sconciamente inferriato. E cosí stando un giorno co' ferri in gamba al sole, lo saccardo, a cui elli avea dato il cascio, passando dove Bertino assai tapino si stava, cominciò a figurare il detto Bertino, e avendolo mirato un pezzo, dice:

- Buon uomo, e' mi ti par pure conoscere.

E Bertino, guardando lui, dicea:

- Gnaffe, io non conosco te, ch'io sappia.

E questo era assai possibile; però che 'l saccardo era guerito, e bene in arnese; e dice a Bertino:

- Per certo tu se' esso, per tal segnale, che tu hai il dito grosso.

Allora Bertino cominciò quasi a conoscerlo. E 'l saccardo disse:

- Raccordati del cascio che mi desti a Santo Miniato?

E quelli disse:

- Figliuolo mio, io ti conosco ora.

Dice il saccardo:

- Non voglia Dio che io non te ne renda guidardone; farai com'io ti dirò: io ti recherò domattina una lima sorda, con che tu segherai cotesti ferri; e menerò colui, che t'ha preso, altrove, e io tornerò per te, e accompagnerotti insino a casa tua.

Bertino disse:

- Figliuolo, io terrò sempre la vita per te.

Questo saccardo la mattina portò la lima a Bertino, e menò alla taverna chi 'l tenea preso; e quando fu bene avvinazzato, lo condusse a giucare; ed essendo avviluppato nel giuoco, il saccardo lo lasciò e tornò a Bertino, il quale s'era spastoiato, e condusselo a Castelfalfi, e mai non lo abbandonò. Dove il detto Bertino gli volle dare de' suoi fiorini, e nessuno non ne volle torre, e tornossene.

Quanta virtú ebbe questo saccardo, e quanta remunerazione usò in un piccolo benefizio ricevuto, è cosa maravigliosa a udire. Io per me credo, se fusse stato de' maggiori Romani, serebbe degno di memoria. E però non si può errare a servire, e sia l'uomo minimo quanto vuole; però che Isopo ci ammaestra nella sua favola, quando il leone ebbe bisogno del ratto, dicendo: Tu, qui summa potes, ne despice parva potenti .

 

 

NOVELLA CXXXVI

 

Prova maestro Alberto, che le donne fiorentine con loro sottigliezza sono i migliori dipintori del mondo, e ancora quelle che ogni figura diabolica fanno diventare angelica, e visi contraffatti e torti maravigliosamente dirizzare.

 

Nella città di Firenze, che sempre di nuovi uomeni è stata doviziosa, furono già certi dipintori e altri maestri, li quali essendo a un luogo fuori della città, che si chiama San Miniato a Monte, per alcuna dipintura e lavorío che alla chiesa si dovea fare; quando ebbono desinato con l'Abate e ben pasciuti e bene avvinazzati, cominciorono a questionare; e fra l'altre questione mosse uno, che avea nome l'Orcagna, il quale fu capo maestro dell'oratorio nobile di Nostra Donna d'Orto San Michele: - Qual fu il maggior maestro di dipignere, che altro, che sia stato da Giotto in fuori? - Chi dicea che fu Cimabue, chi Stefano, chi Bernardo, e chi Buffalmacco, e chi uno e chi un altro. Taddeo Gaddi, che era nella brigata, disse:

- Per certo assai valentri dipintori sono stati, e che hanno dipinto per forma ch'è impossibile a natura umana poterlo fare -; ma questa arte è venuta e viene mancando tutto dí.

Disse uno, che avea nome maestro Alberto, che era gran maestro d'intagli di marmo:

- E’ mi pare che voi siate forte errati, però che certo vi mosterrò che mai la natura non fu tanto sottile quant'ella è oggi, e spezialmente nel dipignere, e ancora del fabbricare intagli incarnati.

Li maestri tutti, udendo costui, rideano, come se fossi fuora della memoria. Dice Alberto:

- O voi ridete! io ve ne farò chiari, se voi volete.

Uno, che avea nome Niccolao, dice:

- Deh, faccene chiari per lo mio amore.

Alberto risponde:

- Ciò farò, poiché tu vuogli; ma ascoltate un poco - (perché tutti erano a modo delle galline, quando schiamazzono); e Alberto comincia, e dice: - Io credo che il maggior maestro che fosse mai di dipignere, e di comporre le sue figure, è stato il nostro Signore Dio; ma e' pare che, per molti che sono, sia stato veduto nelle figure per lui create grande difetto, e nel tempo presente le correggono. Chi sono questi moderni dipintori e correttori? Sono le donne fiorentine. E fu mai dipintore, che sul nero, o del nero facesse bianco, se non costoro? E’ nascerà molte volte una fanciulla, e forse le piú, che paiono scarafaggi; strofina di qua, ingessa di là, mettila al sole, e' fannole diventar piú bianche che 'l cecero. E qual artista, o di panni, o di lana, o dipintore è, che del nero possa far bianco? certo niuno; però che è contro natura. Serà una figura pallida e gialla, con artificiati colori la fanno in forma di rosa. Quella che per difetto, o per tempo, pare secca, fanno divenire fiorita e verde. Io non ne cavo Giotto, né altro dipintore, che mai colorasse meglio di costoro: ma quello che è vie maggior cosa, che un viso che sarà mal proporzionato, e avrà gli occhi grossi, tosto parranno di falcone; avrà il naso torto, tosto il faranno diritto, avrà mascelle d'asino, tosto l'assetteranno; avrà le spalle grosse, tosto le pialleranno; avrà l'una in fuori piú che l'altra, tanto la rizzafferanno con bambagia che proporzionate si mostreranno con giusta forma.

E cosí il petto, e cosí l'anche, facendo quello sanza scarpello che Policreto con esso non averebbe saputo fare. E abbreviando il mio dire, io vi dico e raffermo che le donne fiorentine sono maggiori maestre di dipignere e d'intagliare, che mai altri maestri fossono; però che assai chiaro si vede ch'elle restituiscono dove la natura ha mancato. E se non mi credete, guardate in tutta la nostra terra, e non troverrete quasi donna che nera sia. Questo non è che la natura l'abbi fatte tutte bianche; ma per istudio le piú, di nere son diventate bianche. E cosí è, e del loro viso e dello 'mbusto, che tutti, come che naturalmente siano e diritti e torti e scontorti, da loro con molti ingegni e arti sono stati ridotti a bella proporzione. Or se io dico il vero, l'opera lodi il maestro.

E voltosi alla brigata, disse:

- E voi che dite?

Allora tutti a romore di populo dicono, gridando:

- Viva il messere, che troppo bene ha giudicato -; e su quella prateria, ch'è di fuori, dopo l'assoluta questione, dierono a maestro Alberto la bacchetta, e feciono venire del vino della botte, con lo quale si rifiorirono molto bene, dicendo all'Abate che la domenica seguente tornerebbono tutti a dire il loro parere sopra quello di che avevono aúto consiglio. E cosí, la seguente domenica, tutti insieme, tornorono a fare con lo Abate quello medesimo che aveano fatto quel dí, salvo che portarono...

 

 

NOVELLA CXXXVII

 

Come le donne fiorentine, senza studiare o apparare leggi, hanno vinto e confuso già con le loro legge, portando le loro fogge, alcuno dottore di legge.

 

Assai è dimostrato nella precedente novella quanto le donne fiorentine con sottile industria avanzano di dipignere tutti li dipintori che furono mai; e come li diavoli fanno parere e diventare angioli di bellezza; e ancora come ogni difetto di natura elle addirizzano e racconciano. Ora in questa voglio mostrare come la loro legge ha già vinto gran dottori, e come elle sono grandissime loiche, quando elle vogliono.

Egli è non gran tempo che io scrittore essendo, benché indegno, de' Priori nella nostra città, venne uno judice di ragione, il quale avea nome messer Amerigo degli Amerighi da Pesaro, bellissimo uomo del corpo, e ancora valentissimo della sua scienza. E appresentandosi nella sua venuta all'officio nostro con quelle solennità e parole che bisogna, andò ed entrò nell'officio. Ed essendosi fatta nuova legge sopra gli ornamenti delle donne, fu poi da ivi a certi dí mandato per lui, e ricordato che sopra quelli ordini procedesse tanto sollecitamente quanto si potesse; e quelli rispose di farlo. E andato alla sua casa, veduto sopra quelli ordini, piú e piú dí la sua famiglia andò cercando; e quando il notaio tornava, gli diceva, quando trovava alcuna donna, com'elli la volea scrivere, l'argomento che ciascuna facea, e 'l notaio ne parea quasi che mezzo uscito di sé; e messer Amerigo avea notato e considerato tutti i rapporti del suo notaio.

Avvenne per caso che, veggendo certi cittadini le donne portare ciò che elle voleano senza alcun freno; e sentendo la legge fatta; e ancora sentendo l'officiale nuovo esser venuto; vanno di loro certi a' Signori, e dicono che l'officiale nuovo fa sí bene il suo officio che le donne non trascorsono mai nelle portature come al presente faceano. Onde li Signori mandorono per lo detto officiale, e dicendoli come si maravigliavono del negligente officio che facea sopra gli ordini delle donne, il detto messer Amerigo rispose in questa forma:

- Signori miei, io ho tutto il tempo della vita mia studiato per apparar ragione, e ora, quando io credea sapere qualche cosa, io truovo che io so nulla, però che cercando degli ornamenti divietati alle vostre donne per gli ordini che m'avete dati, sí fatti argomenti non trovai mai in alcuna legge, come sono quelli ch'elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni. E’ si truova una donna col becchetto frastagliato avvolto sopra il cappuccio; il notaio mio dice: “Ditemi il nome vostro; però che avete il becchetto intagliato”; la buona donna piglia questo becchetto che è appiccato al cappuccio con uno spillo, e recaselo in mano, e dice ch'egli è una ghirlanda. Or va piú oltre, truova molti bottoni portare dinanzi; dicesi a quella che è trovata: “Questi bottoni voi non potete portare”; e quella risponde: “Messer sí, posso, ché questi non sono bottoni, ma sono coppelle, e se non mi credete, guardate, e' non hanno picciuolo, e ancora non c'è niuno occhiello”. Va il notaio all'altra che porta gli ermellini, e dice: “Che potrà apporre costei?” “Voi portate gli ermellini”; e la vuole scrivere; la donna dice: “Non iscrivete, no, ché questi non sono ermellini, anzi sono lattizzi”; dice il notaio: “Che cosa è questo lattizzo?” e la donna risponde: “È una bestia”. E 'l notaio mio come bestia...Truova spesse volte donne con...

- Noi abbiamo tolto a contender col muro.

Dice un altro:

- Me' faremo attendere a' fatti che portano piú.

Dice l'altro:

- Chi vuole il malanno, sí se l'abbia.

E infine dice uno:

- Io vo' che voi sappiate ch'e' Romani non potero contro le loro donne, che vinsono tutto il mondo; ed elle per levar gli ordini sopra gli ornamenti loro, corsono al Campidoglio, e vinsono e' Romani, avendo quello che voleano; per tal segnale che Coppo del Borghese in una novella di questo libro leggendo in Tito Livio la detta istoria, ne fu per impazzare. E cosí allegando or l'uno or l'altro, fu detto per tutto l'officio a messer Amerigo, che guardasse di far quello che ben fosse e l'avanzo si stesse. E questo fu detto in tal ora, e in tal punto, che quasi d'allora in qua nessuno officiale quasi ha fatto officio, o datosene fatica; lasciando correre le ghirlande per becchetti, e le coppelle e i lattizzi, e' cinciglioni. E però dice il Friolano: “Ciò che vuole dunna, vuol signò; e ciò che vuol signò, tirli in birli”.

 

 

NOVELLA CXXXVIII

 

Non essendo obbedito dalla sua famiglia Buonanno di ser Benizo, armatosi tutto a ferro, corre la casa per sua.

 

Buonanno di ser Benizo fu uno fiorentino mercatante di spezieria. Era un uomo basso e largo e grosso; andava con uno tabarro, sempre sgollato, piloso molto nel collo; e avea per costume di bere la mattina, quando una volta e quando piú; e alcuna fiata s'abbatté a tale, che dicendo: “Andiamo a bere”; e 'l compagno gli dicea:

- Io non berei, se non fussi la cotal ora -; e Buonanno dicea:

- A cotest'ora purgo io il ventre -; ma dicealo a lettere grosse.

Ora venendo al fatto, questo Buonanno avea una sua moglie molto diversa; e quando Buonanno dicea: “Mela”; ed ella dicea: “Mela e pera”, sempre borbottando e attraversando, e con lei non potea aver concordia. E veggendo il fante e la fante che la donna delle sue contese le piú volte rimanea al disopra, el fante e la fante ancora, ritrosendo contra Buonanno, poco il serviano. Onde, veggendosi Buonanno mal parato, pensò un dí d'andare in uno suo fondachetto, e ivi (ché v'erano l'armadure) s'armò da capo a piede; e quando fu armato, si reca in mano una sua spada nuda, ed esce fuori e comincia in terreno correre per tutto e dar della spada per gli assiti, gridando:

- Viva Buonanno.

Per tutto il terreno non trovò se non il fante; verso cui percosse con la spada di piatto, dicendo:

- Che viva?

Il fante mezzo fuor di sé, dice:

- Che vuol dir questo?

Dice Buonanno:

- Viene a dire panico pesto -; e dàgli di piatto sul capo, e dice: - Di', viva Buonanno, o io t'ucciderò.

Il fante grida alle maggiori voci che poteo:

- Viva Buonanno.

E Buonanno dàlla su per la scala, e giugne alla cucina:

- Viva Buonanno.

La fante cominciò tutta a tremare. Buonanno dà con la spada in una pentola, e fanne mille pezzi. La fante stava come smemorata, e per la putta paura grida:

- Viva Buonanno, viva Buonanno.

E Buonanno ritorna in sala; e nel mezzo di quella, cavate e poste le brache, grida vie piú forte:

- Chi vuol portar le brache or ne venga per esse -; e grida: - Viva Buonanno -; facendo intorno alle brache grandissimi colpi e grandissime menature.

La donna, udendo il romore, fassi in capo di sala. E Buonanno cosí armato si fa incontro:

- Viva Buonanno; - e dàgli una buona di piatto.

La donna dice:

- Se' tu, Buonanno? o che vuol dir questo?

E Buonanno croscia un'altra buona piattonata:

- Viva Buonanno.

Ancora nol disse; onde Buonanno tocca la terza

- Io dico: di': viva Buonanno, o io t'ucciderò.

La donna a mal in corpo dice:

- Viva Buonanno, viva Buonanno.

E cosí per tutta la casa per questo modo trascorre.

E tornando verso la moglie e l'altra famiglia, disse:

- Ècci nessuno che si vogli mettere le mie brache? elle sono qui in terra, vada per esse. Io sono il signore...

 

 

NOVELLA CXXXIX

 

Uno Massaleo da Firenze, essendo in prigione con uno giudice stato della Mercatantia, con una strana piacevolezza usata nel giudice si mostra avere errato.

 

Massaleo degli Albizi fu uno nuovo uomo, e con molte nuove piacevolezze. Essendo costui stato in prigione buon pezzo e ancora essendovi, venne per caso che uno giudice della Mercatantia, assai giovane e pulito e chiaro, nel tempo del suo sindacato, per certa cosa accusato, non potendo per quella dar mallevadore, convenne che andasse alle Stinche. Massaleo veggendo questo giudice, entrò con lui in ragionamento, e per quello che v'era, e molte altre cose; e in fine lo invitò a cena, ed elli cenò con lui. Avendo cenato, e vegliato un pezzo, Massaleo veggendo che 'l giudice ancora non era fornito del suo letto, lo invitò a dormire con lui; e 'l giudice ancora, veggendo la domestichezza di Massaleo, si coricò nel letto. Dove ragionato che ebbono un pezzo, e venendo sul cominciare a sonneferare; e Massaleo mosso piú per piacevolezza che per vizio, e per comprendere un poco de' modi del giudice, però che a lui stesso parea un bigolone, disteso il braccio per lo letto verso lui, gli pigliò il picciuolo, e cominciandolo a rimenare; il giudice, che già era mezzo addormentato, subito destossi, dice:

- Oimè, o che fé a costui vu?

Massaleo subito risponde:

- Perdonatemi, che io credea che fosse il mio.

E 'l giudice disse:

- In fé di Dio, voi smarriresti bene un'altra cosa, quando voi smarrite questa.

E Massaleo disse:

- Io era abbarbagliato già dal sonno, e non credea che altro che 'l mio ci fosse in questo letto - : e cominciò ad allegare con una gramatica grossa: - Domine judex, reputate non esse malitiam, sed errorem.

Dice il giudice:

- Mo, messer Massaleo, e' par che vo' sia per caleffare; lagàme dormire, che io ve ne prego.

E Massaleo ed egli s'addormentorono, e cosí finí quest'opera. Che saputa che questa novella di fuori fu per Firenze, li piú valenti uomeni che v'erano scoppiavono delle risa.

E 'l giudice poi per maraviglia del grande errore, e di Massaleo, quando a ciò pensava, parea quasi un uomo invasato; e fecesi recare un letto per lui, e in quello, mentre che stette in prigione, si dormí, acciò che Massaleo piú non cadesse in simile errore.

 

 

 

NOVELLA CXL

 

Tre ciechi fanno compagnia insieme, e veggendo la loro ragione a Santa Gonda, vegnono a tanto che si mazzicano molto bene insieme, e dividendo l'oste e la moglie, sono da loro anco mazzicati.

 

Nel popolo di Santo Lorenzo presso a Santa Orsa nella città di Firenze tornavano certi ciechi, di quelli che andavono per limosina, e la mattina si levavono molto per tempo, e chi andava alla Nunziata, e chi in Orto San Michele, e chi andava a cantare per le borgora, e spesse volte deliberavano che, quando avessono fatta la mattinata, si trovasseno al campanile di Santo Lorenzo a desinare, dove era uno oste che sempre dava mangiare e bere a' loro pari. Una mattina essendovene due a tavola, e avendo desinato, dice l'uno, ragionando del loro avere, o della loro povertà:

- Io accecai fors'è dodici anni, e ho guadagnato forse mille lire.

Dice l'altro:

- Ohi tristo a me sventurato, ch'egli è sí poco che io accecai, che io non ho guadagnato duecento lire.

Dice il compagno:

- O quant'è che tu accecasti?

Dice costui:

- È forse tre anni.

Giugne uno terzo cieco, che avea nome Lazzero da Corneto, e dice:

- Dio vi salvi, fratelli miei.

E quelli dicono:

- Qual sei tu?

E quelli risponde:

- Sono al buio, come voi -; e segue: - E che ragionate? E quelli contorono il tempo de' loro guadagni.

Disse Lazzero:

- Io nacqui cieco, e ho quarantasett'anni; s'io avessi e' danari che io ho guadagnati, io sarei il piú ricco cieco di Maremma.

- Bene sta, - dice il cieco di tre anni, - che io non truovo niuno che non abbia fatto meglio di me.

E facendo cosí tutti e tre insieme, dice questo cieco:

- Di grazia, lasciamo andare gli anni passati; vogliàn noi fare una compagnia tutti e tre, e ciò che noi guadagnamo, sia a comune; e quando andremo fuori tutti tre, noi andremo insieme, pigliandoci l'uno con l'altro; se bene bisognerà chi ci meni, il piglieremo.

Tutti s'accordorono, e alla mensa s'impalmorono e giurorono insieme. E fatta questa loro compagnia alquanto in Firenze, uno che gli avea uditi fermare questo loro traffico, trovandogli uno mercoledí alla porta di Santo Lorenzo, dà all'uno di loro un quattrino, e dice:

- Togliete questo grosso tra tutti tre voi -; e continuando, dove costoro si fermavano insieme a certe feste, costui facea sempre limosina d'uno quattrino, dicendo: - Togliete questo grosso tra tutti e tre.

Dice colui, che lo riceve alcuna volta:

- Gnaffe, e' ci è dato un grosso che a me par piccolo com'uno quattrino.

Dicono gli altri due:

- O non ci cominciare già a volere ingannare.

Questi rispose:

- Che inganno vi poss'io fare? quello che mi fia dato, io metterò nella tasca, e cosí fate voi.

Disse Lazzero:

- Fratelli, la lealtà è bella cosa.

E cosí si rimase; e ciascuno ragunava; e deliberarono tra loro ogni capo d'otto dí mescolare il guadagno e partire per terzo.

Avvenne che, ivi a tre dí che questo fu, era mezzo agosto; di che si disposono, come è la loro usanza, d'andare alla festa della nostra Donna a Pisa; e movendosi ciascuno con un suo cane a mano, ammaestrato, come fanno, con la scodella, si misono in cammino cantando la intemerata  per ogni borgo; e giunsono a Santa Gonda un sabato, che era il dí di vedere la ragione e partire la moneta; e a uno oste, dove albergorono, chiesono una camera per tutti e tre loro, per fare li fatti loro quella notte; e cosí l'oste la diede loro.

Entrati questi ciechi con li cani e co' guinzagli a mano, quando fu il tempo d'andare a dormire nella detta camera, disse uno di loro, che avea nome Salvadore:

- A che ora vogliam noi fare la nostra faccenda?

Accordoronsi, quando l'oste e la sua famiglia fosse a dormire; e cosí feciono. Venuta l'ora, dice il terzo cieco che avea nome Grazia, ed era quello che era stato men cieco:

- Ciascuno di noi segga, e nel grembo noveri gli danari ch'egli ha, e poi faremo la ragione; e colui che n'avrà piú, ristorerà colui che n'avrà meno.

E cosí furono d'accordo, cominciando ciascuno annoverare. Quando ebbono annoverato, dice Lazzero:

- Io trovo, secondo ho annoverato, lire tre, soldi cinque, danari quattro.

Dice Salvadore:

- E io ho annoverato lire tre, danari due.

Dice Grazia:

- Buono, buono; io ho appunto quarantasette soldi.

Dicono gli altri:

- O che diavolo vuol dire questo?

Dice Grazia:

- Io non so.

- Come non sai? che déi avere parecchi grossi in ariento piú di noi, e tu ce la cali a questo modo: è la compagnia del lupo la tua: tu hai nome Grazia, ma a noi se' tu disgrazia.

Dice costui:

- Io non so che disgrazia; quando colui dicea che ci dava un grosso, a me parea egli uno quattrino; e che che si fosse, come io vi dissi, io il mettea nella tasca; io non so; io serei leale come voi in ogni luogo, che mi fate già traditore e ladro.

Dice Salvadore:

- E tu se', poiché tu ci rubi il nostro.

- Tu menti per la gola, - dice Grazia.

- Anzi menti tu.

- Anzi tu - , e cominciansi a pigliare e dare delle pugna; e danari caggiono per lo spazzo.

Lazzero, sentendo cominciata la mischia, piglia la sua mazza, e dà tra costoro, per dividerli; e quando costoro sentono la mazza, pigliano le loro e cominciansi a batacchiare, e tutti li danari erano caduti per lo spazzo. La battaglia cresce, gridando, e giucando del bastone; li loro cani abbaiavono forte, e tale pigliava per lo lembo co' denti or l'uno or l'altro; e' ciechi, menando le mazze, spesso davano a' cani, e quelli urlavano: e cosí parea questo uno torniamento. L'oste, che dormía di sotto con la moglie, dice alla donna:

- Abbiàn noi demoni di sopra?

Levasi l'uno e l'altro, e tolgono il lume e vanno su, e dicono:

- Aprite qua.

I ciechi, che erano inebriati su la battaglia, udivano come vedeano. Di che l'oste pinse l'uscio per forza, e aprendolo, intrò dentro, e volendo dividere i ciechi, ebbe d'una mazza nel viso; di che piglia uno di loro, e gittalo in terra:

- Che vermocane è questo, che siate mort'a ghiado? - e pigliando la mazza sua, dando a tutti di punta, dicea: - Uscitemi di casa.

La donna dell'oste accostandosi e schiamazzando, come le femmine fanno, uno cane la piglia pel lembo della gonnella, e quanto ne prese, tanto ne tirò. Alla per fine perdendo costoro la lena, ed essendosi molto bene mazzicati, e chi era caduto di qua e chi di là, dice Lazzero:

- Oimè, oste, che io son morto.

Dice l'oste:

- Dio gli ti mandi, uscitemi testè di casa.

E quelli tutti si dolgono e dicono:

- Oimè, oste, vedi come noi stiamo -; che aveano li visi lividi e sanguinosi - e peggio, che tutti li nostri danari ci sono caduti.

Allora l'oste dice:

- Che denari, che siate mort'a ghiado, che m'avete presso che cavato l'occhio?

Dice Lazzero:

- Perdonaci, che noi non veghiamo piú che Dio si voglia.

- Io vi dico: uscitemi di casa.

E quelli dicono:

- Rico' ci li danari nostri, e faremo ciò che tu vorrai.

L'oste fa ricogliere i danari; i quali non assegnò mezzi, e disse:

- Qui ha forse cinque lire; voi m'avete a dare delli scotti lira dua, restacene lire tre; io voglio andare al Vicario quassú, e voglio che mi faccia ragione, che m'avete fedito, e alla donna mia da' vostri cani è stata stracciata la gonnella.

Quando costoro odono questo, tutti ad una voce dicono:

- Amico, per l'amor di Dio, non ci volere disfare; togli da noi quello che possiamo, e anderenci con Dio.

L'oste disse:

- Poiché cosí è, io non so se mi perderò l'occhio; datemi tanto che io mi possa far medicare, emendate la cotardita della donna mia, che pur l'altro dí mi costò lire sette.

Brevemente, li ciechi dierono all'albergatore li danari caduti, che erano nove lire, soldi due, e altrettanti che n'aveano addosso; e cosí di notte, pregorono l'oste che perdonasse loro, e andaronsene cosí vergheggiati, chi sciancato, e chi col viso infiato, e chi col braccio guasto, per bella paura tanto oltre, che furono sul contado di Pisa, la mattina. Quando furono a una taverna appiè di Marti, cominciorono a rimbrottare l'uno l'altro; e l'oste, veggendoli sanguinosi e accaneggiati, si maravigliava, dicendo:

- Chi v'ha cosí conci?

E quelli dicono:

- Non te ne caglia - : e ciascuno addomanda uno quartuccio di vino, piú per lavarsi le busse o le percosse del viso, che per bere.

E fatto questo, dice Grazia:

- Sapete che vi dico? io facea in fede i fatti vostri, come i miei, e non fu' mai né ladro né traditore; voi m'avete dato di ciò uno buon merito, che io ne sono quasi disfatto in avere e in persona: egli è meglio corta follia che lunga, e farò come colui che dice: “Uno, due e tre, io mi scompagno da te”; e con voi non ho piú a fare nulla, e l'oste ne sia testimone -; e vassi con Dio.

Dicono questi altri:

- Tu hai nome Grazia, ma tale la dia Dio a te, chente tu l'hai data a noi.

E andossene solo a Pisa: e Lazzero e Salvadore se n'andorono anche alla festa con questa tempesta. E perché oltre all'essere ciechi, erano tutti laceri dalle bastonate, fu loro fatte a Pisa tre cotanti limosine; onde ciascuno di quelle mazzate, non che se ne dessi pace, ma e' non averebbon voluto non averle per tutto il mondo, solo per l'utilità che se ne vidono seguire.

 

 

 

NOVELLA CXLI

 

Come a uno Rettore capitò innanzi con una questione una femmina con tre sordi, e come nuovamente e piacevolmente diffiní la loro questione.

 

La passata novella di tre ciechi tira me scrittore di dire una, la quale intervenne al piú mio singulare amico che io avesse mai; e come quella racconta tre ciechi, cosí questa racconterà tre sordi. Fu adunque il mio cordiale amico Podestà in una terra non di lungi dalla nostra venticinque miglia; e quasi presso all'uscita del suo officio gli venne una questione innanzi, e già era stato tratto uno Podestà successore a lui, il quale in tutto era sordo; e 'l Podestà presente lo sapea, però che quando la campana grossissima delle tre sonava in Firenze, li vicini veggendo che costui non l'udiva, e perché non fosse preso dalla famiglia, gli accennavano, alzando le dita all'aria, che se n'andasse a casa; sí che per tutto si sapea che il sordo Podestà dovea entrare in officio da ivi a un mese. Avvenne per caso che una femmina con uno suo fratello vennono un dí a questo mio amico podestà, e la femmina cominciò a dire:

- Messer lo Podestà, io vegno a Dio e a voi, però che un mio vicino m'ha fatto col torto una grande cattività; però che per uno mio chiasso dirieto egli è entrato e hammi guasta e rotta una mia ficaia, che io avea nell'orto; e però vi prego che, com'egli me l'ha fatto col torto, che voi me lo rifacciate col diritto e con la ragione.

Il Podestà, udendo costei, avea voglia di ridere, e pur si ritenea. E poi dice questa donna:

- E questo mio fratello dee avere da lui danari di quattro opere, e la menda d'uno asino che gli guastò, non contro a voi dicendo altro che bene.

Il Podestà domanda costui s'egli è vero quello che la donna dice. Ed egli dice:

- Messer lo Podestà, io non odo ben lume; questa mia sirocchia v'ha detto come sta la cosa.

Il Podestà chiama il messo, e manda per l'altra mattina a richiedere colui che dovea avere guasto la ficaia. Venendo l'altra mattina, e la donna del richiamo, e 'l fratello, e lo richiesto, venneno alla stanga. Dice il Podestà:

- Buona donna, che domandi tu a costui?

E quella dice la ragione della sua ficaia e quella del fratello, però che era uno sordacchione balordo. Detto che l'ebbe, 'l Podestà dice all'altra parte:

- È vero quello che dice questa donna?

Colui viene aggirando gli orecchi, e dice:

- Messer lo Podestà, io non odo bene.

Alcuno che gli era allato, dicendo al Podestà che non udía, gli accostò la bocca agli orecchi, gridando forte:

- Il Podestà dice s'egli è vero.

E quelli dice:

- Io non so a quello io debbo rispondere.

Dice la donna:

- E’ si mostra delle cento miglia; egli ha ben del sordo, ma egli ode ben, quando vuole udire.

Il Podestà, per levarsi questa pena da dosso, e perché ancora erano parenti, disse alla donna che volea che la compromettessono in uno amico di mezzo, e cosí fece sonare all'altra parte negli orecchi; e brevemente e' chiamorono uno, e per l'altro dí gli fece dire, e all'albitro e alle parti, venissono a lui.

E cosí l'altro dí essendo costoro venuti innanzi al Podestà, il Podestà disse che, udita la questione, la dovesse terminare fra tre dí, alla pena di venticinque lire. Questo albitro stava come un uomo di legno; e brevemente, se le parti aveano mal udire, l'albitro era quasi sordo affatto. Quivi erano molti terrazzani, e chi ridea di qua, e chi di là. Dice il Podestà:

- Buona donna, e' non ci è niuno che oda altro che tu; e io a te dico che io voglio dare sentenza sopra questa questione.

Dice la donna, credendo subito avere ragione della sua ficaia:

- Io ve ne prego per l'amor di Dio.

- La sentenza che io do, è questa: che veggendo che l'uno e l'altro di questi che hanno la questione son sordi, e l'arbitro che avete eletto è anco sordo, e io non saprei né intendervi, né favellare per cenni; considerando che 'l nuovo Podestà ci sia di qui a un mese, a lui lascio la vostra questione.

La donna, che udiva bene, facea croce delle braccia, pregando il Podestà che la spacciasse elli, e ch'ella non dovesse stare tanto tempo ad aspettare ragione della sua ficaia. E 'l Podestà dice:

- Donna, com'io ho detto, cosí condanno; va' nella buon'ora.

La donna e' sordacchioni s'andorono a casa; e quelli che v'erano, udendo questo giudicio, compresono bene ciò che 'l Podestà volle dire.

Che altro non fu se non che, essendo coloro tutti e tre sordi, aspettassino il Podestà sordo; ed elli, come pratico de' costumi de' sordi, terminarebbe quella questione sordamente, come tra sordi si dovea terminare.

 

 

 

NOVELLA CXLII

 

Uno buffone di Casentino morde uno avaro con una nuova risposta, e fàllo ricredente della sua miseria.

 

Agnolo Moronti, vocato Agnolo Doglioso, fu uno piacevole uomo di corte di Casentino, il quale essendo per una pasqua di Natale a pasquare col conte Ruberto, ed essendovi ancora uno fiorentino assai ricco, il quale molto avea avuto diletto de' modi e de' costumi del detto Agnolo; al partirsi dietro alla pasqua, ciascuno accomiatandosi l'uno dall'altro, Agnolo pigliò per le mani il ricco fiorentino e 'l fiorentino lui, forse per aver il detto Agnolo da lui qualche cosa, come è d'usanza de' suoi pari; il fiorentino disse:

- Agnolo mio, io sono molto contento d'averti conosciuto, però che mai non vidi tanto piacevole uomo quanto tu se', e volentieri farei cosa che ti piacesse; ma non posso qui altramente essere fornito che io mi sia, però che ho poca vesta e men danari con meco; ma se tu vieni a Firenze a questi tempi, io non t'avrò mai per amico, se non te ne vieni diritto a casa; e allora ti potrò donare, non quello che tu meriti, ma quello che sarà caparra della tua amicizia, ad essere tua sempre la mia casa.

Agnolo, che non disdegnava le profferte, se non come tutti i suoi pari fanno, accettò graziosamente le profferte del fiorentino, e ancora, come uomo di buona memoria, per la festa di Santo Giovanni Battista seguente pensò d'andare a Firenze, e a casa di costui, e cosí fece. E giunto in Firenze, subito n'andò a cavallo a casa di colui che tutto il mondo dovea essere salsa. E domandando di lui, e la moglie disse che non v'era, ma che dovea essere là al canto a un ridotto. Agnolo, udendo questo, scende da cavallo, e appiccalo a un arpione di fuori, e vassene a quel luogo dove la donna disse, e trovò l'amico sedere; e Agnolo con lieta faccia, andando verso lui che sedea, non parve che 'l fiorentino l'avesse mai veduto; e Agnolo di ciò avveggendosi, fra suo cuore disse: “Io avrò fatto cattivo sogno”; e dice:

- Io sono venuto a vedere la festa, e ho voluto attenerti la promessa; io sono stato a casa tua, e ho appiccato il ronzino di fuori; io il vorrei mettere nella stalla.

Dice quel fiorentino:

- Or vedi ben sciagura, che la stalla mia è tutta impacciata, che certi lavoratori mi vennono dinanzi con some e hannola piena d'asini, per forma che non vi capirrebbe un cane, non che uno ronzino.

Agnolo presto presto dice:

- O tu che fai costí?

E quelli disse:

- Stommi, come tu vedi.

E quelli disse:

- Cosí non ti stessi tu, che tu ne seresti forsi di meglio cinquecento fiorini.

Dice costui:

- Come?

Dice Agnolo:

- Ben lo so io.

- Deh dimmi, deh dimmi.

Egli lo lasciò con questa gozzaia in quell'ora, e in quel punto, che costui non levò mai il pensiero di questi fiorini cinquecento che si dovea avere peggiorati, e da ivi a meno di due mesi si morí, e Agnolo l'avea detto per motti e per dargli che pensare. Serebbe stato il meglio, che 'l fiorentino gli avesse fatto cortesia, e non avesse ritenuto gli asini de' lavoratori, che forse non ve n'avea alcuno.

E cosí Agnolo si tornò in Casentino, e non trovò la festa come credette, ma forse la diede peggiore a colui che ne fu cagione.

 

 

NOVELLA CXLIII

 

Il Piovano da Settimo rimane scornato, perché uno, che era bastardo, scontrandolo gli dimostra, con una piacevole novella, come anco elli è mulo.

 

La passata novella dimostra come a uno fu fatto poco onore per essere affigurato a uno asino; in questa che seguita, brievemente si dimostrerrà come un altro per essere affigurato d'essere mulo, si scornò in forma che sempre fu nimico di chi gli lo disse. Fu adunque poco tempo fa, e ancora è, uno piacevolissimo e povero suo pari, il quale con la sua famiglia sempre è stato nel Castello de' Pulci, come colui che sempre è stato una creatura di que' Pulci. Era costui bastardo, e niente si curava di dirlo elli stesso, ora con uno motto, ora con un altro, pur che credesse dare diletto altrui. Al tempo che 'l Comune di Firenze ave' guerra con la Chiesa di Roma, partendosi costui, ch'era chiamato lo Innamorato, per andare a Firenze a fare alcuna sua faccenda, vidde per avventura pigliare bestie, cioè muli e asini, come si fa spesso in tempo di guerra, per mandare fuori certa vituaglia; e ritornandosi verso il castello, poi che ebbe fatta la faccenda, scontrò nella strada da Settimo il Piovano di quella pieve, il quale ancora era bastardo, che andava a Firenze. Il quale Piovano, salutando lo Innamorato, domandò che novelle avea a città. Lo Innamorato rispose:

- Andate voi là?

Disse il Piovano:

- Mai sí, che mi convien comprare certe cose che io ho bisogno.

Disse lo Innamorato:

- Io per me v'andava ancora per fare certi mia fatti; ma quando io fui alla porta, e' vi si pigliava tutti e' muli per mandare non so dove; di che io diedi volta, e sonmene venuto per non essere preso; voi, che farete, messere?

Come il Piovano ode costui, si mutò di mille colori, come colui che si sentiva essere fatto a staccio; e dice:

- Deh, datti la mala pasqua, che se' uno ribaldo.

E l'Innamorato dice:

- Deh, non v'adirate di quello che non m'adiro io.

E 'l Piovano dice:

- Dunque vuo' tu agguagliare lo stato tuo al mio?

E l'Innamorato dice:

- O volete state, o volete verno, che secondo la nazione noi nascemmo a un modo, e io per me vi tengo per maggiore fratello.

E 'l minacciare e 'l rimbrottare del Piovano fu assai, e stette coppie d'anni che non favellò allo Innamorato; il quale non vi dié nulla, dicendo questa novella e nel contado e nella città, e dando gran diletto a molti che lo stavono ad ascoltare.

 

 

NOVELLA CXLIV

 

 

Stecchi e Martellino, con un nuovo giuoco e con un lordo, in presenza di messer Mastino, con la parte di sotto gittando molto fastidio, o feccia stemperata, infardano due Genovesi con li loro ricchi vestimenti, da capo a piede.

 

Quando messer Mastino era nel colmo della rota nella città di Verona, facendo una sua festa, tutti i buffoni d'Italia, come sempre interviene, corsono a quella per guadagnare e recare acqua al loro mulino. E durante la festa, essendo là venuti due Genovesi molto puliti e pieni di moscado, come soleano andare, ed erano ancora uomeni assai sollazzevoli, mezzi cortigiani, e facevano spesso certi giuochi da dare diletto a' signori; tra gli altri uomeni di corte che v'erano, fu uno che avea nome Martellino, e uno che avea nome Stecchi, tanto piacevoli buffoni quanto la natura potesse fare. Li quali, veggendo quanto a questi due Genovesi parea essere gran maestri, e come andavono adorni, vantandosi un giorno l'uno: “io farei”; e l'altro: “io direi”; dice Stecchi e Martellino:

- Messer Prezzivalle, - (ché cosí avea nome l'uno, e l'altro messer Zatino), - noi vogliamo fare una cosa, che vi parrà forse strana, che io Stecchi cacherò quanto uno granello di panico, e non piú né meno.

Dicono li Genovesi:

- E per lo sanghe de De, che non porie essere.

Dice Stecchi:

- Se non può tessere, ella fili.

Ed essendo questa tencione, messer Mastino sopraggiunse, e udendoli, dice:

- Che contesa è la vostra?

E quelli il dissono. Lo signore, ché sempre sono volontorosi di nove cose tutti, disse:

- Questo intendo pur di vedere.

Dice Stecchi:

- Alla prova.

E messer Mastino dice:

- O apparecchiàve, e fàve nella sala.

Dice Stecchi:

- Fate che ci sia uno saggiuolo con uno granello di panico, acciò che ciascuno vegga questa sperienza; ma io voglio che questi gentiluomeni genovesi veggano sí questo fatto che ne siano certi.

Li Genovesi dicono:

- E noi vogliamo essere quelli che veggiamo e pesiamo questo fatto; che ci credete beffare come ghiottoni?

Dice Stecchi:

- Trovate il saggiuolo e lo granello del panico, e io andrò con Martellino nella camera, e verrò nella sala -; e cosí fu.

Messer Mastino andò nella sala al luogo suo, aspettando questo fatto vedere con tutti quelli della corte sua. Li Genovesi giunsono col saggiuolo e con lo granello del panico. Stecchi era andato con Martellino, e ad una conca d'acqua messo il forame (come sempre parea che facesse, quando volea), tutta quella conca dell'acqua per la parte di sotto tirò nel ventre, e cosí pieno si rassegnò nella sala; e domandato al signore dove volea che facesse il giuoco, e messer Mastino disse:

- Là dove io vegga prima, e poi tutti gli altri.

E cosí nel mezzo della sala Stecchi, calate le brache, e alzando le parti di sotto, e' Genovesi all'altra parte col saggiuolo e col granello del panico, stesono una mantellina per ricogliere questa piccola cosa, tanto appunto quanto Stecchi dicea che dovea fare. Stecchi pontava, o facea vista, e dicea a' Genovesi:

- Appressatevi sí, a guardare questa piccola cosa, che voi la veggiate.

Li Genovesi, l'uno dall'uno lato, e l'altro dall'altro, diceano:

- Fa' pur mo via i fatti tuoi, che noi stiamo bene sí attenti, che non t'usciría l'anima di quaggiú che noi non la vedessimo.

Martellino tenea i panni, e dicea quanto potea perché i Genovesi accostassino il viso nella spera, e quando gli ebbono appunto dove vollono, e Stecchi disserra la cateratta, e schiza a costoro ciò che avea beúto di sotto, e tanto piú quant'era la lavatura, che erano alquante dramme di feccia, che parve una doccia di mulino, per sí fatta forma ch'e' Genovesi non ne perderono gocciola, che tutta l'ebbono tra sul viso e su' loro vestimenti, ed eziandio in sul saggiuolo. Vedendosi costoro sí mal parati, vannosene verso una camera dicendo:

- Mala gramezza! e' debbono essere due leccaori, che cuzí ci hanno bruttao in presenza del signore.

Il signore, e tutti quelli che v'erano, quasi per le risa piangeano. E 'l signore fece mandare a quelli Genovesi chi gli mettesse in bucato e lavasseli bene, dicendo come di ciò farebbe gran punizione. E pur lavato costoro il meglio che si poté, le robe non si poterono lavare cosí tosto, e non se le poteano mettere; di che ebbono materia di mandare a chiedere a messer Mastino due vestimenti, o a loro convenía stare nel letto per non avere che si mettere; onde il signore mandò loro due robe. Come Martellino sente che 'l signore ha dato due robe a costoro, manda a pregare il signore che gli ne dia una a lui, però che quella mostarda con molti sprazzi l'avea tutto bruttato. Il signore disse:

- Mo dagliene una, che nasca loro il vermocane, poiché mi conviene vestire chi m'ha sconcagà la mia corte.

Stecchi tornato nella camera sua, e Martellino con lui, al quale fu recata una roba presente Stecchi; e Stecchi considerando come li Genovesi e Martellino, per esser tutti lordi, aveano aúto le robe, dice:

- Oimè sventurato! egli era meglio che io fosse stato convolto in un privato, se per questo io dovea avere merito dal signore.

Li Genovesi lavati, con le robe donate dal signore, comparirono dinanzi a quello, dolendosi di quel cattivo villano che con sí brutto giuoco gli avea vituperati, pregandolo il dovesse punire per forma che gli altri non corresseno mai in simil follia. Martellino non era molto di lungi, udí ciò che costoro diceano al signore; e vassene a Stecchi, e diceli ciò che ha udito.

Dice Stecchi:

- Or bene: sai com'è da fare? io entrerò nel letto, e dirò che per questo fatto io ne sono per morire, però che le busecchie m'escono di corpo: cerca in quella mia bisaccia, e dammi un cuffia di seta che v'è; e io me la metterò dentro nella parte di sotto, e lascerò un poco del bendone di fuori, e tu fai il giuoco, e' Genovesi veggendomi a quel partito, rimarranno contenti, e 'l signore forse mi donerà qualche roba, poiché l'ha data agli altri, e non a me. E però vattene al signore, e digli com'io sto grave; però che per molto ristrignere che io feci, per uscire uno granello di panico e non piú, la cosa si ruppe e, come vidde, uscí alla dilagata fuori per forma che le busecchie sono trascorse per uscirmi del corpo, e già una se ne vede di fuori: e se voi il volete vedere in quel medesimo luogo, e voi, e' Genovesi, e tutti gli altri ve ne farà chiari.

Martellino con questo si parte, e truova messer Mastino che ancora avea li Genovesi innanzi; e dice:

- Signor mio, Stecchi è a mal partito, però che per ritenere di non uscire del corpo se non uno granello di panico, la cosa si ruppe, come si vide, e brievemente le busecchie gli escono di corpo; e di ciò ve ne vuol fare prova in quel luogo medesimo, acciò che questi gentiluomeni genovesi non credino ch'egli avesse fatto in prova quello che disavvedutamente è incontrato.

Messere Mastino, che altre volte avea saputo chi era Stecchi:

- Mo fosse già morto, sozzo rubaldo, che ha guasto a costoro tutte le loro robe; madiesí, che io gli voglio vedere uscire le budelle di corpo.

E presi li Genovesi per le mani, gli menò in sala, e postisi da parte, comanda che sia detto a Stecchi che di presente venga in sala. Martellino subito va, e acconcialo ch'egli era livido come un uomo morto; e sostenendolo che non parea si potesse azzicare, il menò nella sala, là dove tutto affannato fece reverenza al signore, dicendo

- Signor mio, io sto male.

Dice il signore:

- E tu lo meriti molto bene a fare sí fatte cattiverie nella mia corte.

Dice Stecchi:

- Io me ne ho la pena, e se non mi credete, io ve la mosterrò.

E’ Genovesi essendo presenti, dice il signore:

- Mostra ciò che tu vuogli, che io voglio che si veggia il rimanente di questa tua bruttura.

Martellino toglie una panchetta, Stecchi vi si reca a traverso col viso di sotto, mostrando il culattario al signore e a tutta la brigata. Martellino, scoprendo i panni con quelli di gamba ancora, del centro di quella luna tisica e nera si vede uscire uno bendone bianco, che parea uno busecchio; il quale Martellino recandosi in mano, dice:

- Guardate, signore, quanta sventura è venuta in questo vostro servidore di Stecchi, che per volere dare sollazzo a quelli che sono venuti a questa vostra corte, egli è guasto della persona in forma che non serà forse vivo di qui a vespro.

E comincia a tirare il bendone, il quale a ciascuno parea uno busecchio; e quando Martellino tirava, e Stecchi gridava:

- Oimè! - dolendosi quanto piú potea.

E cosí tirando appoco appoco, e Stecchi urlando, ecco uscire fuori la cuffia; allora Stecchi grida con le maggiori grida che può:

- Oimè! che 'l ventre se ne va.

La maggior parte della brigata l'aveano per fermo. Quando Martellino l'ha quasi tirato fuori, e Stecchi pare come morto, chiama alcuni:

- Deh aiutate, sí che vada a morire sul letto.

Molti corsono aiutarlo, e' Genovesi dicono:

- O messer Martellino, deh lagaci vedere quel ventre.

Dice Martellino, che se l'avea messo in una tasca:

- O io l'ho mandato a sotterrare in sagrato.

Dicono i Genovesi:

- E mandà voi alla ecclesia sí fatte reliquie?

Dice Martellino:

- Cosí comanda il Papa che si faccia.

La mattina vegniendo, essendo stato Stecchi nel letto insino allora, e Martellino va alla beccheria, e compera un ventre di porco, e portalo alla scoperta che ognuno il vede; e con un medico innanzi che era molto bene informato di questa faccenda, tale che per tutto si tenea essere grandissimo medico di sofistica, ne vanno a Stecchi, avendo dato a intendere a ciascuno che voleano rimettere il ventre a Stecchi.

Quelli che 'l credeano, stavano trasognati; e quelli che s'erano avveduti del giuoco, piaceva loro sí questa novella che quasi scoppiavano delle risa. Entrato il medico e Martellino nella camera dove era lo sventurato Stecchi, vi stettono un pezzo, dicendo le piú belle novelle del mondo; e puosono che Stecchi l'altra mattina uscisse a campo sano e lieto, e col ventre del porco squittito in scambio del suo, lodandosi della bella cura del medico sofistico. E uscito della camera il medico da tutti era guatato; e molti il domandorono come stava Stecchi, e quelli dicea:

- Bene; e credo ch'egli uscirà domane fuori, però che io gli ho rimesso un ventre di porco, e già adopera come faceva il suo, o meglio.

La gente allora piú smemorava.

La mattina seguente Stecchi, che parea ancora affannato, comparisce nella corte, e ciascuno il guatava per maraviglia; e su la terza si rappresentò al signore, il quale sogghignando disse: - O io credea tu fosse sotterrato.

E chiama i Genovesi e dice:

- Mo guardà, se voi vedeste mai sí bel morto.

E quelli dicono:

- In fé di Dio, messere Stecchi, che poiché voi non avete il ventre, noi ci potremo piú fidare di voi, che voi non ci porré sconcagare. Ma come non sé vu morto? - Dice Stecchi:

- Perché uno valentre sofistico m'ha messo nel porco un ventre di corpo.

- Mo andave con Dio, - dicono li Genovesi, - che voi ci avé ben infardà, che Dio vi dia la mala perda.

Dice Stecchi:

- A voi non dich'io male, che ben vi venga: voi dite che io v'ho sconcagato; lo sconcacato par essere a me, che voi sete vestiti che parete d'oro, e io sono tutto affumicato, bontà di questo signore che ha vestito voi, e di me non mette cura; ma io me ne voglio andare, e voglio morire (se povero e nudo debba stare) innanzi a casa mia che morir qui -. Messer Mastino, udendo Stecchi, chiama un suo cortigiano e dice:

- Va' reca a Stecchi la tal roba, che gli nasca il vermocane, dappoi che mi convien vestire lo sconcagadore e li sconcagadi.

E giunta la roba, gliela diede, la quale valse piú che tutte e tre l'altre che avea date. Li Genovesi, veggendo questo, dicono:

- Messere Stecchi, lo male non sta dove si pone: ma chi ha fare con Tosco, non conviene che sia losco.

E cosí rimasono messer Mastino con gran diletto di cosí fatta cosa, ed eglino tutti amici l'uno dell'altro rimasono; e mentre che quella festa durò, ebbono gran piacere; e compiuta la festa, ciascuno si tornò a casa sua, rimanendo a' Veronesi che dire di cosí fatta novella piú d'uno anno: sanza che messer Mastino ne godé gran tempo, come signore che gran diletto avea di cosí fatte cose.

 

 

 

NOVELLA CXLV

 

Facendosi cavaliere messer Lando da Gobbio in Firenze per essere Podestà, messer Dolcibene schernisce la sua miseria, e poi nella sua corte essendo mossa questione a messer Dolcibene, con nuova astuzia e con le peta vince la questione.

 

A Firenze venne, non è gran tempo, uno podestà, il quale, prima che entrasse nell'oficio, si fece cavaliere di populo; il quale ebbe nome messer Lando o messer Landuccio da Gobbio; e fu sí magnanimo che la corazza e la barbuta, con che fu fatto cavaliere, fu data, com'è d'usanza, a messer Dolcibene, ché cosí è d'usanza donarla a un uomo di corte; il quale, vendendo le dette armadure, n'ebbe in tutto soldi quarantadue, sí che messer Dolcibene poté fare assai larghe spese. È vero che fu ristorato da ivi a poco tempo, mangiando col podestà un dí di quaresima, col cavolo e con la tonnina. Al quale messer Dolcibene, essendo sussequenti a lui a tavola li due collaterali, veggendo loro porre innanzi tanta tonnina che non arebbe scoccata la trappola, si volge a loro e dice:

- Messer li collaterali, mettetevi gli occhiali che vi parrà due cotanti.

O non intesono il motto, o fecion vista di non intenderlo. Ora, avendo questo messer Dolcibene un poco contezza nella detta corte, e avendo in casa una sua nipote, fanciulla bellissima e pulcella; essendo il detto, come li piú delli suoi pari sono, tenuto anzi scellerato che no; i parenti della fanciulla da lato di madre, non potendola avere tratta di casa messer Dolcibene, mossongli piato alla corte del podestà dinanzi a uno judice, che parea il piú nuovo squasimodeo che si vedesse mai. Egli avea una foggia alta presso a una spanna, con uno gattafodero che parea una pelle d'orsa, tanto era morbido, e avea uno collaretto a un suo guarnaccione, o vero collaraccio che era sí largo e spadato che averebbe tenuto due staia alla larga, e avea uno occhio piccolo e uno grande, piú in su l'uno che l'altro; e uno naso che parea una carota; ed era da Rieti. Richiesto messer Dolcibene, andò a uno procuratore molto suo domestico e piacevole uomo, che avea nome ser Domenico di ser Guido Pucci, e comparendo là messer Dolcibene, e togliendo libello e dando libello, una mattina fra l'altre, essendovi molta gente, udendo il giudice l'una parte e l'altra, e messer Dolcibene dicendo che la fanciulla appartenea piú a lui che a loro, e

- Messer Dolcibene, nos volumus conservare virginitatem suam .

Dice messer Dolcibene:

- Faciatis facere unam bertescam super culum suum .

Il judice guata messer Dolcibene e dice:

- Che parole son queste? favellaci onesto nella mal'ora.

E come dice questo, ser Domenico tira un peto che stordí il judice con tutti quelli che erano al banco; dicendo il giudice e guatando or l'uno or l'altro, dice:

- Per le budella di Dio! se posso sapere chi buffa a questo modo, io lo farò savía buffare per altro verso.

E tornato su la questione, e ser Domenico dicendo:

- Noi vogliamo la copia della petizione, - e tirare un altro peto fu tutt'uno.

Il giudice che era a sedere, levasi e guata i visi dattorno e dice:

- E’ pur di quella vena nella mal'ora! ché, se ci posso vedere chi cosí fa scherne al banco, io gli faraggio cosa che gli potrà putire, che mi ci pare essere venuto nella corte degli asini.

Dice messer Dolcibene:

- Messer lo giudice, e' sono questi che m'hanno mosso questione, quelli che vi suonano queste trombe; voi farete bene a punirli.

Dice ser Domenico:

- Egli è gran villania, e poco onore a chi fa sí brutte cose dinanzi a tanto uomo quanto è questo giudice.

Il giudice, udendo questo, comanda a due di quelli che vadano su. Quelli si scusano che quelle cose non hanno fatto. Onde chiama la famiglia e fagli menar su; e levatosi dal banco, dinanzi al Podestà disse quello che coloro aveano fatto. Egli si scusavano: alla per fine il Podestà disse che desse loro un poco di colla la sera, sí che apparassino di spetezzare al banco. E cosí fece loro il giudice; ed eglino diceano:

- Doh, messere, trovate il vero, ché noi non fummo noi.

Dicea il giudice.

- Come non ci foste voi nella mal'ora? onde credete che io sia? avetemi sí per orbo che io non veggia lume? io ci fo come la lepre che dorme con gli occhi aperti.

E voltosi a quelli che aveano la fune in mano, dice:

- Tirate su -; e 'l tirare e 'l gridare su la colla fu tutt'uno.

E 'l Podestà, udendo il lamento, mandò a dire al giudice non gli collasse piú, ché, se ci aveano col fiato di sotto offeso, che con quello di sopra erano bene stati puniti. E 'l giudice gli lasciò, dicendo loro che simil cosa mai non facessino, però che non troverebbono un podestà cosí benivolo. E quelli dolendosi, dissono:

- Noi vi ringraziamo che voi non ci avete morti affatto, ma noi vi raffermiamo veramente che noi non facemmo quelle cose dinanzi al banco vostro, e non siamo uomeni da ciò; ma tale v'ha detto che quello facemmo noi, che elli l'ha fatto elli; èssi vendicato di noi a questo modo; faccia come li piace e tengasi la nipote nostra come vuole, ché noi non ci torneremo piú.

E 'l giudice, minacciando per le parole che diceano, essendo licenziati, se n'andorono a casa. Messer Dolcibene l'altra mattina col suo procuratore furono al banco e niuno di costoro vi comparí. Veggendo messer Dolcibene questo comincia a pigliare del campo ché ben sapea quello che a coloro era intervenuto e dice:

- Guardate ben, messer lo giudice, questi cattivi uomeni che istamane non ce n'è alcuno, e iermattina credeano vincere la questione con le peta; e' sono di mala condizione; e voleano questa fanciulla a mal fine.

Dice ser Domenico:

- Messer lo giudice, istamane pare il banco vostro una cosa riposata, come vuole la ragione, ma iermattina ci si udiano truoni e bombarde; ora potete comprendere che uomeni sieno coloro che hanno la questione con messer Dolcibene, che veramente e' sono di quelli che non si vorrebbono udire.

Dice il giudice:

- Ego dedi bene eis disciplinam ; ma, se non fossi il meo Podestà, peggio ci facea a issi.

Levato il banco, messer Dolcibene e ser Domenico disse al giudice che qualunch'ora quelli ladroncelli venissono a dire piú nulla, mandassi per loro, che eglino verrebbono con cose di grande onore della corte e vituperio di loro; e cosí si partirono e vinsono la questione; e quelli che aveano la ragione e domandavono le cose oneste, furono tormentati e perderono la questione.

O quanti rettori, se non sono ben cauti, e chi con malizia, e chi sanza malizia, dannano li innocenti, e assolvono li nocenti, e se mai fu, al tempo ch'è oggi si manifesta. Chi a uno fine e chi a un altro dànno iudicio, e Dio il sa come; ché nelle corte si fa sí fatta ragione che guai a chi s'induce in esse con alcuna questione.

 

 

 

NOVELLA CXLVI

 

Uno standosi in contado, facendo volentieri dell'altrui suo, imbola un porco, e con sottil malizia nel mena, e morto che l'ha con sottil frodo il mette in Firenze, il quale, essendo scoperto, paga lire ventotto, e ancora lo restituisce a cui l'avea imbolato, e in tutto gli costa fiorini dieci, e rende il porco.

 

Un povero gentiluomo, secondo il volgare falso del mondo, ma vizioso e spezialmente nel fare dell'altrui suo, stava sempre in contado a un suo podere in una sua casetta, presso a Firenze meno d'un miglio; e sempre si dava attorno, recando e di dí e di notte a sé delle cose del paese. E fra l'altre volte, ebbe una volta tanta sicurtà d'andare a imbolare un porco di notte, che chetamente elli e uno compagno lo trassono del porcile avendo uno catinetto di non so che biada e una cordella con che legarlo, e lo ne menò cheto cheto; e venendo per uno campo ad una fossa assai larga, non veggendo come il porco si potesse far passare quella, e ancora, pigliandolo, farebbe romore, dice al compagno suo, ch'era uno contadino bene atante e grande, ben fatto e sempre con lui uso d'andare a fare di dette faccende:

- Facciamo com'io ti dirò; scenda uno di noi in questa fossa, e chinisi a traverso, tanto che faccia ponte delle reni, e l'altro su per quel ponte mandi il detto porco -; e cosí s'accordarono.

Il contadino scese nella fossa e subito chinatosi, ebbe fatto un ponte che vi serebbe passato su un bue; e 'l capomaestro gli dà il canestruzzo della biada che lo metta dall'altra parte, ed egli pianamente con ingegni tanto fece che il detto porco passò Rubicone. Passato il porco, poco stettono che giunsono alla magione, donde s'erano partiti; ed essendo tre dí presso a San Tommè, che piglia il porco per lo pè, avendo costui un altro porco in casa allevato, deliberò quella notte col suo compagno uccidere l'uno e l'altro, e per debito che avea, mandarli a Firenze a un suo amico tavernaio, e farne danari, e cosí feciono. E abbruciati e sparati, e cavate e rigovernate le cose dentro, gli appiccorono in una cella terrena, e serrorono l'uscio. La mattina vegnente dice il lavoratore e alcuno vicino a costui:

- O che avea istanotte il tuo porco?

E que' risponde:

- Avea male per lui, però che io l'ho morto; io ho a dare danari a certe persone, e m'hanno posto l'assedio, io lo voglio vendere e pagare ognuno.

Dicono coloro:

- Oh non vendere almeno e' migliacci, fa' che noi n'abbiamo.

- Ben aremo de' migliacci! che mai di piccolo porco come quello non credo che tanta dolcia uscisse.

Era forse libbre centocinquanta: l'imbolato era trecento. Stato un pezzo e mangiato, ed egli e lo suo compagno andorono a Firenze, e a uno tavernaio dal Ponte alla Carraia; e con lui parlato di vendere dua porci morti e acconci, che gli stimavono libbre quattrocentocinquanta, ed essendo in concordia del pregio, disse gli mandasse la sequente mattina; e cosí si partirono, e diede ordine al fatto, come udirete. Tornato che fu la sera in contado, dice il gentiluomo da beffe al suo compagno:

- Tu sai che del porco intero si paga alla porta quaranta soldi, e pagando lire quattro, mi gitterebbe mala ragione; prestami domattina l'asino tuo, e cogli di molto alloro, e fa' d'esserci per tempo, ché io ho pensato che io non pagherò se non quaranta soldi d'amendue; il Comune ruba tanto altrui che io posso ben rubar lui.

Dice quelli:

- Io verrò la mattina, e con l'alloro e con l'asino, e porterolli dove tu mi dirai.

Dice il nobile gentiluomo:

- Portera' li in Terma a casa la tale mia parente, e mettili nella camera terrena, e io vi sarò tosto dopo te, e poi li manderemo al tavernaio.

E cosí andò il contadino, e la mattina di buon'ora giunse con l'asino e con l'alloro; e trovato colui che aspettava, mise l'asino e l'alloro dentro, e andorono nella cella dove erano li porci. Dice il principale:

- Sa' tu quello ch'io ho pensato? che io voglio che noi spariamo bene quel porco grande, e mettervi dentro quel piccolo, e poi l'affascineremo con questo alloro, e non fia niuno che possa immaginare che sia altro che uno.

E brievemente cosí di questi due porci feciono uno; e messo su l'asino, e legato, e acconcio, e aúto soldi quaranta per la gabella, si mise in via. Giunto alla porta, li gabellieri dicono:

- Paga di quel porco tu -; e quelli comincia annoverare sul tavolello li quaranta soldi; e mentre ch'elli annoverava, certi garzonotti, giucatori e sviati, come spesso si riparano alle porti, guatavano questo porco, e quando toccavano le sanne, e quando i piedi, e dicevano tra loro: “Questo è un bel porco”.

Annoverati i denari, e detto arri , e dato della mazza all'asino, fu tutt'uno; ed essendo dilungato forse trecento passi, uno di quelli garzoni che avevono ben procurato il porco, s'accostò a' gabellieri e dice:

- Di che vi dié la gabella quello di quel porco?

Dicono i gabellieri:

- Pagocci d'un porco.

Disse il garzone:

- Io per me vidi dirieto tre piedi di porco e sono stato gran pezzo per ismemorato; che io so ben ch'e' porci hanno due piedi dirieto, e non tre.

Il maggior gabelliere comandò a uno che corresse e giugnesse colui, e menasselo a drieto; e cosí fu fatto. Giunto costui e detto: “Torna addietro”; subito divenne di mille colori; e quando fu alla porta, i gabellieri cercano quel porco, e guatando trovorono il minore in corpo a quello. Come l'hanno trovato, dicono:

- Eja! questo è pure il piú bel frodo che si vedesse mai.

Dice il contadino:

- Gnaffe! io porto quello che m'è dato.

- Va', che sia tagliato a pezzi, - dicono i gabellieri, e mandano alla gabella con l'asino e con la soma.

Giunto dinanzi a' maestri, ciascuno si maraviglia di sí falsa sottigliezza, domandando di cui erano; ed egli il disse e fu per averne la mala ventura; ma tanto valsono le preghiere ch'egli pagò di soldi quaranta, e per ogni denaio tredici, che furono ben ventotto lire. In questo mezzo a colui a cui era stato imbolato il porco, ragionandosi di questo frodo, gli venne agli orecchi; e pensando chi e come, e che non era uomo da tenere due porci, si diede e a cercare e a investigare, e trovò che 'l porco suo era il maggiore di quelli due. Di che mandò uno a colui che gliene avea furato, dicendoli quale e' volesse, o subito restituire il suo porco, o che egli andasse al rettore. Costui per uno di mezzo il fece contento, allegando non era stato elli, ma che gli era stato recato a casa.

E cosí questo cattivo uomo non capitò alle forche, come era degno; ma pure ebbe parte di quello che meritava, ché rimase sanza il porco, e con danno e con vergogna gli costò piú di dieci fiorini. E però non si puote errare a lasciare stare le cose altrui; ché, se non che costui morí da ivi a poco tempo, e' venía a fine che averebbe vituperato sé e tutta la sua progenie.

 

 

NOVELLA CXLVII

 

Volendo frodare un ricco di danari la gabella, s'empie le brache d'uova; essendo detto a' gabellieri, quando passa il fanno sedere, e tutte l'uova rompe, impiastrandosi tutto di sotto; e pagando il frodo, rimane vituperato.

 

La novella detta di sopra mi fa ricordare d'un'altra novella d'un ricco fiorentino, ma piú misero e piú avaro che Mida, il quale, per frodare una gabella di meno di sei danari, ne pagò, con danno e con vergogna, maggior quantità, benché s'armasse il culo con una corazza di guscia d'uova.

Fu adunque uno tristo ricco di ben ventimila fiorini, il quale ebbe nome Antonio (il soprannome non voglio dire, per onore de' suoi parenti) il quale, trovandosi in contado, e volendo mandare a Firenze ventiquattro o trenta uova, disse il fante:

- E’ si vuole dare la gabella, però che le quattro pagono uno denaio di gabella.

Quando questi ode dire questo, piglia il canestro, e chiama il fante, e vassene in camera, e dice:

- A ogni tempo è buona la masserizia; io voglio risparmiare questi danari.

E detto questo, e prese a quattro a quattro l'uova, alzandosi il lembo dinanzi, cominciasele a mettere nelle brache. Dice il fante:

- O ove le mettete voi? o voi non potrete andar per la via.

Dice Antonio:

- Nòe! ell'hanno un fondo in giuso queste mie brache che ci capirrebbono le galline che l'hanno fatte, non che l'uova.

Il fante si volse, e fecesi il segno della Santa Croce per maraviglia. E Antonio, intascato che ebbe l'uova, si mette in cammino, e andava largo, come s'egli avesse aúto nelle brache due pettini da stoppa; e quando fu presso alla porta, disse al fante:

- Vattene innanzi, e di' a' gabellieri sostenghino un poco la porta.

E 'l fante cosí fece; ma non si poté tenere che a uno gabelliere non dicesse in grandissimo segreto il fatto; il quale gabelliere disse agli altri:

- E’ ci è la piú bella novella che voi udisse mai, ché 'l tale passerà testè qui, che viene dal luogo suo e hassi piene le brache d'uova.

Dice alcuno:

- Doh, lasciate fare a me, e vederete bel giuoco.

Dissono gli altri:

- Fa' come ti piace.

E cosí giunse Antonio:

- Buona sera, brigata, ecc.

Dice quel gabelliere:

- Antonio, deh vieni qua un poco, e assaggerai un buon vino.

Quelli dicea non volea bere.

- Per certo sí farai -; e tiralo per lo mantello, e condottolo dove volea, dice: - Siedi un poco.

Colui risponde:

- Non bisogna -; e per niun modo vuole.

Il gabelliere dice:

- Io posso pur sforzare uno, volendoli fare onore -; e pignelo a sedere su una panca.

E come si pone, e' parve si ponessi a sedere su un sacco di vetri.

Dicono i gabellieri:

- Che hai tu sotto, che fece cosí grande scrosciata? sta' un poco su.

Dice il maggiore:

- Antonio, tu déi volere che noi facciamo l'officio nostro; noi vogliamo vedere quello che tu hai sotto, e che fece cosí grande romore.

Dice Antonio:

- Io non ho sotto nulla -; e alzò il mantello, dicendo: - E’ sarà questa panca che avrà cigolato.

- Che panca? non fu busso di panca quello; tu alzi il mantello, la cosa dee essere altrove -; e fannolo alzare a poco a poco, e brievemente, veggono certo giallore venire giú per le calze, e dicono: - Questo che è? noi vogliamo vedere le brache, donde pare che venga questa influenza.

Quelli si scuote un poco; un altro alza subito e dice:

- Egli ha piene le calze d'uova. Antonio dice:

- Deh, state cheti, che le sono tutte rotte, io non sapea altrove dove metterle; e questa è piccola cosa, quanto alla gabella.

Dicono i gabellieri:

- Elle dovettono essere parecchie serque.

Dice Antonio:

- In realtà, ch'elle non furono se non trenta.

Dicono i gabellieri:

- Voi parete un buon uomo, e giurate in lealtà; come vi dobbiamo noi dare fede? quando voi frodate il Comune vostro d'una piccola cosa, ben lo faresti d'una grande; e sapete ch'e' dice: “Can che lecchi cenere, non gli affidar farina”. Or bene, lasciateci una ricordanza, e domattina ci conviene andare a' maestri a dire questo fatto.

Dice Antonio:

- Oimè! per Dio, io sarei vituperato; togliete ciò che voi volete.

Dice uno di loro:

- Deh, non facciamo vergogna a' cittadini: paga per ogni danaro, tredici.

Antonio mette mano alla borsa, e paga soldi otto; e poi dà loro un grosso, e dice:

- Togliete, bevetegli domattina; ma d'una cosa vi prego, che non ne diciate alcuna cosa a persona -; e cosí dissono di fare; ed egli si partí col culo nello intriso e bene impiastrato.

E giunto a casa, dice la moglie:

- Io credea che tu fossi rimaso di fuori; che ha' tu tanto fatto?

- Gnaffe! - dice costui, - non so io -; e mettevasi le man sotto, e andava largo com'uno crepato.

Dice la donna:

- Se' tu caduto?

E quelli dice ciò che intervenuto gli era. Come la donna l'ode, comincia a dire:

- Doh! tristo sventurato, trovossi mai piú questo o in favola, o in canzone? benedetti sieno gli gabellieri che ti hanno vituperato, come eri degno.

Ed egli dicea:

- Deh, sta' cheta.

Ed ella dice:

- Che sto cheta? che maladetta sia la ricchezza che tu hai, quando tu ti conduci a tanta miseria! volevi tu covar l'uova, come le galline quando nascono i pulcini? non ti vergogni tu, che anderà questa novella per tutta Firenze, e sempre ne serai vituperato?

Dice Antonio:

- Li gabellieri m'hanno promesso non dirlo.

Dice la donna:

- O questo è l'altro tuo senno, che non fia domane sera che ne sarà ripiena tutta questa terra -; e cosí fu come la donna disse.

E Antonio rispondea:

- Or ecco, donna, io ho errato; de' si mai restare? errasti tu mai tu?

Disse la donna:

- Maisí, ch'io posso avere errato, ma non di mettermi l'uova nelle brache.

E quelli dicea:

- O tu non le porti.

E la donna dice:

- Mal e danno s'io non le porto; e se io le portasse, vorrei prima esser cieca che aver fatto quello che tu; e ancora non apparirei mai tra persona: quanto piú vi penso, tanto piú mi smemoro, che per due dinari tu se' vituperato per sempre mai: tu non doverresti mai esser lieto, se tu avessi conoscimento; ché pur io non apparirò mai tra donne ch'io non me ne vergogni; credendo che tuttavia mi sia detto: “Vedi la moglie di colui che portò l'uova nelle brache”.

Antonio dicea:

- Deh, non dir piú; gli altri se ne stanno cheti, e tu par che 'l vogli bandire.

Dice la donna:

- Io me starò ben cheta, ma e' non se ne staranno cheti gli altri che 'l sanno. Io ti dico, marito mio, tu eri tenuto prima dappoco, e ora serai tenuto quello che tu serai. Io fui data a una gran ricchezza, ma e' si potea dire, a una gran tristezza.

Antonio, che già avea studiato e letto l'abicí in sul mellone, si venne pur ripensando aver fatto gran tristizia di sé, e che la donna dicea molto bene il vero; e pregò umilmente la donna di questo fatto si desse pace, e ancora, s'egli avesse fallato, ella stessa sopra lui pigliasse la vendetta. La donna un poco si cominciò a rattemperare, e disse:

- Va' pur con tuo senno a mercato, che io me ne camperò il meglio che potrò -; e cosí si rimasono.

Direm noi che le donne non siano spesse volte in molte virtú avvedute piú che gli uomeni? Questa valentre donna in quante maniere ritrovò il marito! Ella era ben cosí d'assai tra le donne, come elli dappoco tra gli uomeni. Le novelle vennono pur al fine meno; ma non per Firenze, dove di questo sempre si disse con diletto d'altrui, e con vituperio del bell'amico. Il quale, cavatesi le brache perché la fante non se ne accorgesse, disse che la mattina scaldasse uno orciuolo di ranno, e déssignelo nel bacino a buon'ora, e la sera se ne fece dare un altro, con che si lavò il culo, ma non sí che non ingiallasse le lenzuole, prima che avesse parecchie rannate; le quali li furono di necessità, tanto erano le torla, con li albumi e con li gusci, incrosticate e appiccate nel sedere. Or cosí guadagnò questo tapino la gabella di trenta uova, ch'elli ne fu si vituperato, che sempre di questo se ne disse, e ancora oggi se ne dice piú che mai.

 

 

NOVELLA CXLVIII

 

Bartolo Sonaglini con una nuova e sottile astuzia fa sí che, essendosi per porre molte gravezze, d'essere convenevolmente ricco, è reputato poverissimo, ed ègli posto una minima prestanza.

 

Come nelle due passate novelle quelli che vollono ingannare il Comune e la gabella n'arrivorono assai male, come avete udito, e sí in mancare di moneta come in crescere di vergogna; cosí in questa voglio raccontare uno che ingannò il suo Comune, e seguígline innanzi bene che male. Fu, e ancora è, uno Fiorentino, chiamato Bartolo Sonaglini, mercatante assai avveduto, e spezialmente in questa novella, la quale io racconterò; nella quale, non che fosse avveduto, ma egli fu antiveduto e circunspetto. Però che, essendo li Fiorentini per entrare nella maggior guerra ch'egli avessono mai, la quale fu col Conte di Virtú, e ragionandosi d'acconciare gli estimi e le prestanze, costui s'avvisò troppo bene: “E’ si chiameranno quelli delle Settine, e fiano una brigata che caricheranno pur li mercatanti, e la spesa fia tanta che chi non si fia argomentato, o sia da Dio aiutato, serà diserto”. Onde, come vide tempo, e che la cosa pur seguía, egli, levandosi la mattina, scendea all'uscio suo, e se passava alcuno, e quelli lo chiamava, e dicea:

- È  egli sonato a consiglio? - e stava dentro.

Dicea lo amico:

- O che vuol dir questo, Bartolo?

E quelli rispondea:

- Oimè! fratel mio, io sono disfatto; però che, mandando certa mercanzia oltre mare, il mare me la tolse, e sonne rimaso disfatto; però che, per volere pur sostenere il mio onore, debbo dare a certi buona somma di moneta, li quali, sentendo lo stato mio, il quale è tanto povero che appena è alcuno che lo stimasse, vogliono esser pagati, e volesse Dio che io avesse di che.

Dice colui:

- E’ me ne 'ncresce -; e vassi con Dio.

L'altra mattina qualunche passava ed elli dicea, stando con l'uscio un poco socchiuso, chiamando or l'uno or l'altro:

- O tale, è sonato a consiglio?

Chi dicea sí, e chi dicea no; e tali diceano:

- O questo che vuol dire, Bartolo? motteggi tu?

Ed elli rispondea:

- Io non ho da motteggiare, ché mi converrà delle due cose fare l'una, o dileguarmi del mondo, o morire in prigione: ché alcuno traffico, che io avea di fuori, m'ha disfatto, e posso dire che io sono tra le forche e Santa Candida.

E in questa maniera continuò piú d'un mese, tanto che le Settine si cominciorono a ragunare, e fare l'estimo o le prestanze. Quando veníano alla partita di Bartolo Sonaglini, ciascuno dicea:

- Egli è diserto, e guardasi per debito.

E l'uno dicea:

- E’ dice il vero, ché pur una di queste mattine non ardiva d'uscire di casa, e domandava s'egli era sonato.

E l'altro dicea:

- E anco cosí disse a me.

E l'altro dicea:

- Egli è vero come costoro dicono; una nave, che andava a Torissi, secondo che m'è detto, gli ha dato la mala ventura.

Dice un altro:

- Egli è cotesto, e anco sento che uno gli ha dato la mala pasqua.

- Sia come si vuole, - dicono gli altri, - e' si vuole trattar secondo povero.

E tutti a una voce gli posono tanta prestanza quanta si porrebbe a uno miserabile, o poca piú.

Fatte le prestanze, e suggellate, e mandate alla camera, e registrati i libri, e cominciatesi a bandire (ché si bandíano a quattro a quattro) il detto Bartolo Sonaglini cominciò a uscir fuori, e non domandava se era sonato a consiglio. E fra l'altre mattine alcuno suo vicino, che s'era avveduto de' fatti suoi, dice una mattina:

- Bartolo, com'hai tu fatto, che tu non pare che ti guardi piú?

E Bartolo rispondea:

- Io sono in alcuna convenga co' miei creditori, e mi converrà navicare secondo i venti.

E in brieve costui, essendo ricco, con questa astuzia fece sí che, mostrandosi ben povero, fu trattato nelle prestanze come poverissimo, e non sentí molti guai di quelli che sentirono molti, che copertamente erano dentro poverissimi e di fuori pareano ricchi.

Io scrittore credo che 'l detto Bartolo serebbe forte da riprendere, se Bruto, o Catone, o loro discendenti fussono stati di quelle Settine; ma considerato come la volontà avea sottomesso la discrezione di quelli, che 'l savio Bartolo Sonaglini avea compreso essere eletti già a fare le Settine, io reputo lui essere degno di perpetua memoria come uomo mercatante avveduto in tutte le cose. E cosí in tutta quella guerra, che li banditori andavano bandendo le smisurate prestanze, e Bartolo dicea di fuori:

- O mala ventura, ché questa guerra mi disfarà affatto.

Ma in casa, e fra sé stesso dicea: “Bandite pur forte, ché lo non me ne curo; e fate pur guerra forte, ché per certo tal me l'averebbe appiccata, ch'io l'ho appiccata a lui” dicendo:

- Siedi e gambetta, e vedrai vendetta

E cosí tutta quella guerra costò al circospetto Bartolo Sonaglini piccolissima cosa, dove molti altri piú ricchi di lui ne rimasono disfatti.

 

 

NOVELLA CXLIX

 

Uno abate di Tolosa con una falsa ipocrisia, facendo vita che da tutti era tenuto santo, fu eletto vescovo di Parigi, là dove essendo a quello che sempre avea desiderato, facendo una vita pomposa e magnifica, si dimostrò tutto il contrario, recando molto bene a termine li beni del vescovado.

 

Ora mi viene a caso di dire come uno religioso, sotto coverta d'ipocrisia, frodò il mondo e capitonne bene quanto al corpo, ma quanto all'anima credo il contrario. Fu in Francia uno abate di Tolosa, il quale avea grandissimo desiderio di venire o gran vescovo, o altro grandissimo prelato, e di fuori mostrava tutto il contrario; però che parea a' costumi suoi che la sua badía gli fosse troppo gran beneficio, dicendo spesse volte:

- E che è di bisogno questi grandi beneficii? niuno doverrebbe volere se non tanto quanto regolatamente gli fosse a bastanza.

E con questo, mangiava sottilmente, facendo vita piú tosto arida che delicata, digiunando tutti li dí comandati, e molti degli altri. E allo spenditore suo avea comandato che, quando andasse alla peschería, togliessi de' minori pesci, e di meno valore che vi fossono: però che non era buono essemplio al mondo che li suoi pari andassino per loro vivere cercando le cose di vantaggio; e 'l fante cosí facea. Tanto che continuando questo abate questa astinente vita, per tutto era tenuto il migliore religioso che fosse in tutta Francia.

Avvenne per caso che 'l vescovo di Parigi morío; di che, pensando e gli elettori e la comunità di nuovo vescovo, tutti traevano nel segno con le voci a questo abate per lo piú santo uomo che fosse in Francia. E considerando la sua vita e la sua santità, a furore di populo fu eletto vescovo di Parigi. E andatagli la elezione confirmata dal papa, costui si mostrò di non la volere, e che avea troppo grande beneficio pur di quella badía ch'egli avea. E facendo questa archimiata mostra, allora piú accendendo gli animi di quelli che 'l voleano, convenne che consentisse a quello che lungo tempo avea desiderato. Di che lasciò la badía, e a Parigi andò a pigliare possessione e tenuta del detto vescovado; e come al piú cattolico e santo uomo ch'egli avessono mai, tutti l'andavono a vicitare, basciandoli le mani per grandissime reliquie.

Stando questo venerabile vescovo nella magione del vescovado, avvenne per caso che uno dí che non si mangiava carne, per lo antico suo spenditore furono comperati pescetti di poco valore al modo usato, come quando era abate; ed essendo a tavola per desinare, furono recati questi pescatelli in su la mensa.

Come il vescovo li vede, dice:

- E che vuol dire questo? non avea altro pesce alla peschería?

Dice lo spenditore:

- Signor mio, e' v'erano di molti belli pesci e grossi d'ogni ragione; ma io comperai di quelli piccoli che solevate volere.

E 'l vescovo sorridendo, dice:

- O matto che tu se', io pescava allora con quelli piccoli per pigliare de' grossi. Io sono nel vescovado di Parigi, al quale si richiede troppo piú magnifica vita che all'abate di Tolosa; e però da quinci innanzi le migliori vivande abbi mente di comprare per la mia mensa, che tu puoi -; e cosí disse il suo famiglio di fare.

E se prima il detto vescovo digiunava o facea astinenza, ora non sapea o non volea sapere che cosa fosse digiuno, allegando la gran fatica che in quello beneficio li convenía avere. Li Parigini, veggendo li suoi costumi e la sua pulita vita, si maravigliorono forte di questa trasformazione in cosí poco tempo, dicendo in loro lingua un proverbio che spesso diciamo noi toscani: “Non ti conosco se non ti maneo”. E 'l vescovo ne dicea un altro: “Piú non ti curo, domine, che uscito son del verno”. E cosí stette, mentre che visse vescovo di Parigi, con sí fatta vita e con sí pomposa che quello che venne drieto poté dire:

- Io mi credea esser vescovo di Parigi, e io mi truovo abate della badía a Spazzavento.

 

 

NOVELLA CL

 

Uno cavaliere, andando in una podestería, porta uno suo cimiero; uno Tedesco il vuole combatter con lui ed elli niega la battaglia: in fine si fa dare fiorini cinque, che gli è costato, e pigliane un altro, e avanza fiorini tre.

 

Uno cavaliere de' Bardi di Firenze, piccolissimo della persona, e poco o quasi mai niente, non che uso fosse in arme, ma eziandio poco s'era mai esercitato a cavallo, il quale ebbe nome messer... essendo eletto Podestà di Padova, e avendo accettato, cominciò a fornirsi di quelli arnesi che bisognavano d'andare al detto officio: venendo a voler fare uno cimiero, ebbe consiglio co' suoi consorti che cosa dovesse fare per suo cimiero. Li consorti si ristrinsono insieme e dicono:

- Costui è molto sparuto e piccolo della persona; e pertanto ci par che noi facciamo il contrario che fanno le donne, le quali, essendo piccole, s'aggiungano sotto i piedi, e noi alzeremo e faremo grande costui sopra il capo.

Ed ebbono trovato uno cimiero d'un mezzo orso con le zampe rilevate e rampanti, e certe parole che diceano: “Non ischerzare con l'orso, se non vuogli esser morso”. E fatto questo e ogni suo arnese, ed essendo venuto il tempo, il detto cavaliere molto orrevolmente partí di Firenze per andare nel detto officio.

E giugnendo a Bologna, fece la mostra della maggior parte delle sue orrevoli cose; e poi passando piú oltre, intrando in Ferrara, la fece via maggiore, immaginandosi tuttavia accostarsi a entrare nel detto officio. E mandato innanzi e barbute e sopraveste, e 'l suo gran cimiero dell'orso, passando per la piazza del Marchese, essendo nella piazza molti soldati del Marchese, passando costui per mezzo di loro, uno cavaliere tedesco, veggendo il cimiero dell'orso, comincia a levarsi del luogo dove sedea, e favellare in sua lingua superbamente dicendo:

- E chi è questo che porta il mio cimiero? - e comanda a uno suo scudiere che meni il cavallo, e rechi le sue armadure, però ch'egli intende di combattere con colui che 'l porta e intende di appellarlo di tradimento.

Era questo cavaliere tedesco uno uomo valentissimo di sua persona, grande quasi come terzuolo di gigante, e avea nome messer Scindigher. Veggendo alcuni e tedeschi e italiani tanta fierezza, furono intorno a costui per rattemperarlo e niente venía a dire; se non che due per sua parte andorono all'albergo a dirli che convenía metter giú quel cimiero dell'orso, o e' gli convenía combatterlo con messer Scindigher tedesco, il quale loro lui mandava, dicendo che questo era il suo cimiero. Il cavaliere fiorentino, non uso di questa faccenda, risponde che elli per sé non era venuto a Ferrara per combattere, ma per passar oltre e andare alla podestería di Padova; e che elli avea ognuno per fratello e per amico: e altro non ebbono. Tornando a messer Scindigher con questo, egli era già armato, cominciando a menar maggior tempesta, e chiamando li fosse menato il cavallo. Gli ambasciadori il pregano si rattemperi e che vogliono ritornare a lui: e cosí feciono. E giunti all'albergo, dicono a questo cavaliero:

- Egli è il meglio che qui si vegga modo, però ch'egli è tanta la furia del cavaliere tedesco, ch'egli è tutto armato, e crediamo ora che sia a cavallo.

Dicea il cavaliere de' Bardi:

- E’ può armarsi e fare ciò che vuole, ché io non sono uomo da combattere, e combattere non intendo.

Alla per fine dopo molte parole dice costui:

- Or bene, rechiànla a fiorini, e l'onore stia dall'uno de' lati; se vuole che io vada a mio viaggio, come io c'entrai, io me n'andrò incontenente; se vuole dire che io non porti il cimiero suo, io giuro su le sante Dio guagnele ch'egli è mio, e che io lo feci fare a Firenze a Luchino dipintore, e costommi cinque fiorini; se egli il vuole, mandimi fiorini cinque, e tolgasi il cimiero.

Costoro ritornorono con questo a messer Scindigher, il quale come gli udí, chiama un suo famiglio, e fa dare a costoro cinque ducati di zecca, e dice al famiglio vada con loro per quello cimiero, e cosí feciono; che portorono fiorini cinque, e 'l cavaliere per lo migliore se gli tolse e diede il cimiero; il quale con uno mantello coperto il portorono a messer Scindigher, al quale parve aver vinto una città. E 'l Podestà che andava a Padova, rimaso sanza il cimiero, fece andar cercando se in tutta Ferrara si trovasse qualche cimiero, il quale con seco portasse in scambio dell'orso. E per avventura trovò a uno dipintore uno cimiero d'uno mezzo babbuino, vestito di giallo con una spada in mano; e copertamente essendoli recato, disse uno suo giudice:

- E’ v'è venuta la piú bella ventura del mondo; fate levare a questo la spada di mano, e per iscambio di quella abbia un piccone rosso in mano, e serà l'arma vostra.

Al Podestà piacque, e cosí fu fatto, che gli costò in tutto forse uno fiorino; ed in spignere e ripignere alcuna targhetta, costò un altro, e in tutte l'altre cose era l'arma sua alla distesa. Sí che egli avanzò fiorini tre, e 'l tedesco rimase con l'orso, e costui lo rimutò in babbuino, e andossene alla podesteria dove dovea.

Ma, se costui avesse fatto di quelle che uno fece in simil caso, forse ne serebbe riuscito piú netto, il quale avendo uno cimiere d'una testa di cavallo, uno todesco gli mandò a dire che portava il suo cimiero, e che lo ponesse giú, o elli lo volea combattere con lui. E quelli rispose:

- O che cimiero è quello che porta questo valentre uomo?

E colui disse:

- Una testa di cavallo.

E quelli rispose:

- E la mia è una testa di cavalla; sí che non ha fare nulla con quello.

E rimase il todesco per contento, e colui ne riuscí con questa sottile risposta, e schifò la battaglia, della quale non ne sarebbe stato molto vago.

 

 

NOVELLA CLI

 

Fazio da Pisa volendo astrologare e indovinare innanzi a molti valentri uomeni, da Franco Sacchetti è confuso per molte ragioni a lui assegnate per forma che non seppe mai rispondere.

 

Nella città di Genova io scrittore trovandomi già fa piú anni, essendo nella piazza de' mercatanti in uno gran cerchio di molti savi uomeni d'ogni paese, tra' quali era messer Giovanni dell'Agnello e alcuno suo consorto e alcuni Fiorentini confinati da Firenze, e Lucchesi che non poteano stare a Lucca, e alcuno Sanese che non potea stare in Siena e ancora v'era certi Genovesi; quivi si cominciò a ragionare di quelle cose che spesso vanamente pascono quelli che sono fuori di casa loro, cioè di novelle, di bugie e di speranza, e in fine di astrologia; della quale sí efficacemente parlava uno uscito di Pisa che avea nome Fazio, dicendo pur che per molti segni del cielo comprendea che chiunque era uscito di casa sua fra quello anno vi dovea tornare, allegando ancora che per profezia questo vedea; e io contradicendo che delle cose che doveano venire né elli né altri ne potea esser certo; ed elli contrastando, parendogli essere Alfonso o Tolomeo, deridendo verso me, come egli avesse innanzi ciò che dovea venire, e io del presente non vedesse alcuna cosa. Onde io gli dissi:

- Fazio, tu se' grandissimo astronomaco, ma in presenza di costoro rispondimi a ragione: qual è piú agevole a sapere, o le cose passate o quelle che debbono venire?

Dice Fazio:

- O chi nol sa? ché bene è smemorato chi non sa le cose che ha veduto adrieto; ma quelle che debbono venire non si sanno cosí agevolmente.

E io dissi:

- Or veggiamo come tu sai le passate che sono cosí agevoli: Deh, dimmi quello che tu facesti in cotal dí, or fa un anno.

E Fazio pensa. E io seguo:

- Or dimmi quello che facesti or fa sei mesi.

E quelli smemora.

- Rechiànla a somma: Che tempo fu or fa tre mesi?

E quelli pensa e guata, come uno tralunato.

E io dico:

- Non guatare; ove fusti tu già fa due mesi a questa ora?

E quelli si viene avvolgendo.

E io il piglio per lo mantello e dico:

- Sta' fermo, guardami un poco: Qual navilio ci giunse già fa un mese? e quale si partí?

Eccoti costui quasi un uomo balordo. E io allora dico:

- Che guati? mangiasti tu in casa tua o in casa altrui oggi fa quindici dí?

E quelli dice:

- Aspetta un poco.

E io dico: - Che aspetta? io non voglio aspettare: Che facevi tu oggi fa otto dí a quest'ora?

E quelli:

- Dammi un poco di rispitto.

E io dico:

- Che rispitto si de' dare a chi sa ciò che dee venire? Che mangiasti tu il quarto dí passato?

E quelli dice:

- Io tel dirò.

- O che nol di'?

E quelli dicea:

- Tu hai gran fretta.

E io rispondea:

- Che fretta? di' tosto, di' tosto: Che mangiasti iermattina? o che nol di'?

E quelli quasi al tutto ammutolòe. Veggendolo cosí smarrito, e io il piglio per il mantello e dico:

- Diece per uno ti metto che tu non sai se tu se' desto o se tu sogni.

E quelli allora risponde:

- Alle guagnele, che ben mi starei, se io non sapessi che io non dormo.

- E io ti dico che tu non lo sai e non lo potresti mai provare.

- Come no? o non so io che io son desto?

E io rispondo:

- Sí ti pare a te; e anche a colui che sogna par cosí.

- Or bene, - dice il Pisano, - tu hai troppi sillogismi per lo capo.

- Io non so che sillogismi: io ti dico le cose naturali e vere; ma tu vai drieto al vento di Mongibello; e io ti voglio domandare d'un'altra cosa: Mangiastú mai delle nespole?

E 'l Pisano dice:

- Sí mille volte.

- O tanto meglio! Quanti noccioli ha la nespola?

E quelli risponde:

- Non so io, ch'io non vi misi mai cura.

– E se questo non sai, ch'è sí grossa cosa, come saprai mai le cose del cielo? Or va' piú oltre, - diss'io:

- Quant'anni se' tu stato nella casa dove tu stai?

Colui disse:

- Sonvi stato sei anni e mesi.

- Quante volte hai salito e sceso la scala tua?

- Quando quattro, quando sei, e quando otto

- Or mi di': Quanti scaglioni ha ella?

Dice il Pisano:

- Io te la do per vinta.

E io gli rispondo:

- Tu di' ben vero che io l'ho vinta con ragione, e che tu e molti altri astronomachi con vostre fantasíe volete astrologare e indovinare, e tutti sete piú poveri che la cota, e io ho sempre udito dire: “Chi fosse indovino serebbe ricco”. Or guarda bello indovino che tu se', e come la ricchezza è con teco!

E per certo cosí è, che tutti quelli che vanno tralunando, stando la notte su' tetti come le gatte, hanno tanto gli occhi al cielo che perdono la terra, essendo sempre poveri in canna. Or cosí co' miei nuovi argomenti confusi Fazio pisano. Essendo domandato da certi valentri uomeni se le ragioni con che io avea vinto Fazio avea trovato mai in alcun libro, e io dissi che sí, che io l'avea trovate in uno libro che io portava sempre meco, che avea nome il Cerbacone; ed eglino rimasono per contenti, facendosene gran maraviglia.

 

 

NOVELLA CLII

 

Messer Giletto di Spagna dona uno piacevole asino a messer Bernabò, e Michelozzo da Firenze, avvisandosi il detto signore essere vago d'asini, gliene manda due coverti di scarlatto, de' quali gli è fatto poco onore, con molte nuove cose che per quello dono ne seguirono.

 

Uno cavaliere di Spagna il quale avea nome messer Giletto, andando o venendo dal Sepolcro, arrivò a Melano, e avea con seco un asino, il piú piacevol bestiuolo che fosse mai: e' si rizzava in ponta di piè di drieto come uno catellino francesco, e dicendo alcuna parola il cavaliere, egli andava ritto in piede quasi ballando; e quando messer Giletto dicea che cantasse, elli ragghiava piú stranamente che tutti gli altri asini; e brievemente e' facea un tomo quasi come una persona, e molte altre cose molto strane a natura d'asino.

Essendo in Melano il detto cavaliero andò a vicitare messer Bernabò, e fecesi menare il sopradetto asino dirieto: e giunto che fu dinanzi a lui e fatta reverenzia, veggendo venire il signore questo asino, subito ebbe gli occhi a quello, dicendo:

- E di cui è quell'asino?

Disse lo cavaliero che gli era presso:

- Signore, egli è mio; ed è il piú piacevole bestiuolo che fosse mai.

L'asino era molto d'arnese dorato ben fornito; di che messer Bernabò udendo il cavaliere e veggendo l'asino, li parve che fosse o che dovesse essere quello che messer Giletto dicea; e tirossi in uno chiostro e puosesi a sedere col detto cavaliere allato. E giugnendo l'asino, dice il cavaliere:

- Signore, volete voi vedere una nuova cosa di questo asino?

Messer Bernabò, che avea vaghezza di nuove cose, dice al cavaliere:

- Io ve ne prego.

Era per avventura quivi presso uno Fiorentino che avea nome Michelozzo, il quale vide tutti li giuochi che questo asino fece, e ancora vide che messer Bernabò, veggendolo, scoppiava delle risa; e messer Giletto che in fine, veggendo che 'l signore ne avea diletto, gli disse:

- Signor mio, io non ho maggior fatto da donare alla vostra signoria; s'egli è di vostro piacere, a me serà grandissima grazia, non ch'io lasci questo asino a voi, però che la vostra signoria non richiede sí vil cosa, ma che io il lasci a questi vostri famigli, acciò che n'abbiano alcuna volta diletto.

Messer Bernabò disse che l'accettava graziosamente; e in quel dí medesimo il signore donò a messer Giletto un ricco palafreno che valea piú di cento fiorini; e fattogli ancora grande onore si partí, e andò a suo viaggio.

Michelozzo, che tutto avea veduto, ancora pigliando commiato dal signore, in quelli dí si tornò a Firenze; e venutoli uno pensiero assai sformato, che se potesse trovare due belli asini, mandandogli per sua parte al signore, poter venire grandemente nella sua grazia; e subito mandò in Campagna e in terra di Roma cercando di due. Nella fine ne trovò due bellissimi, li quali li costorono fiorini quaranta.

E venuti li detti asini a lui a Firenze, mandò per uno banderaio volendo sapere quanto scarlatto avea a levare per covertarli; e saputo che l'ebbe, subito il detto panno ebbe levato; e rimandato per lo banderaio, fece tagliare le due coverte magnifiche e grandi, che non ch'altro ma li loro orecchi coprivano; e fecevi mettere, com'è d'usanza, nella testiera e nel petto, e da lato l'arma de' Visconti, e appiè di quelle la sua.

E messo ogni cosa in punto con uno fante e uno paggio a cavallo, e uno a piede che innanzi a loro guidava li detti asini, cosí covertati li mandò al signore detto. Ed essendo veduta questa maraviglia per Firenze, come spesso si corre a vedere, l'uno domandava e l'altro domandava:

- O che è questo?

Il famiglio rispondea:

- Sono due asini che Michelozzo manda a messer Bernabò.

Chi stringea le mascelle e chi le spalle: e chi dicea:

- O è fatto messer Bernabò vetturale?

E chi dicea:

- Ha egli andare ricogliendo la spazzatura?

- O io fo boto a Dio, - dicono li piú, - che questa è cosí ordinata pazzia, come si facesse mai -; e molte altre cose come dicono le piú volte e' populi.

Quando gli asini con li loro famigli furono fuori della porta a San Gallo, le coverte furono levate loro da dosso, e messe in una valigia; e giunti a Bologna, prima che entrassono nella terra feciono mettere loro le coverte; ed entrati per la terra, diceano li Bolognesi:

- E che son questi?

Chi credea che fossono corsieri da palio, e chi ronzini; poi, veggendo quello ch'egli erano, l'uno dicea all'altro:

- In fé di Dio e' sono asini -; e domandavono il famiglio: - E che vuol dir questo?

E quelli dicea:

- Sono due asini, che uno gentiluomo di Fiorenza presenta al signore di Melano.

E mentre che domandavono, l'uno cominciò a ragghiare. Dicono alcuni:

- In fé di Dio voi gli dovea mandare in una gabbia, poiché cantano cosí bene.

Giugnendo all'albergo di Felice Ammannati, or quivi furono le domande e quivi le risa.

- Che è questo? - dice Felice e molti altri. E 'l famiglio rispondea.

- O vatti con Dio! - dicea ciascuno, - che questa è delle gran novità che si vedesse mai, che a cosí gran signore sia presentato due asini.

E mentre che erano guatati nel ridotto dell'albergo, l'uno comincia a spetezzare e fare lo sterco. Dice Felice:

- Disse Michelozzo che voi presentasse queste peta e questo sterco a me?

E voltosi al famiglio disse:

- Abbiate cura a una cosa, che quando voi gli appresentate al signore ch'e' non ispetezzassino a questo modo, però che voi potreste esser pagati e del lume e de' dadi.

Dice il famiglio:

- Noi faremo ben sí che la cosa andrà bene, e 'l signore sa bene che gli asini cagano.

Felice, e tutti i Fiorentini che v'erano, e Bolognesi non si poteano ricredere di questo cosí nuovo dono; e poi che gli asini si furono partiti, piú d'uno mese n'ebbono che dire. E abbreviando la novella, la quale serebbe molto lunga; quello che parve a quelli di Modana, però che per ogni terra gli asini con le coverte e con l'arma faceano la mostra; quello che diceano li Reggiani; e 'l miracolo che questo parve a Parma, a Piacenza e a Lodi; e quello che per le dette terre si disse, e come la parve loro nuova cosa, non si direbbe in uno mese.

Giunti a Melano, or quivi fu il correre del populo a vedere: “E che è? e che è?” ciascuno si strignea e potevano mal dire quello che averebbono voluto. Giunti alla corte del signore, e 'l famiglio degli asini dice al portinaio, come per parte di Michelozzo viene a presentare alcun dono al signore. Il portinaio vede per lo sportello questi due asini coverti; va al signore e diceli la cosa, e ancora piú, che dice che gli par vedere che siano due asini coverti di scarlatto. Come il signore ode costui, tutto si mutò in vista e dice:

- Va', di' che venga.

Il famiglio andò al signore e spuose l'ambasciata e 'l dono che per parte di Michelozzo gli appresentava. E 'l signore udito che l'ebbe, disse:

- Dirai a Michelozzo che m'incresce che mi presenti li suoi compagni e che sia rimaso cosí solo -; e licenzòlli; e mandò per uno che tutte le some del signore conducea, il quale avea nome Bergamino da Crema; e dice: - Va', ricevi quelli asini e togli quelle veste, e fa' tagliare subito una gonnella a te e una per uno a quegli altri che vanno con li muli e con gli asini, portando le mie saline; e lo scudo ch'elle hanno, ciascuno n'abbia uno dirieto e uno dinanzi, e quel di Michelozzo dappiè; e a quelli che gli hanno menati di' che aspettino la risposta.

Bergamino cosí fece, che ne andò nel chiostro, e tolse gli asini e misseli nella stalla, e quelle coverte mise in una sala; e 'l dí medesimo mandò per uno sarto, e fece tagliare a sé e a tre altri quattro gonnelle di questo scarlatto, li quali erano tutti uomeni mulattieri e asinai della corte. E fatte le gonnelle e vestitisi, misono gli basti agli asini donati; e andando di fuori di Melano, e tornando carichi con biada, e 'l Bergamino e gli altri drieto, erano domandati:

- Che cosa è questa? voi sete cosí vestiti di scarlatto, e con quest'arme, drieto a questi asini?

Dice Bergamino:

- Uno gentiluomo da Firenze che ha nome Michelozzo m'ha mandato questo dono di questi asini di scarlatto, e io n'ho vestiti me e costoro per suo amore.

E tutto ciò avea fatto come gli avea imposto il signore.

Fatto che ebbono cosí, e Bergamino fece fare una risposta a Michelozzo per lo cancelliere del signore, e per parte di lui com'elli avea ricevuti dua asini coperti di scarlatto, e che subito avea messo loro i basti, adoperandoli ne' servigi del signore, li quali molto bene portavano le sue some; e ancora di quello scarlatto del quale avea vestiti gli asini se n'era vestito egli con tre altri asinai; e con l'arme del signore, e con la sua a basso per farli piú onore, piú dí cosí vestiti erano andati per Melano drieto a' detti asini, facendo la mostra e dicendo chi ne gli avea mandati. E fatta la lettera con molte altre cose dettata, la fece serrare, dicendo appiede: “Bergamino da Crema castaldo della salmeria del magnifico signore di Melano, etc.”. E la soprascritta dicea: “Al mio fraello Michelozzo o vero Bambozzo de' Bamboli da Fiorenza”. E tutta compiuta e sugellata, la diede al famiglio e disse:

- Ecco la risposta; ogni volta che tu vuoli, tu te ne puoi andare.

Questo famiglio volea pur parlare al signore, pensando forse d'aver danari per lo presentato dono; elle furono novelle che mai non poté andare a lui.

Di che si tornò a Firenze con la lettera di Bergamino; e giunto a Michelozzo gli la puose in mano; e cominciando a leggere la soprascritta, tutto venne meno. Aprendo la lettera legge chi la manda; e allora peggio che peggio. Letto che l'ebbe, si dà delle mani nelle mani, e chiama il famiglio e dice:

- A cui desti tu la lettera?

E quelli dice:

- A messer Bernabò.

- E che ti disse?

- Disse gl'increscea che voi rimaneste solo, e che voi gli aveste mandati quelli che erano vostri compagni.

- Chi ti dié questa lettera?

- Uno suo fante; e mai lui non pote' piú vedere.

- Oimè! - dice Michelozzo, - tu m'hai disfatto, che so io chi sia Bergamino o Merdolino? escimi di casa, ché meco non starai tu mai piú.

Dice il famiglio:

- E l'andare e lo stare mio serà come voi vorrete; ma io vi dirò pur tanto che in ogni luogo era fatto beffa di noi; e se io vi dicesse ogni cosa che c'era detta, voi ve ne maravigliereste.

Michelozzo soffiava e dicea:

- E che t'era detto? o non si donò mai cosa alcuna a niuno signore?

Dicea il fante:

- Maisí, ma non asini.

Dice Michelozzo:

- Deh, morto sie tu a ghiado! se tu non foste stato meco quando quel cavaliere spagnuolo gli donò il suo, e che diresti tu?

Dice il fante:

- Quello fu un caso, e anco era un nuovo bestiuolo, e questo è un altro.

Disse Michelozzo:

- E’ valeva piú un piè di uno di questi, che tutto quello asino, che mi sono costati con le veste piú di cento fiorini.

Dice il fante:

- Li vostri erano da portar soma, e cosí alle some furono subito messi.

Dice Michelozzo:

- Ella è pur bene andata quando io mandava gli asini a messer Bernabò, e tu gli hai dati a Bergamino da Crema. Che diavol ho io a fare con Merdolino da Crema, che secondo la lettera dice che è asinaio? levamiti dinanzi, che ti nasca mille vermocani.

Il fante si partí, e in capo di due dí lo ritolse ben volentieri. E al detto Michelozzo venne poi una malattia che mai non parve sano, forse piú per malenconia che per altro difetto. E veramente e' fu nuovo dono, ed egli ne fu trattato nuovamente e come si convenía.

 

 

NOVELLA CLIII

 

 

Messer Dolcibene, andando a vicitare uno cavaliere novello, ricco e avaro, con uno piacevol morso il desta a farsi fare qualche dono.

 

E’ mi conviene pur tornare a messer Dolcibene, il quale in piú novelle a drieto è stato raccontato, però che fu il da piú uomo di corte che fosse già è gran tempo, e non sine quare  Carlo di Buem Imperadore il fece re dei buffoni e delli istrioni d'Italia. Essendosi fatto in Firenze uno cavaliere, il quale sempre avea prestato a usura ed era sfolgoratamente ricco, ed era gottoso e già vecchio, in vergogna e vituperio della cavalleria, la quale nelle stalle e ne' porcili veggo condotta: e se io dico il vero, pensi chi non mi credesse s'elli ha veduto, non sono molti anni, far cavalieri li meccanici, gli artieri, insino a' fornai; ancora piú giú, gli scardassieri, gli usurai e rubaldi barattieri. E per questo fastidio si può chiamare cacalería e non cavalleria, da che mel conviene pur dire. Come risiede bene che uno judice per poter andare rettore si faccia cavaliere! E non dico che la scienza non istea bene al cavaliere, ma scienza reale sanza guadagno, sanza stare a leggío a dare consigli, sanza andare avvocatore a' palagi de' rettori. Ecco bello esercizio cavalleresco! Ma e' ci ha peggio, che li notai si fanno cavalieri, e piú su; e 'l pennaiuolo si converte in aurea coltellesca. Ancora ci ha peggio che peggio, che chi fa uno spresso e perfido tradimento è fatto cavaliere. O sventurati ordini della cavallería, quanto sete andati al fondo!

In quattro modi son fatti cavalieri, o soleansi fare, che meglio dirò: cavalieri bagnati, cavalieri di corredo, cavalieri di scudo e cavalieri d'arme. Li cavalieri bagnati si fanno con grandissime cerimonie e conviene che siano bagnati e lavati d'ogni vizio. Cavalieri di corredo son quelli che con la veste verdebruna e con la dorata ghirlanda pigliano la cavallería. Cavalieri di scudo sono quelli che son fatti cavalieri o da' popoli o da' signori, e vanno a pigliare la cavallería armati e con la barbuta in testa. Cavalieri d'arme son quelli che nel principio delle battaglie o nelle battaglie si fanno cavalieri. E tutti sono obbligati, vivendo, a molte cose che serebbe lungo a dirle; e fanno tutto il contrario. Voglio pur aver tocco queste parti, acciò che li lettori di queste cose materiali comprendano come la cavallería è morta. E non si ved'elli, che pur ancora lo dirò, essere fatti cavalieri i morti? che brutta, che fetida cavallería è questa! cosí si potrebbe fare cavaliere un uomo di legno, o uno di marmo, che hanno quel sentimento che l'uomo morto; ma quelli non si corrompono e l'uomo morto subito è fracido e corrotto. Ma se questa cavallería è valida, perché non si può fare cavaliere un bue, uno asino, o altra bestia che hanno sentimento, benché l'abbiano inrazionabile? ma il morto non l'ha né razionabile né inrazionabile. Questo cotal cavaliere ha la bara per cavallo, e la spada e l'arme e le bandiere innanzi come se andasse a combattere con satanasso. O vana gloria dell'umane posse!

E ritorno al cavaliere novello di sopra; al quale andando messer Dolcibene, come i suoi pari fanno, per acquistare o dono di roba o di danari, lo trovò stare malinconoso e pensoso, come se facesse mestiero di qualche suo parente, e poco farsi lieto della cavallería e meno della sua venuta.

Di che messer Dolcibene comincia a dire:

- O che pensate?

Que' soffiava come un porco; e non rispondendo se non a stento, disse messer Dolcibene:

- Doh, messer... non vi date tanta malenconia, ché per lo corpo di Dio se voi ci avete a vivere, voi ne vedrete fare de' piú cattivi di voi.

Il cavaliere disse:

- O pur bene, voi me n'avete appiccata una.

Disse messer Dolcibene:

- Se voi ne sete fuori per una, buon per voi; ma se voi non pigliate altro partito, io ve n'appiccherò piú di quattro.

Il cavaliere si sta, e non dice piú parola; se non che fa venire i confetti e da bere, e ad altro non riesce. Alla per fine veggendo messer Dolcibene che questo cavaliere non riescía ad altro, comincia a dire:

- Io sono venuto a voi, però che 'l Comune ha posto una gabella che ogni cattivo debba pagare lire dieci; e io per lo detto Comune son venuto, per riscuoterla da voi.

Dice il cavaliere:

- Se io debbo pagare cotesta gabella, io sono contento; ma fatevi pagare a questo mio figliuolo, il quale è qui presente, il quale è due cotanti cattivo di me, che a quella medesima ragione ha a pagar lire venti.

Messer Dolcibene si volge al giovane:

- Fa' tosto quello che tu déi -; e abbreviando le parole, e' non valse lo scontorcere, ché messer Dolcibene per lire trenta tra amendue ebbe fiorini otto, e anco non gli cancellò del libro della detta gabella; però che con bocca per grande improntitudine gli assannò in quelli dí, empiendosi il corpo come poteo.

E 'l cavaliero, o che si pentisse del sogno avea fatto o come che s'andasse, fu piú misero nella cavallería che non era stato prima; e questo incontra sempre, però che chi nasce cattivo, non ne guarisce mai.

 

 

NOVELLA CLIV

 

Uno giovene di Genova, avendo menata moglie, non possendo cosí le prime notti giacere con lei, preso sdegno se ne va in Caffa, e stato là piú di due anni, ritorna a casa con piú denari che non portò, avendolo la moglie aspettato a bell'agio a casa il padre.

 

Uno giovene degli Spinoli di Genova, non è gran tempo, tolse per moglie una gentil giovene genovese, la quale piú tempo gli era piaciuta; e presa la dota, essendo una domenica la giovene andata a marito, ed essendo le nozze di Genova di quest'usanza, ch'elle durano quattro dí, e sempre si balla e canta, mai non vi si proffera né vino, né confetti (però che dicono che, profferendo il vino e' confetti, è uno accommiatare altrui), e l'ultimo dí la sposa giace col marito e non prima; essendo venuta questa giovene, e 'l marito, avendo vaghezza d'essere con lei, pregò le donne che dovesse loro piacere ch'elli giacesse la domenica sera con lei. Qui non fu mai modo che acconsentito fosse di rompere questa usanza. Passossi quel dí, e seguendo il lunedí, e 'l giovane piú infiammava, e cominciò a dire:

- Io voglio al tutto istasera giacere con la mia mogliera.

Le donne e gli altri dissono non volere al tutto che la loro usanza si rompesse. E 'l martedí ancora il simile volea: niente ci fu mai modo. Venuto il mercoledí, che l'usanza dava di giacere con la sposa, lo giovane sdegnato, avendo veduta una nave che era per far vela per andare in Caffa, ebbe uno suo famiglio, e impuosegli segreto che di quello che facesse non dovesse ad alcuno appalesare; e fatto alcuno suo fardello di robe e d'altre cose opportune, e tolti fiorini mille dugento, tra della dota e altri, andò sulla detta nave, la quale con prospero vento subito fu dilungata. Le nozze continuando li loro balli e suoni appressandosi la sera, le donne e gli altri non veggendo il giovane, forte si maravigliavano, dicendo:

- Che può esser questo, che costui, che a quest'altre sere è stato cosí volonteroso, istasera, quando è il tempo d'essere con la sua donna com'elli desiderava, non si truova?

Domanda di qua, cerca di là, il bell'amico non si trovava, che forse otto miglia o piú era di lunge. La brigata e' parenti stavano tutti smemorati, e forse la donna novella che avea perduto il marito prima che l'avesse avuto. Brievemente, ella si coricò al modo che l'altre. L'altro dí non s'ebbe altro a fare che cercare, domandare e aspettare. Aspetta il corbo! ché quanto piú aspettavono l'amico, piú si dilungava. E stando per alquanti dí, ritornata la donna a casa sanza avere consumato il matrimonio, s'e' parenti stavano dolorosi non è da domandare; però che aveano dato una dota di fiorini mille, e riaveano in tal forma la giovane a casa, che non poteano sapere se l'era vedova o maritata.

Alla per fine dolendosi un dí alcuno suo parente su la piazza di San Lorenzo di questo caso, uno padrone d'una nave, la quale pochi dí nel porto di Genova, tornando d'Alessandria, avea scaricato, e avea nome messer Gian Fighon, essendo presente a questa doglienza, dice:

- Per lo sangue de De', che io lo vidi, essendo al porto, salire su la tal nave che andò in Caffa, che serà andà su quella nave.

Questo suo parente udendo costui, e domandandolo da lui a sé distesamente, ebbe per certo ciò essere vero; e ritruova tutto il parentado e dice ciò ch'egli ha udito. Di che se ne vanno a casa dello sposo smarrito, e cercano de' suoi panni, e non trovando né quelli, né 'l famiglio, dicono per certo costui avere fatto mal viaggio per la sposa, ed ebbonlo tutti per fermo; e mandando lettere e domandando se alcuno tornava di quel paese, stettono ben otto mesi che non ne sentirono novella.

Alla fine tornando di Caffa uno Genovese degli Omellini, essendo domandato di questo fatto, disse avere il detto giovane lasciato in Caffa e che di poco su la tal nave era là giunto. Di che tutti e' parenti, avendo questa cosa per certa, sollecitorono con lettere, quanto poterono, e massimamente il padre e' fratelli di lei, che l'aveano data la dota e mandata al marito, e riaveansela in casa; e brievemente, e' poterono assai mandare o scrivere che questo buon uomo tornasse, se non in capo d'anni due, mesi quattro e dí dodici, che di Caffa tornò a Genova con fiorini duemila. E quando a' parenti fu detto, sallo Dio l'allegrezza e 'l correre ad abbracciarlo, come è d'usanza de' Genovesi. E chi dicea:

- O scattivao, ove seu stao? - e chi una cosa e chi un'altra dicendo.

Dice il giovane:

- Io vegno cozzí di Caffa.

Or pensate l'animo de' Genovesi che disse questo giovane: “Io vegno cozzí di Caffa”, come fosse tornato da porto Alfino, ed egli era venuto trentacinque migliaia di miglia, che è de' maggiori navicari che si faccia. Or in brieve, giunto costui, fu domandato, e che cosa l'avea dilungato tanto paese, avendo la novella sposa. E quelli rispose, non altro che ira o sdegno, dicendo il perché, e poi disse:

- E io sono or qui, e dico che, se la vostra o nostra usanza è buona di stare il quarto giorno prima che si dorma con la mogliera, e io dico che la mia che io ho cominciata a fare, è buona e ottima, però che sono stato molti piú dí che quattro. E perdonàme tutti quanti, ché io credo che ciò che è intervenuto sia stata grazia di Dio; però che io ebbi sempre voglia nella mia giovenezza, là dove ancora sono, d'andare in Caffa; ed essendo per questo sdegno o caso andato, io sono molto piú contento esservi andato prima che io giacesse con la mia mogliera, che poi, però che da molti savi Genovesi che sono stati in Francia ho udito dire che nella sala dello re è una dipintura di tre diverse maniere di genti, e a ciascuna è fatta con mano una figa: la prima è quella che toccherebbe a me; se io fosse giaciuto con la mia sposa e poi fussi andato in Caffa, mi serebbe là fatta la figa, però che dice ch'egli è molto folle chi toglie mogliera, e quando ha dormito con sé alquanto, partesi da lei, facendo gran viaggio da lungia, dicendo: “Chi toglie mogliera giovene e sta un poco con lei, e poi piú tempo si dilunga, è forte ingannato; però che mette il fuoco nel pagliaio, e poi si dilunga e non crede ch'egli arda”. La seconda (acciò che voi sappiate che io so come quella dipintura sta), è quando uno dee avere fiorini cento, o altra quantità da un altro, e 'l debitore gliene vuole dare una parte, e quello gli fa un'altra figa.

E 'l terzo è che, quando a uno è dato un gran segreto e quello il dice a un altro, dicendo e pregando che tenga segreto quello che non ha possuto tenere ello, e costui ha un'altra figa. Ora tornando a' fatti nostri, io vi dico che io mi parti' per isdegno, che tre sere non potei giacere con la mia mogliera; e questo feci mal volentieri e pur me ne incontra bene, che di fiorini mille dugento che io portai, io n'ho addutto duemila. E per la ragione della figa di Francia, io sono piú contento d'essere andato in Caffa prima che io fosse con lei, che dappoi. E perciò io vi dirò brievemente l'animo mio: poiché Dio m'ha ricondotto qui, se voi mi volete mandare la donna che dee essere mia, a casa, fate che la vi sia istasera; piú nozze non ho a fare; e s'ella non vi fia a buon'ora, come io sono andato in Caffa, cosí andrò al Dalí.

Come costoro udirono questo, tosto tosto s'avacciarono la sposa vi fu a mezza nona, e questo giovene lavorò il suo terreno che era fatto tanto maggese, come li piacque, e ristorò e' tempi perduti il meglio che poteo, stando fermo con la sua moglie, sanza andare in molti viaggi.

Come che bene gli serebbe stato che in quel tempo che stette in Caffa un altro se l'avesse accaffato; e stavagli molto bene, non potendosi astenere un dí di quello che avea a usufruttare tutto il tempo della vita sua.

 

 

NOVELLA CLV

 

Maestro Gabbadeo da Prato è condotto a Firenze, per avviarsi dopo la morte del maestro Dino, il quale venuto, gl'interviene che guardando uno orinale a cavallo, e 'l cavallo aombrando, corre a suo mal grado insino alla porta al Prato, ed egli non lasciò mai l'orinale.

 

Maestro Dino del Garbo fu in que' tempi il piú famoso medico, non che di Firenza, ma di tutta la Italia, il quale finendo i dí suoi, essendo passato di questa vita, molti medici d'attorno, sentendo la sua morte, corsono a Firenze, e tali che, non che sapesseno medicina, non arebbon saputo trovare il polso alle gualchiere. E fra gli altri era in questi tempi in Prato un medico antico e assai grosso di quella scienza, il quale sempre portava una foggia altissima, con un becchetto corto da lato, e largo che vi serebbe entrato mezzo staio di grano, e con due batoli dinanzi che pareano due sugnacci di porco affumicati. Ed essendo costui in Prato e poco guadagnando di suo mestiero, uno suo amico gli disse:

- Maestro Gabbadeo, voi dovete sapere ch'egli è morto a Firenze il maestro Dino, il quale, mentre che vivea, niuno vostro pari vi potea guadagnare niente; ora per quello che io ho sentito, ciascuno corre là, e credo che un vostro pari farebbe là tutto il bene del mondo; e stando voi qui, vi starete sempre tra due soldi e ventiquattro danari, e non si conoscerebbe la vostra virtú.

Di che maestro Gabbadeo, udito l'amico suo, gli disse:

- Io veggo certo che tu mi di' il mio bene, e quello che serebbe l'onor mio; ma io non potrei durare alla spesa, però che mi converrebbe tenere un ronzino e uno fante, e converrebbemi renovare li miei vestimenti e le mie fodere di vai, le quali in questo castello sono ancora assai orrevoli.

E questi suoi ornamenti, non ragionando de' panni lani, ma vai e foderi, erano sí pelati che non è niun pellicciaio che avesse potuto conoscere di che bestie fusson fatte quelle pelli.

L'amico, che avea pur voglia ch'egli andasse a Firenze a pigliar corso, gli disse:

- E’ non si vuol stare a lellare, anzi si vuol pigliare partito, innanzi che gli altri piglino luogo prima di voi; però che sapete che la vostra è un'arte, che quando una famiglia si comincia a medicare da un medico, rade volte lo mutano mai, e la spesa non fia come voi immaginate; però che del cavallo che voi terrete, se torrete un poltracchiello, in che spendiate otto in dieci fiorini, ne raddoppierete i danari in meno d'un anno; però che i vostri pari gli scorgono bene, che tutto 'l dí gli menano in qua e 'n là, e poi riescano i migliori cavalli, e i piú sicuri che si scorgano.

E 'l medico, senza udire piú, dice all'amico:

- Or ecco, io ne voglio consiglio con la donna mia, e se me ne consiglierà, subito piglierò partito.

E di subito con gran festa se ne va alla donna sua, ove molto lietamente gli raccontò il consiglio gli dava l'amico suo. La donna volontorosa che 'l marito uscisse di mendicume, dice:

- Marito mio, chi ti consiglia di questo non ti vuol male; non istate a badea; pigliàtene partito il piú tosto che potete; e io ci voglio mettere un orlo di vaio che io ho alla mia guarnacca celestra; e se non basterà, torrò anco i manicottoli, e con quello t'acconcerò i batoli de' vostri tabarri, e leveronne quei pelati, che vi sono.

E brievemente cosí fu fatto. E acconce le sue robe per questa forma, accattò uno ronzino, e venne a Firenze in casa un suo pratese che vi stava; e dettogli la faccenda, il menò, addobbato il meglio che poté, a Santa Maria della Tromba; e là a una bottega di speziale cominciò a fare residenza; e avendo informato l'amico suo di volere uno poltracchiello, gliene fu menato uno ch'era d'Ormannozzo del Bianco Deti, il quale sempre si dilettava di scorgere puledri; e comprollo fiorini dieci a termine d'uno mese; e mandatolo a casa, la seguente mattina, accattato una posolatura tutta dorata, salí sul detto poltracchio e giunse in mercato vecchio alla bottega dello speziale. E stando ivi alquanto a cavallo, gli fu posto un orinale in mano, il quale era d'una donna inferma che stava in Torcicoda, la quale s'era cominciata a medicare da lui. Avendo tratto l'orinale della cassa il maestro Gabbadeo, e stando sul poltracchio attento a procurare l'orina, uno portatore venía di rincontro con uno porco in capo; come il poltracchio vede il detto porco, comincia a soffiare e averne paura per sí fatta forma che comincia a fuggire. Il medico, non lasciando l'orinale, s'ingegnava di ritenere il cavallo. Lo speziale e la gente d'attorno gridavano:

- Ritenete, ritenete.

Egli era nulla, che la levava quanto potea; e mai per questo il medico non lasciò l'orinale; ma diguazzandosi di qua e di là, tutta l'orina gli andò sul cappuccio e sul viso e su la roba, e alcune zaffate nella bocca, e con tutto ciò non lo lasciò mai. Correndo il cavallo già tra' ferravecchi col detto medico, e con l'orinale in mano, andando lungo una bottega di ferrovecchio, ed essendo appiccato molte grattuge e romaiuoli e padelle e catene da fuoco, dà tra queste masserizie e tutte le fece cadere, e la foggia del cappuccio, essendo presa da una catena da fuoco, fece rimanere il cappuccio con tutto il vaio appiccato, che n'era ben fornito. E 'l medico scappucciato col cavallo, che per lo romore de' ferramenti caduti molto piú correva, sanza lasciare mai l'orinale, dàlla giuso da casa i Tornaquinci e giuso verso la porta del Prato, che mai non lo poté tenere.

E brievemente, e' l'averebbe rimenato a Prato, se non ch'e' gabellieri, veggendolo venire, chiusono la porta, e ivi ristette il cavallo. E’ gabellieri, veggendo questo medico senza cappuccio con l'orinale in mano, domandavono:

- Che vuol dir questo?

Il medico non potea appena favellare; poi raccolto lo spirito, disse a' gabellieri ciò che intervenuto gli era; e per lo migliore insino a sera stette nella loro casellina; e accattato uno cappuccio, al tardi si ritornò a piede, facendo menare il poltracchio a mano a casa lo amico suo, là dove giunto, veggendolo l'amico pratese, dice:

- O che vuol dire questo? siete voi caduto?

E quelli disse di no, raccontando ciò che era stato. Dice l'amico:

- Voi aveste cattivo consiglio a comprare poltracchio, però ch'e' vostri pari non conviene che abbiano a contendere co' cavalli, ed è maraviglia come e' non v'ha morto.

Dice il medico:

- Tu di' vero; io credetti a un mio amico, che mi disse che io raddoppierei i denari, se io comprasse uno poltracchio.

Disse l'amico:

- Chi ve ne consigliò non fu vostro amico; però che essendo di tempo, come sete, non si fanno i poltracchi per voi.

- La cosa è pur qui, - dice il maestro Gabbadeo; - a' rimedii: il cappuccio rimase appiccato a una catena da fuoco tra' ferravecchi; io ti priego guardi s'ello si può riavere.

E l'amico disse di farlo. E la mattina per tempo va fra' ferravecchi, e domanda dov'è il cappuccio che correndo quello cavallo era rimaso.

Fugli insegnato che era rimaso presso dalla Volta delle stelle. E andato là, trovò il fabbro che l'avea; e dicendogli la sventura, gli addomandò il cappuccio. Il fabbro dice:

- Io non so chi e' si sia; a me pareva elli un pazzo; e' m'ha rotto le padelle, e ciò che io aveva appiccato di fuori; - e mostra a costui il danno, e domandando la menda.

Di che l'amico s'accordò che de' primi danari guadagnasse il medico, gli darebbe un fiorino; e riebbe il cappuccio, che non valea trenta soldi, e riportollo al maestro Gabbadeo dicendoli in che forma l'avea riaúto. Il medico sel mise in capo che ancora non era ben asciutto dell'orina; e quel dí medesimo cercò con Ormannozzo che si ritogliesse il suo poltracchiello, e che elli ne volea perdere due fiorini; e fu fatto. Poi comprò un ronzino vecchio per fiorini otto, il quale assai cattivamente il portava, e rassettatosi in una casetta, che tolse a pigione in Campo Corbolino, il meglio che poté s'avviò. E per dischiesta di medici, in poco tempo pagò il ronzino e mandò fiorini uno al fabbro; e con poca scienza, in sul ronzino vecchio, proccurando l'acque degli orinali, sanza versarlesi addosso, pochi anni avanzò ben fiorini secento, e poi si morí, portando el libro sul corpo suo nella bara, come se fosse stato Ipocras o Galieno.

 

 

NOVELLA CLVI

 

Messer Dolcibene fa in forma di medico nel contado di Ferrara tornare una mana a una fanciulla, che era sconcia e svolta, nel suo luogo; e questo fa gittandovisi su a sedere.

 

Nessuna cosa è tanto dolce quanto è il bene, chi volesse ben contemplare; e però essendo vago e dell'uno e dell'altro, ritornerò pur a quel nome, dove ciascuno di questi due s'inchiude, cioè a messer Dolcibene, il quale drieto in piú novelle è stato raccontato. E perché il valentre medico maestro Gabbadeo nella passata novella, con quella scienza e con quella pratica che la natura gli avea donato, con grandissimo ordine volendo bene considerare in sul poltracchiello l'orinale della sua inferma, e per quello poltracchiello essere quasi pericolato; voglio dimostrare in questa seguente come costui senza sapere o filosofia o medicina, essendo in caso che non trovava albergo né casa che si potesse alloggiare, fece una nuova e bellissima esperienza, e non mai usata per nessun medico stato innanzi a lui.

Venendo adunque alla novella, messer Dolcibene, essendo stato fatto per adrieto re degl'istrioni d'Italia da Carlo imperatore di Buem, sentendo che 'l detto imperadore la seconda volta ritornava in Italia, essendo già giunto in Lombardia, il detto messer Dolcibene con parecchi cavalli si partí di Firenze per andare in Lombardia incontro a vicitare il detto imperadore. E giugnendo una sera al tardi in Ferrara, trovò là essere il detto imperadore, e per la gran quantità di gente, che avea seco, avea preso tutte le stanze e gli alberghi, dentro in Ferrara e di fuori parecchie miglia; onde convenne che 'l detto messer Dolcibene, sanza trovare alloggiamento, se n'andasse al palagio, dove l'imperadore era. E sceso nella via, e lasciato i cavalli a' suoi famigli, n'andò alla sua presenza, e fattali la reverenza, disse:

- Signor mio, abbiate buona speranza, che voi avete modo di vincere tutto il mondo; però che voi state bene e col Papa e con meco: voi con la spada, il Papa co' suggelli e io con le parole; e a questo nessuno potrà resistere.

L'imperadore avendoli fatta risposta come si convenía, e messer Dolcibene disse:

- Sacra corona, io non sono ancora alloggiato, io voglio andare a cercare, se ci è, ov'io cappia, e poi tornerò alla vostra maestà.

E cosí partitosi e salito a cavallo, di luogo in luogo domandava dove potesse stare con cinque cavalli ch'egli avea. E brievemente, non trovando albergo in Ferrara, uscí fuori e tenne la via verso Francolino; e domandando di casa in casa dove potesse stare, andò parecchie miglia; e in fine s'abbatté a una casa di qua dal Ponte al Lago Scuro; dove veduto che ebbe una donna molto malinconosa all'uscio, disse:

- Com'è il vostro nome, madonna?

E quella rispose:

- Perché 'l disé voi? io ho nome donna Margotta.

E messer Dolcibene disse:

- O vostro marito com'ha nome?

E quella rispose:

- Ha nome Salisin.

Ed elli seguí:

- Madonna, potrestemi voi ricettare con questi cavalli per questa sera, dandovi quel pagamento che voi stessa addomanderete?

A cui la donna rispose:

- Messer, io ho tanta briga che mi si screva il core.

E quelli disse:

- Che avete voi?

Ed ella rispose che una sua figlia di quattordici anni, che piú non avea, s'avea sconcia e travolta una mano e 'l braccio, essendo caduta pur mo a terra d'una figa, e non fa altro che piagnere e lagnarse.

E messer Dolcibene dice:

- Madonna Margotta, io sarò l'angiolo di Dio che serò venuto qui per voi, e per la vostra putta; però che io sono il migliore medico di racconciare ossa che sia in Italia o nella Marca Trivisgiana. Io vi guarirò questa fanciulla, s'ella avesse, non che storte, ma rotte quante ossa ella ha addosso.

La donna, udendo messer Dolcibene, e parendoli nella apparenza quello che dicea, comincia a riceverli graziosamente; e acconci li cavalli, e tirati li colli a sue galline, apparecchiò ogni cosa, sí che 'l detto stette forse cosí bene come l'imperadore. E in questo tornò Salisino, che era andato a pescare e avea arrecato due porcellette, e donna Margotta fattalisi incontro, raccontò con dolore la caduta della loro figliuola, e con allegrezza la ventura che gli era venuta a casa, di sí valentre uomo medico. Il marito fece reverenza, raccogliendo messer Dolcibene, e fece cuocere le porcellette, e poi li raccomandò la figliuola. Onde messer Dolcibene fu menato al letto a veder la fanciulla, la quale era assai bella, secondo l'aria ferrarese; e veduta la mano la quale, essendovi caduta suso, l'avea rivolta sotto il braccio, quasi come uno uncino alla in su; messer Dolcibene domandando di molte cose, e in fine non trovandone quivi, e volendo fare pure una bella cura, fece quasi una poltiglia da cavalli, e stracciate pezze e fatte fasce e lenze, impiastrò la mano e 'l braccio della fanciulla per modo che stesse ben morbido, e fatto questo, la fece sostare un'ora acciò che stesse ben morbida, ed elli andò a provvedere e' cavalli e assaggiare il vino e a studiare le galline e le porcellette. E stato per alquanto, tornò al suo magistero, e sfascia la fanciulla, e la fanciulla gridando forte del duolo, el padre e la madre, avendo paura non morisse di spasimo, pregavano che per Dio non facesse con le mani per forza. Messer Dolcibene disse:

- Io non ci porrò le mani, sopra la mia fé, - e fessi arrecare molta stoppa e due taglieri grandi; e messo il braccio su uno di questi taglieri, con lo scrigno dell'oncino di sopra, e con molta stoppa di sotto e di sopra, puose sopra quella l'altro tagliere, sí che quasi in strettoie si dovesse fare ritornare nel suo luogo.

E detto questo e fatto, recandosi cortese, disse:

- Non abbiate paura, che niuna delle mani adopero -; e dato volta, dicendo: - Tenete ben fermo il braccio com'io l'ho acconcio -; vi diede tal su del culo che averebbe dirizzato un palo di ferro che fosse stato torto.

E subito voltosi e preso il braccio con istecche, con sue poltiglie e allenzamenti l'ebbe fasciato, gittando dell'acqua nel viso alla fanciulla, la quale per lo gran dolore urlava quanto potea; pur da ivi appresso un'ora si racchetò, e 'l braccio e la mano stavano diritti e ciascuno nel luogo suo. E voltosi a Salisino e a madonna Margotta, dice:

- Come vi pare che sia andato?

E quelli dissono:

- Molto bene, maestro, che Dio vi doni buona e lunga vita.

Allora messer Dolcibene, vantandosi, dice:

- Or pensate quello che io farei con mano, quando col culo ho fatto cosí grande esperienza.

Dappoi andorono a cena con gran letizia, e fu tenuto alla paperina, non pagando alcun danaio; e la mattina per tempo levatosi, come ebbe preso commiato e salito a cavallo, un gran paio di capponi morti si trovò agli arcioni, e promissonli di fare piú oltre, se mai arrivasse piú in quel luogo. E tornato a Ferrara con questa novella, tenne piú dí a sollazzo la corte dello imperadore, e profferevasi a tutti quelli uomeni d'arme, che securamente si sconciasseno l'ossa, che egli le racconcerebbe subito col culo, meglio che altro uomo con mano. E valsegli questa volta piú che se uno sommo medico avesse guarito di simile cosa uno grandissimo signore.

 

 

NOVELLA CLVII

 

 

Messer Francesco da Casale signore di Cortona mena Pietro Alfonso a mostrarli il corpo di santo Ugolino, là dove con nuove parole si raccomanda a lui, e con vie piú nuove si sta, e parte dal detto messer Francesco.

 

Nella città di Cortona al tempo di messer Francesco da Casale, signore di quella, arrivò un valentre uomo di Spagna, per avventura parente di messer Gilio di Spagna cardinale, il qual ebbe nome Pietro Alfonso. Costui, essendo piacevolissimo uomo e assai gran mangiatore, spesse volte era domandato quanta carne gli basterebbe al pasto; ed elli rispondea:

- Alle cui spese?

E se quelli diceano: “Alle tue”; ed elli allora dicea:

- Io sono piccolo mangiatore, e ogni poca vivanda m'è assai.

Se diceano: “All'altrui spese”; rispondea: - Io sono gran mangiatore e vorrei buone vivande e assai.

E altri piacevoli motti simili a questi sempre avea.

Ora essendo questo Pietro Alfonso col detto signore per alcun dí, il signore gli cominciò a dire di molte belle reliquie, le quali nella terra avea; e che v'era il corpo di santa Margherita.

Pietro rispose:

- Cotesta è nobile reliquia, pensando a chi fu la santa.

Disse il signore:

- Ella non è quella, anzi è una santa Margherita, la quale fu di questa terra.

Disse Pietro:

- E’ può ben essere, però che pare che sempre, dove hanno regnato i signori, vi siano assai corpi di santi e spezialmente martiri.

Lo signore rispose:

- In fede, e' ci sono assai dell'altre, e fra esse c'è un corpo di santo Ugolino, la piú venerabile reliquia che mai tu vedessi: e voglio domattina che noi andiamo a vederla; e se tu ti raccomandi a quel corpo, per certo, Pietro, egli ha fatto assai miracoli; e di quello che lecitamente addomanderai, troverrai ti farà grazia.

Dice Pietro:

- Signore, e' mi piace, e ve ne prego che cosí sia.

La mattina seguente si mosse il signore, e Pietro con lui e andorono alla chiesa dov'era il detto corpo; ed entrati in una cappella, li cherici il trassono, o dell'altare o armario, e involto, com'è d'usanza, di molti veli e drappi d'oro, isfasciando a parte a parte, il signore essendo innanzi, e Pietro cosí da costa, istando inginocchione. Essendo scoperto in tutto il detto corpo, ed essendo nero pauroso con l'ossa scoperte, disse il signore:

- Pietro, accostati e raccomandati a lui.

Pietro sentendo dire: “Accostati”, gli s'arricciarono tutti i capelli; e pur per obbedire s'accostò, e cominciasi a fare il segno della Santa Croce, dicendo:

- Messer santo Ugolino, io vi prego per l'amore di Dio, che voi non mi facciate né bene né male -; e questo disse tre volte, segnandosi continuamente.

Lo signore, veggendo costui, e maravigliandosi, disse:

- Pietro, hai tu paura de' santi?

E Pietro rispose:

- Signor mio, io non l'ebbi mai tale -; e levoronsi di ginocchione; e fattosi da capo il segno della Santa Croce, si partirono.

E per la via ragionando, disse il signore:

- Pietro, tu m'hai fatto assai maravigliare della maniera e delle parole che tu hai usate dinanzi al venerabil corpo di questo santo.

E Pietro rispose:

- Signore mio, io non ebbi mai simile paura, però che piú scuro corpo mai non vidi; e se li corpi de' santi sono cosí paurosi, che debbono essere e' corpi dannati? Io vi voglio dire, in fede, parecchie parole: il mondo è pieno di novità, e ciascuno ha vaghezza delle cose nuove, quia omnia nova placent ; questo vostro santo Ugolino poté essere un santo uomo, ma il corpo mio non accambierei al suo. Nel catalogo de' santi non trovai mai santo Ugolino, e non so chi si fu. Se voi avete reverenza e devozione in quello, e voi quello adorate, che quanto io, non sono per adorarlo: ma mille anni mi pare che io mi vada con Dio, il quale voglio adorare, e voi v'adorate santo Ugolino; ma fate di vedere il suo corpo il meno che voi potete; che quanto io, non sono acconcio, né intendo vederlo mai piú.

Messer Francesco, udendo costui, disse:

- Per certo, Pietro, questa è delle belle reliquie del mondo, ma tu non la conosci.

- Signor mio, - disse Pietro, - e' può ben essere ch'ella vi par bella, e avetemela forse mostrata per cacciarmi; e io me ne voglio andare, però che a me ha ella fatto grandissima paura, tale che fatevi con Dio, e di me non fate ragione mentre che in Cortona questo corpo di santo Ugolino fia.

E salito a cavallo, disse al signore:

- Fatevi con santo Ugolino, e io voglio fare sanza lui.

E 'l signore rispose:

- Pietro, poiché ti vuogli pur partire, vattene con santo Ugolino.

E Pietro disse:

- Signore mio, voi direte poco piú, che io non saperò se io mi debba stare, o se io me ne debbo andare -; e dato degli sproni, e detto al signore: - Rimanetevi con santo Ugolino -; si partí.

E cosí avviene oggi nel mondo, che li signori e gli altri viventi sono sí vaghi di cose nuove che se elli potessono, muteríano la signoria del cielo, come spesso mutano quella delle terre. Abbiamo li santi canonezzati e cerchiamo di quelli che non sappiamo se sono. Abbiamo il nostro Signore Jesu Cristo, la sua Madre, gli Apostoli e gli altri maggiori del Paradiso, e andremo dietro a san Barduccio. Dall'una parte diremo che chi muore scomunicato, il corpo suo si sta intero e non si disfà: dall'altra parte diremo un corpo morto, che non si consuma, essere santo. E segue tanto questa idolatria che s'abbandonano li veri per questi tali, che spesse volte, essendo dipinti, è fatto loro maggiore luminaria e posto piú immagini di cera che al nostro Signore. E cosí spesso s'abbandona la via vecchia per la nuova; e' religiosi spesso ne sono cagione, dicendo spesso che alcuno corpo sotterrato alla chiesa loro averà fatto miracolo, e dipingonlo per tirare, non acqua a lor mulino, ma cera e denari; e la fede si rimane dall'uno de' lati.

 

 

NOVELLA CLVIII

 

Soldo di messer Ubertino degli Strozzi, essendo capitano di Santo Miniato, usa certe astuzie con la malizia de' Sanminiatesi; e in fine, sanza tenere la metà de' fanti, vinse le sètte loro, ed ebbe onore.

 

Al tempo che 'l Comune di Santo Miniato in Toscana era in sua libertà, come avea per usanza, mandava quasi continuo la elezione del capitanato a uno fiorentino, e per la diversità degli uomeni di quello e per lo male reggimento de' rettori, che là andavano, rade volte intervenía che alli piú di questi rettori non fosse fatta vergogna, e talora tanta che talora se ne veníano in camicia, e talora erano presso che morti. Avvenne per caso che fu eletto per capitano un Soldo di messer Ubertino degli Strozzi, uomo piacevolissimo e saputo, e non abbiente, ed era forte gottoso, e quasi di ciò perduto. Avendo costui la elezione, cominciò a pensare, e dall'una parte il tirava il bisogno, e dicea: “Io voglio andare”; dall'altra dicea: “Io non voglio andare a morire; io sono vecchio, e sono attratto di gotte: li Sanminiatesi hanno fatto sí e sí al tale e cosí all'altrettale; egli è meglio ch'io rifiuti”.

Alla per fine, combattendo molte cose nella sua mente deliberò d'andare, per sovvenire alla sua necessità, e con una sottile astuzia, per riparare alle furie e alle sètte de' Sanminiatesi; e cosí accettoe. E venuto il tempo, andò nel detto officio; nel quale stando, apparí una gran mortalità, la quale fu molto prosperevole al detto Soldo, come appiede di questa novella si dimostrerrà.

Ora stando costui nel principio del suo capitanato, apparve un caso, che uno da Coligarli, o di quello paese, fu preso per alcuno eccesso, del quale, essendo colpevole, meritava d'essere dicapitato. Come la setta di messer Bindaccio Mangiadori il seppe, subito furono a lui, protestando che 'l detto non morisse; e per opposito la setta de' Ciccioni con ogni loro forza e argomento voleano che 'l preso non campasse. E questa era un'aspra contesa, come spesso interviene tra due sètte.

Veggendo Soldo questo, fra sé medesimo comincia a dire: “Io non debbo essere venuto qui per farmi uccidere, e sono poco adatto a combattere con costoro, però che io sono vecchio e infetto: a me conviene avere senno per la loro.. e portarmene quello che io avanzerò, che n'ho bisogno. E cosí pensato, disse una mattina all'una setta e all'altra che la sera andassono al banco a lui, e che piglierebbe lodo tale su' fatti del preso che l'una parte e l'altra doverrebbe rimanere per contenta; e cosí si partirono. E venuto poi l'ora del vespro, essendo Soldo al banco, l'una e l'altra setta comparirono alla difesa e all'offesa, dicendo ciascuna parte ciò che voleano. Disse Soldo:

- Io v'ho intesi, e serei molto contento della vostra pace e della vostra concordia, però che unitamente credo, se ciò fosse, consigliereste che io facesse giustizia, la quale ho giurato di fare, facendo ragione a ciascheduno; e di questo non me ne storrei, se già per voi non si facesse una cosa.

Udendo questo quelli che voleano che 'l preso campasse, dissono fare ciò che comandasse loro.

Allora disse Soldo:

- Ogni parola che voi fate è vana, altro che quello che io vi dirò. Andate, e diliberate tra voi quello che voi volete che io faccia di costui, e di concordia tornate a me, se mi direte che egli muoia, serà fatto; se mi direte che io lo lasci, subito fia lasciato.

Detto questo, ciascuno guarda l'un l'altro, e chi soffiava di qua e chi di là; alla fine si partirono, e dissono di tornare l'altra mattina. Elle furono favole, ché non che s'accordassono, ma elli non s'accozzorono mai insieme che ne ragionassono. Tornati la mattina e l'una parte e l'altra, e procurando chi pro e chi contro, disse Soldo:

- Io voglio spacciare questo fatto; che mi rispondete voi a quello che io vi dissi ieri?

Rispose l'uno dell'una parte:

- Messer lo capitano, noi non seremo mai in concordia, però che noi vogliamo che campi, ché ci pare che non meriti morte, e costoro vogliono che muoia.

Gli altri rispondeano:

- E’ dice il vero, che noi vogliamo che muoia, come il peggiore uomo che mai fosse in questo paese, e merita mille morti; e sapete, messer lo capitano, che la justizia è quella che conserva, non che questa terra, ma il mondo; e però vi preghiamo che facciate ragione.

Quando costui ebbe detto che facesse ragione, disse Soldo all'altra parte:

- Voi udite che costoro non sono di concordia con voi, né voi con loro, e dicono che io faccia ragione; e voi volete che io faccia ragione o no?

A costoro parve essere nelle pastoie, e dissono:

- E anco noi vi preghiamo che voi facciate ragione.

Disse Soldo:

- Voi diciavate poco fa che non eravate di concordia; in questa parte voi sete uniti e in concordia, cioè che io faccia ragione; e io cosí farò; e ancora vi dico cosí, ciò che prima vi dissi, che se di qui a tre dí verrete di concordia l'una parte e l'altra, o che io il salvi, o che io il danni, quello seguirò, se bene direte; quanto che no, io farò ragione, come di concordia m'avete detto.

Cosí tutti si partirono non sapendo che si dire, e ma' s'accordorono. Di che Soldo seguí il suo corso, e fece morire il preso... E cosí fece sanza fare alcuna... o motto, o totto. E cosí il buon rettore quando vuol fare quello che dee, non è mai cosa non abbia, se non per l'altrui follia, e rade volte, anzi non è mai, che se vuole fare ragione, che non possa. Essendo dicapitato costui, la parte che n'era stata malcontenta alcuna volta pensava di nimicarlo in certe cattivanzuole, come nel rassegnare la famiglia, e altre cose. Ed essendosi il detto Soldo di ciò avveduto, e durante la mortalità e avendo meno famiglia che non dovea, tenea quando sei e quando otto gonnelle in una sala de' fanti sopra una stanga. Venendo il rassegnatore, il detto Soldo dicea:

- Rassegnate come vi piace -; e mostrando loro le gonnelle, dicea: - Io ne feci sotterrare istanotte quelli che voi vedete; andate giuso alle letta e troverrete assai, che hanno il gavocciolo, e qual sta male e qual si muore.

Come il notaio della rassegna vede e ode queste cose, parea cacciato da mille diavoli, e turandosi il naso si fuggía fuori del palagio, e andavasi con Dio.

Quelli che aspettavono che 'l detto Soldo fosse condennato, udendo il rassegnatore, si segnavono; e non che gli mandassono il rassegnatore, ma non passavano dal suo palagio per la pestilenza, la quale udivano v'era appresa. E cosí e di questo e d'altro si passò questo avveduto capitano con l'altrui divisione e follia, trattando li sudditi suoi come meritavono; e tornossi a Firenze sano e salvo e gottoso, come v'andò, e forse con la borsa piena e con molto onore, lasciando loro e con le loro sètte e con le loro divisioni; le quali ciascuno che le segue, fanno venire a ultima e finale destruzione; come sempre e per antico e per moderno s'è veduto nel mondo

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NOVELLA CLIX

 

Uno cavallaccio di Rinuccio di Nello, sciogliendosi, per correre drieto a una cavalla in Firenze, e 'l detto Rinuccio, seguendolo, con nuovi casi fece quasi correre a seguirlo la maggior parte de' Fiorentini.

 

Uno cittadino molto antico d'anni e nuovo di costumi fu, non è gran tempo, nella città di Firenze, il quale ebbe nome Rinuccio di Nello, uomo assai di famiglia antico; e stava presso a Santa Maria Maggiore. Costui avea sempre cavallo, per suo cavalcare, che era piú nuovo di lui, e non so da qual razza si veníano quelli cotanti che tenne ne' suoi dí, che tutti pareano piú sgraziato l'uno che l'altro. Fra gli altri, quasi nell'utimo della sua vita, n'ebbe uno che parea uno cammello, con una schiena che parea Pinza di monte, e con una testa di mandragola, la sua groppa era che parea un bue magro; quando elli li dava una spronata, e' si movea d'un pezzo, come se fosse di legno, alzando il muso verso il cielo; e sempre parea addormentato, se non quando avesse veduto una ronzina; allora rizzando la coda, un poco anitriva e spetezzava. Non era però da maravigliare se 'l detto cavallo era incordato, però che gli dava spesso a rodere sermenti per paglia e ghiande per biada. Avvenne un giorno per caso, che, volendo cavalcare il detto Rinuccio, avea appiccato il detto cavallo di fuori nella via; ed essendo venuta una ronzina alla piazza dove si vendono le legne, che era quasi dirimpetto alla sua casa, ed essendosi sciolta da uno arpione, cominciò a fuggire per la via dov'era appiccato il detto cavallo; il quale, come sentí la giumenta correre dirietro, tiroe la testa a sé con sí dura maniera che ruppe uno briglione assai forte; però che il detto Rinuccio l'avea fatto fare in prova, mostrando a ciascuno per quello che 'l cavallo fosse sí poderoso che appena si potea governare. Tirato addietro la testa con tutta la persona, spezzò la briglia, e voltosi dietro alla cavalla verso Santa Maria Maggiore, gli tenne dietro furioso, com'è d'usanza degli stalloni.

Rinuccio che era per uscire fuori e montare a cavallo, sente un gran romore, che ogni uomo correa drieto a tanta novità; fassi alla porta, non truova il cavallo, domanda dove gli è ito. Uno calzolaio gli dice:

- Rinuccio mio, il vostro cavallo ne va drieto a una cavalla col mazzafrusto teso, e in su la piazza di Santa Maria Maggiore mi parve gli salisse addosso: soccorretelo, ché si potrebbe troppo ben guastare.

Rinuccio non dice: “che ci è dato?”; mettesi a corso, e con gli sproni in piede fu piú volte presso che caduto; e tenendo per nuove vie drieto a questa sua buscalfana, pervenne in Mercato Vecchio; là dove giunto, vide il cavallo addosso alla ronzina; e ciò veggendo, comincia a gridare:

- San Giorgio, San Giorgio.

I rigattieri cominciano a serrare le botteghe, credendo che 'l romore sia levato. Le bestie entrano tra' beccai, che allora stavano alla scoperta in mezzo della piazza; e giugnendo a uno desco d'uno che avea nome Giano, che vendea le vitelle, la ronzina si gettò sul detto desco, e 'l cavallo drietole per forma che Giano, che era assai nuovo pesce, fu presso che morto; e le pezze della vitella di latte, che erano tese per lo desco, furono tutte peste, e convertironsi in pezze di vitella di loto. E detto Giano, quasi come smemorato, fuggí in una bottega di speziale. E Rinuccio aombrato gridava: - San Giorgio -; e Giano gridava: - Oimè, ch'io sono diserto.

Colui, di cui era la ronzina, era tuttavia drieto con un bastone, e volendo attutare la concupiscenza della carne dava di gran bastonate, quando al cavallo e quando alla ronzina; e spesse volte, quando dava al cavallo, e Rinuccio gli si gettava addosso, e dicea:

- Per Santo Loi, che, se tu dài al mio cavallo, che io darò a te.

E cosí pervennono con questo romore per Calimala, là dove tutti i ritagliatori gittavano i panni dentro, e serravono le botteghe. Chi dicea:

- Che è?

E chi dicea:

- Che vuol dir questo? - e chi stava come smemorato; e molti seguivono le bestie, le quali, voltesi per lo chiassolino che va in Orto San Michele, entrorono tra' granaiuoli e le bigonce del grano che si vendea sotto il palagio, dov'è l'Oratorio, e scalpitarono molti granaiuoli.

E di quelli ciechi, che sempre ve ne stavano assai nel detto luogo al Pilastro, sentendo il romore ed essendo sospinti e scalpitati, non sappiendo il caso del romore, menavano i loro bastoni, dando or all'uno e or all'altro.

La maggior parte di quelli, che si sentivano dare del bastone, si rivolgeano a loro non sappiendo che fossono ciechi. Altri, che sapeano che coloro erano ciechi, diceano e riprendeano quelli che contro a loro faceano; e quelli tali si rivolgeano loro addosso. E cosí chi di qua e chi di là, e chi per un verso e chi per un altro, si cominciarono a ingoffare, facendo molte mislee da piú parti; e con queste mischie uscirono fuori de Orto San Michele le scuccomedre, non essendo ancora attutato il caldo del bestiale amorazzo del cavallo, anzi piú tosto cresciuto, e forse con alcune pugna che ebbe Rinuccio e quello della ronzina, giunsono, cosí percotendosi, e con busso e con romore, su la piazza de' Priori. Li quali Priori e chi era in palagio, veggendo dalle finestre tanto tumultuoso popolo giugnere da ogni parte, ebbono per certo il romore essere levato. Serrasi il palagio, e armasi la famiglia, e cosí quella del capitano e dello esecutore. Su la piazza era tutto pieno, e parte combatteano con pugna, e gran parte d'amici e parenti erano drieto a Bucifalasso e a Rinuccio, per aiutarlo, che già non potea piú.

Come la fortuna volle, il cavallo e la ronzina quasi congiunti entrorono nella corticella dello esecutore, là dove lo esecutore, per grandissima paura, non sappiendo che fosse, ma avvisandosi che 'l furore del populo gli venisse per uno che avea tra mano, del quale era gran contesa che non morisse, ed elli il volea far morire; si fuggí drieto a un letto d'un suo notaio, e di là entrò sotto la lettiera, essendo già quasi mezzo armato. Il popolo ancora si bussava in gran parte con le pugna, ed era per venire a' ferri; se non che subito la porta dello esecutore, la qual giammai non si serra, fu subito serrata, e a gran fatica fu preso il cavallo e la giumenta, li quali tutti gocciolavono di sudore, e Rinuccio di Nello era piú morto che vivo, e non sudava, però che non avea omore, e le rotelle degli sproni gli erano cascate di dietro, e intrate sotto le piante, le quali gli aveano laceri tutti gli fiossi de' piedi.

Li Signori rassicurati, ch'aveano veduto ciò che era, mandarono comandatori e famiglia ad acchetare la zuffa e 'l romore, e con bandi e con comandamenti ebbono assai che fare di potere acchetare la moltitudine.

Nella fine, essendo le cose rabbonacciate, la gente si cominciò a partire; ma drieto a Rinuccio e al suo Baialardo n'andorono centinaia, guardando Rinuccio per grande novità. Quello della ronzina se n'andò in Vinegia tutto pesto e afflitto con la sua ronzina, e là si riposò tanto che tornò un poco in sé: e giurò di non tenere mai piú ronzina tutto il tempo della vita sua; e cosí fece. Il Podestà e 'l capitano, essendosi armati, quando sentirono le cose non essere di pericolo, e la cagione del romore, e come già era cheto, salirono a cavallo, e con le loro brigate quasi a un'ora giunsono su la piazza. Fu fatto beffe di loro da quelli che v'erano rimasi, che pochi erano; ed eglino aveano seguito l'ammaestramento di Cato: rumores fuge . E là stati per alquanto, dicendo: “E dove son issi? e dove son quissi?” alla fine si partirono.

Uno cittadino che era ito per lo esecutore, il quale era ricoverato, dice a un suo spenditore:

- O che fa l'esecutore? dorm'elli?

Costui rispose:

- Quando questo romore cominciò, io vidi che si armava, e dappoi non l'ho mai veduto.

Risponde il cittadino:

- E’ sarà ricoverato in qualche cesso; egli ha fatto un bello onore a sé e a me, che andai per lui; hanno fatto cosí gli altri rettori?

E cosí dicendo, andorono nel suo palagio, e domandando il cittadino dello esecutore, ciascuno si stringea nelle spalle, e non si trovava. Alla per fine un suo piú fidato, che sapea dove era fuggito, andò alla camera dov'era sotto il letto, e dice:

- Jateci fori, non è cavelle.

Costui esce fuori tutto pieno di paglia e di ragnateli; e uscito un poco nella sala, si scontra nel cittadino; al quale disse il cittadino:

- Doh, messer l'esecutore, donde venite voi? che onore v'è questo, a non essere uscito fuori oggi?

E quelli dicea:

- Egli è tanto che non ci armai, che nulla armatura ci ho trovata bona, e la guardancanna piú d'un'ora m'ha tenuto, che eran guasti li fibbiali a potercela mettere, ancora non è acconcia: ma parciti, amico mio, che ancora vada in piazza?

- Andate il piú tosto che potete.

- Va', truovaci il cavallo, e jamoci.

E mettesi una barbuta, che della farsata uscirono, com'e' la prese, una nidiata di topi.

Quando lo esecutore vide questo, si cominciò a segnare, tirandosi a drieto, dicendo:

- Per Dio, questo c'è lo dí ozíaco.

E volgesi a uno famiglio, e dice:

- Dove ci ponesti questa barbuta, che t'affranga Cristo e la Madre?

Pur cosí fatta se la mise in testa; e salito a cavallo con una sopravvesta di ragnateli, profilata di paglia, uscí in su la piazza, là dove di due ore ogni cosa era finito. Quelli che vedeano costui, diceano:

- Buono, buono! a bell'otta! costui dee essere pazzo.

Diceano altri:

- Onde diavolo esc'egli? a me par che venga da Nepi.

E altri diceano:

- Egli esce di qualche stalla; ché si dovea essere fuggito per paura.

E cosí si fermò là, dove si pone il Saracino; e volgendosi attorno dicea:

- E dove ci sono quissi che fanno romore? per certo, che mo ce li scanno.

Alcuni gli s'accostano, e dicono:

- Messer l'esecutore, andatevene a casa, ch'egli è spento.

E altri diceano:

- Andate a farvi scuotere, e poi tornate, ché voi sete pieno di ragnateli.

E in questo si volgea verso le finestre de' Signori, facendo segno, se voleano che facesse alcuna cosa. I Priori gli mandarono a dire che s'andasse a disarmare, e ch'egli avea aúto l'onore, perché 'l campo era rimaso a lui. Questo esecutore se n'andò; e nel vero gli parve rimanere vituperato; e disarmato che fu, si pensò di rimediare alla vergogna, e l'altro dí ebbe formato una inquisizione addosso a Rinuccio di Nello, per turbare il pacifico stato. Detto Rinuccio ricorse a' Signori, chiamando mercè per Dio, che per un suo cavallo gagliardo e di gran cuore non fosse disfatto. I Priori avendo diletto di piú cose con lui, mandorono per lo esecutore, il quale non poterono rimuovere in quattro dí, che lo volea pur condennare, o gittare la bacchetta. Alla fine pur stette contento al quia , e allo esecutore parve avere grandissimo onore, dolendosi piú d'un mese, che non avea potuto fare justizia; e cosí si rimase la cosa. Or pensino quelli che tengono gli stati, quanto è leggiera cosa quella che fa muovere a romore i popoli! Per certo chi vi pensasse, quanto piú gli paresse essere di grande stato, con maggior paura viverebbe. E se ciò è intervenuto in molti popoli già, pensa tu, lettore, e sotto qual fidanza si può stare sicuro.

 

 

NOVELLA CLX

 

Uno mulo traendo calci in Mercato vecchio fa fuggire tutta la piazza, e guasta la carne ed e' panni di cui era carico, fa venire in quistione i lanaiuoli co' beccari; e dopo molte nuove cose, il fine che n'è seguito.

 

Fammi venire a memoria la precedente novella d'un'altra che già io vidi; però che non è molti anni che in Mercato vecchio nella detta città era allevato un corbo, tanto piacevole a far male quanto altro fosse mai. Il quale uno dí di sabato santo, quando la beccheria era piú fornita di carne, e' cittadini in moltitudine a comperarne, essendo venuto a un desco molto ben fornito di castroni, uno con dua muli carichi di panni che veníano dalle gualchiere, e lasciato i muli da parte e comprando castrone, si mosse a volo, e postosi su uno soccodagnolo de' detti muli, volto con la coda verso la groppa del mulo cominciò a chinare la testa verso il rotto del detto mulo, ed entro vi diede del becco. Il qual mulo sentendosi bezzicare quel luogo, di che piú sono schifi, come ciascuno puote immaginare, cominciò a trarre e a tempestare sí diversamente che dando tra le caviglie e tra' castroni, tutti facendoli cadere, con questi calci diede tra' deschi de' tavernai. L'altro, benché non fosse trafitto, con grande diversità seguía il compagno, traendo e saltando non men di lui.

Li tavernai e li cittadini abbandonano i deschi e fuggono per le botteghe d'intorno. Questi muli parea che dicessono: “Facciamo il peggio che possiamo”; che insino su per li deschi saltando e traendo ogni cosa cercorono, e ad assai e tavernai e cittadini feciono male. Nella piazza non era rimaso creatura, se non due bestie vive e tutte l'altre morte. Intorno intorno per le botteghe era tutta la gente fuggita e la maggior parte ridea; ma a' tavernai non tenea ridere. E quando ebbono tempestato la carne, vollono delle frutte; e verso la Lisa trecca s'inviarono, e voltorono con li calci tutti i loro panieri, assai si potesseno elle arrostare. I panni delle gualchiere che aveano addosso, tutti gli aveano gittati per terra e quali erano su per li deschi; ed e' castroni erano per terra. E quando ebbono assai tempestato, s'andorono a rinfrescare con monna Menta che vendea l'erbe, e là si rodeano sue lattughe e suo' camangiari.

Alla perfine colui di cui egli erano, tutto uscito di sé, con l'ambascia della morte n'andò là a ripigliarli. Quando i tavernai veggono ripresi e' muli, escono delle botteghe; e quelli che avevano ricevuto danno, s'avviano verso costui gridando:

- Sozzo ladro, sozzo traditore, tu ci hai disfatti -, e voleanlo pur uccidere e averebbonlo morto, se non fossono stati assai cittadini che per temperarli dissono:

- Menatelo al Podestà che 'l punirà e faravvi restituire ogni vostro danno.

Costoro convertirono la loro furia in menarlo preso al Podestà; e non poté ricogliere i panni, né menar seco i muli; li quali furon legati a' piedi d'un desco; né appena poteo dire: “Domine, aiutami”, che come elli avesse morti tutti e' beccai, cosí con gran furore ne lo menorono. Altri rimasi a ricogliere la carne che era per terra, veggendola convolta nel fango e guasta, sí come arrabbiati si mossono con coltellacci e con stangoni ad andare verso i muli, e a loro, come avessono a mazzicare verri, con li coltellacci di piatto e con gli stangoni gli mazzicarono per tal forma che quasi guasti rimasono.

Altri artefici dattorno per pietà raccolsono quelli panni che veníano dalle gualchiere e riposonli tutti calpestati e alcuni rotti da' ferri, quando e' muli traevano.

In questo tempo il Podestà domanda i tavernai che aveano menato preso il tapinello, quello che colui avea fatto. Risposono ch'egli avea a emendare la carne e 'l danno loro, la quale era grande quantità di dinari, sanza ch'elli avea messo a romore la terra. Colui che era preso, rispondea:

- Signor mio, io non ci ho colpa, però che io venía dalle gualchiere e portava panni a certi lanaiuoli nella Vigna, di che passando per mercato, io lasciai li muli da parte e comperava un poco di castrone; li muli non so che si hanno aúto ch'elli hanno pericolato tutta quella piazza; e di ciò io sono dolente, non è mia colpa.

El Podestà che avea nome messer Agnolo da Rieti, disse al preso:

- E perché ci meni li muli, se sono restii, per la piazza dello mercato, dove tanta gente e tanto populo stanno?

Colui rispondea che mai non aveano fatta simile ritrosía, e non sapea che ciò volesse dire: e' ancora non sapea che fosse stato il corbo. Il Podestà volea desinare: fa mettere in prigione il preso e a' tavernai dice vadano a fare i fatti loro e che troverrebbe la verità, punendo chi avesse fallato. Di che si partirono, e 'l cattivello rimase preso.

In questo intervallo, la novella giunse nella Vigna a quelli lanaiuoli, di cui erano i panni, non dicono: “che ci è dato?”; avviansi verso Mercato Vecchio e domandano di questa faccenda e ancora de' panni loro. Fu detto loro a passo a passo come il fatto era andato e del principio del corbo e d'ogni altra cosa. Vanno nelle botteghe dove i panni sono, e truovanli assai male in ordine e alcuni ne truovano rotti; cominciano a dire:

- Che diavolo è questo? queste sono state tagliature di coltellacci; ella non andrà a questo modo; credono questi bestiali trattare l'Arte della lana a questo modo? dove diavolo sono i muli?

Fu loro mostrato. Mandorono certi marruffini per essi; li quali sciogliendoli e menandoli a loro, non si poteano azzicare, sí si doleano. Allora, come gli vidono, montando piú in furore, dicono:

- E’ hanno guasto questi due muli che valeano presso a cento fiorini -; però che era loro stato detto tutto il convenente dal principio alla fine.

E fanno mettere i panni su quelli muli cosí fatti, come erano, e muovonsi, dicendo:

- Andiamo al Podestà noi, e vedremo se ci fia fatta ragione, e se l'Arte della lana e quei che fanno i panni in Firenze sono venuti sí al poco che parecchi ladroncelli di beccai li trattino a questo modo.

Alcuno bestiale, udendo costoro, dice:

- E voi andate al Podestà; ché se voi vendete e fate panni, e noi vendiamo la carne, la quale nutrica questo populo.

Alcuno marruffino s'inviava verso costui: quelli avea il coltellaccio in mano. Veggendo ciò uno di quelli lanaiuoli piú savi, tirò il marruffino a drieto, dicendo:

- Andiamo dove si fa ragione, e vedremo se 'l Podestà farà quello che dee fare; che s'egli il fa, e' sarebbe meglio ch'egli avessono preso un cane per la coda.

E cosí andorono con li due muli zoppi, carichi di panni che pareano tinti in loto, dinanzi al Podestà, con la doglienza che ciascuno dee estimare. E non vi furono sí tosto giunti che una frotta di beccai, andando lor drieto, vi giunsono quasi a un'ora: e cominciano a dire:

- Messer lo Podestà, non credete loro, però che per maggioranza ci vogliono torre il nostro; noi siamo poveri uomeni, e hannoci questi loro muli concio sí oggi la nostra mercatanzia che non ce ne rizzeremo a panca di questo anno; li muli e' panni son fatti come là vennono; ma la carne nostra non si può celare: mandate il vostro cavaliere a vederla, ché non troviamo alcuno che ne voglia dare denaio.

Dicono e' lanaiuoli:

- Questi muli hanno avuto tante stangonate, e con coltellacci e con ogni altra cosa, da loro, che di cento fiorini che valeano non se ne troverrebbe quaranta, sanza i panni che son peggio assai piú; noi vi preghiamo che voi ci facciate ragione.

Li beccai dissono:

- E noi anche ve ne preghiamo che ce la facciate; ma mandate il cavaliero a vedere il danno nostro, che è vero, e non v'andiamo con frottole.

Dice uno lanaiuolo:

- Oh buono, buono! lo sbandito corre drieto al condennato.

Dice il Podestà:

- Non saccio ancora chi ci dee essere, o sbandito o condennato; jateci, e manderò el mio cavaliero.

I lanaiuoli dicono:

- Messer lo Podestà, rendeteci il preso.

Il Podestà non volea; nella fine i lanaiuoli sodorono per lui; e rendello e disse ciascuno s'andasse a casa, ed elli s'informerebbe della verità e farebbe ragione. Passossi il dí della Pasqua; e poi il lunedí, volendo il Podestà seguire la giustizia e la ragione, si mosse da ogni parte a volersi investigare del vero; e tutta l'Arte della lana e quella de' beccai con ogni studio erano in palese e in segreto a lavorare nella corte, perché ciascuno s'ingegnava di rimanere al di sopra della loro gara. Nella per fine, dicendo e pensando il Podestà la colpa essere principiata da' muli, disse:

- Che debbo fare? condanneròcci il vetturale che non ci ha colpa? non lo debbo fare: dirò che li beccai mendino li panni e' muli a' lanaiuoli? non mi par ragione.

Di che, avendo il martedí e l'una e l'altra parte dinanzi, e udendo e ascoltando ciascuno, pensò di levarsi questa cosa da dosso, conchiudendo in questa forma:

- Savi lanífici e beccari: io aggio molto pensato su questa vostra questione, e ho veduto che 'l nimico dell'umana jenerazione s'è ingegnato di commettere rissa e scandalo tra voi, li quali dovete essere uniti come fratelli; però che come l'Arte della lana e quella della beccheria paiano molto dissimilanti, elle sono tutte una; però che della pecora si può dicere sia principio l'arte di ciascuno. L'uno di voi fa l'arte con la sua lana, e l'altro con la sua carne. E che 'l nimico di Dio ci abbia fatto quello che detto v'ho, io vel mostro, e ancora vi voglio mostrare che ogni rettore non può mai dare diritto judicio, se non truova la radice e 'l fondamento d'ogni delitto e d'ogni questione che innanzi gli viene; e io cosí ho trovato in questa vostra questione. E per farvi di ciò chiari, voi dovete sapere, e cosí ho saputo io, che un corbo è stato principio di tutto questo male; e sapete che 'l corbo è proprio affigurato al demonio, però ch'egli è nero e ha voce infernale e tutte l'opere sue sono a fare a odoperare male; e tutta questa è la natura del demonio. Cosí ha fatto questo maladetto corbo, che è venuto a mettere scandolo tra quelle due arti che fanno mestiero di quello animale dove nel figliuolo è affigurato l'agnello di Dio; sí che si può dire questa questione essere tra 'l corbo e la pecora. E se qui ciò è come vedete, la questione mosse il diavolo e mossela contra il figliuolo di Dio, cioè contra la pecora e l'agnello suo figliuolo. E però, figliuoli miei, siete fratelli e comportate in pazienza il danno che avete ricevuto, ché da nessuno di voi è venuta la colpa. Colui da cui ella è venuta, cioè quello maladetto corbacchione, se ce lo potrò avere, punirò lui, e uno c'ha nome Luisi barattiero che lo tiene, in forma che sarete contenti.

Costoro guatorono l'uno l'altro e non sappiendo che si dire, dissono:

- Noi ci raccomandiamo della ragione.

E cosí si partirono, dicendo per la via alcuni:

- Alle guagnele, che, se elli punirà il corbo, che noi bene seremo soddisfatti de' danni nostri.

Altri diceano:

- Elli dee essere una sciagurata persona.

Altri che erano forse quelli che erano contenti che 'l Podestà non procedesse, diceano che elli dovea essere uno valentre uomo, e che elli avea assegnato molto belle ragioni; e cosí ciascuno s'andò a fare i fatti suoi, ciascuno mettendo a uscita il suo danno il meglio che poteo.

Luisi barattiere e 'l corbo furono richiesti, ma 'l corbo fece come quello dell'Arca, che fatto ch'egli ebbe quest'opera, non si rividde mai; però che Luisi, avendo sentito la intenzione del Podestà, non aspettò la richiesta, ma accompagnossi con Giovanni Piglia 'l fascio e col suo corbo e andossene verso Terra di Roma, dove era il Muscino Rafacani che avea un altro corbo, e là dimorò con lui piú mesi. E 'l Podestà, volendo pur procedere, da alcuno cittadino vicino di Mercato gli fu tanto detto che fu posto piedi a' fatti di Luisi e del corbacchione, non però sí che 'l detto Luisi tutto il tempo del detto Podestà ardisse di tornare a Firenze. Questo caso del Podestà fu da molti commendato e da molti ripreso. Io scrittore credo che, veggendo elli che quasi nessuno giudicio potea dare giusto, elli trovasse quella inventiva e del corbo e della pecora, e ch'egli ebbe in ciò grande discrezione, la quale se cosí avesse usata negli altri suoi processi, avrebbe aúto onore, là dove nella fine del suo officio, credo che avesse vergogna.

 

 

NOVELLA CLXI

 

Il vescovo Guido d'Arezzo fa dipignere a Bonamico alcuna storia, la quale essendo spinto da una bertuccia la notte quello che 'l dí dipignea, le nuove cose che ne seguirono.

 

Sempre fu che tra' dipintori si sono trovati di nuovi uomeni e infra gli altri, secondo che ho udito, fu uno dipintore fiorentino, il quale ebbe nome Bonamico, che per soprannome fu chiamato Buffalmacco, e fu al tempo di Giotto e fu grandissimo maestro. Costui, per essere buono artista della sua arte, fu chiamato dal vescovo Guido d'Arezzo a dipingere una sua cappella, quando il detto vescovo era signore d'Arezzo: di che il detto Bonamico andò al detto vescovo e convennesi con lui. E dato ordine il come e 'l quando, il detto Bonamico cominciò a dipignere. Ed essendo nel principio dipinti certi Santi, ed essendo lasciato il dipignere verso il sabato sera, una bertuccia, ovvero piú tosto un grande bertuccione, il quale era del detto vescovo, avendo veduto gli atti e' modi del dipintore quando era sul ponte, e avendo veduto mescolare i colori e trassinare gli alberelli e votarvi l'uova dentro, e recarsi i pennelli in mano e fregarli su per lo muro, ogni cosa avendo compreso, per far male, come tutte fanno; e con questo, perch'ella era molto rea e da far danno, il vescovo gli facea portare legato a un piede una palla di legno; con tutto questo la domenica, quando tutta la gente desinava, questa bertuccia andò alla cappella, e su per una colonna del ponte appiccandosi, salí sul ponte del dipintore; e salita sul ponte, recandosi gli alberelli per le mani e rovesciando l'uno nell'altro e l'uova schiacciando e tramestando, cominciò a pigliare i pennelli e fiutandoli e intignendoli e stropicciandoli su le figure fatte, fu tutt'uno. Tanto che in picciolo spazio di tempo le figure furono tutte imbrattate, e' colori e gli alberelli volti sottosopra e rovesciati e guasti.

Essendo el lunedí mattina venuto Buonamico al suo lavorío per compiere quello che avea tolto a dipignere, e veduto gli alberelli de' suoi colori quale a giacere e quale sottosopra, e' pennelli tutti gittati qua e là, e le figure tutte imbrattate e guaste, subito pensò che qualche Aretino, per invidia o per altro l'avessono fatto; e andossene al vescovo, dicendo ciò ch'egli avea dipinto esserli stato guasto. Il vescovo di ciò isdegnato, disse:

- Buonamico, va' e rifa' quello che è stato guasto; e quando l'hai rifatto, io ti darò sei fanti co' falcioni, che voglio ch'egli stiano in guato con teco nel tal luogo nascosi, e qualunche vi viene, non abbiamo alcuna misericordia, che lo taglino a pezzi.

Disse Buonamico:

- Io andrò e racconcerò le figure piú tosto che potrò, e fatto che ciò fia, io ve lo verrò a dire, e potrassi fare quello che di ciò dite.

E cosí deliberato, Buonamico rifece, si può dire, la seconda volta le dette dipinture; e fatte che l'ebbe, disse al vescovo a che punto la cosa era. Di che il vescovo subito trovò sei fanti armati co' falcioni, a' quali impose che fussono con Buonamico in certo luogo riposti presso alle dette figure; e se alcuno vi venisse a disfarle, subito il mettessono al taglio de' ferri.

E cosí fu fatto, che Buonamico e' sei fanti co' falcioni si missono in guato a vedere chi venisse a guastare le dette dipinture. E stati per alquanto spazio, ed egli sentirono alcuno rotolare per la chiesa; subito s'avvisorono che fussono quelli che venissono a spignere le figure; e questo rotolare era il bertuccione con la palla legata a' piedi. Il quale subito accostatosi alla colonna del ponte, fu salito sul palchetto dove Buonamico dipignea; e tramestando a uno a uno tutti gli alberelli, e mettendo l'uno nell'altro e pigliando l'uova e rovesciandole e fiutando, presi i pennelli e ora con l'uno e ora con l'altro, stropicciandoli al muro, ogni cosa ebbe imbrattata.

Buonamico, veggendo questo, ridette e scoppiava a un punto; e voltosi a' fanti de' falcioni, dice:

- E’ non ci bisognano falcioni, voi vi potete andare con Dio; la cosa è spacciata, ché la bertuccia del vescovo dipigne a un modo e 'l vescovo vuole che si dipinga a un altro; andatevi a disarmare.

E cosí usciti del guato, venendo verso il ponte dov'era la bertuccia, subito la bertuccia si cominciò a inalberare, e fatto loro paura, pignendo il muso innanzi, cominciò a fuggire e andossi con Dio. Buonamico con li suoi masnadieri se n'andò al vescovo, dicendo:

- Padre mio, e' non è di bisogno che voi mandiate per dipintore a Firenze, ché la vostra bertuccia vuole che le dipinture siano fatte a suo modo; e ancora ella sa sí ben dipignere che le mie dipinture ha corrette due volte. E però, se della mia fatica si viene alcuna cosa, vi prego me 'l diate, e anderommi verso la città dond'io venni.

Il vescovo, udendo questo, benché male li paresse che la sua dipintura era cosí condotta, pur scoppiava delle risa, pensando a sí nuovo caso, dicendo:

- Buonamico, tante volte hai rifatte queste figure che ancora voglio che le rifacci; e per lo peggio che io potrò fare a questo bertuccione, io il farò mettere in una gabbia presso dove dipignerai, là dove vedrà dipignerti, e non potrà ispignere; e tanto vi starà che la dipintura fia dipinta di piú dí e 'l ponte levato.

Buonamico ancora s'accordò a questo, e dato ordine del dipignere e fatto una gabbia alla grossa e messavi la bertuccia, fu tutt'uno. La quale, quando vedea dipignere, il muso e gli atti ch'ella facea furono cose incredibili; pur convenne ch'ella stesse contenta al quia . E dopo alcuni dí, compiuta la dipintura e levati i ponti, fu tratta di prigione; la quale piú dí vi tornò, per vedere se potesse fare la simile imbrattatura; e veggendo che 'l ponte e 'l salitoio piú non v'era, convenne che attendesse ad altro. E 'l vescovo con Buonamico goderono piú dí di questa novità. E per ristorare il detto vescovo Buonamico, l'ebbe da parte, pregandolo gli dovesse fare nel suo palagio un'aguglia che paresse viva che fosse addosso a un leone e avesselo morto. Al quale Buonamico disse:

- Messer lo vescovo, io il farò; ma e' conviene che io sia coperto attorno attorno di stuoie e che nessuna persona non mi veggia.

Il vescovo disse:

- Non che di stuoie, ma io la farò fare d'assi, sí che starà per forma che mai non serai veduto -; e cosí fece.

Buonamico trovati gli alberelli e' colori, con l'altre masserizie entrò nella chiusa dove dovea dipignere; e quivi tutto per contrario cominciò a dipignere quello che 'l vescovo gli avea imposto, facendo un fiero e gran leone addosso a una sbranata aguglia; e compiuto che l'ebbe, serrato tenendo quel chiuso dove l'avea dipinto, disse al vescovo gli mancavano alcuni colori e che avea bisogno alcuni serrami serrassino il chiuso dove dipignea, tanto che andasse e tornasse da Firenze.

Udito ciò il vescovo, fece dare ordine si serrasse e con chiavistello e con chiave, tanto che Buonamico tornasse da Firenze. E cosí Buonamico si partí e vennesene a Firenze; e 'l vescovo, aspettando l'un dí e un altro, e Buonamico non tornando ad Arezzo, però che partito s'era, e avea compiuta la dipintura e con animo di non tornarvi piú, quando il vescovo fu stato piú dí e vide che Buonamico non tornava, comanda a certi famigli che vadano a spezzare l'asse del ponte e veggano quello che Buonamico ha dipinto. Di che alcuni andorono, e apersono e vidono la dipintura fatta; e ciò veduto, vanno al vescovo e dicono:

- La dipintura sta per forma che 'l dipintore v'ha ben servito alla 'ndreto.

- O come sta?

Fugli detto. E volendone esser certo, l'andò a vedere; e veduta che l'ebbe, venne in tanta ira che gli fece dar bando dell'avere e della persona, e insino a Firenze il mandò a minacciare. E Buonamico rispose a quelli che 'l minacciava per sua parte:

- Di' al vescovo che mi faccia il peggio che puote; ché se mi vorrà, converrà che mi mandi la mitera.

E cosí avendo veduto il vescovo i costumi di Buonamico e avendoli dato bando, ripensandosi poi, come savio signore, che ciò che Buonamico avea fatto, avea fatto bene e saviamente, lo ribandí e riconciliollo a sé; e mandando per lui spesse volte, mentre che visse lo trattò come suo intimo e fedele servidore. E cosí avviene spesse volte che gli uomeni da meno con diverse astuzie vincono quelli che sono da piú, e fannoseli benivoli quando piú attendano a nimicarli.

 

 

 

NOVELLA CLXII

 

Popolo d'Ancona buffone, per grande improntitudine e con nuova sottigliezza di parole, cava una cappa di dosso al cardinale Egidio, quasi contro al suo volere, e vassene con essa.

 

Ne' tempi che la Chiesa di Roma era in grande e prospero stato, allora che 'l cardinale Egidio dominava per lei la Marca e 'l Ducato e molte provincie d'attorno, trovandosi il detto cardinale nella città d'Ancona, con festa e allegrezza di vittorie per la Chiesa ricevute, avvenne per caso che un uomo di corte chiamato Popolo d'Ancona, andando al detto cardinale con animo e con intenzione di spogliarlo e di vestire sé, come tutti sono usi, ché mai non posano se tutte le robe de' signori e de' gentili non recano a loro. E volesse Dio che ragione o cagione si vedesse, che questo a loro si dovesse fare! però che, considerando la loro natura, io non so se, per loro vizii o scelleratezze, alcuni sono tenuti di donare a loro, o per cattività di quelli che donano, credendosi essere magnanimi tenuti per non essere da loro infamati. Come che sia, veduto s'è esperienza che alcuni di questa generazione sono stati moderati e virtuosi uomeni da ogni grande affare, che da' signori e tiranni hanno sempre poco acquistato o niente; dall'altra parte sono stati di quelli che aranno usato brutti costumi, fastidiose operazioni; e con queste averanno recate le facce di molti signori in risa, e con quelle faranno loro grandissimi doni di robe e d'altre provvisioni. Altri seranno, che con nuove e piacevoli industrie faranno tanto che moveranno e' signori e gli altri a dare loro alcune veste e doni, quasi sforzatamente; e di questi cotali fu questo Populo d'Ancona, uomo piacevole e ingordo, che, avendosi recato nella mente d'acquistare una roba da qualche signore, o per ingegno, o per forza, o per piacevolezza, giammai non restava che veniva a effetto del suo proponimento.

Giugnendo adunque, come di sopra dissi, questo Popolo dinanzi al cardinale Egidio e veggendoli una bellissima cappa cardinalesca addosso, cominciò a dirli suoi motti e sue novelle; e in fine, accostandosi e pigliando il lembo della cappa, domandò al cardinale gliela donasse. Il cardinale, veggendo la improntitudine del buffone, si volse a lui, e disse:

- Con li denchi con li denchi piglia del mio ciò che ti piace, béi e mangia del mio quanto ci puoi, e piú non aspettare.

Rispose Popolo:

- Signore mio, volete voi che con li denti io pigli del vostro quanto mi piace?

Il cardinale rispose:

- A`jotelo detto che sí.

Come ciò fu detto, il buffone piglia la cappa cardinalesca co' denti e tira quanto puote, non dimorsandola mai; tanto che, non potendoselo il cardinale partire da sé, misse le mani al cordiglio del capezzale e quello sciolto, con le mani gli gettò la cappa addosso, dicendo:

- Vacci nella malora -; e a' famigli suoi voltosi, disse lo cacciassono via, e giammai a lui non lo lasciassono piú venire, però che piú non intendea d'essere morso co' denti di tal buffone che era stato peggio verso lui che un cane arrabbiato.

Grande fu l'astuzia di questo buffone, considerando che con li suoi morsi avea spogliato un cosí fatto prete e cardinale, e massimamente avendo spogliato uno di quelli che con le loro cerimonie si vestono sempre delle spoglie altrui.

 

 

 

NOVELLA CLXIII

 

Ser Bonavere di Firenze, essendo richiesto a rogare un testamento e non trovando nel calamaio inchiostro, è chiamato un altro notaio a farlo; di che elli ne compera una ampolla, e portandola allato, si versa sopra una roba d'uno judice a palagio.

 

Nel popolo di Santo Brancazio di Firenze fu già uno notaio, il quale ebbe nome ser Buonavere; ed era uno uomo grande e grosso di sua persona e molto giallo, quasi impolminato e mal fatto, sí come fosse stato dirozzato col piccone; sempre con desiderio era piatitore e del quistionare a ritto e a torto giammai non finava: e con questo era sgovernato, che mai nel pennaiuolo che portava non avea né calamaio, né penna, né inchiostro. Se fosse stato richiesto, andando per una via, facesse un contratto, cercavasi el pennaiuolo e dicea avere lasciato il calamaio e la penna a casa per dimenticanza; e pertanto dicea andassono allo speziale e recassono il calamaio e 'l foglio.

Avvenne per caso che un ricco uomo di quelle contrade, dopo lunga infirmità venendo a morte, volendo fare testamento subito, avendo i suoi parenti paura che non sopravvenisse la morte prima che lo potesse fare, facendosi alcuno di loro alla finestra, ebbono veduto questo ser Buonavere passar per la via; onde lo chiamò che andasse suso, e feceglisi incontro a mezza scala, dicendo che per Dio venisse a fare quel testamento, che era di gran bisogno. Ser Buonavere si cercò il pennaiuolo e disse non avere il calamaio, e subito disse andare per esso e cosí andò. Giunto a casa, penò ben un'ora a trovare il calamaio e a trovare una penna. Quelli, che voleano che 'l buon uomo che moriva testasse, vedendo tanto stare ser Buonavere, avendo paura che l'infermo non morisse, andorono subito per ser Nigi da Santo Donato e a lui feciono fare il testamento.

E partitosi che fu, ser Buonavere, avendo penato a macerare i peli del calamaio buono spazio di tempo, giunse per fare il testamento. Fugli detto che era tanto stato che l'aveano fatto fare a ser Nigi; onde tutto scornato si tornò indrieto; e fra sé facendo grandissimo lamento della perdita che gli parea avere fatto, si pensò di fornirsi per grandissimo tempo d'inchiostro e di fogli e di penne e di pennaiuolo fornito, acciò che tal caso non potesse piú intervenire. E andatosene a uno speziale, comperò un quaderno di fogli e legandogli stretti, se gli misse nel carnaiuolo, e comperò un'ampolla con la cassa piena d'inchiostro, e appiccossela alla correggia; e comperò, non una penna, ma un mazzo di penne e penonne a temperare una gran brigata bene un dí; e in uno sacchettino di cuoio da tenere spezie se l'appiccò allato; e cosí fornito, disse:

- Or veggiamo s'io serò presto a fare un testamento come ser Nigi.

Essendo la cosa di ser Buonavere cosí ben fornita, avvenne caso, che egli andò a palagio del Podestà quel dí medesimo per dare una accezione a uno collaterale d'uno Podestà che c'era da Monte di Falco; il quale collaterale essendo vecchio, portava una berretta attorniata intorno intorno con pance di vaio tutte intere, ed era vestito d'un rosato di grana. E cosí sedendo al banco, il detto ser Buonavere giugne col fiaschettino allato e col foglio della accezione in mano e cacciatosi tra una gran calca che v'era, giunse dirimpetto al giudice; era avvocato dell'altra parte messer Cristofano de' Ricci e ser Giovanni Fantoni procuratore; li quali, avendo veduto ser Buonavere con l'accezione, ficcansi tra la calca, e dovidendo le schiere giunsono al giudice, e ristretto ser Buonavere al giudice, ed eglino altresí, disse messer Cristofano:

- Che accezione e che pisgiagione? questa cosa si riciderà con le scuri.

E cosí, ficcandosi l'uno addosso all'altro, l'ampolla dello inchiostro si ruppe, e dello inchiostro la maggior parte andò su la cioppa del collaterale, e alcuno sprazzo su quella dello avvocato. E messer lo collaterale, veggendo questo e alzando il lembo, maravigliandosi, comincia a guardare intorno e chiama famigli che serrino la porta del palagio, sí che si truovi onde quello trementaio era venuto. Ser Buonavere, e veggendo e udendo, si mette la mano sotto: e cercando l'ampolla, la truova tutta spezzata e l'inchiostro avere ancora elli in gran parte addosso: subito esce tra uomo e uomo, e vassi con Dio. Il collaterale, essendo rimaso quasi da piede capo, e messer Cristofano in isprazzi, guardava l'uno l'altro, e quasi come usciti della memoria chi guardava l'uno e chi l'altro. E 'l collaterale guardava le volte, se di lassú fosse venuto, e poi si volgea verso le mura; e non veggendo donde tal cosa uscisse, si volse verso la panca, guardandola di sopra, e poi chinando il capo, la guardò di sotto; e poi, scendendo gli scaglioni del banco, a uno a uno gli venne guardando; nella fine ogni cosa veduta, si cominciò a segnare per forma che quasi fu per uscire della memoria. Messer Cristofano e ser Giovanni, per avere migliore ragione del piato, dicevano:

- O messer lo collaterale, nol toccate, lasciatelo seccare.

Altri diceano:

- Cotesta roba v'è stata guasta.

Altri diceano:

- E’ pare uno annuvolato di quelli che si soleano portare.

E cosí guardando e dicendo ciascuno, il judice cominciò a sospettare; e volto il viso verso quelli, disse:

- E sapete chi ci sia stato quelli che mi ci ha vituperato?

Chi rispondea a un modo e chi a un altro. Tanto che 'l judice, come uscito di sé, disse al cavaliero che facesse richiedere il cappellano che ponesse la dinunzia. E 'l cavaliero, quasi ridendo, disse:

- E contro a cui la porrà, ché voi, a cui il caso è venuto addosso, non sapete chi? il meglio che potete fare è di guardare che alcuno non rechi al banco inchiostro; e la cioppa, che ci avete fatta nera da piede, fatecela mozzare; e perché ella sia piú corta, non fa forza, che parrete mezzo uomo d'arme.

Udendo tante ragioni il judice, e da ogni parte essendo quasi gabbato, prese il partito che 'l cavaliero gli disse, e rimase vinto di questa cosa; e durò ben due mesi che al banco guardava ciascuno che vi venía, credendo che continuo gli fosse gittato inchiostro addosso; e di quello che tagliò da piede, fece calcetti e guanti, il meglio che poté. Messer Cristofano dall'altra parte scese gli scaglioni, e alzandosi i gheroni strignea la bocca per maraviglia, e ser Giovanni Fantoni con lui dicea:

- Per evangelia Christi, quod est magnum mirum .

E cosí ne smemororono parecchi in una mattina, senza che ser Buonavere non avea piú che un paio di calzacce bianche, e quelle, trovandosi a casa, trovò tutte spruzzate d'inchiostro che parea una tavola de' fanciulli dell'abbaco. Ciascuno si lavò e riparo fece all'inchiostro il meglio che seppe; ma la medicina migliore fu il darsene pace; ché ben sarebbe stato meglio che 'l detto ser Buonavere non fosse stato notaio, e se pur fu, andare avvisato e fornito con l'arte sua, come gli altri, che sono circunspetti, vanno. Però che, se ciò avesse fatto, averebbe fatto il testamento che gli serebbe valuto assai; non arebbe guasta la roba del collaterale, né quella di messer Cristofano; né non arebbe fatto uscire di sé il collaterale e gli altri che v'erano, e non s'averebbe versato l'inchiostro sul suo gonnellone, e su le calze che gli gittò peggiore ragione; e in fine non averebbe fatto spesa nella rotta ampolla, né in quello inchiostro che dentro v'era: come che l'aiutasse in gran parte la fortuna, ché se quello collaterale si fosse di lui avveduto, averebbe aúto a mendare le robe guaste e forse averebbe aúto peggio.

E cosí si rimase la cosa, rimanendo in questo quel proverbio che dice: “In cento anni e 'n cento mesi torna l'acqua in suo' paesi”. Cosí incontrò a ser Buonavere, che essendo andato gran tempo secco e sanza inchiostro, se ne puose poi tanto allato che ne tinse la corte d'uno Podestà.

 

 

NOVELLA CLXIV

 

Riccio Cederni fa un sogno, come è diventato ricco con gran tesoro; la mattina vegnente una gatta il battezza con lo sterco suo, ed è piú tapino che mai.

 

Se nella precedente novella ser Buonavere, per essere trascurato e non portare l'arte sua a cintola, come è d'usanza, perdeva e' suoi guadagni, e visse povero, in questa seguente voglio mostrare come uno fiorentino in una notte divenne molto ricco e la mattina ritornò in poverissimo stato.

Dico adunque che in quelli tempi che 'l conte di Virtú disfece messer Bernabò suo zio e signore di Melano, e nella città di Firenze di ciò molto parlandosi, avvenne per caso che uno, il quale avea nome Riccio Cederni, uomo assai di piacevole condigione, e avea briga mortale, e per quella andava sempre armato di panziera e di pianella; avendo udito un giorno molte parlanze di quanti danari e di quanti gioielli il conte rimanea signore, la sera, andandosi a letto e cavandosi la pianella, la mise su uno forziere sottosopra, acciò che del sudore quella si rasciugasse, e andandosi a letto e dormendo, cominciò a sognare, e fra l'altre cose sognò come egli era arrivato a Melano, e che messer Bernabò e 'l conte di Virtú facendoli grandissimo onore, l'aveano condotto in uno de' loro grandissimi palazzi, e là stato per alquanto spazio, come se fosse stato l'Imperadore, l'aveano posto a sedere in mezzo di loro, e quivi fatti venire grandissimi vasi d'oro e d'argento, pieni di ducati e di fiorini nuovi, gli aveano a lui donati; e oltre a questo, gli profferevono ogni loro terra; e quasi in sonno questo Riccio era diventato o leone o falcone pellegrino.

Di che essendo costui in questa sonnolenzia e addormentata gloria, avvicinandosi all'aurora, il detto Riccio si svegliò e quasi come uomo uscito di sé, perché per l'essere desto riconobbe da grandissimo stato e ricchezza ritornare alla sua povertà... grandissimo guaio si riconobbe... si cominciò a lagnare di cosí grandissima sventura, come era stata quella del tornare a Mongibello. E poi, cosí doglioso e quasi fuor di sé, si levò e vestissi per andare fuori. E andando con questa fantasia giú per la scala a gran pena, non sapea se dormía o se era desto.

Giugnendo all'uscio per uscir fuori, e cominciando a pensare su la ricchezza che gli parea avere perduta, e volendosi mettere la mano a grattare il capo, come spesso interviene a quelli che hanno malenconia, trovossi la cappellina in capo con la quale la notte avea dormito, e accozzando la smemoraggine con la malinconia, diede la volta indrieto, e subito ritornò alla camera e gittò la cappellina sul letto; subito andò al forziere, dove lasciato avea la pianella nel cappuccio e quella presa prestamente e messalasi in capo, su per le tempie e per le guance sentí colare in abbondanzia di molta puzzolente bruttura. E questo era che una gatta, la notte, di sterco avea ben fornito quella pianella. Sentendosi il detto Riccio cosí bene impiastrato, subito si trae la pianella, la quale avea molto rammorbidata la farsata, e chiama la fante, maladicendo la fortuna; e narrando il sogno suo, dicea:

- Oimè sventurato! quanta ricchezza e quanto bene io ho aúto istanotte in sogno, e ora mi truovo cosí infardato!

La fante, quasi smemorata, il volea lavare con l'acqua fredda; e 'l Riccio comincia a gridare ch'ella accenda il fuoco e ch'ella metta del ranno a scaldare; ed ella cosí fece: e 'l Riccio stette tanto a cervelliera scoperta quanto il ranno si penò a scaldare.

Come fu caldo, se n'andò in uno corticino, perché per una fogna la lavatura di quello fastidio avesse l'uscita, e quasi per ispazio di quattr'ore si penò a lavare il capo. Quando del capo e' fu lavato, ma non sí che piú dí non gliene venisse fraore, disse alla fante che recasse la pianella; la quale era si fornita d'ogni parte che né elli, né ella ardivano a toccarla. Ed essendo una bigoncetta nella corte, prese partito d'empierla d'acqua; ed empiuta ch'ella fu, vi cacciò entro la pianella dicendo:

- Sta' costí tanto che ben la vaglia -; ed egli si misse in capo il piú caldo cappuccio che avea, ma non sí che per non portare la pianella, per arrota non gli venisse il mal de' denti, di che convenne stesse in casa piú dí; e la fante, che parea lavasse ventri, scuscendo la farsata e lavandola per ispazio di due dí.

Il Riccio si dolea, raccordandosi del ricco sogno, e in quello che gli era convertito, e del male de' denti; infine, dopo molte novelle, e' mandò per uno maestro che gli fece una farsata nuova, e scemato il duolo de' denti, uscí di casa e andò al Canto de' tre Mugghi, là dove stava a bottega, e là a molti si dolse e del caso e della fortuna sua; e compensato l'avere dell'oro della notte con la feccia della gatta, convenne che si desse pace.

Or cosí interviene spesso de' sogni; ché sono molti uomeni e feminelle che ci danno tanta fede quanta si potesse dare a una cosa ben vera; e guarderannosi di non passare il dí per uno luogo dove aranno sognato avere disavventura. E l'una dice all'altra: “Io sognai che la serpe mi mordea” e s'ella romperà il dí un bicchiere, dirà: “Ecco la serpe di stanotte”. L'altra avrà sognato d'affogare nell'acqua; caderà una lucerna e dirà: “Ecco il sogno mio di stanotte”. L'altra sognerà d'essere caduta nel fuoco; combatterà il dí con la fante che non abbia ben fatto, e dirà: “Ecco il sogno di stanotte”. E cosí si può interpretare il sogno del Riccio, che era fra oro e moneta, e la mattina si coperse di sterco di gatta.

 

 

NOVELLA CLXV

 

Carmignano da Fortune con una nuova immaginazione sfinisce una questione di tavole passando per la via, la quale non si potea sfinire per chi non avesse veduto.

 

Carmignano da Fortune del contado di Firenze fu uno uomo di stratta condizione, però che quasi visse, non come uomo moderato, non come uomo di corte, ma vestito in gonnella bisgia, sanza mantello, col cappuccio a gote, cinto larghissimo, brutto piú che altro uomo, che sempre el naso e gli occhi gli colava; tanto era goloso che sempre le cose altrui andava cercando; fuggito era da' schifi, dagli altri era accettato piú per udire dir male e' malefici d'altrui (che meglio che altro uomo gli seppe dire) che per altra virtú che fosse in lui; e cosí fatto come era, per scusare il suo mal dire, dicea una buona parola: che non era male il dir male, ma che il male era a rapportarlo. Chi considera a ciò, elle son parole di filosofo, però che la nostra fragile natura, inclinata a' vizii, spesse volte e a desinari e a cene ragiona piú de' fatti altrui che de' suoi; e non rapportandosi, rade volte ne doverrebbe uscire male; donde, rapportando, spesse volte ne escono e brighe e uccisioni.

Questo Carmignano considerava troppo bene la qualità e degli uomeni e delle donne, e quando trovava da potere dire male di loro, adornava e incastrava il suo dire per sí fatta forma che, udendolo, colui a cui toccava se ne ridea. Quando giucava a scacchi e quando a tavole; e allora, se alcuno gli avesse detto alcuna cosa o dato noia, subito parea che avesse la risposta a vituperare quel tale. Sempre andava sanza brache, per tal segnale che giucando un dí a scacchi, vedendosi per alcuno giovene di gran famiglia le sue masserizie, disse:

- Carmignano, vatti quella pedona?

Carmignano che sapea la madre di colui esser cattiva di sua persona stata, subito rispose:

- Meglio la conobbe mammata.

Uno mercatante, chiamato Leonardo Bartolini, dicendogli alcuna cosa che non gli piacque, quando giucava a tavole, e quelli pensò essere costui con molti fratelli, tra' quali era un maestro Marco, valentre in teologia, e uno che avea nome Tobia, di poco valore e quasi scimonito, disse:

- Io me lo soffero da te, come da bestia, e 'l piú savio che sia tra voi è il Tobia, mettendovi ancora il maestro Marco.

E cosí avea le sue risposte pronte piú che altro uomo.

Dico adunque che, passando costui al Frascato, trovò a un giuoco di tavole esser grandissima contesa. L'uno che giucava era possente uomo di famiglia, l'altro era uno omicciuolo di piccolo affare. D'intorno era assai gente, e niuno volea dire chi avesse la ragione o il torto. Carmignano, avendo compreso il fatto, si fa innanzi e dice:

- Io dirò, a rappellare di mio, chi ha il torto.

Dice il possente che non avea voglia che si dicesse

- Come il dirai che non c'eri?

E Carmignano rispose:

- Io ti dico che io so la questione, e dirolla che non ci avrà alcuno ma.

Dice l'omiciatto che giucava:

- Io per me son contento, e priegotene per l'amore di Dio che lo dica.

Veggendo il maggiore tanto innanzi la cosa, mosso da arroganzia si volse verso Carmignano, dicendo:

- E io son contento, pur per vedere quello che tu dirai.

Allora Carmignano dice:

- E io il dirò, e dico che tu hai il torto, però che se tu avessi la ragione, questi che son qui te l'arebbon data, come la questione mosse, e arebbonlo detto; ma perché non l'hai, nessuno di costoro per la tua maggioranza non l'hanno osata dire; e però costui che giuoca teco, ha la ragione.

Ciascuno che era intorno, dicea sotto voce:

- E tu di' il vero.

Colui minacciava Carmignano e dicea:

- Tu mi fai perdere questo giuoco; al corpo e al sangue che io te ne pagherò.

Carmignano allora disse:

- Io ti dissi nel principio che io volea difinire la questione a rappellare di mio, e cosí ancora voglio, se male ho giudicato. Costoro che sono qui presenti il dicano, e se la lingua loro di ciò è impedita, fa' venire delle fave bianche e nere, e dicanlo le fave.

Quello possente di questo partito sbigottí forte, e disse:

- E’ non si mettono alle fave i giuochi delle tavole -; e crollando il capo disse: - I' me 'l terrò a mente.

Carmignano disse:

- E tu te 'l tieni; - e dato la volta col cappuccio a gote alla larga, e col naso e con gli occhi rampollanti, s'andò con Dio.

Questa novella mi fa ricordare quanto il mondo corre oggi in questo errore, e ben lo sa il men possente, quando ha questione col possente; ché, non che gli sia fatta ragione, ma non si truova chi per lui apra la bocca, o chi giudicare voglia contro al piú possente. E nelle terre che dicono reggersi a comune, questo vizio piú incontra, e la prova il manifesti, ché anni otto o dieci durerà un piato e quando in gran tempo non è spacciato, ciascuno può pensare, come pensò Carmignano, che la maggioranza per non pagare dilunga la questione. E non si vede egli nella justizia che tutti i poveri uomeni e tapini sono gli esecutori di quella, ma i possenti non la vogliono per loro?

 

 

 

NOVELLA CLXVI

 

Alessandro di ser Lamberto, con nuovo artificio fa cavare un dente a un suo amico dal Ciarpa, fabbro in Pian di Mugnone.

 

Poiché le menti de' mortali sono cosí disposte e non vogliono adoperare le virtú per addirizzare quelle, seguirò ora di dire d'alcune pestilenze corporali, venute in corpi di picciolo affare, che da nuove maniere di medici sono state sanate. Fu, e ancora è, per li tempi nella città di Firenze uno piacevole cittadino, chiamato Alessandro di ser Lamberto il quale fu e sonatore di molti stormenti e cantatore: e con questo avea per le mani molti nuovi uomeni, però che con loro volentieri pigliava dimestichezza. Vennegli per caso che un suo amico, rammaricandosi molto che un dente gli dolea, e spesso spesso il conducea a tanta pena che era per disperarsi; al quale, considerato Alessandro un nuovo pesce, fabbro di Pian di Mugnone, chiamato Ciarpa, disse:

- Ché non te lo fai tu cavare?

E quelli rispose:

- Io lo farei volentieri, ma io ho troppo gran paura de' ferri.

Disse Alessandro:

- Io t'avvierò a un mio amico e vicino di contado, che, non che ti tocchi con ferro, e' non ti toccherà con mano.

Rispose costui:

- O Alessandro mio, io te ne prego; se lo fai, io serò sempre tuo fedele.

Alessandro disse:

- Vientene domani a starti meco e andremo a lui, però ch'egli è un fabbro di Pian di Mugnone, chiamato Ciarpa.

E cosí fu fatto; ché l'altra mattina, giunti l'uno e l'altro al luogo d'Alessandro, subito se n'andorono al detto Ciarpa, il quale trovorono alla fabbrica che fabbricava un vomere. Giunti costoro a lui, Alessandro che col Ciarpa sapea ben ciarpare, cominciò a dire del difetto del dente del compagno suo, e com'egli si dimenava e che volentieri se lo volea cavare; ma che egli non volea gli fosse tocco con ferri, né con mano, se possibil fosse.

Disse il Ciarpa:

- Lasciamelo vedere -; e toccandolo con mano, quelli diede un grande strido.

Sentí che si dimenava; onde disse:

- Lascia far me, ché io tel caverò e non vi metterò né ferro né mano.

Quelli rispose:

- Deh, sí per Dio.

Il Ciarpa, sanza partirsi dalla fabbrica, manda un suo garzone per uno spaghetto incerato con che si cuciono le scarpette; e venuto che fu, disse a costui:

- Addoppia quello spaghetto e fa' nel capo tu stessi un nodo scorritoio e mettivi pianamente il dente dentro.

Costui di gran pena cosí fece. Fatto questo, disse:

- Dammi l'altro capo in mano -; e aúto che l'ebbe in mano, il legò a uno aguto che era nel ceppo della fabbrica, e disse a colui: - Serra sí il cappio che tenga il dente -; e colui il serroe.

Fatto questo, dice il Ciarpa:

- Or statti pianamente, ché io ho a dire alcuna orazione, e subito il dente uscirà fuori -; e menava la bocca come se la dicesse, e niente meno avea il bomere nel fuoco; e colto che ebbe il tempo che lo vidde ben rovente, cava fuori questo bomere e difilalo verso colui con un viso di Satanasso, dicendo: - Che dente e che non dente? apri la bocca -; mostrando di volerglilo ficcare nel viso.

Colui che avea il dente nel cappio, mosso da maggior paura, subito si tira a drieto per fuggire, in forma che il dente rimase appiccato al ceppo dell'ancudine. Rimaso colui quasi smemorato, si cercava se avea il dente in bocca, e non trovandoselo, dicea per certo che mai sí bella e sí nuova sperienza non avea veduto e che niuna pena avea aúta, se non della paura di quel bomere, e che non se l'avea sentito uscire. Alessandro ridea, e volgesi all'amico, dicendo:

- Averesti mai creduto che costui fosse sí buono cavatore di denti?

L'amico appena era ancora in sé, che cominciò a dire:

- Io avea paura d'un paio di tanaglie, e costui me l'ha tratto con un bomere; sia come vuole, ch'io sono fuori d'una gran pena.

E per rimunerare il fabbro, la domenica vegnente gli diede un buon desinare e Alessandro con loro.

Questa fu nuova e bella esperienza, ché con una grandissima paura fece, non che dimenticare la minore paura, ma eziandio non si ricordò di quella, e non sentendo alcuna pena, si trovò guarito. Gnuna cosa fa trottare quanto la paura; e io scrittore già vidi prova d'uno gottoso che piú tempo era stato che mai non era ito, ma portato fu sempre: stando costui a sedere in mezzo d'una via su una carriuola, correndo un suo corsiere che gli venía a ferire addosso, essendo perduto de' piedi e delle mani e in tutto di gotte attratto, subito con le mani prese la carriuola e con parecchi salti con essa insieme si gettò da parte, e 'l cavallo correndo passò via. Un altro gottoso, non in tutto attratto, ma doglioso di gotte forte, stando su uno letto, in una terra di Lombardia, ambasciadore, si levò il romore in quella; ed essendo tutto il populo in arme, gridavano alla morte verso quello ambasciadore; di che, sentendolo il gottoso che appena sul letto stare non potea sanza gran guai, prestamente schizzoe del letto, e dato giú per la scala dell'albergo si fuggí buon pezzo di via verso la chiesa de' Fra' Minori; e non parve gottoso, ma piú tosto barbaresco o can da giugnere; e campò la persona; e ancora piú che piú tempo stette sanza pena di gotte, dove prima ogni dí l'avea. E cosí “bisogno fa la vecchia trottare”.

 

 

NOVELLA CLXVII

 

Messer Tommaso di Neri manda un suo lavorante di lana al maestro Tommaso perché lo curi d'alcuno difetto; e portando l'orina al maestro, ne porta un pieno orinale e un mezzo orciuolo; e quello che ne seguita.

 

Un'altra bella sperienza mi fa venire a memoria la precedente novella; la quale consigliò maestro Tommaso del Garbo.

Fu, non è gran tempo, un fattore di arte di lana, il quale era grandissimo bevitore, e stava con messer Tommaso di Neri di Lippo, e messer Tommaso di lui spesse volte avea gran piacere, e tenealo per suo grande amico. Avvenne per caso che questo fattore piú volte s'era doluto col detto messer Tommaso, come spesse volte si sentía gran doglia nella testa, e che volentieri ne averebbe consiglio con qualche medico intendente. Messer Tommaso disse:

- Vattene lunedí mattina, che è festa, da mia parte al maestro Tommaso, e portagli l'acqua tua, e digli il tuo difetto, e guarderai quello che ti dice.

Questo fu un sabato dopo nona, e messer Tommaso gli disse del lunedí, acciò che la domenica stesse riposato, e poi il lunedí portasse il segno. Come gli disse, cosí pensò di fare. La domenica seguente, dove costui dovea tenere vita di mezzo, e' cominciò la mattina andare bevendo con sue brigate, e insino alla sera giurò non restare. Vegnente la notte, e levandosi per orinare su la mattina, la donna li porse l'orinale, e orinando lo empié che traboccava; disse alla donna che tosto trovasse uno orciuolo; e quello empié ben mezzo.

Fatto dí, costui porta, non il segno, ma uno diluvio d'orina al medico, e portò l'orinale e l'orciuolo; e giunto nella bottega di Pietro... nel Garbo, che era speziale, sotto le case del detto maestro Tommaso appiccò l'orinale, e l'orciuolo si ritenne sotto... e là postosi a sedere, tanto stette che 'l maestro giunse a procurare l'acqua degl'infermi, com'è d'usanza, o di quelli che si vogliono purgare. E vedute piú e piú, giunse a quella dell'amico; il quale subito se gli accostò allato, dicendo essere uno fedel servitore di messer Tommaso di Neri, il quale a lui il mandava acciò che gli desse aiuto e consiglio a quello difetto che si sentía.

Maestro Tommaso disse:

- Ov'è l'acqua tua?

E quelli tolse l'orinale che presso gli era.

Come il maestro misse le mani nella cassa per trarre l'orinale fuori, attuffò le dita nell'orina però che era pieno sanza gorgiera; tirò fuori, e maravigliandosi, disse a costui:

- E’ non pare che tu abbi il male del fianco -; e veggendo fare alcuno atto di quello orciuolo che avea sotto il mantello, disse: - Che hai tu costí?

E quelli rispose:

- È l'avanzo dell'acqua che io feci.

Veggendo questo il maestro, disse a costui:

- Che facestú ieri?

E quelli rispose che avea bevuto co' suoi compagni.

Allora disse il maestro:

- Va', e fa' tre dí allato allato come facesti ieri, e non aver pensiero che se alcun difetto averai, si purgherà per l'orina.

Costui tolse i vasi suoi, e ritornossi con essi, salvo che quando fu in Santo Martino, gli votò in una cateratta di quelli lanaiuoli, che ne corse il rigagnolo piú di venti braccia; e tornossi a casa mettendo in esecuzione ciò che 'l maestro Tommaso gli avea detto.

E messer Tommaso di Neri il dimandò il dí medesimo quello che 'l maestro Tommaso gli avea detto. E quelli rispose:

- Dice che io facci alcuna cosa assai agevole, e serò guerito.

Disse messer Tommaso:

- O bene sta.

Avvenne per caso che scontrandosi il martedí messer Tommaso col maestro, il maestro disse:

- Messer Tommaso, ho io a fare oricello?

E quelli rispose:

- Come?

E quelli disse come un suo fattore era venuto a lui per sua parte, e aveagli recato un segno maraviglioso e sformato d'uno orinale pieno e d'uno orciuolo. Messer Tommaso uscí quasi di sé, e udendo la novella, e del bere la domenica, e del rimedio di maestro Tommaso, disse:

- Deh, morto sie egli a ghiado; non maraviglia che non è stato oggi a bottega, che seguirà su le taverne el consiglio che gli avete dato; - e partissi con risa.

E messer Tommaso disse il tutto al suo fattore, e ripreselo forte; ma non sí che non seguisse quello che 'l medico gli aveva detto che facesse, affermando che molto gli giovava; e se prima era bevitore, diventò tracannatore; e messer Tommaso se ne strinse le spalle.

E questa era la doglia del capo: ché sono molti che berranno tanto che non che dolga loro il capo, ma e' diventeranno paralitichi ritruoplichi, e col male della gocciola che piú tosto si potrebbe dire il male del quarto; che a tanto è venuto questo misero difetto ch'e' giovani tutti se ne guastono, usando la mattina piú e piú volte bere la malvasía e altri vini, e poi corrono alla lussuria; e cosí si guastano e mancano i corpi.

 

 

NOVELLA CLXVIII

 

Maestro Gabbadeo con una bella cura fa uscire a uno contadino certe fave che gli erano entrate nell'orecchia, battendole su l'aia.

 

Ancora ritornerò pur alla medicina, e al maestro Gabbadeo, del quale a drieto in una bella novella è stato narrato.

Fu nel contado di Prato un contadino di forte natura, chiamato l'Atticciato; il quale nel mese di luglio battendo fave, gli ne venne schizzato una nell'orecchia, e volendosela cavare con sue dita grosse, quanto piú s'ingegnava di trarla, piú la ficcava in entro; tanto che per viva forza convenne che ricorresse al maestro Gabbadeo; il quale, veggendolo, disse:

- Qui vuole essere un partito che, benché ti dolga, non te ne caglia.

Disse costui:

- Fate che vi piace, escan'ella.

Allora il maestro ch'era grande e atante della persona, facendo vista di guardare ora l'una orecchia e ora l'altra prese tempo, e lascia andare, e dà uno grandissimo punzone a costui dall'altra parte, dove la fava non era, per sí fatta forma che costui cadde in terra dalla parte dove era la fava; e tra per lo pugno e per la percossa in terra, la fava uscío fuori dall'orecchia. Il lavoratore, avendo aúto questo colpo, si dolea del pugno e della caduta, e alla fava non pensava. Dice il maestro Gabbadeo:

- Lasciami vedere l'orecchia -; e quelli, dolendosi, gli la mostrò, e vide la fava esserne uscita.

Colui si dolea d'un gran botto che gli parea aver ricevuto; e maestro Gabbadeo dicea:

- O sciocco, non sai tu che quando t'entra alcuna cosa nella guaina del coltellino che tu la volgi, e tanto picchi ch'ella n'esce? cosí mi convenne fare di te, che mi convenne dare il colpo dall'altra parte, acciò che quella orecchia che avea la fava percotesse in terra, e cosí n'è uscita. Altri medici t'avrebbono tenuto un mese impiastri, e serebbene andato tutta la ricolta tua. Va', e procaccia di far bene, e quando ti verrà fatto, rechera'mi un paio di capponi.

Quelli si racconsolò, ché avea paura che non si volesse pagare piú agramente, oltra averli dato delle busse, e disse:

- Io non ho capponi, ma se voi non gli avete a schifo, io vi recherò un paio di paperi.

- E tu cotesti mi reca, e va' che sia benedetto; e se nella villa tua avvenisse che nessuno avesse alcun male, racconta la bella sperienza che io t'ho fatta, e avvialo a me.

Colui disse che lo farebbe, e andossene assai doglioso, come quelli che per guerire della fava avea avuto una gran percossa, talché stette piú dí che non poté battere; e come fu sdoluto, portò i paperi a maestro Gabbadeo; il quale della bella cura acquistò gran fama per lo paese, che fu sperienza nuova e mai piú non usata.

E lo Atticciato fu sempre grandissimo suo amico. E ben lo dice il proverbio: “batti il villano, e ara'lo per amico”.

 

 

NOVELLA CLXIX

 

Bonamico dipintore dipignendo santo Ercolano su la piazza di Perugia, il dipigne col diadema di lasche in capo, e quello che ne seguita.

 

Come il maestro Gabbadeo con medicina non mai piú provata né scritta gabbò bene l'Atticciato, e di non pensato per un gran colpo da giostra gli uscío fuori la fava degli orecchi; cosí in questa susseguente dirò una piccola novelletta di Buonamico dipintore, del quale a drieto in un'altra s'è fatto menzione. E questa novella mostrerà che, come il maestro Gabbadeo con grandi scherne curò l'Atticciato; cosí questo Buonamico con grandi scherne adornò un Santo de' Perugini, in forma che gli lasciò tutti inteschiati.

Fu ne' tempi del detto Buonamico, allora che Perugia era in prospero stato, diliberato per li Perugini che in su la piazza di Perugia fosse dipinto un Santo Ercolano tanto magnificamente quanto dipignere si potesse. E cercato qual dipintore in superlativo grado potesseno avere, fu messo loro innanzi questo Buonamico, e cosí presono di mandare per lui. E mandato che ebbono, e giunto in Perugia, e fatto il patto, e datogli il luogo e dove e come; il detto Buonamico, com'è d'usanza de' depintori, volle essere tutto chiuso d'asse o di stuoie; e per piú dí dato ordine alla calcina e a' colori, nella fine salí sul ponte e cominciò a dipignere. Quando fu in capo d'otto o di dieci dí, li Perugini, che voleano che Santo Ercolano fosse gittato in pretelle, cominciarono, quando in brigate andavano passeggiando su per la piazza, accostarsi verso il ponte dove costui dipingeva, e l'uno dicea:

- O maestro, sarà mai fatta questa uopra?

Stando uno pezzo, veniva un altro e dicea:

- O maestro, quanto è innanzi questo lavoro?

E quelli stava pur cheto e in... come tutti i dipintori fanno. Un'altra brigata andava a lui, e diceano:

- O maestro, quando vedremo questo nostro padrone? e' dovrebbe essere finito sei volte; deh spacciati, pregamote.

E cosí tutti i Perugini con diversi detti, non una volta il dí, ma parecchie, andavono a Buonamico a sollecitarlo; tanto che Buonamico fra sé medesimo dice: “Che diavolo è questo? costoro sono tutti pazzi, e io dipignerò secondo la loro pazzia”. Entrolli nel capo di fare Santo Ercolano incoronato, non d'alloro, come poeti, non di diadema, come i santi, non di corona d'oro, come li re, ma d'una corona, o ghirlanda di lasche. E veduto, quando la figura era quasi compiuta, di farsi fare il pagamento, attese, e aúto il pagamento, disse avea ancora a rifiorire tutti li ornamenti per ispazio di due dí; e furono contenti. Il rifiorire che Buonamico fece, si fu che fece una corona ben fornita di lasche a detto Santo Ercolano; e fatta che l'ebbe, una mattina per tempo si trovò con Giovanni [Piglialfascio] e uscí di Perugia, e tornò verso Firenze. I Perugini faceano al modo usato, e diceano alcuni:

- O maestro, tu lo puoi ben cominciare a scoprire; mostracelo un poco.

Il maestro stava cheto che camminava verso Firenze. Quando tutto quel dí ebbono consumato in dire, e chi una cosa e chi un'altra; e non sentendo alcuna risposta, l'altro dí pensorono costui non esservi, perché veduto non lo aveano; e domandando dove tornava allo albergo, fu loro detto ch'egli era presso a due dí ch'egli avea accordato l'oste, e credeano si fosse ito con Dio.

Udendo questo i Perugini, vanno alcuni per una scala, e appoggianla al ponte per vedere a quello che questa cosa era; e salitovi suso, vide questo Santo inghirlandato di molte lasche; subito scende e va agli anziani, e dice loro come il dipintore di Firenze gli ha ben serviti, e che per dilegione, dove dovea fare una corona di santo a Santo Ercolano, egli avea fatto una ghirlanda piena di lasche, delle maggiori che mai uscissino del lago. Essendo questa novella nel palagio, subito fanno cercare tutta Perugia per giugnere Buonamico, e di fuori feciono trovare certi cavallari in su cavalle che lo giugnessono. Elle furono frasche; ché Buonamico se ne venne sano e salvo. La fama di questo fatto si dilatò per Perugia, e ciascuno correa verso questo nuovamente dipinto Santo Ercolano: e a furore ne levorono e l'assi e le stuoie, e fu una cosa incredibile a vedere e a udire quello che diceano, e non pure di Buonamico, ma di tutti i Fiorentini, e spezialmente sparlavano contro a quelli che erano in Perugia. Alla per fine tolsono subito uno dipintore che quelle lasche convertisse in uno diadema, e a Buonamico dierono bando dell'avere e della persona. La qual cosa quando Buonamico seppe, dicea:

- Eglino col bando, e io con le lasche; che io per me, se mi facessero imperadore, non dipignerei in Perugia mai piú, però che sono li piú nuovi inteschiati che io trovasse mai.

Cosí rimase la cosa, e Buonamico dimostrò assai a' Perugini la ignoranza loro, che credono piú in Santo Ercolano che in Cristo; e tengono che sia innanzi al maggiore Santo in Paradiso. Se vi fosse con le lasche in capo forse direbbono il vero, che quelli Apostoli che furono pescatori, veggendoli le lasche in capo, gli farebbono grande onore.

 

 

CLXX

 

Bartolo Gioggi dipintore avendo dipinto una camera a messer Pino Brunelleschi di Firenze, il nuovo motto e altro che seguí.

 

Non fu meno nuovo che Buonamico, Bartolo Gioggi dipintore di camere; il quale avendo a dipignere una camera a messer Pino Brunelleschi, essendogli stato detto che tra gli alberi di sopra dipignessi molti uccelli, nella fine, essendo ito il detto messer Pino in contado per ispazio d'un mese, essendo la dipintura quasi compiuta, e messer Pino veggendo la camera col detto Bartolo, il quale gli domandava denari; messer Pino, avendo considerato ogni cosa, disse:

- Bartolo, tu non m'hai servito bene, né come io ti dissi; però che tu non hai dipinti tanti uccelli quanti io volea.

Al quale Bartolo subito rispose:

- Messere, io ce ne dipinsi molti piú; ma questa vostra famiglia ha tenute le finestre aperte, onde se ne sono usciti e volati fuori maggior parte.

Messer Pino, udendo costui, e conoscendolo gran bevitore, disse:

- Io credo bene che la famiglia mia ha tenuto aperto l'uscio della volta, e hatti dato bere per sí fatta forma che tu m'hai mal servito, e non serai pagato come credi.

Bartolo volea denari, e messer Pino non gli li volea dare. Di che essendo presente uno che avea nome Pescione, e non vedea lume, assai criatura del detto messer Pino, disse Bartolo Gioggi:

- Voletela voi rimettere nel Pescione?

Messer Pino disse di si. Il Pescione comincia a ridere, e dice:

- Come la volete voi rimettere in me che non veggio lume? che potrei io vedere quanti uccelli, o come?

Elle furono parole, ché la rimisono in lui. Il quale, essendo studiato, e massimamente da Bartolo Gioggi, volle sapere quanti uccelli Bartolo avea dipinti; e con certi dipintori aútone consiglio, cenando una sera di verno col detto messer Pino, il Pescione disse che su la questione di Bartolo Gioggi avea aúto consiglio da piú e da piú, e veramente di quelli uccelli che nella camera erano dipinti messer Pino se ne potea passare. Messer Pino non dice: “Che ci è dato?”; subito si volge al Pescione, e dice:

- Pescione, escimi di casa.

La notte era; il Pescione dicea:

- Perché mi dite voi questo?

E quelli dice:

- Io t'intendo bene, escimi di casa -; e a uno suo famiglio che avea nome Giannino che non avea se non uno occhio, dice: - Togli il lume, Gianni, fagli lume.

Il Pescione, essendo già alla scala dicea:

- Messere, io non ho bisogno di lume.

E quelli dicea:

- Io t'intendo bene, vatti con Dio; fagli lume, Gianni.

- Io non ho bisogno di lume.

E a questo modo il Pescione, sanza luce, e Giannino con un occhio e con un lume in mano scesono la scala, e 'l Pescione se ne andò a casa, dall'una parte soffiando e dall'altra ridendo; e poi di questa novella facendo ridere molti, con cui usava. E stette parecchi mesi innanzi che messer Pino gli rendesse favella; e Bartolo Gioggi a lungo andare fece un buono sconto, se volle essere pagato.

Io per me non so qual fu piú bella novella di queste due, o 'l subito argomento di Bartolo Gioggi, o il lume che messer Pino facea fare al Pescione vocolo.

Ma tutto credo che procedesse, o di non pagare, o di dilungare il pagamento.

 

 

NOVELLA CLXXI (frammento)

 

 

Il Vescovo dell'Antella di Firenze avendo fatto dipignere l'altare di Santo Bastiano nella maggior chiesa... .

 

 

 

 

NOVELLA CLXXII (frammento)

 

 

- ...denaio de' suoi; e se gli avessi aúti, se gli averebbe fatti dare, e averebbe pagato l'oste. Ma qui mi pare che ci sia una gran malizia: che 'l fiorentino colse tempo sul principio della messa e disse al frate che costui avea difetto, e che gli dicesse certe orazioni; e venendo poi costui al frate, udito che disse: “Va' e vieni a terza, e io farò ciò che fia da fare”, Nuccio avea creduto che dica di darli i danari, ed egli averà detto delle orazioni. Nuccio Smemora allora piú gridava e dicea che gli avea promesso Roma e Toma. I frati diceano:

- Nuccio, sappi meglio fare un'altra volta che sia certo che colui averà fatto il desinare, e stato nell'albergo alle tue spese, però che dee essere tutto proprio come frate Avveduto ha detto.

Costui gridava e quasi come aombrato se n'andò al Vescovo; il quale fece richiedere il frate; e carminandosi la questione per tutte le congiunture, fu veduto che 'l cavaliero Gonnella era stato cattiva gonnella per l'oste, tale che gli dié il mal verno; e con lettere e con amici, scrivendo a Firenze di questo cavaliero e chi fosse, giammai non ne poté sentire alcuna cosa; però che 'l Gonnella si tornò al marchese a Ferrara, dond'era partito, di che malagevole sarebbe stato a rinvenirlo.

E Nuccio (che per lui si dice Nuccio Smemora) non facendo le cose sue caute, credendo guadagnare, perdé grossamente, e ancora ne rimase buon tempo come aombrato, come il Gonnella l'avea fatato.

 

 

NOVELLA CLXXIII

 

Gonnella buffone predetto in forma di medico, capitando a Roncastaldo arca certi gozzuti, e ancora il Podestà di Bologna; e con la borsa piena si va con Dio, e loro lascia col danno e con le beffe.

 

Perché simil malizia o maggiore segue in questa novella che non è stata la passata, come che ancora ella fu del Gonnella, brievemente la dirò; però che io non truovo tra tutti i buffoni che furono mai sí diverse astuzie e cosí strani modi usare, non per guadagnare, ma per rubare altrui.

Come nella passata novella è stato detto, il Gonnella il piú della sua vita stette col marchese di Ferrara, e alcuna volta venía a Firenze; e fra le altre venendo una fiata, e avendo passato Bologna, e giugnendo una mattina a desinare a Scaricalasino, ebbe veduto per la sala e in terreno certi contadini gozzuti; di che come vide il fatto, subito informò in camera uno suo famiglio, e fecesi trovare una roba da medico che nella valigia avea, e miselasi in dosso; e venendo alla mensa, ed essendo posto a mangiare, el suo famiglio s'accostò a uno lavoratore gozzuto che era nella sala, e disse:

- Buon uomo, quel valentre medico che è colà a tavola, è gran maestro di guerire di questi gozzi; e non è alcuno sí grande che non abbia già guerito, quando egli ha voluto.

Disse il lavoratore:

- Doh, fratel mio, e' n'ha in questa montagna assai; io ti prego che sappi, quand'egli ha mangiato, se ne volessi curare parecchi che, secondo uomeni d'Alpe, sono assai agiati.

Gnaffe! costui nol disse a sordo, ché come il medico Gonnella ebbe desinato, il famiglio gli s'accostò da parte, e tirollo in camera, e dissegli il fatto; onde il medico fece chiamare il contadino, e disse:

- Questo mio famiglio mi dice sí e sí; se tu vuogli guarire, io non mi impaccerei per uno solo, però che mi serà un grande sconcio di tornare a Bologna e recare molte cose. Ma fa' cosí: se ti dà cuore d'accozzarne otto o dieci, va' subito, e menali qui, e togli uomeni che possano spendere fiorini quattro o cinque per uno.

Il contadino disse subito farlo; e partitosi non andò molto di lungi che ne accozzò con lui otto, o piú. I quali subito vennono al maestro Gonnella, e là ragionato per buono spazio con lui, el medico disse:

- E’ m'incresce che io non sono in luogo piú abile alle cose che bisognano; poiché cosí è, io tornerò a Bologna, e bisognerà due fiorini per uno di voi; e tanto che io torni, ordinerò ciò che avete a fare e lascerocci il fante mio. Se voi volete, ditelo, e io darò ordine ad ogni cosa.

Tutti risposono:

- Sí per Dio, e' danari son presti.

Disse il medico:

- Aveteci voi niuna casa adatta dove possiate in una sala stare tutti, e fare fuoco di per sé ciascuno?

- Sí bene, - risposono.

Allora disse:

- Trovate per ciascuno una conca, o calderone di rame, o altro vaso di terra, e trovate de' carboni del cerro, e legne di castagno, e abbiate uno doccione di canna per ciascuno e ciascuno per quello soffi ne' carboni e nel fuoco; questo soffiare con alcuna unzione che io vi farò nel gozzo, assottiglierà molto la materia del vostro difetto; e 'l fante mio non si partirà da questo albergo infin ch'io torno.

Come detto, cosí fu fatto; che questo medico ebbe fiorini dua per uno, e prima che si movesse gli acconciò in una casa, ciascuno col fuoco e col trombone a bocca, e unse loro i gozzi, e disse non si partisseno finché tornasse. Quelli dissono cosí fare. Maestro Gonnella si partí, e vennesene a Bologna; e spiato che là era un Podestà giovene, desideroso d'onore, se n'andò a lui, e disse:

- Messer lo Podestà, io credo che per avere onore voi fareste ogni spendio; e pertanto se mi volete dare fiorini cinquanta che son povero uomo, io ho alle mani cosa che vi darà il maggiore onore che voi aveste mai.

Il rettore volontoroso disse che era contento, ma che gli dicesse di che materia era la cosa. E quelli disse:

- Io vel dirò. In una casa sono una brigata che fanno moneta falsa, date buona compagnia al vostro cavaliero, e io il metterò sul fatto, sí veramente che perché sono uomeni di buone famiglie non vorrei loro nimistà. Quando io avrò messo il vostro cavaliero sul fatto, io mi voglio andare a mio cammino.

Questa cosa piacque al Podestà; e apparecchiato il cavaliero con buona famiglia, sappiendo che avea andare da lungi, diede fiorini cinquanta al Gonnella, e la notte gli mandò via, tanto che giunsono alla casa dove si conciavono i gozzi. E trovato il fante suo che era in punto, dissono:

- Qui sono la brigata; e fatevi con Dio, ch'io non voglio che paia che io abbia fatto questo.

Il cavaliero disse:

- Va' pur via -; e dando nella porta, dice: - Avrite za.

Quelli rispondeano:

- Sete voi il maestro?

- Che maestro? avrite za.

- Sete voi il maestro?

- Che maestro?

Spezza la porta, ed entrarono dentro, dove trovorono la brigata tutta soffiare sanza mantachi nel fuoco. Piglia qua, piglia là; costoro furono tutti presi, sanza poter dire: “Domine aiutami”; e se voleano dire alcuna cosa, non erano uditi: e' gozzi loro erano divenuti due tanti, come spesso incontra a simili, quando hanno paura con impeto d'ira.

Brievemente, a furore ne furono menati a Bologna; là dove giunti al Podestà, e 'l Podestà, veggendoli tutti gozzuti, si maravigliò e fra sé stesso disse questa era una cosa molto strana; e menatili da parte l'uno dall'altro, prima che elli li mettesse alla colla, domandò che moneta elli faceano. Elli diceano ogni cosa come stato era, e oltre a questo giunse lo albergatore, e altri da Scaricalasino, e dissono ordinatamente come il fatto stava; e accordossi ciascuno di per sé, e quelli che vennono, che questo era che un medico di gozzi era passato di là, e dicea di guarirli, e acconciolli a soffiare nel fuoco, come gli trovaste; e poi disse venire a Bologna per cose che bisognavono, e che l'aspettassono in quella casa cosí soffiando nel fuoco.

Il cavaliero, udendo questo, tirò da parte il Podestà, e disse:

- Ello dee essere vero, però che come io giunsi alla porta, là dove erano, e bussando, dicendo che aprissono, e' diceano: “Sete voi il maestro?” e poi voi vedete che costoro son tutti co' gozzi; la cosa rinverga assai, ché, a fare moneta falsa, otto serebbe impossibile fossono tutti gozzuti.

Ma sapete che vi voglio dire? questo medego dee essere assottigliatore piú di borse che di gozzi; e cosí egli ha assottigliata la borsa di questi poveri uomeni, e anco la vostra; a buon fine il faceste; da' tradimenti non si poté guardare Cristo; rimandate costoro alle loro famiglie, e pensate di sapere chi è questo mal uomo che ha beffato e loro e voi; e se mai potete, gli date o fate dare di quello che merita.

Elle furono novelle; la brigata fu lasciata, e tornoronsi tutti a Scaricalasino; e 'l Podestà poté assai cercare che trovasse chi costui era stato; però che io non voglio che alcun pensi che venisse allora a Firenze, anzi diede volta ad altra terra. E quando era cavaliere, e quando medico, e quando giudice, e quando uomo di corte, e quando barattieri, come meglio vedesse da tirare l'aiuolo; sí che posta di lui non si potea avere, come colui che sempre stava avvisato in queste faccende. La brigata gozzuta giunti a Scaricalasino aspettarono il medico, non ostante a questo, piú dí, credendo che tornasse; e non tornando, guatavano i gozzi l'uno dell'altro per maraviglia, quasi dicendo: “È scemato gnuno?”, o “È scemato l'uno piú che l'altro?”. Poi se ne dierono pace; ma non s'avvisorono mai, come gente alpigiana e grossa, come il fatto fosse andato; e avvisoronsi che qualche malivolo, perché non guerissono de' gozzi, avesse condotto là quella famiglia; e pensando or una cosa e or un'altra, se prima erano grossi, diventorono poi grossissimi e stupefatti. E ancora per maggiore novità parve ch'e' gozzi loro, non che altro, ne ingrossassono.

Perché chi nasce smemorato e gozzuto, non ne guarisce mai.

 

 

NOVELLA CLXXIV

 

 

Gonnella medesimo domanda denari che non dee avere, a due mercatanti, l'uno gli dà denari, l'altro il paga di molte pugna.

 

Vassi capra zoppa, se 'l lupo non la intoppa. Veggendo adunque con quanta malizia, e falsa arte, il Gonnella ha in due novelle arrapato o rubato, con utile di sé, e con danno altrui, come che a chi ode le dette novelle con festa se ne rida, nientedimeno quelli, contro a cui elle son fatte, ispesse volte ne piangono, come l'albergatore da Norcia e i gozzuti da Roncastaldo. Ma perché spesse volte sono degli uomeni che come di sí fatte novelle rideno, pur alcuna volta serebbono molto allegri che la volpe fosse colta alla trappola, e per dare contentamento a questi tali, come che in questa terza novella il Gonnella rubasse cinquanta fiorini con nuova astuzia, nella fine pur colto ma non come meritava.

Essendo venuto questo Gonnella da Ferrara a Firenze, e tornando su la piazza di Santa Croce in casa uno buffone chiamato Mocceca, e sentendo la qualità de' mercatanti di Firenze, pensò un nuovo modo d'avere danari, e forse mai non piú usato. Costui se ne andò una mattina a uno fondaco d'una buona compagnia in Porta Rossa; i quali forse non stavano bene, come altri pensava, però che cominciavono a mancare del credito; e giunto al cassiere, disse:

- Vedi la ragion mia, e dammi quelli duecento fiorini che io debbo avere.

Costui, e alcuno scrivano che v'era, disse:

- In cui son elli scritti?

E quelli rispose:

- Buono, buono! in me; e' non pare che voi mi vedessi mai piú; cercate quel libro, voi mi vi troverrete bene.

Costoro cercano e ricercano, e nulla trovavano; di che dicono a costui:

- Noi non troviamo alcuna cosa; quando i nostri maggiori ci seranno, e noi il diremo loro.

Costui comincia a gridare, dicendo:

- Io griderò tanto: “Accorr'uomo” che ci trarrà tutta Firenze; dunque mi mettete voi il mio in questione?

Uno d'un fondaco che era allato a quello si fa cosí oltre, e dice al Gonnella:

- Buon uomo, va', e tornaci dopo mangiare, e pensaci bene, che io credo che tu abbi errato il fondaco.

Dice il Gonnella a costui:

- Non l'ho errato, no; io verrò bene a te per quelli che tu mi déi dare che cotesta è un'altra ragione che io ho a fare teco.

Di che costui si scosta, e dice:

- Io ho fatto un bello acquisto; io volea levare la questione altrui, e holla recata a me.

Tornasi nel fondaco suo, e 'l Gonnella grida nel primo fondaco, e dice che vuol essere pagato. Giunge uno de' capomaestri, e maravigliasi:

- Che vuol dire questo?

E il Gonnella grida:

- Voi non mi ruberete.

Brievemente, la cosa andò tanto oltre che costui il tirò nel fondaco della mostra dentro, e chiamò il cassiere dicendo:

- Questa è dell'altre mia venture -; e disse: - Dara'gli fiorini cinquanta, e non ci dir piú parola.

Al Gonnella parve mill'anni torseli, e andossi con Dio. L'altra mattina, e quelli disse al Mocceca:

- Vuo' tu venire? io voglio andare a tirare l'aiuolo a cinquanta fiorini, s'io posso.

Quelli disse:

- Maisí, che io verrò, forse me ne toccherà qualche cosa.

E cosí mosso il Gonnella col Mocceca, giunse al fondacaio da lato, a cui egli avea detto che avea avere anco da lui, e disse:

- Truova la mia ragione, e pagami.

Il fondacaio che avea considerato la condizione di costui, e come elli avea aúto fiorini cinquanta dal fondaco da lato, disse:

- Buon uomo che de' tu avere?

E quelli disse:

- Fiorini dugento che io gli depositai a un'ora con quelli da lato.

Colui rispose:

- Il cassiere è istamane ito riscotendo; tornaci dopo mangiare, e averai ciò che tu déi avere.

Il Gonnella disse:

- Sia con Dio; io ci tornerò oggi.

E andato a desinare col Mocceca, disse:

- Io credo d'avere oggi da quel fondaco buon pagamento, però che non ha voglia che io gridi.

Dice il Mocceca:

- Questo mondo è degl'impronti; io non ci avrò mai nulla.

Il fondacaio, come saggio e avveduto, dice:

- Per certo che io non gitterò fiorini cinquanta, come il vicino mio di qua; d'altra moneta pagherò costui -; vassene in Mercato Vecchio a due suoi amici barattieri, e dice: - Io voglio un grande servigio da voi, che quando voi avete desinato vegnate al fondaco, e darete a uno quante pugna e calci voi potrete; e la cagione è che questa cosa è licita a Dio e al mondo; e disse loro come il fatto stava di passo in passo.

Risposono che molto volentieri, e che parea loro mill'anni essere alle mani; e cosí fermorono, che dopo mangiare furono al fondaco di buon'ora, e 'l fondacaio ancora con loro; il quale li menò dentro nella mostra, e disse:

- Statevi qui; quando colui verrà per li danari, e io il menerò dentro, e dirò: “Date quelli danari a costui”; e voi sprangate.

Detto e acconcio questo fatto, e 'l Gonnella giunse, e lascia il Mocceca di fuori, e dice al fondacaio:

- Io vengo per quelli danari.

Il fondacaio dice:

- Volontieri; andiamo di là al cassiere -; e avviasi di là, dove coloro erano; e 'l Gonnella drieto.

Il quale, come giunse dentro, il fondacaio dice a coloro:

- Date quelli danari a costui.

Come costui dice questo, e costoro aprono le braccia, e cominciono a pagare colui di quella moneta che meritava; e dannogliene per sí fatta maniera che tutto il ruppono; e se volea gridare, e quelli diceano:

- E di quelli ti paga.

Di che avendogliene dato, non per un pasto, ma forse per tre corredi, il detto Gonnella con le mani e col mantello al viso, per ricoprirsi, esce per lo mezzo del fondaco, dicendo:

- O pagano i mercatanti a questo modo chi dee avere? - ed escesene fuora, là dove il Mocceca l'aspettava.

Veggendolo uscire del fondaco cosí rabbuffato e venire verso lui, dice:

- Se' tu pagato?

E 'l Gonnella risponde:

- Mainò: ma io sono sodo molto bene, in forma ch'io non gli ho piú a domandare.

Disse il Mocceca:

- Vuo' tu ch'io ti dica il vero, Gonnella? el t'è colto, d'assai cose che tu hai fatte, buona ventura; ma pur tu hai fatte assai di quelle che tu averesti meritato di perder la vita, non che di avere una gran battitura come tu hai aúta oggi; questo ti puote essere esemplo al tempo che dee venire. Tu sai che l'arte nostra è d'acquistare con piacevolezza, e non di rubare, né di tòrre, se non come l'uomo vuole; non con falsità, non con malizia, se non in quanto, con ogni modo che puoi, tu facci che ti sia donato; lascia andare queste falsità che sono da pericolare e te e altrui, e tòrnati dal marchese tuo da Ferrara, e statti pianamente, e viviti di limatura, e non di rubatura.

Il Gonnella udendo costui disse:

- Mocceca, tu non se' mocceca e da'mi buon consiglio, e vie migliore me l'averesti dato se tu fosse stato partecipe del pagamento che ho aúto stamane; e bene ho sempre udito dire: “Passasi il folle con la sua follia, e passa un tempo, ma non tuttavia”.

E cosí prese commiato dal Mocceca, stando molti anni che non tornò a Firenze, e andossene a Ferrara.

Or cosí intervenisse a tutti gli altri che domandono falsamente quello che non debbono avere; che è venuto il mondo a tanto che ciascuno si mette a domandare quello non dee; e veggendo che niuna pena se ne dà oggi nel mondo, dicono: “Io non posso altro che acquistare; se non se n'avvede, io me la abbo, e se se n'avvede, io me la gabbo”. E l'altro dice: “Muovi lite, acconcio non ti falla”. E cosí va oggi il piú del reggimento che è sopra la terra. Volesse Dio che almeno ciascuno la comprasse come qui la comprò il Gonnella.

 

 

NOVELLA CLXXV

 

Antonio Pucci da Firenze truova esser messo in uno suo orto di notte certe bestie, e con nuovo modo s'abbatte a chi l'ha fatto.

 

Io non voglio per ora raccontare piú dell'opere del Gonnella, però che mi conviene dar luogo agli altri; e ancora, perché Antonio Pucci, piacevole fiorentino, dicitore di molte cose in rima, m'ha pregato che io il discriva qui in una sua novella; la quale, perché con risa se la portò in pace pensando ancora chi gli la fece, è da prenderne ancora un poco di trastullo.

Antonio Pucci avea una casa dalle fornaci della via Ghibellina, e là avea uno orticello che non era appena uno staioro, e in quello poco terreno avea posto quasi d'ogni frutto e spezialmente di fichi, e aveavi gran quantità di gelsomino; ed eravi uno canto pieno di querciuoli e chiamavalo la selva. E questo cosí fatt'orto, con le proprietà sue, avea messo il detto Antonio in rima, in capitolo, come Dante e in quello trattava di tutti li frutti e condizioni di quell'orto, né piú né meno come se fosse ubertoso, come la piazza di Mercato Vecchio di Firenze, della quale già mise in rima tutte le sue condizione, magnificandola sopra tutte le piazze d'Italia. Era in questi tempi certi piacevoli uomeni in Firenze, l'uno de' quali era un Girolamo che ancora vive, uno Gherardo di... e Giovanni di Landozzo degli Albizi, e uno che avea nome Tacchello tintore, e altri, li quali erano piú nuovi l'uno che l'altro. Erano costoro cosí nuova brigata come ne' loro tempi fosse nella nostra città.

Udendo costoro tanto e per prosa e per versi dire ad Antonio di questo orto, si posono in cuore di mettervi una notte certe bestie dentro che 'l pascessono, e Antonio facessono smemorare; e brievemente, una sera al tardi al prato del Renaio vidono un muletto e due asini magri e vecchi alla pastura. Trovorono modo che uno di loro gli mise in uno luogo di drieto a questo orto, là dove era uno uscetto serrato con legname e ancora di fuori murato a secco, e dentro con chiavistello e toppa serrato a chiave che gran tempo non era stato aperto. E sul primo sonno, andando due innanzi a smurare il muro di fuori, e altri su per le mura entrati dentro, aprirono, o con grimaldello o con altro artificio, il detto serrame, sí che l'uscio e smurato e aperto rimase. Fatto questo, i due micci e 'l muletto furono ivi menati e messi dentro. Il quale muletto era stato adornato a casa il Tacchello, prima che ve lo menassono, d'una gorgiera di cuoio e altre cose assai maravigliose. E poi che fu introdutto nell'orto, di quello gensomino gli feciono e posoliera e briglia in grande adornamento e là il legorono a' piedi d'un lastrone tondo dove Antonio cenava la sera; e su quello lastrone missono molti cavoli, i quali nel dett'orto aveano colti, acciò ch'egli avesse buona profenda. E fatto questo, subito serrano l'uscio con ingegni per modo che non parea mai stato aperto; e sequentemente murorono di fuori, come prima era, e vannosi con Dio.

La mattina vegnente Antonio, che avea una cameretta sul detto orto, dall'altra parte dove era la casa, e ivi dormía, levandosi la donna prima ed elli poi, e andandosi affibbiando per l'orto, ebbe vedute queste tre bestie selvagge, e oltre a ciò che non aveano lasciato filo di buona opera, avendo ogni cosa e roso e guasto, quasi uscí di sé, dicendo:

- Che vuole dir questo? - e andato all'uscio, dond'erano entrati, trovando serrato come prima era, maggior maraviglia si diedono; e piú ancora che andò di fuori e videlo murato come prima.

Brievemente, la malenconia dell'orto guasto fu grande; ma maggiore era il pensiero donde fossono entrati. E fra l'altre cose, veggendo il mulo cosí addobbato co' cavoli innanzi, ancora piú si maravigliavono dicendo:

- Che inghirlandamento è questo?

Dicendo Antonio Pucci:

- Io credo pur essere nato di legittimo matrimonio -; e volgendosi alla moglie, dicea: - E cosí credo che sia anco tu; questa è una nuova cosa e non so quello che io me ne creda! percuotere ne potrei il capo al muro e altro non avrei; pur m'ingegnerò con ogni sottigliezza trovare chi m'abbia fatto questo, e diàncene pace.

Detto questo, s'ingegnorono mettere il bestiame fuori dell'orto; il quale convenne passasse per una cameretta dove dormía Antonio e la moglie; e convennesi disfare la lettiera, perché potessino passare: e messigli nella via, si ritornorono a pascere al Renaio; e cosí rimase la cosa.

Quel dí medesimo il detto Antonio pensò un sottil modo per trovare chi avesse fatto la faccenda; e qualunche trovava suo domestico, salutandosi con lui, dicea:

- Ben t'ho.

Colui che era salutato da lui e non era stato a fare quella faccenda, s'andava con Dio, sanza dire altro. Scontrossi in quello dí nel Tacchello tintore, il quale disse:

- Addio, Antonio.

E Antonio rispose:

- Addio Tacchello, ben t'ho.

E Tacchello risponde:

- Alle guagnele, Antonio, che io non fu' io.

Allora Antonio s'accosta al Tacchello e dice:

- O chi fu altri che tu?

E quelli rispose:

- E’ furono i tali e tali.

E per questa maniera seppe di qualunche v'era stato; e a uno a uno dolutosi, costò a ciascheduno una cena e fu fatta la pace: facendo poi Antonio Pucci uno sonetto di tutto questo fatto che non fu meno piacevole che la novella.

Un altro averebbe abbaiato tre mesi e in su ogni canto averebbe detto: “E’ m'è stato fatto sí e sí: per lo corpo e per lo sangue, che converrà che sia Roma e Toma”. Costui, come saggio, sanza dire o mostrare alcuna cosa, con uno ben t'ho chetamente seppe chi gli avea messo le bestie nell'orto, e dall'altro ebbe migliore pastura che non furono i cavoli che furono dati al mulo; e poi dicendo la novella a molti, piú tempo se ne risono.


 

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