Franco Sacchetti

 

Il Trecentonovelle

(parte III: novelle CLXXVI- CCLVIII)


 

NOVELLA CLXXVI

 

 

Scolaio Franchi da Firenze, beendo con certi e avendo un bicchiere di trebbiano in mano e avendo commendate le bontà di quello, Capo del Corso con dolce modo gli lo toglie.

 

Un'altra beffa, forse mai piú non usata, mi tira dover dire quello che intervenne a un piacevole fiorentino, il quale era di età di settantacinque anni o piú, ed ebbe nome Scolaio Franchi. Costui essendo buono bevitore e vicitando volentieri le taverne dove i buon vini si vendeano, vendendosi una mattina uno buon trebbiano a una taverna in Firenze, luogo che si chiama al Fico; e questo Scolaio andandovi a bere egli e uno Guido Colombi e Bianco di Bonsi, essendo mesciuto una terzeruola e avendo ciascuno i bicchieri in mano, e specchiando gli occhi loro nel vetro e in quello trebbiano che era buono e chiaro, di color d'oro; e Scolaio guatando nel bicchiere, comincia a dire:

- O lavoratori, benedetti siate voi che lavorate queste vigne; e maledetto sia chi mai vi pose estimo; ché le vostre mani si vorrebbono imbalsimare. E se voi non fosse, che vino potremmo noi mai bere? per lo corpo di Dio, se mai mi truovo de' Priori che io troverrò modo che ne' loro estimi e nelle loro imposte e' saranno sgravati. E non si ved'egli che durano tutto l'anno fatica per noi quelli che governono queste vigne? non ne beono per loro, e tutto ciò che fanno, fanno per noi. Se voi non mi credeste, sappiate chi lavorò queste vigne, voi troverrete che beono aceto annacquato. Or dunque non è egli gran male a chiamarli villani, affaticandosi in ogni cosa per dare a noi? Si possono molto piú tosto chiamare cortesi, ed essere veramente figliuoli di Dio, il quale ogni cosa fa per noi, e cosí costoro.

E cosí col bicchiere in mano, seguendo il ragionamento, venne in su uno parlare divino , dicendo a' compagni:

- Io vo' che voi sappiate che nel principio del mondo fu deliberato che Scolaio beesse questo bicchiere di trebbiano.

Era appresso dirieto a lui uno amico del detto Scolaio, chiamato Capo del Corso; il quale, avendo udito la predica che Scolaio avea fatta sul bicchiere, e in fine udendoli dire che ab eterno era stato deliberato che beesse quello bicchiere di trebbiano, subito manda la mano oltre e leva quel bicchiere di mano a Scolaio, dicendo:

- Anzi fu deliberato che io il dovea bere io -; e detto questo e beútolo, fu tutt'uno.

Scolaio si volge, e veggendoli essere stato tolto e beúto il suo bicchiero da Capo del Corso, di cui era amico, disse:

- Vatti con Dio, Capo, che io non dirò mai piú queste parole, che io non lo bea in prima.

Disse Capo:

- E tu farai molto bene, se tu non vuoi errare, però che ogni cosa è giudicata nel suo fine; e però quello bicchiere dovea essere mio e non tuo.

Disse Scolaio:

- E però non lo dirò io mai piú che io non bea prima.

Questi furono due motti di gran piacevolezza; lo primo fu quello di Scolaio che propose la questione del destinato; e Capo del Corso la fortificò e assolveo; e questo fu il secondo.

O dolcezza del frutto che piantò Noè! Quante belle novelle si potrebbon dire di molti che hanno oltre modo seguito il sugo delle vite; e ancora si potrebbono contare delle vituperose che hanno seguito coloro che trasordinatamente hanno usato l'uso del vino; però che nessun frutto fece il nostro Signore Dio che tanto dea dolcezza e conforto e mantenimento alla natura umana, quanto fu questo, usandolo moderatamente; e cosí per e converso  niuno è che tanto distrugga il corpo umano quanto questo, usandolo stemperatamente.

Volesse Dio che gli uomeni del mondo, e spezialmente li gioveni, se ne avvedesseno, li quali oggi darebbono scaccomatto e a Scolaio Franchi e a Capo del Corso, essendo fatti non bevitori ma gorgioni, beendo la mattina piú volte, innanzi che sia l'ora del desinare, malvagía. E con questa cosí fatta virtú vogliono soprastare a quelli che potrebbono essere loro padri, dicendo essi essere piú degni de' reggimenti delle terre di Bacco, che coloro li quali, con virtú e con temperanza, discretamente vivono.

 

 

NOVELLA CLXXVII

 

Il piovano dell'Antella di Firenze sente che messer Vieri de' Bardi fa venire magliuoli da  Corniglia; truova modo, quando vengono, gli fa scambiare e to' gli per lui, e quello che seguita.

 

Tanto è grande lo studio divino  che da un gran tempo in qua gran parte delli Italiani hanno sí usato ogni modo d'avere perfettissimi vini che non si son curati mandare, non che per lo vino, ma per li magliuoli d'ogni parte; acciò che ognora se gli abbino veduti e usufruttati nella loro possessione; e perché siano stati cherici, non hanno aúto il becco torto.

Fu, non è molti anni, uno cavaliere ricco e savio nella città di Firenze che ebbe nome messer Vieri de' Bardi, il quale era vicino al piovano all'Antella, là dove a un suo luogo dimorava spesso. E veggendosi in grande stato, per onore di sé e per vaghezza di porre nel suo alcuno nobile vino straniero, pensò trovare modo di far venire magliuoli da Portovenere della vernaccia di Corniglia. E per alcuno amico fece scrivere a un messer Niccoloso Manieri da Portovenere che quelli magliuoli dovesse mandare. E aúto buona risposta, trovandosi alcuna volta con messer lo piovano in quella villa suo vicino, dicea come avea trovato modo d'avere de' magliuoli della vernaccia di Corniglia, e che gli aspettava d'ora in ora. Il piovano, udendo messer Vieri, e avendone aúto voglia gran tempo, disse:

- Ben fate; ma quanto io per me vorrei vitigni che facesseno vino assai; cotesto è vitigno da far debito.

Messer Vieri rispose:

- Io non lo pongo per avanzare, ma per farne cortesia.

E cosí per alquanti dí si rimase la cosa, tanto ch'e' magliuoli un giorno giunsono in su la sera che era domenica e 'l piovano per avventura era col detto messer Vieri. E messer Vieri avendo letta la lettera, disse:

- Ecco il fatto.

E 'l piovano rispose:

- Guardate che voi non gli poneste se la luna non dà volta.

Messer Vieri dice che non sapea gli andamenti della luna.

- Quando fia buon porli?

E quelli rispose:

- Da domane in là; sotterrategli istasera in qualche luogo qui di fuori, e poi gli porrete.

Messer Vieri cosí fece fare; e 'l piovano si tornò alla sua pieve, là dove subito ebbe due lavoratori, li quali, come che fosse da sera, andassono a portare certe sue pergole d'uve angiole e verdoline e sancolombane e altri vitigni, e subito le recassono; li quali cosí feciono; e recate che l'ebbono, il piovano disse:

- Voi avete andare con questi magliuoli al luogo di messer Vieri de' Bardi, dove voi troverrete dal tale lato sotterrati certi magliuoli; recatemi quelli e in quel luogo sotterrate questi.

Costoro ubbidenti, subito andorono; e fatta la faccenda, gli recorono al piovano; il quale detto loro che mai alcuna cosa ne dicessono, la mattina di buon'ora in un suo pezzo di terra divelta fece porre i detti magliuoli, e messer Vieri similmente fece porre quelli che gli erano stati scambiati. E cosí li due posticci stettono due anni anzi che mostrasseno l'uve, come è della ragione de' posticci. Quando l'uve si cominciorono a vedere, e messer Vieri andando per lo suo posticcio, il quale credea essere vernaccia da Corniglia, vide nuove ragione d'uve al suo intendimento, e dove bianche di ragione verdigna e dove cimiciattole e dove angiole, e cosí diversi vitigni, come nel piú delle vigne poste alla mescolata si truova.

E con tutto questo di grappolo in grappolo molti acini assaggioe, tanto che facendo una assaggiatura di quasi tutti i grappoli, ebbe fatto sí grande corpacciata che quasi per lo 'nfiamento del dolore e per lo mangiare degli acini non potea ritornare a casa. E veramente il suo fu grandissimo dolore, però che dietro a lunga fatica, aspettando il frutto, se ne truovò fuori.

Di che stando in questa afflizione, subito scrisse a messer Niccoloso da Portovenere come molto bene l'avea servito de' magliuoli, li quali gli avea mandati di forse due anni; però che, dove credea gli avesse mandati magliuoli da Corniglia, gli avea avuti di vitigni dolorosi e tristi, i quali ogni volta si poteano vedere. Aúto la lettera messer Niccoloso, come colui che si sentía avere ben servito l'amico suo, subito si turboe, come colui che veramente con l'occhio era stato a far potare la migliore vernaccia di Portovenere; e riscrisse a messer Vieri che elli per sé gli avea mandato diritti magliuoli di vernaccia; e se trovava il contraro, che suo difetto non era, ma che elli cercasse bene, che o per cammino o a casa sua non fossono stati scambiati.

Avendo messer Vieri la lettera, non pensò mai se non come potesse rinvenire il fatto; e tanto si diede attorno, sappiendo chi in quelli tempi per lo paese avea poste vigne, che gli venne trovato che 'l piovano dell'Antella gli avea scambiati i detti magliuoli, come a drieto è stato detto. Di che sappiendo ciò, e' s'avea pensato fare cose incredibili contro al piovano; e sarebbonli venute fatte, se non che gli venne maggiore fortuna, la quale gli fece dimenticare tutte queste cose; però che in questo tempo i Bardi furono cacciati, di che il piovano si rimase co' magliuoli e usufruttolli tutto il tempo della sua vita, e ancora s'usufruttano per li successori. Questa novella mi fu narrata a Portovenere, là dove io scrittore nel 1383 arrivai, andando a Genova: e fummi interamente detta pur un'altra novella, la quale quel medesimo giorno avvenne che fu questa.

Andando uno villano di Portovenere un giorno nei dí di marzo quando là mi trovai, a potare quella medesima vigna donde questi magliuoli erano venuti; e intrando in una gondoletta, come hanno d'usanza, per mare, e approdare e scendere appiè delle vigne, e portando un poco di vivanda per mangiare, e legando la gondoletta quando è sceso in terra; ed essendo d'usanza, per la quantità di molti lupi che sono in quel luogo, alcuna volta venire di quelli alla riva e lanciarsi nella barchetta e pascersi e di pane e di carne che truovono; cosí in questo di uno affamato lupo si lanciò in quella barchetta, la quale non essendo bene legata, subito essendo pinta dal lupo, si scostò dalla riva, e in poca d'ora fu per mare di lungi da terra messer lo lupo piú di trenta braccia. E 'l contadino, il quale era attento a potare la vigna, pur volgendosi, come spesso usano, verso il mare, vide la barchetta sua partita dalla riva e pigliar mare; e non scorgendo bene chi la menava, cominciò a gridare:

- O tu che meni la mia barca, torna alla riva che ti nasca il vermocane, che per lo sanghe de De ti farò appiccare alle forche basse.

E cosí gridando e strangolandosi e non veggendo tornare la barca indietro, ma dilungandosi piú tosto dalla proda, corse giú per la piaggia in verso il mare, e chiamando e guardando ben fiso, ebbe veduto il lupo nella barca. E vedutolo e fattosi il segno della croce, e gridato: “Soccorrete, soccorrete”, era tutt'uno. Tanto che di voce in voce il romore giunse a Portovenere, là dove la gente tutta cominciò a correre, chi con le balestra, e chi con la lancia, e chi con ispiedi; ed entrati in certi legni e navicando verso il romore, giunsono alla piaggia dove il contadino gridava; e domandandolo della cagione del romore, rispose:

- Vedé gran maraviglia che 'l lupo cozzí se ne va con la mia barchetta.

Costoro voltisi a quella, danno de' remi in acqua, e giunti intorno alla barca dove era il lupo, cominciano ad alte voce, tirando le balestra:

- In fé di Dio, messer lo luvo, vo' farrí il mal viaggio.

Gli atti che 'l lupo facea, veggendosi colto in mare, erano cosa maravigliosa; e costoro attorniatolo con loro legni e con le balestra cariche, comincioronlo a saettare, tanto che il lupo fu morto. Morto il lupo, levorono il contadino su la sua barca e fecionlo sedere sul lupo, e con gran festa nel menorono a Portovenere, facendosi ciascuno maraviglia di tal caso, godendo tutta la brigata insieme, mangiorono questo lupo. E maestro Ubertino di Fetto Ubertini in teologia, frate eremitano, in quello tempo, tornando da Genova, trovai in Portovenere, il quale, com'io, fu presente a tutte queste cose.

E veramente considerando questo caso, chi fia colui che sappia dove dee morire e come, pensando dove i lupi spesse volte son presi? E qual caso di morte piú nuovo che esser preso e morto un lupo, per aver messo la coda nel cocchiume d'una botte, grattandosi della rogna, o della stizza, come addietro nella novella è fatta menzione? E qual caso piú nuovo che essendo un lupo quell'animale ch'è, piú selvaggio e piú terreno e piú spaventevole e spezialmente perché egli è quella bestia che piú ha d'ardire a uccidere la natura umana, essersi condotto in un piccolo battello per mare a esser morto per questa forma? Io per me credo che quando queste cose intervengono ci sono mostrate per figura dall'eterno Dio, se noi le conoscessimo. E non sono affigurati i lupi a' tiranni? e qual tiranno è che possa vivere sicuro e guardisi, quantunche sa che il piú delle volte non sia colto a nuove tagliuole e in luogo dove l'uomo non lo penserebbe giammai? Ma ancora ci ha piú nuova cosa: che quelle pecorelle, le quali piú elli devorano, sono quelle che danno loro morte, come intervenne a questo lupo.

S'e' tiranni lupigni pensassino alla presente novella, piú tosto porterebbono vestigio e natura di pecorella che di lupo; ma la superbia e l'avarizia vuole che ciascuna città per li suoi peccati sia dilungata da' giusti pastori e soggiaccia sotto a' lupi rapaci, li quali sono nimici della justizia e amici della forza.

 

 

NOVELLA CLXXVIII

 

Giovanni Angiolieri, andando a vedere donne in Verona, percuote il piede in una pietra, e con empio animo col coltello voltosi verso lei, come fosse uomo la volea uccidere.

 

Non furono tanto fieri quelli di Portovenere a uccidere il lupo che navicava, quanto era fiero a volere uccidere una pietra Giovanni Angiolieri nostro fiorentino. Il quale trovandosi in Verona, ed essendo uno bell'uomo attempato, con Piero Pantaleoni, di simil età formoso, avendo le gorgiere intorno alla gola, come allora s'usava per li Fiorentini, e ancora avendo il detto Giovanni il coltello allato, disse a Piero se elli volea con lui andare a vagheggiare. Piero, che piacevole uomo era, fu subito presto, e disse:

- Andiamo.

E mossi che furono, giugnendo a uno scontrazzo di donne, e Giovanni, che lussurioso era molto, andando e guardando le donne, percosse in una pietra per forma che tutto fu che caduto in terra, e riaútosi che s'ebbe, tutto il guardare che facea verso le donne convertí contro alla pietra, con un fiero piglio pigliando con la mano le cornicella del coltello, dicendo:

- Per lo corpo di Cristo che se tu fussi uomo, come tu se' pietra, io ti ficcherei questo coltello infino alle cornicelle; e pur cosí cosí, non so a ch'io mi tenga ch'io nol faccio.

Piero che ciò vedea, con grandissime risa, dice:

- Doh, Giovanni, datti pace; queste sono cose che intervengono tutti dí al mondo.

Giovanni si volge a Piero, e risponde subito

- Deh, sia col nome del diavolo, se noi ci lasceremo cacare in capo.

A Piero parve questa una nuova novella, e assai gli fu fatica a temperare Giovanni che non volesse pur uccidere quella pietra. E via piú nuova parve a quelli uomeni e donne veronese che questo vidono; che senza questo caso erano uccellati quelli fiorentini che per lo mondo erano veduti in gorgiera; ed era scorto un volgare che dicea: - “O Lapo rico' quel danaio”.- Non ricogliere', se fosse un quattrino. Brievemente, Piero si tornò a casa col detto Giovanni il piú tosto che poteo, e ad animo riposato la sera ebbe Giovanni, e disse:

- Giovanni, tu vedesti oggi a quanta ira tu venisti per quel caso che ti occorse di quel sasso; e' non è gran fatto, come molti stimano, però che per Giovanni da Sasso i Fiorentini vennono poco tempo, come tu sai, a gran guerra co' Pisani, e fu pe' fatti di Pietrabuona. Sí che tu vedi e puoi conoscere che, come gran virtú è nelle pietre, cosí spesso v'è il contrario; però che una piccola pietra molte volte uccide un uomo, e 'l male della pietra è uno grandissimo male. Ma quello che mi pare gran cosa è che chi ha gli occhi s'acciechi elli stesso. Noi ci abbiamo questa nostra usanza di queste gorgiere, o doccioni da cesso che vogliamo dire; ne' quali tegnamo la gola sí incannata che noi non ci possiamo tenere mente a' piedi, e con questo siamo scherniti, come tu puoi vedere: abbiàn noi briga, se non con noi stessi? questa fatica a che ci diàn noi? E non ti dico delle bracciaiuole, che è assai nuova cosa, almeno a' forestieri, quando le veggono che ben possono dire che noi portiamo la gola nel doccione e 'l braccio nel tegolo. Lasciamo questa foggia a chi la vuole, e andiamo in forma che noi ci possiamo por mente a' piedi.

Giovanni, come ebbe udito Piero, subito dice:

- E cosí sia fatto.

E subito spogliatosi, si sfibbia la gorgiera, e dàlla a Piero, e dice:

- Nel primo fardello che farai, mandala a vendere a Firenze.

E cosí similmente Piero si digozzò; e in quelli dí infreddorono si della gola che non faceano altro che tossire, tanto che convenne facessono per piú mesi collaretti foderati, se vollono poter resistere al freddo che sosteneano per la levata gorgiera. E quando cominciorono a uscire fuori, e andare per Verona, a chi gli avea veduti in gorgiera parea una nuova cosa, e diceano:

- Guarda li Toscani che s'han levado la gorzera -; e molte altre cose.

E cosí rimase la cosa. E non fu ella al mondo sopra tutte le altre usanze maravigliosa questa della gorgiera? Di tutte l'altre che furono mai nel mondo, questa fu la piú strana e la piú noiosa. E racorda a me scrittore che io udi' dire a Salvestro Brunelleschi che essendo elli stato quasi sempre in Frioli, tornò a Firenze quando i suoi consorti aveano grandissima briga con una famiglia loro vicina, chiamata gli Agli; e tornando in quel tempo della Magna uno degli Agli chiamato Guernizo, o per lo nome, o perché fiero uomo tenuto fosse, tutti i Brunelleschi s'armarono per forma che a Salvestro fu messa la gorgiera; e in quella mattina, andando a desinare, e avendo una scodella di ceci innanzi, e pigliandoli col cucchiaio per metterseli in bocca, gli si misse giú per la gorgiera. Egli erano caldi; il collo e la gola il sentí per forma che elli disse:

- Io m'avea messa la gorgiera per paura del Guenize, ed ella m'ha arsa tutta la gola -; e levatosi da tavola, la si trasse e gittolla per lo spazzo, dicendo: - Io voglio innanzi esser morto da' miei inimici che uccidermi io stessi.

O quante usanze per la poca fermezza de' viventi sono ne' miei tempi mutate, e spezialmente nella mia città. Che fu a vedere già le donne col capezzale tanto aperto che mostravono piú giú che le ditelle! e poi dierono uno salto, e feciono il collaretto infino alli orecchi; e tutte sono usanze fuori del mezzo. Io scrittore non potrei contare per altrettanta scrittura, quanto tutto questo volume contiene, le usanze mutate ne' miei dí; ma come ch'elle si mutasseno spesso nella terra nostra, non era che nella maggiore parte dell'altre città del mondo elle non stessono ferme; però ch'e' Genovesi non aveano mai mutate le loro fogge, e' Viniziani mai, né Catelani mutavano le loro, e cosí medesimamente le loro donne; oggi mi pare che tutto il mondo è unito ad avere poca fermezza; però che gli uomeni e donne Fiorentini, Genovesi, Viniziani, Catelani, e tutta Cristianità vanno a uno modo, non conoscendosi l'uno dall'altro. E volesse Dio che vi stessono su fermi; ma egli è tutto il contrario, ché se uno arzagogo apparisse con una nuova foggia, tutto il mondo la piglia. Sí che per tutto il mondo, e spezialmente Italia è mutabile e corrente a pigliare le nuove fogge.

Che è a vedere le giovenette, che soleano andare con tanta onestà, avere tanto levata la foggia al cappuccio che n'hanno fatto berretta, e imberrettate, come le mondane vanno, portano al collo il guinzaglio, con diverse maniere di bestie appiccate al petto. Le maniche loro, o sacconi piú tosto si potrebbono chiamare, qual piú trista e piú dannosa e disutile foggia fu mai? pote nessuna tòrre o bicchiere o boccone di su la mensa che non imbratti e la manica e la tovaglia co' bicchieri ch'ella fa cadere? Cosí fanno i gioveni, e peggio che si fanno questi maniconi a' fanciulli che poppano. Le donne vanno in cappucci e mantelli. I piú de' gioveni sanza mantello vanno in zazzera. Elle non hanno se non a tòrre le brache, e hanno tolto tutto; elle sono sí piccole che agevolmente verrebbe loro fatto, però ch'egli hanno messo il culo in uno calcetto; e al polso danno un braccio di panno; mettono in uno guanto piú panno che in uno cappuccio.

D'una cosa mi conforto che ciascuno s'ha incatenare i piedi, seguendo cosí nell'altra persona. Forse serà fare penitenza ciascuno di tante cose vane; che si sta un dí in questo mondo, e in quello si mutano mille fogge e ciascuno cerca libertà, ed elli stesso se la toglie. Ha fatto il nostro Signore il piè libero; e molti con una punta lunghissima non possono andare. Fece le gambe a gangheri, e molti con lacci se l'hanno sí incannate che appena si possono porre a sedere; lo 'mbusto è tutto in istrettoie, le braccia con lo strascinío del panno, il collo asserragliato da' cappuccini; il capo arrandellato con le cuffie in su la zazzera di notte che tutto il dí poi la testa par segata. E cosí non si finirebbe mai di dire delle donne, guardando allo smisurato traino de' piedi, e andando infino al capo; dove tutto dí su per li tetti, chi l'increspa, e chi l'appiana, e chi l'imbianca, tantoche spesso di catarro si muoiono.

O vanagloria dell'umane posse , che per te si perde la vera gloria. E di questo piú non vo' parlare; però ch'io mi avvilupperei ne' fatti loro, e dell'altre cose non potrei parlare.

 

 

NOVELLA CLXXIX

 

Due donne, di due conti Guidi moglie, si mordono con due maleficiosi detti, mossi per parte guelfa e ghibellina.

 

Perché io in parte di sopra ho parlato della vanità feminile, mi viene a memoria di dire una novella di due donne le quali, con acutissimo ingegno e maleficio di parole, l'una verso l'altra cominciò, e come l'altra sagacemente rispose.

Fu, non è gran tempo, in casa conti Guidi maritate due donne; l'una fu figliuola del conte Ugolino della Gherardesca, il quale i Pisani feciono morire di fame co' suoi figliuoli; l'altra fu figliuola di Buonconte da Montefeltro, uomo quasi capo di parte Ghibellina, e che era, o egli o' suoi, stato sconfitto con gli Aretini da' Fiorentini a Certomondo. Avvenne adunque per caso che del mese di marzo queste due donne, andando a sollazzo verso il castello di Poppi e giugnendo in quel luogo a Certomondo, dove i Fiorentini aveano data la detta sconfitta, la figliuola del conte Ugolino si volse alla compagna e disse:

- O madonna tale, guardate quanto è bello questo grano, e questo biado, dove furono sconfitti i Ghibellini da' Fiorentini; son certa che 'l terreno sente ancora di quella grassezza.

Quella di Buonconte subito rispose:

- Ben è bello; ma noi potremo morire prima di fame che fosse da mangiare.

La buona donna che cominciò a trafiggere, sentendosi cosí mordere, fece vista di non s'avvedere delle velenose parole, e andorono per loro viaggio. Ora che diremo dello ingegno della malizia feminina? Piú aguto hanno l'intelletto, e piú subito e a fare e a dire il male, [e piú] assai che gli uomeni sono fatte parziali; che al buon tempo elle averebbono ripresi e' mariti loro, oggi li confortono a combattere per parte.

E per questo da loro è disceso assai male nel mondo, e discenderanne, se Dio per sua providenza non dispone gli animi a meglio che vedere si possa.

 

 

NOVELLA CLXXX

 

Messer Giovanni de' Medici balestra con una artificiosa parola Attaviano degli Ubaldini, il quale con quello strale la rende a lui.

 

Non fu meno velenosa risposta quella che fece su la piazza de' nostri Signori Attaviano di messer Aghinardo degli Ubaldini a messer Giovanni di Conte de' Medici. Il quale Attaviano, essendo stato in Firenze dappoi che 'l padre era stato preso, e dato ha Monte Colereto e tutto il suo al Comune di Firenze, avea preso quasi forma, come gli altri cittadini, d'andare e a' priori la mattina ch'egli entravono, ed eziandio a' gonfaloni. E fra l'altre volte una mattina a dí otto di gennaio, dandosi i gonfaloni, se n'andò a casa del Gonfaloniere con brigata, come faceano gli altri cittadini, e poi con tutta la brigata seguí il Gonfaloniere insino in su la piazza; e lasciatolo alla ringhiera, ne venne in Vacchereccia con quelli cavalieri che v'erano, e spezialmente con messer Giovanni di Conte là si puose a sedere. Ed è vero che poco tempo innanzi del MCCCLX era stato uno trattato in Firenze di molti cittadini, e furonne due dicapitati; il qual trattato nell'effetto era di cacciare alcune famiglie; e in questo fu Bartolommeo di messer Alamanno de' Medici; e ancora tra' Medici e gli Ubaldini non fu mai né pace né buona volontà. Ora venendo al fatto, standosi cosí a sedere messer Giovanni col detto Ottaviano, incominciò a dire:

- Deh, Ottaviano, chi averebbe mai creduto che gli Ubaldini fosseno venuti in tal mattina accompagnare i gonfaloni in questa nostra città?

E Ottaviano subito rispose:

- Allora si serebbe creduto questo, che si serebbe creduto che i Medici avesseno voluto sovvertere il popolo di Firenze.

Messer Giovanni ammutolò per forma che non disse piú verbo.

E però non si potrebbe essere troppo cauto in pensare quello che l'uomo comincia a dire; però che le parole conducono spesse volte gli uomeni nel lecceto in forma che chi ha mosso riceve parole che sono peggio che spontonate. A molti è già nociuto il favellare; il tacere mai non nocque ad alcuno.

 

 

 

NOVELLA CLXXXI

 

Messer Giovanni Augut a due frati minori, che dicono che Dio gli dia pace, fa una subita e piacevole risposta.

 

Quella che fece messer Giovanni Augut a due frati minori fu assai piacevole risposta; i quali frati, andando a lui per alcun loro bisogno a uno suo castello, laddove egli era, chiamato Montecchio, quasi uno miglio di qua da Cortona, e giugnendo dinanzi alla sua presenza, come di loro usanza, dissono:

- Monsignore, Dio vi dia pace.

E quelli subito risponde:

- Dio vi tolga la vostra elemosina.

Li frati, quasi spaventati, dissono:

- Signore, perché ci dite voi cosí?

Disse messer Giovanni:

- Anzi voi perché dite voi cosí a me?

Dissono i frati:

- Noi credevamo dire bene.

E messer Giovanni rispose:

- Come credete dir bene che venite a me, e dite che Dio mi facci morir di fame? non sapete voi che io vivo di guerra, e la pace mi disfarebbe? e cosí come io vivo di guerra, cosí voi vivete di lemosina; sí che la risposta che io v'ho fatta è stata simile alla vostra salutazione.

I frati si strinsono nelle spalle, e dissono:

- Signore, voi avete ragione; perdonateci, ché noi siamo gente grossa.

E fatta alcun'altra faccenda che aveano a fare con lui si partirono e tornorono al convento di Castiglione Aretino, e la contorono questa per una bella e nuova novella, spezialmente per messer Giovanni Augut, ma non per chi averebbe voluto stare in pace. E per certo e' fu quell'uomo che piú durò in arme in Italia che altro durasse mai, ché durò anni sessanta, e ogni terra quasi gli era tributaria; ed elli ben seppe fare, sí che poca pace fu in Italia ne' suoi tempi. E guai a quelli uomeni e populi che troppo credono a' suoi pari, però che populi e' comuni e tutte le città vivono e accrescono della pace, ed eglino vivono e accrescono della guerra, la quale è disfacimento delle città, e struggonsi e vengon meno. In loro non è né amore, né fede. Peggio fanno spesse volte a chi dà loro i soldi, che non fanno a' soldati dell'altra parte; però che, benché mostrino di voler pugnare e combattere l'uno contro all'altro, maggior bene si vogliono insieme che non vogliono a quelli che gli hanno condotti alli loro soldi; e par che dicano: ruba di costà, che io ruberò ben di qua. Non se n'avveggono le pecorelle che tutto dí con malizia di questi tali sono indotte a far guerra, la quale è quella cosa che ne' popoli non può gittare altro che pessima ragione. E per qual cagione sono sottomesse tante città in Italia a signore, le quali erano libere? Per qual cagione è la Puglia nello stato ch'ella è, e la Cicilia? E la guerra di Padova e di Verona ove le condusse, e molte altre città, le quali oggi sono triste ville?

O miseri adunque quelli pochi, che pochi sono, che vivono liberi: non credano alli inganni della gente dell'arme; stiano in pace, e innanzi siano villaneggiati due o tre volte, che si movano a far guerra; però che la si comincia agevolmente, e balestra in parte che nessuno il crede, e 'l suo male non si può emendare per fretta.

 

 

NOVELLA CLXXXII

 

Messer Ridolfo da Camerino, essendo invitato di combattere a corpo a corpo, con una piacevole risposta il fa conoscente.

 

Ancora non voglio lasciare una risposta di messer Ridolfo da Camerino. E’ sono molti già stati che avendo invidia, odio o nimistà, o guerra, con uno signore d'assai, hanno pensato e sottigliezze e astuzie come con piccol costo potessono vituperare quel tal signore. Fu adunque uno signorello nella Marca o di Matelica, o di Macerata, potrei errare, il quale non possendo resistere agli assalti di messer Ridolfo, gli venne un pensiero di mandarlo a richiedere di combattere a corpo a corpo, immaginando: messer Ridolfo non vorrà combattere e rimarrà vituperato. E preso un suo ambasciadore, gli commise l'ambasciata. E avuto il salvocondotto, andò alla presenza di messer Ridolfo; il qual giunto a lui, disse:

- Il tal signore per ogni modo che può, vi sfida, e vuole combattere con voi; eleggete il campo e 'l dí, ed elli è presto.

Messer Ridolfo guarda costui, e sghignando chiamò un suo famiglio, e disse:

- Va', reca da bere a costui delle buone novelle, ché par che 'l tal signore, nostro nimico, di signore sia fatto medico.

E piú oltre non disse, tanto che l'ambasciadore ebbe bevuto: beúto che ebbe, disse messer Ridolfo:

- Tu sie il ben venuto; le tue parole aio intese; torna al tuo signore e di': “E’ dice Redulfo che tu lo sfidi, che non credea che tu fossi fatto medico; poiché vede che ci sei medico, ogni volta che gli verrà febbre o altro difetto nella persona, egli ti manderà l'orina”.

L'ambasciadore quasi intronò di questa risposta, e disse:

- Signore, volete che io dica altro?

E messer Ridolfo disse:

- Io ho detto assai, se lo saprà intendere.

Partesi l'ambasciadore e tornò al suo signore con questa risposta. Come quello signore l'udí, se prima gli portava odio, gliene portò poi molto piú; e ancora dicea in se medesimo: “E’ mi sta molto bene; io mando sfidando, e s'egli avesse voluto combattere, io non so se io mi vi fosse condotto; e' m'ha dato la risposta che io meritava”. E da questa ora innanzi sempre cercò d'esser suo amico.

Assai ne sono stati che sanza fare alcuna comparazione, richiederanno di combattere con uno a corpo a corpo, e Dio il sa come verrebbono agli effetti. Ma questa battaglia è lecito ad ogni savio uomo di schifarla.

 

 

NOVELLA CLXXXIII

 

Gallina Attaviani dà un bel mangiare a uno forestieri, credendo sia gran maestro d'una arte, e mangiato, truova il contrario; di che s'ha perduta spesa, e rimane scornato.

 

Ora lascerò le subite risposte e verrò a dire d'alcun nuovo avviso fatto per un nostro fiorentino, il quale ebbe nome Gallina Attaviani. Fu costui orafo in Porta Santa Maria, e continuo, come fanno, scolpiva suoi intagli dentro allo sportello.

Era per ventura in quel tempo venuto a Firenze, per andare a Roma, uno Rinaldo da Monpolieri, il quale, uscendo la mattina dall'albergo de' Macci, ove tornava, andava in Orto San Michele a udire messa o a vedere Nostra Donna; e poi andava in Mercato Nuovo, distendendosi per Porta Santa Maria, là dove avea preso per uso di posarsi e d'appoggiarsi allo sportello del Gallina, e là, sanza dire alcuna cosa, guardava e considerava lo 'ntagliare del Gallina. E continuando questo piú volte in diversi dí, al Gallina venne in pensiero costui dovere essere uno grandissimo maestro d'intagli. E avvisandosi quasi fosse Pulicreto, una mattina, sanza sapere altro, gli disse:

- Gentiluomo, io vi prego che domattina voi desiniate meco.

Rinaldo disse piú volte:

- Gran mercè -; non bisognava; e che sempre era con lui, ecc.

Allora il Gallina piú infiammava, e tanto gli disse ch'egli accettò lo 'nvito. La fortuna fu favorevole al Gallina, acciò che potesse fare piú magna spesa; egli era di quaresima, e al Ponte avea storioni e lamprede. Egli andò e invitò certi suoi vicini gentiluomeni e de' Bardi, e de' Rossi, e fece uno mangiare di quattro taglieri bellissimo. Venuta l'altra mattina, e Rinaldo s'appresentò alla bottega del Gallina, e andarono a desinare; là dove, com'è d'usanza, tutti facevono reverenzia al forestiere, e domandavono el Gallina chi egli era. E 'l Gallina dicea che nol sapea, ma che gli parea comprendere ch'egli era un gran maestro d'intagli e innanzi ch'egli uscisse da tavola, egli il domanderebbe che mestiere era il suo. E cosí mangiando, avendo desinato, e venendo l'acqua alle mani, el Gallina dice:

- Voi dovete essere un gran maestro a Monpolieri; deh ditemi, se Dio vi guardi: che arte o che mestiere è 'l vostro?

Rinaldo risponde:

- Fra' mio, son concagador di boccali.

Dice il Gallina:

- Che dite voi che siete?

Rinaldo dice:

- Son concagador di boccali; noi chiamiamo concagare quello che voi vedete vi si dipigne su, e boccali quelli che voi chiamate orciuoli.

Quando il Gallina intese tutto, disse fra sé stesso: “Buona spesa ho fatta; se io fo l'altre a questo modo, io potrò tosto lavorare vasi di terra, come costui, e lasciare stare quelli dell'ariento”. Gli altri che erano a desinare scoppiavano di voglia che avevano di ridere; e levatisi da mensa, Guerrieri de' Rossi, che era al desinare stato, pigliò il Gallina per la mano da parte, e dissegli:

- E’ t'è venuto istamane la maggior ventura che io vedesse mai venire a uomo del mondo, sí che sia contento della spesa che hai fatta, come che costui sia concagadore di boccali. Tu hai nome Gallina, e costui ha nome Rinaldo; quando fu mai che la volpe potesse appressarsi alla gallina ch'ella non se la manicasse? hatti aiutato la fortuna che gli mettesti dell'altre vivande assai innanzi, di che tu se' campato; spiccati da lui il piú tosto che puoi, e lascialo concagare i boccali.

Dice il Gallina:

- Guerrieri, tu motteggi sempre; io me n'ho una mia una.

E Guerrieri rispose:

- E io me n'ho un'altra, che quella lampreda fu la miglior cosa che io manicasse anche.

E cosí alla piazza a Ponte si rise piú tempo di questa novella; e Rinaldo e 'l Gallina se n'andorono verso la bottega, e indi a pochi dí Rinaldo si tornò a Monpolieri a concagare i boccali.

 

 

 

NOVELLA CLXXXIV

 

Uno Piovano, giucando a scacchi, vincendo il compagno, suona a martello, per mostrare a chi trae, come ha dato scaccomatto; e quando gli arde la casa, niuno vi trae.

 

A San Giovanni in Soana in Valdipesa fu già uno piovano molto piacevole uomo e grande giucatore a scacchi, e spesse volte giucava per spassare tempo alla sua pieve con uno gentiluomo de' Giandonati, e dicendo molte cose su lo scacchiere, come sempre fanno li giucatori delli scacchi, ed essendo venuto la cosa in gara: - Io ti darò scaccomatto. - Non farai. - Sí farò -; il piovano o che ne sapesse piú, o come si fosse, delle sei volte le cinque gli dava scaccomatto. E quello de' Giandonati, non che si confessasse averlo aúto, ma spesse volte dicea averlo dato a lui.

Avvenne per caso che un dí fra gli altri, giucando e terminandosi il giuoco, il prete si recava a darli scaccomatto. Colui dicea di no. E 'l piovano dice:

- Io tel darò nel mezzo dello scacchiere.

- Che darai? non farai; io il darò a voi.

Eccoti aúto scaccomatto dal piovano in mezzo dello scacchiere, e non lo volea consentire. Il piovano, veggendo questo, corre alle campane e suona a martello. Come il popolo sente sonare, ognuno trae. Giunti alla pieve, fannosi al piovano:

- Che è? che è?

Dice il piovano:

- Voglio che voi il veggiate e siate testimoni che io gli ho dato scaccomatto in mezzo dello scacchiere.

I contadini cominciono a ridere; e dicono:

- Messer lo piovano, fateci pur scioperare, - e vannosi con Dio.

E cosí sta per spazio d'uno mese che poi interviene un'altra volta questo caso; e 'l piovano suona a martello. La gente trae, ma non tanti quanti la prima volta. E 'l piovano mostra loro come gli ha dato scaccomatto in mezzo dello scacchiere. I contadini si cominciano a scornare e dolere, dicendo:

- Voi la potrete ben sonare che noi ci vegnamo piú.

E da questo vogliono dire alcuni che venisse il motto che dice: “Tu la potrai ben sonare”. Il piovano disse avesseno pazienza, però che meritavano a venire a trarre un uomo del suo errore. I contadini diceano:

- Noi non sappiamo che errore, sappiamo bene che tra la prima volta e questa, noi siamo scioperati una opera per uno.

E 'l piovano disse:

- Voi sapete che nella morte di Cristo disse Caifas: “E’ conviene che uno uomo muoia per lo popolo, anzi che tutta la moltitudine perisca”; e io dico a voi ch'egli è di necessità che tutti abbiate un poco di fatica, acciò che costui esca del suo errore; or non siano piú parole; se ci volete venire, ci venite, e se no, sí vi state -. E quasi brontolando si partirono.

Avvenne per caso, come spesso incontra, ed è piacere di Dio, che da ivi a due mesi, volendo una femina di questo piovano fare bucato, s'apprese il fuoco nella sua casa in cucina; e fu su la compieta; di che subito il piovano suona la campana a martello. I contadini erano per li campi, chi con vanga e chi con marra, essendo già l'ora d'uscire d'opera; chi si getta la vanga e chi la marra in collo e vannosene verso le loro case, dicendo:

- El prete la potrà ben sonare; se giuoca a scacchi, ed elli si giuochi; meglio serebbe che egli attendesse a dire l'ore e gli altri beneficii.

E cosí non si curando costoro del sonare a martello, la casa in gran parte arse. La mattina vegnente, come la voce va per lo popolo, si dice la casa del piovano essere arsa; chi si duole, e chi dice:

- Ben gli sta.

Vénnonne una gran brigata verso la chiesa, dove il piovano stava tristo e afflitto, e dice a costoro:

- Io l'ho ben potuta sonare acca per traverso; sonala ben che Dio t'aí, che io ho la mala pasqua, bontà di voi che non mi avete soccorso.

Allora quelli che v'erano, tutti a una voce dissono:

- Noi credevamo che voi giucassi a scacchi.

Il piovano rispose:

- Io giucava ben ora a scacchi col fuoco; ma elli m'ha dato scaccomatto e hammi diserto.

Certi de' contadini risposono:

- E voi ci allegasti l'altro dí Caifas che disse cha era di bisogno che uno perisse per lo popolo, anzi che perisse tutta l'umana generazione; fate ragione che noi abbiamo seguita questa profezia, non che voi siate morto per lo popolo, ma che voi abbiate aúto una disciplina o una gastigatoia, anzi che 'l popolo vostro perisca, ché ogni dí ci facciavate correre qui come smemorati.

Dice il piovano:

- Io credo che voi diciate il vero e allegate molto bene; e 'l riso degli scacchi m'è convertito in pianto. Io saprò oggimai che mi fare, e serrerò la stalla, poi che io ho perduto i buoi.

 

 

NOVELLA CLXXXV

 

Pero Foraboschi truova in un'oca cotta un capo di gatta, e quello perché gli fu fatto, e quello che gli avviene.

 

Pochi anni sono passati che in Firenze fu un gentiluomo chiamato Pero Foraboschi, il quale, essendo antico d'anni e avendo del nuovo, tornando di Valdarno verso Firenze e arrivando a Cascia, fu invitato del mese d'ottobre, quasi in fine, a bere là con uno contadino; il quale accettando l'invito, gli furono recate castagne secche, per sí fatto modo che togliendone Pero parecchie in mano, e cominciando a volerne mangiare una, tra ch'egli avea pochi denti e cattivi e la castagna era dura come pietra, e' non vi fu modo che e' non se la cavasse di bocca e rimettessela in mano, e ripresene un'altra la quale in simil forma non si macerò mai; e provando or l'una or l'altra, tutte le provò e in mano se le ritolse, sanza poterle domare. E cosí avendole in mano, pigliò commiato; e venendo verso Firenze, giammai non le dimorsò, che sempre tra via or l'una or l'altra si metteva in bocca, e quanto piú le biasciava e rugrumava, piú induravano. A questo modo giunse questo Pero a Firenze, là dove giugnendo, uno Bartolozzo speziale che stava in su quel canto de' Figliuo'petri, assai piacevole persona e nuovo uomo, gli si fa incontro, e salutando il piglia per la mano, e sceso da cavallo, lo invitò a bere. Pero disse:

- Lasciami rimettere il ronzino in casa, e io ne vengo -; e mostragli le castagne e dice: - E anco ho l'esca da me.

Disse Bartolozzo:

- Io me ne vo innanzi, vienne a tuo agio.

Rimesso il ronzino nella stalla, Pero se n'andò a bere con Bartolozzo; dove essendovi degli altri vicini, e Pero porse la mano delle castagne alla brigata. E togliendone ciascuno, o che le castagne fossono intenerite o che uno di loro avesse migliori denti che Pero, disse:

- O elle son vincide.

E Pero rispose:

- Elle possono ben essere vincide, che io l'ho recate in bocca da Cascia in qua.

La brigata si volge e sputano quelle tante che aveano in bocca; e Bartolozzo dice:

- Come diavolo l'hai recate in bocca?

Pero grosso raffermò la faccenda; e gli altri si guatorono insieme e spaccioronsi di bere e andoronsi con Dio. Bartolozzo, tornando alla bottega, fra sé stesso si dolea dicendo: “Io fo onore a Pero, ed elli mi fa villania dogli del migliore vino ch'io ho, ed elli m'ha dato della lava sua: non sia io mai uomo, se io non gnene fo una piú sucida a lui”.

Avvenne per caso che la fortuna da indi a pochi dí fu favorevole al desiderio suo, però che, venendo la vilia d'Ognissanti, e Pero, o che li fosse stata donata, o che avesse comprata una grassissima oca pelata, disse a uno contadino che era con lui:

- Va' e portala alla bottega di Bartolozzo speziale, e di' che me la serbi.

E 'l contadino cosí fece. Come Bartolozzo vide questa, disse a uno fanciullo della bottega:

- Va', riponla.

E pensando in che modo ne potesse fare una a Pero, andandosene a desinare, ebbe veduto una gatta morta presso all'uscio suo e occultamente a uno fanciullo se la fece tirare in casa; e fatto questo, tagliò il capo della gatta e l'imbusto fece gittare segretamente fuori.

Desinato che ebbe, portò il capo della gatta sotto il mantello alla bottega, e veduto tempo che segreta potesse fare la faccenda, tolse l'oca di Pero, la quale non era ancora mossa dalla bottega; e sparata che l'ebbe e cavato ciò che dentro avea, vi misse il capo della detta gatta, e cuscitolo dentro, la rappiccò donde spiccata l'avea.

Non fece Bartolozzo questo per lo fine a che venne poi, però che s'avvisoe che mandando Pero per l'oca, e facendola aprire per mettervi o agli o mele cotogne, trovasse in iscambio delle cose dentro dell'oca, la testa della gatta; e di questo vedesse la novità che ne seguisse. Ma la fortuna volle che la cosa andasse piú oltre e in altra forma. Però che mandando Pero per la detta oca, e per avventura essendo in quel dí venuta a stare una fante con lui che avea nome Cecca, la quale, non essendo mai stata con altrui, dicea saper ben fare ogni cucina, non essendosi mai partita da Baragazza, dond'ella era, se non allora che venne a Firenze, e alla prima casa che arrivò, fu a casa Pero Foraboschi; credendo Pero che questa fosse figliuola di Pellino, disse che acconciasse quell'oca e portassela al forno. Costei, vedendola sparata e ricucita, avvisossi ch'ella fosse acconcia d'ogni cosa che bisognava; e tolto uno tegame e acconciala dentro, la portò al forno. Venuta la sera d'Ognissanti, e la Cecca andata per l'oca, e Pero e la sua famiglia essendo a tavola, facendo venire la detta oca, come la vide cosí rilevata nel corpo, disse:

- Per certo bene è riuscita quest'oca bella e grassa, com'io credea; guarda quant'ella è piena -; e recasela innanzi, e col coltello in mano la cominciò a spolpare e a mangiare.

Quando le parti di sopra furono quasi mangiate, e Pero comincia a entrare nel groppone; là dove aprendo da parte di drieto, parve che s'aprisse uno cimitero; e a un tratto giugnendo il puzzo al naso e agli occhi il capo della gatta incostricciato e digrignante che parea un teschio, Pero quasi smemorato, segnandosi e levandosi da tavola, dice:

- Che mala ventura è questa?

La donna sua sbigottita conforta Pero, e pensa quella essere una malía, dicendoli che si boti di porre una immagine alla Nunziata s'ella gli fa grazia che rimanga libero di tale accidente. Pero dice:

- E cosí la prego e cosí prometto.

E levatosi la cosa dinanzi e gittata via, come si dee credere, la notte quasi non dormí, lamentandosi di quello che avea mangiato. E pensando tutta notte sopra a ciò, la mattina vegnente andò investigando chi fossono quelli che gli aveano venduta quell'oca, o a lui, o al notaio della Grascia dov'egli era officiale, il quale si crede veramente che gli la donasse, come ancora oggi si fa. Donde ch'ella venisse, Pero consumò quasi tutta la mattina de' Morti e per paura della malía, e per ogni altra cagione, in andare investigando, e chi l'avesse venduta, e ancora Bartolozzo che l'avea serbata, se potesse trovare chi avesse messo il capo della gatta dentro all'oca. E non potendone alcuna cosa trovare per fuggire il pericolo di che dubitava, si tornò a casa, e 'l dí tre di novembre s'andò in Orto San Michele, facendosi fare di cera; e dopo alquanti dí compiuta la immagine, la fece portare alla chiesa de' Servi, e là alla Nunziata la presentò.

La quale poi fu messa a' ballatoi del legname che sono di sopra; e insino al dí d'oggi si vede, ch'ella somiglia propio Pero Foraboschi.

Or cosí intervenne a Pero, per dire che avea recate le castagne in bocca da Cascia in qua, che furono due stoltizie: l'una recare parecchie castagne da Cascia, e l'altra dire che l'avea macerate in bocca; di che a lui fu messo a macerare il capo della gatta nel culo dell'oca; ed elli ne diventò di cera, appresentandosi a' Servi. E per recare per miseria sei castagnuzze da Cascia, gli venne comprata l'una piú di venti soldi. E cosí l'avaro molto spesso spende piú che 'l largo, come nel mondo tutto dí interviene.

 

 

NOVELLA CLXXXVI

 

 

Messer Filippo Cavalcanti calonaco di Firenze credendo avere la sera d'Ognissanti una sua oca cotta, per nuovo modo gli è tolta.

 

Una novella d'un'altr'oca mi viene a memoria di raccontare, la quale, con gran diligenza essendo piena, non di capo di gatta ma d'allodole e d'altri uccelletti grassi, venne alle mani di certi che se l'ebbono, come la fu cotta; e colui, di cui l'era, si stette alla musa la sera d'Ognissanti. Non è molti anni che in Firenze in Porta del duomo furono certi gioveni, li quali si pensarono tra loro di fare uno Ognissanti, sanza fatica e sanza costo, alle spese altrui. E avviatisi la sera d'Ognissanti a certi forni, tolsono alcune oche a' fanti e alle fanti che le portavono a casa. E giugnendo molto tardi al forno della piazza de' Bonizi, stando di fuori assai nascosi, veníeno i servi al forno, e diceano:

- Dammi l'oca del tale de' Ricci.

Quando udivano dire de' Ricci, diceano:

- Questa non è l'oca nostra -; se diceano de' Medici, o degli Adimari, diceano il simile.

Avvenne che uno fante bergamasco giugne e dice:

- Dammi l'oca di messer Filippo Cavalcanti - (che era calonaco di Santa Reparata).

La brigata dice l'uno all'altro:

- O questa è l'oca nostra.

E aúto che 'l fante ebbe la detta oca nel tegame, come è consuetudine, s'avviò d'andare a casa messer Filippo con essa, che stava in quella via appiè del campanile; dove sempre v'era taverna, e luogo assai oscuro. Come i gioveni vidono mosso l'amico, cosí gli s'inviano dirieto; e giugnendo il fante all'uscio che era serrato, come cominciò a picchiare, e due s'accostaro; l'uno dà d'uncico all'oca, e l'altro il tiene dirieto, e lasciatolo, e fuggendo tutti come cavriuoli, fu tutt'uno. Il fante comincia a chiamare messer Filippo con alta boce, ché ancora non avea aperto:

- O messer Filippo, l'oca sen va, o messer Filippo, l'oca sen va.

Messer Filippo ciò udendo, si muove dicendo:

- Come sen va l'oca, che sie mort'a ghiado? non è ella morta, e cotta?

E 'l fante spesseggiava:

- Io vi dico ch'ella sen va, venite tosto.

- Come sen va, che sia tagliato a pezzi? è ella viva? - e con questo giugne all'uscio, e apre.

E 'l fante dice:

- Oimè, messere, certi ghiottoni m'hanno rubato l'oca.

Dice messer Filippo:

- O non potevi tu dire: l'oca m'è tolta? che sia impiccato, come seranno ellino.

E cosí detto, andò ben cento passi gridando:

- Pigliate i ladri.

Trassono fuori de' vicini.

- Che è, che è?

Ed e' risponde:

- Come diavol: “che è?”; èmmi stata tolta l'oca che venía dal forno.

Dice il fante:

- Voi dite villania a me, perché io dicea che l'oca se n'andava; e voi dite ch'ella venía dal forno; o come venía, s'ell'era morta, e non era viva?

Messer Filippo guata costui, e dice:

- O questo è ben peggio che 'l fante vuole loicare meco, quando s'ha lasciato tòr l'oca: va', fa' che noi abbiamo degli agli a cena, che Dio ti dia il malanno e la mala pasqua.

Alcuni vicini che scoppiavono al buio, diceano:

- O messer Filippo, pazienzia.

E quelli rispondea:

- Come pazienzia? che è cosa da rinnegare la fede!

L'altro dicea:

- Volete cenar meco?

Egli era sí infiammato che non udía e non intendea; avea l'animo a quelli uccelletti che erano nell'oca che l'aiutorono a volare; e poi se n'andò in casa, e tutta sera gridò col fante, e ancora dicea:

- S'io posso sapere chi me l'ha tolta, mai non vederà oca che di quella non gli venga puzzo.

Elle furono parole: e' convenne che facesse sanza l'oca, e mangiasse altro; e molto stette che pace non se ne diede.

E perché dice: “Una pensa il ghiotto, e l'altra il tavernaio”. E la pazienza dicono che noi seguiamo, e per loro poco o niente la vogliono.-

 

 

 

NOVELLA CLXXXVII

 

A messer Dolcibene si dà mangiare una gatta per scherno: dopo certo tempo elli dà a mangiare sorgi a chi gli dié la gatta.

 

Molto fanno ridere queste beffe gli uditori, ma molto piú dilettano quelle, quando il beffatore dal beffato riceve le beffe, come in questa si dimostrerrà. Ciascuno puote avere inteso per certe novelle passate chi fu messer Dolcibene. Costui fu invitato a mangiare una volta dal piovano della Tosa, il quale tenea Santo Stefano in Pane, dicendo ch'egli avea un coniglio in crosta. E a questo mangiare vi fu el Baccello della Tosa, e alcun altro che sapea il fatto. E questa si era una gatta, la quale era venuta alle mani del piovano, e messer Dolcibene n'era schifo. Essendo adunque il piovano, messer Dolcibene e altri, fra l'altre vivande recandosi la crosta della gattaconiglio, ella fu sí buona che messer Dolcibene ne mangiò piú che niuno. Come la crosta fu mangiata, e 'l piovano con gli altri cominciano a chiamare: “muscia”; e chi miagolava, come fa la gatta.

Messer Dolcibene, veggendo questo, imbiancòe, come il piú de' buffoni fanno, e temperossi, dicendo:

- Ell'è stata molto buona -; per non gli fare lieti, e per render loro, come vedesse il bello, pan per cofaccia.

Giammai non gli uscí questo fatto della mente, fin a tanto che venendo la figliatura delli stornelli, de' quali era molto copioso a un suo podere in Valdimarina, e in quello tempo provvide di pigliare con trappole e con altri ingegni in un suo granaio parecchi sorgi, acciò che gli avesse presti e ordinò con un suo fante che una gabbiata di stornelli gioveni, mescolatovi alcuno pippione, recasse dopo desinare quando lo vedesse col piovano al Frascato, e paresse gli portasse in mercato a vendere, dicendo con lui: “Per quanto volete voi che io gli dia?”

Conoscea messer Dolcibene la natura del piovano e del Baccello, che come gli vedessono, cosí dicessono: “Tu non ci dài mai mangiare di queste tue uccellagioni”, e che gli chiederebbono cena.

E cosí proprio intervenne; che giunto il fante, il piovano piglia la gabbia, e disse non renderlila, se non desse loro cena. Di che messer Dolcibene acconsentí, e fessi dare la gabbia, e andonne a mettere in ordine la cena. E giunto a casa, tolse due pippioni e otto sorgi, i quali acconciò per fare una crosta, levando i capi, e le gambe, e' piedi, e le code, arrocchiandogli per mezzo, sí che nella crosta pareano proprii stornelli; e mescolò due pippioni a quarti tra essi, e della carne insalata, e fece fare la crosta; e 'l fante mandò a vendere l'avanzo.

Giunta l'ora della cena, la brigata s'appresentò a casa messer Dolcibene. Come li vide, disse:

- Voi non manicherete istasera se non della gabbiata che toglieste, sí che non sperat'altro.

E cosí di motto in motto se n'andorono a mensa. E venendo la crostata, dice il piovano:

- Aveteci voi messo alcuno pollastro dentro?

E messer Dolcibene disse:

- La colombaia mia non ne fa; io n'ho fatta una crosta di pippioni e stornelli.

Dice il piovano:

- O da che sono li stornelli? elle son bene delle cene vostre.

Dice messer Dolcibene:

- Io ne mangio tutto l'anno, e sono molto buoni.

Dice il Baccello:

- Sí manichereste voi topi, non vi costass'elli.

E cosí vennono a cavare la vivanda della crosta; e 'l primo che assaggiò di quei topistornelli, fu il piovano, e disse:

- E’ son migliori che io non credea.

Messer Dolcibene s'era messo in coda, che non poteano ben vedere il suo mangiare, e toccava spesso il tagliere, ma poco se ne mettea in bocca, se non un poco di carne salata, facendo di pane gran bocconi. Quando la crosta fu mangiata, sanza fare rilievo di topi, venuta l'acqua alle mani, disse messer Dolcibene:

- Fratelli carissimi, io v'ho dato cena istasera, e convennemi cacciare, e non sanza gran fatica, però che ogni ingegno e arte ci misi per spazio d'uno dí e una notte, acciò che voi stessi bene. Ben vorrei che la cacciagione fosse stata di maggiore bestie, come sete voi; ma piacque alla fortuna, che balestra spesso dove si conviene, che furono topi; i quali da lei messi nelle mie mani, parve che io dovesse dire “Non ti ricordi tu della gatta ch'e' tuo' amici ti dierono a mangiare? va', e rendi loro quello che meritano”; e brievemente per suo consiglio feci fare la crosta, dove tutti quelli che mangiasti per stornelli, furono topi. Se vi sono paruti buoni, sonne contento; se non fossono stati buoni, reputatelo alla fortuna ché di buon grano sono stati notricati, tanto che me n'hanno roso parecchie staia.

Come il piovano e gli altri udirono questo, diventorono che parvono interriati, dicendo quasi con boce sbalordita:

- Che di' tu Dolcibene?

- Dico che furono topi, e la vostra fu gatta: cosí nel mondo spesso si baratta.

Poco poterono rispondere a messer Dolcibene a ragione, che non gli confondesse; però ch'egli avevono cominciato. E dee ciascuno che vive in questo mondo, recarsi a quella vera legge che chi la seguisse mai non errerebbe, cioè: non fare altrui quello che non vorreste fosse fatto a te. E pur come non istimatori di questa legge, né del primo fallo venuto da loro, s'adirorono forte; e tale disse:

- Dolcibene, e' ti si vorrebbe darti una coltellata nel volto.

E que' rispondea:

- A voi sta; che come dalla gatta a' topi, cosí dalla coltellata alla lanciata anderà: uscitemi di casa; e qualunch'ora voi vorrete de' miei mangiari, io ve gli darò secondo che meriterete.

E se n'andorono scornati, e co' ventri attopati. E quello di che mai non si poterono dar pace fu che messer Dolcibene un buon pezzo, dicendo questa novella per la terra, scornava forte costoro; tanto che 'l piovano e gli altri il pregorono non dovesse dir piú; e feciono pace per non essere piú vituperati.

Or cosí interviene a chi non fa mai la ragione del compagno. E se alcuno uomo di corte fu vendicativo, e tenesse a mente, fu messer Dolcibene; e ben lo seppe un uomo di corte chiamato messer Bonfi; il quale, avendo parole d'invidia con messer Dolcibene, però che non era se non da dare zaffate, un dí innanzi a molti gli diede una zaffata; messer Dolcibene non la sgozzò mai, tanto che colto un dí tempo, con un ventre pieno il giunse in Mercato Nuovo, e in presenza di tutti i mercatanti gli lo percosse al viso per forma che si penò a lavare una settimana o piú.

Colui l'offese con l'orina, ed elli si vendicò con lo sterco.

E però non si può mai errare a porsi nel luogo del compagno e fare la ragion sua come la sua propria; e cosí facendo, rade volte, vivendo, incontra all'uomo altro che bene.

 

NOVELLA CLXXXVIII

 

Ambrogino da Casale di Melano compra una trota, e messer Bernabò non può avere pesce; manda per Ambrogino, e vuol sapere di che fa sí larghe spese; ed elli con un leggiadro argomento si spaccia da lui.

 

Non si dilettò di simil vivande, quali furono quelle della passata novella, Ambrogino da Casale gentiluomo di Melano; il quale ne' tempi che regnava messer Bernabò, essendo ricco di forse cinquemila fiorini, e avendo considerato la quantità delle imposte e delle gravezze del signore, e in quanto tempo convenía che tutto il suo fosse del signore, si pensò di logorarsi il suo e darsi il piú bel piacere del mondo (e chi venisse di drieto serrasse l'uscio) e in cavallo e in vestire, e sopra tutto magnare co' suoi compagni delle migliori vivande che potea avere.

Avvenne per caso che, essendo venuta una ricca ambasciata dello re di Francia al detto messer Bernabò, e volendoli onorare, convenne che uno venerdí diliberasse dare loro mangiare; e mandò il suo spenditore alla pescheria perché comprasse del pesce; il quale, andando e nulla trovando, domandò i pescatori che fosse la cagione. Risposono credeano fosse cagione del vento che allora era, però che in quella mattina altro che una trota di venticinque libbre v'era stata, la quale avea comprata Ambrogino da Casale. E con questo lo spenditore tornò al signore, niente avendo comprato; e raccontando come solo una trota v'era stata, e quella avea comprata Ambrogino, commise a uno famiglio che andasse per lui. Ito per lui, Ambrogino cominciò a tremare, non avendo freddo, e subito ne va dinanzi al signore il quale, come il vide, disse:

- Mo dimmi, onde ti viene che tu fai sí larghe spese, che tu comperi una trota di venticinque libbre, e io, che sono il signore, non posso avere un poco di pesce per dar mangiare altrui?

Ambrogino tutto timoroso volea dire, e non ardiva, e 'l signore, vedendo ciò, disse:

- Di' sicuramente ciò che tu vuogli, e non avere di me alcuna paura.

Ambrogino, essendo assicurato da colui di cui avea paura, disse:

- Signor mio, poiché voi mi comandate che io vi dichi la verità, io ve la dirò, pregandovi per misericordia che di ciò a me non ne segua alcuna novità.

Il signore ridisse:

- Di' sicuramente e non aver paura.

Allora disse Ambrogino:

- Magnifico signore, egli è buona pezza che io m'avvidi che tutto il mio dovea venire a voi; di che, considerando questo, io mi sono sforzato di logorare il mio quant'ho potuto, prima che il logoriate voi; e in questa mattina comprai quella trota per istudiarmi di mangiare innanzi il mio che voi ve 'l mangiate voi. E questa è la cagione e niuna altra cosa mi muove.

Il signore, udendo costui, cominciò a ridere, e disse:

- Ambrogino, in fé di Dio, io credo che tu sie il piú savio uomo che sie in Melano; va' e godi e spendi largamente, che io ti confermo nella tua buona volontà, e voglio che ti goda il tuo, piú tosto che io lo voglia per me; e per lo tempo che dee venire tu te ne avvedrai -; e licenziollo.

Partitosi Ambrogino con la debita reverenzia, tornò a casa sua, e parendoli avere fatta buona mattinata, si pensò di presentare la trota al signore, e trovato uno intendente famiglio, la puose in su un bianco tagliere grande, che già era cominciata a conciare per cuocersi; e copertola d'una bianca tovagliuola, disse al famiglio:

- Va' al signore messer Bernabò e di': “Il vostro servidore Ambrogino vi presenta questa trota, perch'ella si confà molto meglio alla sua signoria che alla mia debile condizione”; e che che io me gli abbia detto in questa mattina, io ho molto piú caro quello che prende del mio che quello che mi rimane.

Il famiglio con la imbasciata portò il presente al signore. Al quale il signore rispose:

- Di' ad Ambrogino che in questa mattina io avea compreso assai della sua condizione, ora ho maggiormente compreso della sua virtú; va' e digli da mia parte ch'egli ha ben fatto.

Il messo cosí rapportò ad Ambrogino.

Venuto il dí dopo mangiare, come spesso interviene, che li signori a cui vogliono far male il fanno fuor di misura, e a cui vogliono far bene il fanno senz'alcun mezzo; essendo partiti da mangiare gli ambasciadori di Francia e messer Bernabò, conosciuta la condizione d'Ambrogino, subito lo elesse suo provvisionato a maggiore salario degli altri, o come gli altri, e mandò per lui. Le grazie d'Ambrogino verso il signore, udendo il beneficio a lui dato, non si potrebbono scrivere; e spesso il mandò per rettore, quando in una terra e quando in un'altra; tanto che, come vivesse poco, non avea pensiero di spendere di quelli di casa ma di riporre quelli che gli avanzavono di quelli che 'l signore gli dava. E cosí quello che visse, bontà della trota che gli venne per le mani, visse riccamente e in buono stato, e in quello si morí.

Per questa novella veramente si può comprendere che allo stato che si vede e de' signori e de' comuni (e specialmente oggi, che altro non cercano se non per gravezze quello de' loro sudditi consumare) che Ambrogino saviamente provvedesse a volersi prima manicare il suo, che altri lo mangiasse. E io scrittore sono di quelli che già dissi che la spesa della gola era tra l'altre la piú trista; e cosí solea essere. Ma essendo venuto il mondo a tanto che tutte l'altre cose conviene che vadino in rovine, reputo oggi il mangiare e 'l bere essere quella cosa che li principi del mondo possono meno avere.

Però che, se io considero a' contanti, quelli sono la prima cosa dove percuotono; se io considero alle possessioni, sempre v'hanno l'occhio a tirarle a loro; se alle masserizie, sempre sono la prima cosa che le famiglie e' messi ne portono, se alle belle robe che uomeni o donne portino, o s'impegnano o si vendono per pagare: solo il mangiare è quello che giammai non possono avere. E però saviamente facea Ambrogino, però che molti ne sono già stati che con grande avarizia averanno ammassata ricchezza, e mai non aranno goduto un'ora che gli è sopravvenuto un caso di guerra, che converrà che la maggiore parte del suo si paghi alla gente scellerata dell'arme, i quali del loro goderanno gran pezze, ed eglino non aveano cuore di contentarne l'animo loro d'uno minuzzolo.

E però dice: “Chi per sé raguna, per altri sparpaglia”.

E ancora intervien peggio, che quello che l'avaro spesso arà ritenuto di spendere, che ragionevolmente spendere si dovea, per altrui scialacquatamente sarà speso e gittato, con grande sua tristizia e dolore. Non dico però che in ogni cosa la via del mezzo è quella che è piú commendabile.

 

 

NOVELLA CLXXXIX

 

Lorenzo Mancini di Firenze, volendo fare uno matrimonio e non potendo accostare il pregio della dota, con nuovo modo conchiude.

 

E’ mi convien venire a una novella d'un nostro cittadino, il quale, disponendosi di volere fare un matrimonio tra due suoi amici, e l'uno volendo gran dota e l'altro non potendo darla, alla fine con una sua piacevole astuzia fece sí che, essendo le parti molto da lunge, le fece sí prossimane che 'l parentado venne a conclusione. Fu costui uno piacevole e pratico uomo, chiamato Lorenzo Mancini, il quale, essendo grandissimo e amico e compagno di Biagio di Fecino Ridolfi, e avendo compreso di dar moglie al detto Biagio, considerò che Arrigo da Ricasoli, molto suo cordiale amico, avendo una bella figliuola da marito, in quella dovesse mettere e la fatica e l'ingegno acciò ch'ella fosse sua moglie. E andato un dí a Biagio, gli disse tutto il convenente che si dee dire sopra sí fatta materia, lodandoli la mercanzia quanto si dee per fare sí che la cosa venisse ad effetto. Biagio acconsentí al piacere del parentado; ma alla dota si puose di volere fiorini mille, e non meno. Quando Lorenzo udí il suono di fiorini mille, un poco gli mancò il pensiero; ma pur per primo colpo non lasciò né lo scudo né la lancia, ma partitosi, disse:

- Or bene -; e andò a quello da Ricasoli, e simile gli disse come s'avea pensato, che desse la sua figliuola a Biagio di Fecino, e se li piacea d'avere a fare con lui.

Rispose di sí. Seguí Lorenzo:

- Che gli vuoi tu dare?

L'amico disse:

- Ragiona, Lorenzo mio, che io vivo di rendita, come tu vedi; e' mi sarà molto malagevole a potere aggiugnere a cinquecento fiorini.

Allora rispose Lorenzo:

- Quando l'uomo truova cosa che gli piace, e' conviene che si sforzi.

Colui rispose:

- Quello che non si puote è piú duro che pietra.

Disse Lorenzo:

- Tu farai quello che vorranno gli amici -; e partissi.

E stando un pezzo, si trovò con Biagio, e disseli che credea accapezzare le cose in quanto elli condiscendesse alla dota, la quale a lui parea troppo alta. Biagio stette pur fermo a mille, e mai non iscese. Andò Lorenzo a quello da Ricasoli a provare con quante ragioni potesse di farlo salire; giammai non vi fu modo; ché in conclusione Lorenzo durò grandissima fatica circa d'un mese, e mai non poteo fare scendere li mille, né salire li cinquecento. Alla per fine si pensò un modo nuovo, quasi disperandosi, dicendo: “Che diavol è questo? io credo che l'uno di costoro sia di porfido e l'altro di diamante; ben piglierò un poco di sicurtà, che io m'ingegnerò di trarre innanzi questo parentado. El peggio che ci possa incontrare, se lo rompono poi: ed elli se lo rompano”.

Andossene a Biagio e disse:

- Il fatto è fatto -; e poi n'andò a quello da Ricasoli e disseli il simile: - Dove volete voi essere oggi?

Composono d'essere in Santa Maria sopraporta e pochi per parte, e Lorenzo fosse dicitore delle parole. E cosí feciono; che Lorenzo molto lietamente disse e in principio e mezzo e fine, andando pur d'attorno, non narrando mai né dota né alcuna quantità, dicendo:

- Dio vi dia buona ventura.

La gente cominciandosi a partire, e Biagio dice a Lorenzo:

- O tu non hai detto della dota.

Dice Lorenzo:

- Tu credi che io sia notaio: vo' sete oggimai parenti, ben v'accorderete.

A Biagio non piacquono molto le parole, e a male in corpo si partí, perché Lorenzo studiò che avea un poco a fare in quel dí; né la sera cenò, né la notte dormí Biagio che buono gli paresse, parendogli mill'anni che l'altra mattina fosse con Lorenzo. E cosí venuta, e Biagio si trovò con Lorenzo e disse che 'l dí dinanzi e' non avea ben chiarito la dota. Lorenzo rispose:

- Biagio mio, io non durai mai maggiore fatica che fare questo parentado; però che tu ti ponesti su' mille fiorini e mai non ne scendesti, e l'altro si pose su' fiorini cinquecento e mai non salí; io avea pur voglia di fare il parentado e cosí ho fatto: se su la dota c'è a fare niente, voi sete parenti, voi il farete meglio che altri.

Dice Biagio:

- Motteggi tu?

Lorenzo dice:

- Io dico il vero.

Dice Biagio:

- Se tu di' il vero, e tu l'attieni per te, ché, quanto io, non sono per attenerlo io.

Risponde Lorenzo:

- Se tu non lo atterrai, e' non si disfarà il mondo, e la vergogna fie tua e non mia; fa' che ti pare: io ho fatto il parentado.

La novella venne agli orecchi dell'altra parte, che di questo non facea contesa; accostossi con Lorenzo e disse:

- A che siàn noi?

Disse Lorenzo:

- E’ mi pare piatire alle civili; fate che vi piace.

Nella fine e' s'accordorono per men vergogna di loro, e per non si recare a nimico Lorenzo; e costò a quello da Ricasoli questa dota in tutto fiorini cinquecento, per recarla a fiorini come fece Lorenzo.

Giammai alcun sensale non arebbe concluso questo matrimonio: solo una nuova astuzia di Lorenzo fece fare quello, che essendo ito la cosa con grand'ordine, giammai non si serebbe fatta. E però è buono alcuna volta pigliar confidanza nelli amici e uscire de' termini; però che spesse volte uno trasandare acconcia una cosa, che tutto il seguire dell'ordine che fu mai non l'acconcerebbe.

 

 

 

NOVELLA CXC

 

Gian Sega da Ravenna con nuova astuzia ha a fare con una giovene giudea, e tutti li Giudei che sono con lei fa entrare in uno necessario.

 

Assai fu di minore fatica a Gian Sega da Ravenna a venire ad effetto d'un suo disordinato appetito di lussuria verso una giovene giudea. E per farmi un poco a drieto a questa storia, questo Gian Sega, al tempo di messer Bernardino da Polenta, stando in Ravenna, e seguendo maniera d'uomo di corte, ed essendo pure d'una diversa condizione, avendo già morti uomini in diverse maniere, avvenne per caso che, come spesso si mutano gli animi de' signori e le subite risa si convertono in pianto, cosí subito questo signore fece pigliare Gian Sega, e in mano del Podestà essendo al martorio, confessò avere morti uomeni e altre cose assai; di che gli fu dato il comandamento dell'anima, per essergli tagliato il capo. E la mattina che ciò si dovea fare, andando la famiglia alla prigione su la mezza terza per legarlo, costui, con la forza delle braccia e co' morsi e calci, contro la famiglia stette per ispazio d'un'ora anzi che fosse legato; alla per fine, essendo con gran fatica tratto fuori, niuno se gli accostava presso che, co' denti e con gittarsi in terra, non desse assai che fare a ciascuno che piú presso gli stava; tanto che, essendo su la nona, non avendolo potuto conducere a mezza via, mandorono per un asino e a traverso ve lo legorono su, non sanza grandissima fatica... che andava a fare la... però che poi che fu legato... tanto si divincolò... dall'un de' lati, che...

lamentandosi di questo Gian Sega, dice:

- Signor mio, giammai non faceste tanta degna cosa quanto a levare di terra quel mal uomo che mandaste a dicapitare; però che tra l'altre cose e' mi diede fuori della porta parecchie bastonate.

Disse il signore:

- Sozzo rubaldo, sí che tu mi lodi, appropiandoti ch'io faccia una tua vendetta.

E subito chiama un suo segretario, e dice:

- Monta sul corsiere, e corri al luogo della justizia, e di' al cavaliero, se Giovan Sega non ha morto, che subito lo rimeni a me.

Il famiglio, ubbidendo al signore, corse, e trovò Gian Sega col collo sul ceppo e con fanti addosso, che per forza il teneano, e 'l giustiziere con la mannaia e col mazzo apparecchiarsi: dicendo:

- Rimenate costui al signore sano e salvo -; e cosí subito fu fatto.

E Gian Sega, quasi mezzo morto e per lo combattersi, e per lo fine della morte dove elli era, e per la soperchia allegrezza della boce, che disse rimenatelo sano e salvo , mescolata col dolore, giunse al signore come uno uomo aombrato. A cui il signore disse:

- Gian Sega, io mi sono ricordato che al tal tempo, uscendo io fuori di questa terra e tu eri con meco, essendo assalito da gente d'arme, tu entrasti tra loro e me e tanto gli tenesti a bada, combattendo con loro, che io scampai, e tu fosti preso.

Venne a memoria a messer Bernardino, dopo il detto di colui che lodava la justizia che facea, questo atto che Gian Sega avea fatto per la sua salute, e su questo si fondò, parendoli virtú camparlo per questo, e 'l contrario per lo detto di quell'uomo.

Gian Sega, cominciando a riavere gli spiriti, li quali erano assai smarriti, disse:

- Signore...

 

e domandato licenza a messer Benardino, se n'andò a Rimine a messer Galeotto Malatesti, col quale stando alquanti mesi, sopraggiugnendo l'anno del giubileo 1350, pensò d'andare in Porto Cesenatico e là tenere uno albergo: e cosí fu là. Dove, essendo in questa maniera avviato, avvenne per caso che, tra certi judei che stavano in Ravenna e certi altri judei che stavano ad Arimino, si contrasse uno matrimonio, che uno di quelli che stavano a Ravenna tolse per moglie una bella giovene judea di quelli che stavano a Rimine. Ed essendo andati circa sei di quelli di Ravenna a Rimine con lo sposo per congiugnere il matrimonio, come hanno per usanza, e poi menando la sposa con la cameriera a Ravenna, arrivorono una sera a Porto Cesenatico all'albergo di Gian Sega. Il quale, avendo ricevuto li giudei e veggendo la giovene judea bellissima, non ricordandosi della passata ventura ma ritornando alle sue scellerate opere, pensò in che forma potesse avere a fare con questa judea. E con una nuova malizia andò alla riva, là dove ordinò con certi marinai che la sera di notte dovessono giugnere alle porte dell'albergo, facendo busso e tumulto e con arme e con bastoni, sí come volessono e rubare e predare e uccidere qualunche dentro v'era; e questo facessono per tre volte, mettendo poco dall'una volta all'altra, e continuo si crescesse l'assalto, gittando maggiore paura a quelli dentro.

Come Gian Sega ordinò co' marinari, cosí fu fatto. E vegnendo la notte, essendo le porte dell'albergo tutte serrate, li marinai, come gente scherana o sbandita, giungono, percotendo le porte, dicendo:

- Aprite cià.

Come li judei sentono questo, ebbono grandissima paura, pregando l'oste che gli debba scampare. E l'oste dice:

- State fermi, tanto che io vada a vedere dalla finestra chi e' sono.

E cosí andò l'oste e tornò, e disse:

- Questi sono sbanditi, de' quali io ho maggiore paura fra la notte che io non ho ora; però statevi pianamente e veggiamo se altro segue.

Li giudei stavano ristretti e cheti come olio. Stando per alquanto spazio, gli marinai giungono la seconda volta e con maggiore furore che la prima. Li giudei dicono all'oste:

- Oimè! oste, scampaci la vita.

Dice l'oste:

- Venite con meco -; e menolli in un'altra camera e stalla molto buia e disse: - Statevi qui.

Li giudei stavano, come l'oste dicea. E l'oste va a una finestra e dice, sí che li judei udíano:

- Andatevi con Dio, che io non ci ho istasera alcuno forestiero.

Ed elli rispondeano:

- Aspettera' ti un poco, ché noi ne vorremo saper altro; - e partironsi.

E poco stante tornorono cum fustibus et cum lanternis , facendo sembiante di voler mettere fuoco nell'albergo. Li giudei, sentendo il romore e udendo dire del fuoco, e veggendo per li spiragli delle porte la fiamma, dicono all'oste:

- Noi siamo morti, se non ci metti in qualche luogo ben occulto.

Era in uno canto, là dov'egli erano, uno necessario presso che pieno, con due assi coperto, dove l'oste gli condusse, dicendo:

- Entrate qui, che io non credo che vi truovino per fretta.

Costoro, volontorosi di fuggire la morte, in calca v'entrorono dentro. E in questo giunse la cameriera, che avea sentito tutto, raccomandando e lei e ancora la sposa judea. A cui l'oste disse:

- Entrate anche qui voi: della giovane non abbiate paura; io dirò che sia mia figliuola, o metterolla sotto il letto.

La cameriera subito entrò dove gli altri; e ivi chi si trovò nella malta insino a gola e chi insino al mento, e coperchiati dall'assi vi stettono quasi tutta la notte; però che Gian Sega spesso facea romore, come se fossono all'uscio per volere entrar dentro. E avendo serrato col chiavistello l'uscio della camera dove costoro erano, se n'andò dove la giudea era; a cui ella si gittò al collo, morendo di paura; e Gian Sega la condusse verso il letto e disse non avesse paura ella, ma dicesse che fosse sua figliuola, e dormisse con lui in quel letto. La giovene tremante di paura cosí fece; e Gian Sega in quello subito si coricò, usufruttando la fanciulla e abbracciando la legge giudaica quanto li piacque; e alcun'ora si levava, andando verso la porta, facendo romore come i malandrini vi fossono, acciò che i giudei stessono ben ristretti nel cessame. E cosí continuò tutta notte, ora al letto con la giudea, ora alla porta con lo falso romore; tanto che, apparendo il giorno, egli acconciò il letto con la judea insieme, non parendo mai che vi si fosse giaciuto; e ammaestrolla entrasse dietro al letto, dicendo che tutta notte per gran timore vi fosse stata; ed ella cosí fece, e serrossi dentro nella camera.

Avendo Gian Sega cosí ordinato i fatti suoi e della sposa, andò verso la fecciosa tomba per trarre il popolo judaico della conserva, dicendo:

- Uscite fuori, che Dio ci ha fatto gran grazia, però ch'egli è giorno e ormai siamo sicuri.

Il primo che uscí fu la cameriera, la quale parea che uscisse d'uno brodetto. Come i judei vidono fare la via alla cameriera, subito l'uno dopo l'altro tutti e sei, cosí infardati come si dee credere, con gran fatica se n'uscirono fuori; e 'l marito della sposa subito domanda di lei; a cui Gian Sega disse:

- Vorrei che cosí fosse stati voi, però che come ella sia stata con molto spavento, come fanciulla ella si serrò nella camera e là s'è stata tutta notte, e voi sete stati in forma che molto me n'incresce; ma io non credea che questa fossa fosse cosí piena: ma ogni cosa sia per lo migliore, ché per lo migliore si fece.

I giudei risposono che di ciò erano certi, ma che l'oste venisse al rimedio, come lavare si potesseno. L'oste disse:

- Lasciate fare a me, io farò scaldare tant'acqua, che l'uno dopo l'altro vi laverete in questa casa di dietro, e poi enterrete nel letto, e io m'anderò alla marina a lavare i vostri panni; e quando siano asciutti potrete andare al vostro viaggio.

A' giudei parve essere a buon porto, e cosí presono per partito, aspettando parecchi dí, tanto ch'e' panni fossono e lavati e rasciutti. E questo non nocque punto a Gian Sega, però che ebbono a pagare molti scotti, e forse qualche altra volta si trastullò con la judea.

E dopo alquanti dí co' panni non troppo ben lavati si tornorono a Ravenna.

Che diremo adunque degli avvenimenti della fortuna? ché in poco tempo si trovò Gian Sega nell'ultimo della morte e scampato da quella, solo per combattersi dalla famiglia; ché, se fosse ito senza contesa, serebbe stato morto parecchie ore innanzi. E però dice: “Passa un'ora e passine mille”. Dappoi, diventato albergatore, contentò l'animo suo della judea, forse piú che 'l marito, il quale lui con l'altra compagnia judaica mise in una puzzolente conserva di cristiani; ché molto averebbono aúto meno a male d'essere affogati in isterco di judei. Cosí avvenisse a tutti gli altri che stanno pur pertinaci contro alla fede di Cristo, ché, poiché non si vogliono rivolgere dalla loro incredulità, fossono fatti rivolgere in quel vituperoso fastidio che Gian Sega gli fece attuffare con obbrobio e con vergogna di loro.

 

 

NOVELLA CXCI

 

Buonamico dipintore, essendo chiamato da dormire a vegliare da Tafo suo maestro, ordina di mettere per la camera scarafaggi con lumi addosso, e Tafo crede sieno demoni.

 

Quando un uomo vive in questo mondo, facendo nella sua vita nuove o piacevoli e varie cose, non si puote raccontare in una novella ciò ch'egli ha fatto in tutta la vita sua; e pertanto io ritornerò a uno, di cui a drieto alcune novelle sono dette, che ebbe nome Buonamico, dipintore, il quale cercò di dormire, quando venía la notte, dove Gian Sega nella passata novella cercò il contrario. Costui nella sua giovenezza essendo discepolo d'uno che avea nome Tafo, dipintore, e la notte stando con lui in una medesima casa, e in una camera a muro soprammattone allato alla sua, e com'è d'usanza de' maestri dipintori chiamare i discepoli, spezialmente di verno, quando sono le gran notti, in sul mattutino a dipignere; ed essendo durata questa consuetudine un mezzo verno che Tafo avea chiamato continuo Buonamico a fare la veglia, a Buonamico cominciò a rincrescere questa faccenda, come a uomo che averebbe voluto piú presto dormire che dipignere; e pensò di trovare via e modo che ciò non avesse a seguire; e considerando che Tafo era attempato, s'avvisò con una sottile beffa levarlo da questo chiamare della notte, e che lo lasciasse dormire. Di che un giorno se n'andò in una volta poco spazzata, là dove prese circa a trenta scarafaggi; e trovato modo d'avere certe agora sottile e piccole e ancora certe candeluzze di cera, nella camera sua in una piccola cassettina l'ebbe condotte; e aspettando fra l'altre una notte che Tafo cominciassi a svegliarsi per chiamarlo, come l'ebbe sentito che in sul letto si recava a sedere, ed egli trovava a uno a uno gli scarafaggi, ficcando li spilletti su le loro reni e su quelli le candeluzze acconciando accese, gli mettea fuori della fessura dell'uscio suo, mandandoli per la camera di Tafo.

Come Tafo cominciò a vedere il primo, e seguendo gli altri co' lumi per tutta la camera, cominciò a tremare come verga, e fasciatosi col copertoio il viso, ché quasi poco vedea, se non per l'un occhio, si raccomandava a Dio dicendo la intemerata  e' salmi penitenziali; e cosí insino a dí stava in timore credendo veramente che questi fossono demoni dell'inferno. Levandosi poi mezzo aombrato, chiamava Buonamico, dicendo:

- Hai tu veduto stanotte quel che io?

Buonamico rispose:

- Io non ho veduto cosa che sia, però che ho dormito e ho tenuto gli occhi chiusi; maravigliomi io che non m'avete chiamato a vegliare come solete.

Dice Tafo:

- Come a vegliare? ché io ho veduto cento demoni per questa camera, avendo la maggiore paura che io avesse mai; e in questa notte, non che io abbia aúto pensiero al dipignere, ma io non ho saputo dove io mi sia; e per tanto, Buonamico mio, per Dio ti prego truovi modo che noi abbiamo un'altra casa a pigione: usciamo fuori, però che in questa non intendo di star piú, ché io son vecchio, e avendo tre notti fatte come quella che ho avuto nella passata, non giugnerei alla quarta.

Udendo Buonamico il suo maestro cosí dire, dice:

- Gran fatto mi pare che di questo fatto, dormendo presso a voi, com'io fo, non abbia né veduto né sentito alcuna cosa: egli interviene spesse volte che di notte pare vedere altrui quello che non è, e ancora molte volte si sogna cosa che pare vera e non è altro che sogno: sí che non correte a mutar casa cosí tosto, provate alcun'altra notte; io vi sono presso, e starò avvisato, se nulla fosse, di provvedere a ciò che bisogna.

Tanto disse Buonamico che Tafo a grandissima pena consentí; e tornato la sera a casa, non facea se non guardare per lo spazio che parea uno aombrato; e andatosi al letto, tutta la notte stette in guato, sanza dormire, levando il capo e riponendolo giú, non avendo alcuno pensiero di chiamare Buonamico per vegliare a dipingere; ma piú tosto di chiamarlo al soccorso, se avesse veduto quello che la notte di prima.

Buonamico, che ogni cosa comprendea, avendo paura non lo chiamasse a fare la veglia sul mattutino, mandò per la fessura tre scarafaggi con la luminaria usata. Come Tafo gli vide, subito si chiuse nel copertoio, raccomandandosi a Dio, botandosi e dicendo molte orazioni; e non ardí di chiamare Buonamico; il quale, avendo fatto il giuoco, si ritornò a dormire, aspettando quello che Tafo la mattina dovesse dire.

Venuta la mattina, e Tafo uscendo del copertoio, sentendo che era dí si levò tutto balordo, con temorosa boce chiamando Buonamico. Buonamico, facendo vista di svegliarsi, dice:

- Che ora è?

Dice Tafo:

- Io l'ho ben sentite tutte l'ore in questa notte, però che mai non ho chiuso occhio.

Dice Buonamico:

- Come?

Dice Tafo:

- Per quelli diavoli; benché non fossono tanti quanto la notte passata. Tu non mi ci conducerai piú; andianne e usciamo fuori, ché in questa casa non sono per tornare piú.

Buonamico gli poté dire assai cose che la sera vegnente ve lo riconducesse, se non con questo: che gli diede a intendere, se uno prete sagrato dormisse con lui ch'e' demoni non arebbono potenza di stare in quella casa. Di che Tafo andò al suo parrocchiano e pregollo che la notte dormisse e cenasse con lui; e dettagli la cagione e sopra ciò ragionando, s'accozzorono con Buonamico e tutti e tre giunsero in casa. E veggendo il prete Tafo presso che fuor di sé per paura, disse:

- Non temere, ché io so tante orazioni, che se questa casa ne fosse piena, io gli caccerò via.

Dice Buonamico:

- Io ho sempre udito dire ch'e' maggiori nimici di Dio sono li demoni; e se questo è, e' debbono essere gran nimici de' dipintori, che dipingono lui e gli altri Santi, e per questo dipignere se n'accresce la fede cristiana che mancherebbe forte se le dipinture, le quali ci tirano a devozione, non fossono; di che, essendo questo, quando la notte, che' demoni hanno maggiore potenza, ci sentono levare a vegliare per andare a dipignere quello di che portano grand'ira e dolore, giungono con grand'impeto a turbare questa cosí fatta faccenda. Io non affermo questo; ma parmi ragione assai evidente che puote essere.

Dice il prete:

- Se Dio mi dia bene, che cotesta ragione molto mi s'accosta; ma le cose provate sono piú certificate -; e voltosi a Tafo, dice: - Voi non avete sí grande il bisogno di guadagnare che, se quello che dice Buonamico fosse, che voi non possiate fare di non dipignere la notte: provate parecchie notti, e io dormirò con voi, di non vegliare e di non dipignere, e veggiamo come il fatto va.

Questo fu messo in sodo: che piú notti vi dormí il prete, ch'e' scarafaggi non si mostrorono.

Di che tennono per fermo la ragione di Buonamico essere chiara e vera; e Tafo fece bene quindici notti, senza chiamare Buonamico per vegliare. Essendo rassicurato Tafo e costretto dal proprio utile, cominciò una notte di chiamare Buonamico, perché avea di bisogno di compire una tavola allo Abate di Bonsollazzo. Come Buonamico vide ricominciare il giuoco, prese di nuovo de' scarafaggi e la seguente notte gli mise a campo per la camera su l'ora usata. Veggendo questo Tafo, cacciasi sotto, dolendosi fra sé stesso, dicendo:

- Or va', veglia, Tafo, or non ci è il prete; Vergine Maria, atatemi -; e molte altre cose, morendo di paura, insino che 'l giorno venne.

E levatosi egli e Buonamico, dicendo Tafo come li demoni erano rappariti; e Buonamico rispose:

- Questo si vede chiaro ch'egli è quello che io dissi, quando il prete ci era.

Disse Tafo:

- Andiamo insino al prete.

Andati a lui, gli dissono ciò che era seguito. Di che il prete affermò essere la cagione di Buonamico vera, e per verissima la notificò al populo, in tal maniera che, non che Tafo, ma gli altri dipintori non osorono gran tempo levarsi a vegliare. E cosí si divolgò la cosa che altro non si dicea; essendo tenuto Buonamico che, come uomo di santa vita, avesse veduto, o per ispirazione divina, o per revelazione, la cagione di que' demoni essere apparita in quella casa; e da questa ora innanzi da molto piú fu tenuto, e di discepolo con questa fama diventò maestro; partendosi da Tafo, non dopo molti dí fece bottega in suo capo, avvisandosi d'essere libero e potere a suo senno dormire; e Tafo rimase per quelli anni che visse trovandosi un'altra casa, là dove tutti e' dí della vita sua si botò di non fare dipignere la notte, per non venire alle mani delli scarafaggi.

Cosí interviene spesse volte che volendo il maestro guardar pure al suo utile, non curandosi del disagio del discepolo, il discepolo si sforza con ogni ingegno di mantenersi nelle dotte che la natura ha bisogno; e quando non puote altrimenti, s'ingegna con nuova arte d'ingannare il maestro, come fece questo Buonamico, il quale dormí buon tempo poi quanto li piacque; infino a tanto che un'altra volta una che filava a filatoio gli ruppe piú volte il sonno, come nella seguente novella si racconterà.

 

 

NOVELLA CXCII

 

 

Buonamico detto con nuova arte fa sí che una che fila a filatoio, non lasciandolo dormire, non fila piú; ed egli dorme quanto vuole.

 

Essendo Buonamico, del quale di sopra è detto, maestro in suo capo e vago di dormire e di vegliare secondo il tempo; però che gli convenía esercitare l'arte altramente quando era sopra sé che quando era sotto altrui come discepolo; avendo una sua casa, e avendo per vicino a muro mattone in mezzo uno lavoratore di lana un poco asgiato, il quale avea nome o era chiamato Capodoca assai nuovo squasimodeo; ed era costui quello che nella bottega d'Andrea di Veri gli fece già di nuovi trastulli; avea costui una sua moglie, la quale ogni notte di verno si levava in sul mattutino a vegliare e filare lo stame a filatoio presso al letto di Buonamico, non essendovi altro in mezzo che 'l muro di mattone soprammattone, come detto è. E Buonamico vegliava da dopo cena infino a mattutino, sí che a mattutino andava a dormire, e 'l pennello si riposava quando il filatoio cominciava. Essendo il focolare, dove costei cocea, allato al detto muro, pensò Buonamico una nuova astuzia; però che, avendo considerato che questa buona donna, quando cocea, mettea la pentola rasente a quel muro, fece un foro con un succhio in quel muro, rasente a quella pentola, e poi lo turava con un pezzuolo di mattone in forma che la donna non s'accorgesse. E quando pensava o vedea che la donna mettesse a fuoco, avea uno soffionetto di canna assai sottile, e in quello mettendo sale, quando sentía non esservi la donna, mettendolo per lo foro all'orlo della pentola, vi soffiava entro per forma che nella pentola metteva quanto sale volea.

E avendo per cosí fatta forma salato la pentola che quasi mangiare non si potesse, tornando Capodoca a desinare, la prima volta gridò assai con la donna, e in fine conchiuse, se piú cadesse in simile follia, gli farebbe Roma e Toma. Di che Buonamico che ogni cosa sentía, per adempire il suo proponimento, insalò la seconda volta molto piú che la prima. E tornando il marito per desinare e postosi a mensa, venendo la scodella, il primo boccone fu sí insalato che glilo convenne sputare, e sputato e cominciato a dare alla donna fu tutt'uno, dicendo:

- O tu se' impazzata o tu inebbrii, ché tu getti il sale e guasti il cotto per forma che, tornando dalla bottega affaticato, non posso mangiare come fanno gli altri.

La donna rispondea a ritroso; e colui con le battiture si svelenava tanto che 'l romore andò per la contrada, e Buonamico, come vicino piú prossimano trasse, ed entrando in casa, disse:

- Che novelle son queste?

Dice Capodoca:

- Come diavolo, che novelle sono? Questa ria femina m'ha tolto a consumare; e' pare che qui siano le saliere di Volterra, che io non ho potuto due mattine assaggiare del cotto ch'ell'abbia fatto, tanto sale v'ha messo dentro; e io ho di molto vino d'avanzo! ché n'ho un poco, e costommi fiorini otto il cogno e piú.

Dice Buonamico:

- Tu la fai forse tanto vegliare che quando ella mette a fuoco, come persona addormentata non sa quello ch'ella si fa.

Finito il romore, dopo molte parole, dice Capodoca:

- Per certo io vederò se tu se' il diavolo; io tel dico in presenza di Buonamico: fa' che domattina tu non vi metta punto di sale.

La donna disse di farlo. Buonamico lasciò quella pentola nella sua sciocchezza. E tornato il marito a desinare, e assaggiando la sciocca vivanda, comincia a mormorare dicendo:

- Cosí vanno i fatti miei; egli è peggio questa vivanda che l'altra; va', recami del sale che vermocan ti nasca, sozza troia, fastidiosa che tu se', che maladetta sia l'ora che tu c'entrasti; che io non so a che io mi tengo che io non ti getti ciò che c'è nel viso.

La donna dicea:

- Io fo quello che tu mi di'; io non so che modo mi tenga teco; tu mi dicesti che io non vi mettesse sale punto, e io cosí feci.

Dice il marito:

- E’ non s'intendea che tu non ve ne mettessi un poco.

La donna dicea:

- E se io ve n'avessi messo, e tu m'averesti zombata come ieri, sí che per me io non ti posso intendere; dammelo oggimai per iscritto di quello che tu vuoi che io faccia, e io n'avrò consiglio sopra ciò di quello ch'io debbo fare.

Dice il marito:

- Vedila! ancora non si vergogna; io non so a ch'io mi tengo che io non ti dia una gran ceffata.

La donna gonfiata, per non ricorrere il passato dí, si stette cheta per lo migliore. E Capodoca, quando ha mangiato come ha potuto, dice a lei:

- Io non ti dirò oggimai, né non insalare né insala; tu mi déi conoscere; quando io troverò che la cosa non facci a mio modo, io so ciò ch'io m'ho fare.

La donna si strigne nelle spalle, e 'l marito ne va alla bottega. Buonamico, che ogni cosa avea sentita, si mette in punto col sale, e col soffione per la seguente mattina che venne in giovedí; che sono pochi che in tal mattina non comprino un poco di carne, stando a lavorare tutta la settimana, come facea costui. Avendo il mercoledí notte assai male dormito Buonamico e a suono di filatoio, come in sul fare del dí el filatoio ebbe posa per mettere la carne in molle la donna e trovare la pentola, e per accendere il fuoco spezzare col coltellaccio alcuno pezzo di legne, cosí Buonamico col sale e col soffione si misse in guato; e preso tempo, se la seconda volta avea molto piú salato che la prima, la terza salò ben tre cotanti; e questo fece passata terza per due cose: la prima, perché questa donna insino a terza non facea altro che assaggiare la pentola, mettendovi il sale a ragione, dicendo: “Ben vedrò se 'l nimico di Dio serà ogni mattina in questa pentola”; la seconda era, perché la donna ogni mattina, sonando a Signore a una chiesa sua vicina, andava a vedere il Signore, e serrava l'uscio; sí che in quell'ora i saggi erano fatti, ed elli poteva molto bene soprasalare.

Fatte tutte queste cose, e venendo l'ora e tornando Capodoca a desinare, postosi a tavola e venendo la vivanda, come l'ebbe cominciata a mangiare, cosí il romore, le grida e le busse alla moglie in tal maniera furono che tutta la contrada corse; dicendo ciascuno la sua.

Costui avea tant'ira sopra la donna, che quasi non si sentía; se non che Buonamico giunse, e accostandosi a lui, il temperò dicendo:

- Io t'ho detto piú volte che questo vegliare, che tu fai fare a questa tua donna, è cagione di tutto questo male. E simil cosa intervenne un'altra volta a un mio amico, e se non che levò via il vegliare, mai non averebbe mangiato cosa che buona gli fosse paruta: Santa Maria! hai tu sí gran bisogno che tu non possa fare sanza farla vegliare?

Molto fu malagevole a temperare il furore di Capodoca che non volesse uccidere la moglie. Infine gli comandò innanzi a tutti i vicini che, se ella si levasse piú a vegliar mai, che le farebbe giuoco ch'ella dormirebbe in sempiterno. La donna per paura non si levò a vegliare piú d'un anno, e Buonamico poté dormire a suo senno; in fuor che da ivi ben a quattordici mesi, essendosi la cosa quasi dimenticata, ch'ella ricominciò; e Buonamico, non avendo arso il soffione, seguí il suo artificio; tanto che Capodoca ricominciò anche a risonare le nacchere; e Buonamico con dolci parole il fece molto piú certo per lo caso che tanto tempo era stato che, non vegliando la donna, la pentola sempre era stata insalata a ragione; e a Capodoca parve la cagione essere verissima, per tanto che con minacce e con lusinghe trovò modo che la donna non vegliò mai piú, ed ebbe buona pace col marito, scemando a lei grandissima fatica di levarsi ogni notte, come facea; e Buonamico poté dormire senz'essere desto da cosí grande seccaggine, come gli era il filatoio. E cosí non è sí malizioso uomo né sí nuovo che non se ne truovi uno piú nuovo di lui. Questo Capodoca fu nuovo quanto alcun suo pari; e fu sí nuovo che nelle botteghe, dove lavorò d'arte di lana, e spezialmente in quella de' Rondinelli, fece di nuove e di strane cose, come già furono raccontate per Agnolo di ser Gherardo, ancora piú nuovo di lui. E questo Buonamico fu ancora via piú nuovo, e la pruova della presente novella il manifesta.

E cosí interviene spesso di tutte le cose e massimamente sopra cosí fatti uomeni che truovono spesso di quelle derrate che danno altrui. E sono questi cosí fatti uomeni sí ciechi di loro che non credono che piacevolezza sia, se non quella che ciascuno in sé e in altrui adopera. Se io scrittore dico il vero, guardisi l'esemplo: come a uno di questi tali, o a giullari, o a uomeni di corte, che sono quasi simili, apparisce uno che con una cosa che faccia, o con un motto gli morda, o mostri me' di loro, subito pèrdono che paiono morti. Non è altro a dire, se non che si fidano tanto in loro detti e malizie e trastulli solo perché pensano nessuno sapere né fare né dire, com'eglino. Ed eglino cosí ne rimangono spesso ingannati, come tutto dí si vede; e hanno spesse volte tal derrate che si rimangono con le beffe e col danno, come fece questo Capodoca e molti altri già stati, come tutto dí si truova nelle cose moderne, e per scritture de' passati tempi.

 

 

NOVELLA CXCIII

 

Messer Valore de' Buondelmonti di Firenze, andando a uno corredo di Piero di Filippo, il morde con nuove parole, e Piero assai bene se ne difende.

 

Ancora ritornerò a un nuovo uomo raccontato a drieto in certe novelle, il quale, come che fusse novissimo e matto sciocco tenuto da gran parte degli ignoranti, dagli intendenti non nuovo, ma vecchio e savio e reo era reputato, e spezialmente in questa novelletta, la quale ebbe forte e del savio e del reo.

Fu costui messer Valore, cavaliere de' Buondelmonti, fiorentino; il quale, avendo sentito che Piero di Filippo degli Albizi di Firenze, savio e notabile cittadino e grande quanto mai avesse la sua città, avea invitato molti cittadini e forestieri a un grande convito; la qual cosa sentendo messer Valore sanza essere invitato, la mattina a desinare, come gli altri, andò al detto corredo, e portò seco in mano un grande aguto spannale; il quale giugnendo tra la brigata, e Piero, veggendolo, gli si fece incontro, pigliandolo per la mano, dicendo:

- Deh, come avete ben fatto a essere venuto a farmi onore a questo mio convito!

Messer Valore, che era in gonnella, che sempre andava senza mantello in cappuccio a foggia, avendo l'aguto in mano, che tutto il cerchio de' convitati il vedea, disse:

- Piero, io vegno per mangiar teco e con questi nobeli uomeni e per ricordarti alcune parole, che come elle ti parranno fatte, io te le dirò, credendo ti siano molto utili; e mise l'aguto sopra uno camino, sí che ciascuno il vedea. Tu déi avere letto per le croniche de' Romani che quando alcuno consolo tornava con gran vittoria sul carro trionfale, perché non si lasciasse assalire alla superbia, era messo in mezzo di due rubaldi, i quali li diceano villania, sputandoli talora nel viso e facendo altre cose assai vituperose. Fa' ragione, Piero mio, che io sia uno di quelli rubaldi e tu sia in sul carro del gran trionfo; però che, se io considero bene, tu se' il maggiore cittadino che mai fosse in questa città, e dentro e di fuori sei il piú savio che avesse questa terra per alcun tempo; se' stato in Puglia e in molti luoghi del mondo: in ogni parte se' stato reputato savissimo oltre a tutti gli altri. Sí che io non veggio che tu non sie sí alto che piú non puoi andare in su; io veggio troppo bene che tu se' nel colmo della rota e non ti puoi muovere, che tu non scenda e capolevi. Per questa cagione io t'ho recato quello aguto che tu vedi a quel camino, acciò che tu conficchi la rota; e se ciò non fai, volgendosi com'ella fa, e' ti converrà cominciare a scendere, e forse venire al di sotto.

Piero, che intendea bene il tedesco, rispose:

- Messer Valore, io mi credea che voi venisse a mangiare con questi valentri uomini per mangiare delle vivande che io dava loro, e voi sete venuto e avetemi dato delle vivande vostre, sí che io posso dire che io desino con voi istamane; ma almeno me l'aveste voi date alle frutte, che serebbono state migliori che quelle di frate Alberigo. Ma, come ch'io non sia a mezza via giunto, là dove voi mi ponete, e' mi pare che, se la rota si potesse conficcare, la libbra del ferro tornerebbe alla valuta d'oro, però che sono tanti che la vorrebbono conficcare, che 'l ferro tutto intrerrebbe in quella rota. E oltre a ciò, se pur si potesse conficcarla, serebbe fare grandissima ingiustizia a quelli che sono di sotto e nel mezzo e da lato, che vogliono ch'ella volga, per migliorare stato.

Disse allora messer Valore:

- E per lo dire che tu hai fatto incontro alle mie sciocchezze, costoro che mangiono qui con teco ti possono tenere molto da piú che io non ho detto; e pertanto sono meglio contento d'esserci venuto per la evidente pruova che nel tuo parlare hai dimostrata a tutti costoro.

E cosí l'uno all'altro dissono assai cose di sentenzia, e puosonsi a mensa. Dove mangiato che ebbono, messer Valore pigliando comiato, Piero gli disse:

- Togliete l'aguto vostro, ché io nol potrei conficcare dove dite; però che Cesare e Alessandro e molti altri nol poterono conficcare, non che io che sono un piccolo uomo: e potendolo fare non voglio, acciò che 'l mondo non perisca.

Messer Valore tolse lo aguto e disse:

- Et tu es Petrus, et super hanc petram  è edificata la sapienzia; e fatti con Dio.

E cosí finirono e 'l convito e' ragionamenti.

O qual cosa è piú certa che questa rota, la cui velocità nel volgere mai non ebbe posa, e quanti re, e quanti signori, e quante sètte de' populi e de' comuni l'hanno già provato! Quanto piú si vede, meno si crede. Chi è in alto stato non pensa mai al calare; e quanto piú va in su, di maggior pericolo è la caduta. Non voglio mettere tempo in allegare le fortune degli antichi signori; guardisi pur una canzonetta che colui che la fece, ve ne mise una gran parte, la qual comincia: “Se la fortuna e 'l mondo, Mi vuol pur contastare, ec.”. E non dirò come fu in cima della rota Troia, e come Priamo, e come fu grande Tebe, e come fu alta Cartagine, e 'l suo Annibale, e la setta Barchina, e l'altra; e lascerò stare Roma che signoreggiò tutto l'universo, e ora quello ch'ella tiene; e qual furono i cittadini suoi, e qual sono oggi: ogni cosa è volta di sotto e attuffata nella mota.

Che vo io cercando le cose antiche che si potrebbe dir: forse non fu cosí? diciamo di quelle che ieri vedemmo quanto volubilmente la rota mandò sul colmo re Carlo terzo, e essere re di Puglia e d'Ungheria, e come subito il mandò in alto, tanto subito o piú il volse a basso. Come condusse questa in superiore stato messer Bernabò signore di Melano, per farlo venire nella inferiore parte, là dove sanza ritegno fu disfatto. I signori della Scala come sono arrivati? I Gambacorti signori di Pisa al tempo di Carlo imperadore esser disfatti, e poi disfatto chi signoreggiò dopo loro; poi ritornare messer Pietro Gambacorti e' suoi nella signoria; e in fine essere morti e cacciati. Non è questo un fare all'altalena? non è questo un farsi certo che sempre questa rota giri? Quanti sono quelli che l'hanno provato e d'ogni stato e d'ogni condizione! non caperebbe in questo volume a raccontarli; e alcuno non pensa, purché abbia ricchezza stato o signoria. E non considera una cosa essere certa, che la ricchezza corre al suo fine, che è la povertà; lo stato ha spesse volte fine di morte o di suggezione, che gli è tolto da un altro che 'l conduce in miseria; la signoria viene infine in servitute. Adunque chi volesse vedere dirittamente, o miseri mortali, quelli è beato che non è sottoposto alle ricchezze, che non ha mai il dolore d'averle perdute; ché, come dice Dante, non è nel mondo alcun maggior dolore. Colui è beato che non ha paura di perdere grande stato, e similmente chi non ha la signoria, che non istà con sospetto e con paura di perderla, sí come rispose un filosofo a un che 'l domandò chi fosse il piú avventurato uomo d'una terra; e quelli rispose:

- Colui che tu credi che sia in maggiore miseria.

Chi notasse questo detto, e considerassi bene con gli occhi della mente, serebbe molto meglio a nascere e vivere e morire povero che nascere ricco e vivere ricco e in grande stato, con grande sollecitudine e sospetto, e poi forse nella fine vivere in miseria. Affatichisi dunque chi ha voglia di stato, o di ricchezza, che nella fine il mondo paga ciascuno della sua fatica.

 

 

 

NOVELLA CXCIV

 

Massaleo degli Albizzi da Firenze, con tre belle ragioni, morde l'avarizia d'Antonio Tanaglia suo vicino.

 

Non s'indugiò molto tempo Matteo di Landozzo, vocato Massaleo degli Albizzi, a fare la vendetta di Piero di Filippo suo consorto, in mordere d'avarizia un suo vicino; e questo Matteo è raccontato a drieto in una novelletta per un buono sonatore di vivuola a uno giudice della Grascia nelle carcere del Comune di Firenze. Questo Matteo fu d'una piacevole condizione; e avendo per vicino uno ricchissimo cittadino di Firenze e molto avaro, chiamato Antonio Tanaglia, e considerato tutte le sue condizioni che erano di pruova a volersi serbare il suo, e non lo partecipare né con lui né con alcun altro, pensatosi una notte, ebbe trovato uno piacevole modo di morderlo la seguente mattina; e trovatosi con lui in presenza di alquanti a sedere disse:

- Antonio mio, io ho veduto che io ho e posso avere vie meglio della tua ricchezza che non hai tu stesso.

Costui tutto spaventò, credendo forse che Matteo gli avesse o furato o tolto gran parte del suo, e affisossi nel guardarlo per veder quello che costui volesse dire. Massaleo, che vedea gli atti di costui, dice:

- Tu guati: se mi valesse dire: “che vuoi che ti costi, e farottenne chiaro?”, il farei, ma serebbe predicar nel deserto; ma sanza costo alcuno (e se tu me lo volesse dare, io il rifiuto), io ti voglio far chiaro, o vogli tu o no, per farti vivere piú malinconoso che tu non vivi. Elle sono tre cose: la prima si è che della tua ricchezza tu non hai bene, né io anche n'ho bene, e qui siamo del pari; la seconda si è che tu guardi la tua ricchezza con gran fatica per non diminuirla, o per non perderla, e questa fatica non ho io, sí che in questa seconda parte io ho vantaggio da te; la terza si è che, se tu la perdessi, o venisseti meno, tu morresti a dolore, o impiccherestiti per la gola; e io n'arei grandissima allegrezza e ballerei e canterei; e in questa terza parte io starei tanto meglio di te, quanto serebbe da essere io nel Cielo Impirio e tu essere nel profondo dello abisso. Sí che vedi, quanto della tua ricchezza io ho meglio di te.

Antonio si volgea attorno, come fuori di sé, e volgeasi a quelli d'attorno, li quali tutti diceano:

- Antonio, se tu non ti provvedi, il Massaleo dice il vero con molto belle ragioni; che rispondi tu?

E quelli dice:

- Io voglio per me il mio, se io l'ho.

Dice Massaleo:

- Ben dicesti, se tu l'hai; e io ti dico che tu non l'hai né tu né io.

Costui si leva tutto bizzarro e partesi dalla brigata, brontolando verso Matteo, e andossene in casa; dove, pensando sul detto di Matteo e su le tre cose per lui dette, in sé medesimo contendea e dicea: “E’ par vero ciò che dice, e non è vero nulla, però che io tegno la mia ricchezza, ed elli si tiene la sua povertà; ma per lo corpo di Dio che m'ha fatto vergogna e fammi avaro, dove a me pare esser povero, anzi prodigo vo' dire. Una cosa gli farò: che una volta gli diedi bere d'un buon raspeo che io avea fatto; se io vivesse mill'anni, mai non gliene darò piú, né agli altri di questa contrada che sghignavano per invidia che hanno della mia ricchezza, ma per loro amore io m'ingegnerò da quinci innanzi di spendere meno che io potrò e di crescere il mio a loro dispetto: e ben ne potrà crepare Matteo con tutti loro”.

E cosí fra sé si venne tutto un dí combattendo, e nella fine ristrettosi e dolutosene con l'avarizia, se ne dié pace; e le ragioni dette per Matteo si divulgorono per la terra per forma che, se Platone l'avesse dette, non serebbono state piú famose.

Cosí è fatta la condizione dell'avaro: che quando è punto da alcuno in simil forma, s'avvisa che quel tale il dica perché vorrebbe che gittasse via il suo, o per invidia, o per empiersene il corpo; di che per avarizia, e per non far contento colui, continuo affina in essa, e mai non si toglie fame.

 

 

NOVELLA CXCV

 

 

Uno villano di Francia avendo preso uno sparviero del re Filippo di Valos, e uno mastro uscier del re, volendo parte del dono a lui fatto ha venticinque battiture.

 

Uno contadino di Francia mi si fa innanzi a volere che io lo descriva in suo sottile accorgimento, il quale usò contro a uno maestro uscier del re Filippo di Valos, perché con appetito d'avarizia gli volea tòrre quello che lo re avea ordinato di dare a lui.

Avvenne per caso che regnando il detto re, e facendo il suo dimoro in Parigi, avea un suo sparviero, che di bellezza e di bontà passò tutti che nella sua Corte fossono mai, avendo e' sonagli o d'oro o d'argento smaltati tutti con gigli dell'arme reale. E venendoli volontà, come spesso incontra, d'andare a sollazzo e con questo e con altri uccelli e cani, per vedere volare, giunti in uno luogo, dove era copia di pernisi, lo sparveratore del re che lo avea in mano, gittò questo sparvero a una pernise, e lo sparvero la prese. Andando piú oltre, gittò a un'altra, e non pigliandola, che che si fosse la cagione, o villania che lo sparviere ricevesse o altro, dove solea essere tanto maniero che sempre, non pigliando, d'aria in pugno ritornava, fece tutto contrario, che egli volò in alto e tanto di lunge che lo perderono di veduta. Onde il re, veggendo questo, mandò circa otto de' suoi scudieri sergenti e lo sparveratore a seguire lo sparviero, tanto che lo ritrovassino. E cosí andorono per diverse parti, consumando otto giorni che mai niente ne poterono trovare, e ritornorono a Parigi rapportando ciò al re.

Di che il re se ne dié malinconia, come che fosse uno valoroso re, e questo fosse un nobile sparviere... tutto dí incontra.

E stando per alcuno spazio, e non essendo appresentato lo sparviero per alcuno che l'avesse preso, fece mettere un bando che chi pigliasse il detto sparviero, e rappresentasselo, averebbe da lui duecento franchi, e chi non lo rappresentasse, anderebbe al giubbetto. E cosí andò e la grida e la fama, e conseguendo per spazio d'uno mese, questo sparviero capitò nel contado di... là dove essendo su uno arbore, e 'l contadino narrato di sopra, lavorando ne' campi appiè di quello, ebbe sentito e' sonagli, e accostandosi quasi per scede, e mostrando la callosa e rozza mano, con uno allettare assai disusato, lo sparviero gli venne in mano. Al contadino, oltre al ghermire degli artigli, parv'essere impacciato; ma veduti i sonagli col segno reale, e avendo due fanciulle da marito, perché avea inteso la fama del bando, come uomo poco sperto a questa faccenda, gli parve essere mezzo impacciato; ma pur, presi i geti e lasciata la zappa, s'avviò verso la sua casa, e tagliata una cordella da un basto d'uno asino, l'attaccò a' geti e legollo su una stanga. E considerando chi egli era, e come era adatto a portarlo a Parigi innanzi la presenza del re, tutto venía meno. E com'egli era a questo punto, un mastro usciere del re, per alcuna faccenda passando dalla casa di costui, sentendo li sonagli, disse:

- Tu hai preso lo sparviere del re.

Quelli rispose:

- Io credo di sí.

Allora costui gli lo chiede, dicendo:

- Tu lo guasteresti, se tu lo portassi, dàllo a me.

Il contadino rispose:

- Egli è ben vero ciò che voi dite, ma piacciavi non mi tòr quello che la fortuna m'ha dato; io lo porterò il meglio che potrò.

Costui si sforzò e con parole e con minacce averlo dal contadino, e mai non vi fu modo; di che gli disse:

- Or ecco, se non vuogli far questo, fammi un servigio; io sono innanzi col re assai, io ti serò buono in ciò che potrò; e tu mi prometti di darmi la metà di quello che 'l re ti darà.

Il contadino disse:

- Io sono contento -; e cosí promisse.

Vassene costui a Parigi; e 'l contadino, trovato un guanto di panno tutto rotto e mandato a uno d'una terra vicina suo amico, che si dilettava... gli prestò un cappello, e pasciuto lo sparviere e incappellato, si mise la via tra gambe, tanto che con gran fatica, per portare cosa non mai usata, e perché villano avea preso gentile, giunse a Parigi dinanzi al re. Il quale, veggendolo, ebbe allegrezza dello sparviere trovato e risa assai, veggendo quanto stava bene in mano al contadino. Di che il re disse:

- Domanda ciò che tu vuoi.

Il contadino rispose:

- Monsignor le Roi, questo sparviere mi venne a mano come piacque a Dio; hollo recato il meglio che ho potuto, il dono che io voglio da voi è che mi facciate dare cinquanta o bastonate o scoreggiate.

Lo re si maravigliò, e domandò la cagione di quello che domandava. Egli lo disse: come il tal suo mastro usciere volle che io gli promettessi dargli il mezzo di quello che a vostra santa corona mi donasse; fate a lui e le venticinque a me. E come che io sia povero uomo e arei bisogno per due mie figliuole da marito d'avere altro dalla vostra signoria, io me n'andrò molto piú contento, avendo quello che io vi domando, per vedere dare a lui quello che merita, benché io l'abbia simile a lui, che se voi mi deste del vostro oro e del vostro argento.

Lo re, come savio, intese il dire del materiale contadino, e pensò con la justizia mandarlo contento, dicendo a' suoi:

- Chiamatemi il tale mio mastro usciere.

Subito fu chiamato; e giunto dov'era la presenza del re, lo re lo domanda:

- Trovastiti tu là, dove costui avea preso questo sparviere?

Quelli rispose:

- Oí, monsignore le Roi.

Disse lo re:

- Perché non lo recavi tu?

E quelli rispose:

- Questo villano non volle mai.

Lo re disse:

- Piú tosto fu la tua avarizia, per avere da lui mezzo il dono ch'egli avesse.

E 'l villano, udendo disse:

- E cosí fu, signor mio.

- E io, - disse il re - dono a questo contadino cinquanta sferzate a carni nude, delle quali, come tu patteggiasti con lui, n'hai avere venticinque.

E comanda a un suo giustiziere che subito lo faccia spogliare e mettale ad esecuzione, e cosí fu fatto. E lo re lo fece venire dinanzi a lui e al villano e disse:

- Io t'ho dato mezzo il dono e hotti cavato d'obbligo che l'avei promesso a questo rubaldo; l'avanzo non voglio guire di dare a te.

Ma dice a uno suo cameriero:

- Va', fa' dare dugento franchi a costui, acciò che mariti le sue figliuole; e da ora innanzi vieni a me quando tu hai bisogno, che sempre sovverrò alla tua necessità.

E cosí si partí il contadino con buona ventura; e 'l mastro usciere si fece di scorreggiate un'armadura, per andar piú drieto al ben proprio che a quello del suo re.

Grande fu la justizia e la discrezione di questo re; ma non fu minore cosa uscire del petto d'uno villano, anzi d'un animo gentile, si potrebbe dire, tanto degna domanda, per pagare la cupidigia di colui che mai non fu in grazia dello re Filippo, come era prima.

 

 

 

NOVELLA CXCVI

 

 

Messer Rubaconte Podestà di Firenze dà quattro belli e nuovi judicii in favore di Begnai.

 

Perché mi pare esser entrato in certi giusti judicii, e ricordandomi quanto fu diritto il judicio di Salamone verso quelle due donne che domandavono il fanciullo; e ancora avendo udito già la novella di colui che avea sognato d'avere avere due buoi dal suo vicino, i quali gli avea tolti, e 'l giusto giudice, veggendo che avea ferma la sua domanda secondo il sogno, fece venire due buoi di mezzo giorno, quando il sole piú lucea, e mandatili su per uno ponte, menando l'addomandatore con lui, mostrando l'ombre de' buoi nell'acqua, giudicò quelli essere i buoi suoi, e che quelli pigliasse; cosí racconterò in brevità quattro judicii dati per uno podestà di Firenze, chiamato messer Rubacone, venendo tutti e quattro in favore d'un semplice e nuovo uomo, chiamato Begnai.

Innanzi che questo Podestà fosse stato due mesi in officio, essendo questo Begnai su uno ponte, che allora era di legname, venendo gran fiotto di gente a cavallo dall'altra parte, fu costretto Begnai di salire su la sponda, che era di legno, non molto larga. Di che, passando la gente allato a lui, e' fu sospinto e cadde in Arno addosso a uno che si lavava le gambe, il quale se ne morí. I parenti del morto fanno pigliare Begnai a furore, e dinanzi a questo Podestà domandono che sia morto, conciossiacosa ch'egli ha morto il tale. Il Podestà, considerando il caso, come che la legge dica: “Chi uccide dee essere morto”; contastava agli accusatori. E fra l'altre cose, dicendo eglino: “Noi vogliamo il nostro onore”, el Podestà disse:

- E io ve lo voglio dare, e voglio che voi vi vendichiate; e 'l modo è questo, e questa sentenzia do: che questo Begnai si vada a lavare i piedi in Arno, là dove il morto se gli lavava, e uno di voi, de' piú distretti al morto, vada su la sponda del ponte, donde cadde costui, e caggia addosso a lui.

A costoro parve avere mal piato e non sapere che rispondere, e abbandonarono la questione, e Begnai fu lasciato.

La seconda cosa fu che, essendo caduto uno asino a uno lavoratore, e non potendosi levare, il lavoratore l'aiutava dinanzi, pregò Begnai l'aiutasse di drieto; e Begnai, pigliandolo per la coda e tirandolo in su quanto potea, la coda gli rimase in mano. A quel dell'asino parendo essere diserto, ricorse al detto Podestà, e fece richiedere Begnai; e 'l Podestà di questo caso, udendo Begnai allegare che credea che la coda dell'asino fosse meglio appiccata, scoppiava delle risa. E quel di cui era l'asino, dicea:

- Io non ti dissi che tu gli divellessi la coda.

Il Podestà dice:

- Buon uomo, menatene l'asino a casa, ché, perché non abbia coda, e' porterà bene la salma.

Colui rispondea:

- O con che s'arrosterà dalle mosche?

Onde il Podestà giudicò che 'l buon uomo se ne menasse l'asino suo, e se non volesse, Begnai se lo tenesse tanto elli che rimettesse la coda, e poi glielo rendesse. Begnai rimase libero, e 'l villano se nel menò a casa sua cosí codimozzo per lo migliore.

La terza cosa fu che a Begnai venne trovato una borsa con quattrocento fiorini; e colui che l'avea perduta, andandone cercando, Begnai gli la rendeo: poi fa questione, quelli di cui era la borsa, con Begnai, e dice che vi sono meno fiorini cento. Colui risponde:

- Io te la do com'io la trovai.

Va la questione dinanzi a questo Podestà, il quale udendo, dice a chi domanda:

- Come è da credere, se costui avesse voluto far male, che te gli avesse renduti di sua volontà?

- No, - dicea colui, - e' mia erano fiorini cinquecento.

Dice il Podestà:

- Or via, io giudico che Begnai tenga questa borsa di fiorini quattrocento, tanto che tu truovi la tua di fiorini cinquecento; salvo che se tu se' contento pigliarla come te l'ha data, tu l'abbi, sí veramente che tu sodi che, se questa di fiorini quattrocento fosse d'altrui, di restituirla.

Costui se la prese e arrose il sodamento, e Begnai fu liberato.

La quarta e ultima avvenne quasi nell'ultimo del suo officio; e fu che, andando Begnai a cavallo alla fiera a Prato, quando fu verso Peretola, s'accompagnò, come incontra, con certi che erano a cavallo con donne; di che, avendo Begnai il cavallo un poco spiacevole, cominciò a gittarsi addosso a un altro in su che era una donna gravida, la quale ne cadde in terra per forma che si scipòe. Il marito e' fratelli vanno con l'accusa dinanzi al Podestà; e richiesto Begnai, comparisce dicendo che elli per sé non fu elli, anzi fu il cavallo, il quale mai non avea conosciuto, né aveali favellato. E 'l Podestà dice:

- In fé di Dio, Begnai, che tu se' un gran malfattore, tante cose ho aúte a finire de' fatti tuoi!

E voltosi a quelli della donna, dice:

- Che domandate voi?

E quelli dicono:

- Messer lo Podestà, parvi convenevole che costui abbia fatto sconciare questa donna?

E 'l Podestà dice:

- Voi udite che non ha colpa elli: e' cavalli son pur bestie; che se ne dee fare?

E quelli rispondono:

- E noi come riabbiamo la donna nostra gravida com'ell'era?

E 'l Podestà dice:

- E io voglio giudicare questa questione cosí; che voi mandiate la donna a casa di questo Begnai, e tanto la tenga che la renda gravida com'ell'era.

Udendo ciò costoro, se n'andorono, e non la mandorono a Begnai; di che elli rimase libero.

Venuto il tempo del sindacato, ebbe il Podestà assai petizione sopra le faccende di Begnai, allegando che non avea seguíto né la legge, né gli statuti del Comune. Il Podestà dicea:

- La migliore legge che si possa usare è quella della verità e della discrezione; però che la legge dice: “Chi uccide dee essere morto”; ma egli è grandissima differenza da una morte a un'altra; ché sono morti che potrebbono meritare premio, non che avere pena di morte, e sono morti che meriterebbono mille morti. E pertanto conviene che qui sia uno mezzo che pigli un'altra via che seguire le leggi; e questa via conviene che sia il discreto rettore, come che io non sia di quelli, ma per discrezione e per bene ho giudicato.

Li sindachi, udendo li judicii dati per lui, e spezialmente quelli di Begnai, dissono tutti che non meritava pur d'essere prosciolto, ma d'avere uno grandissimo onore dal Comune.

E tanto feciono co' Signori, che con li loro consigli ordinorono che 'l detto Podestà avesse uno pennone e una targa dal popolo di Firenze. E questo fu lo primo che si desse a' nostri rettori.

Volesse Dio che oggi si dessono discretamente, come per li tempi passati si davono. Allora si davano per rimunerare la virtú, oggi per compiacenza o per amistà.

 

 

NOVELLA CXCVII

 

 

Il canonaco de' Bardi fiorentino si richiama di ser Francesco da Entica, perché non volle prestare il ronzino a Aghinolfo; e messer Bonifazio da Savignano dà il judicio.

 

Qual fu piú nuovo judicio o piú piacevole che quello che diede messer Bonifazio da Savignano Podestà di Firenze nella presente novella contro a ser Francesco di ser Giovanni da Entica? il quale era sí trascurato che avendo a vedere una carta compiuta dal canonaco de' Bardi, per consiglio che volea da lui, e 'l detto calonaco ritornando per essa, quelli cercò tutta la casa, e non potendola trovare, dicea:

- O tu non me l'arrecasti, o io te l'ho renduta -; e in fine, non potendola avere, e dicendo la novella il canonaco alla piazza con certi a Ponte Rubaconte, da indi a un mese e' porci di Santo Antonio passando, l'uno avea una carta in bocca.

Coloro udita la novella e passando il porco, dicono:

- Quella serà la carta tua -; e seguendolo certi famigli, a gran pena la riebbono, la maggior parte morsecchiata e rotta, come quella che un mese era stata in la loro jurisdizione, ed era dessa.

E cosí si gittava ogni cosa a' piedi, e la sua porta era sempre ròsa o da cani o da porci, sí che v'era sempre l'entrata per lo buco che s'aveano fatto.

Di che, essendo costui scorto un poco per pecorino, spezialmente da' Bardi suo' vicini, Aghinolfo de' Bardi gli chiese un dí un suo ronzino da soma per andare o mandare a una sua villa. Quelli disse che non potea, però che l'avea a mandare per suoi fatti; e non disse però il vero. Di che Aghinolfo convenne ricorrere ad altrui, e accattonne uno dal calonaco suo consorto; il qual ronzino, o per soperchia fatica, o per che che si fosse, tornò guasto al detto calonaco; il perché, veggendo avere come perduto il suo ronzino, e pensando che ciò fosse intervenuto perché ser Francesco da Entica non gli avea voluto prestare il suo; e considerando quello che ser Francesco avea fatto della sua carta, e quanto era di materiale condizione, e ancora avendo singulare conoscenza col detto Podestà, pensò di richiamarsi di lui; ma prima da sé a lui gli l'andò a dire: e dicendoglilo, ser Francesco disse:

- Motteggi tu?

Il calonaco disse:

- Io dico dal miglior senno che io ho.

Dice ser Francesco:

- E qual legge hai tu trovata che dica cotesto?

E quelli rispose:

- E’ci è una legge e ordine, e honne aúto buon consiglio.

Dice ser Francesco:

- Ben veggio che io non ho ancora apparato; ché io per me non la trova' mai.

Dice il calonaco:

- Volete voi dir altro?

E quelli dice:

- Che altro? deh va' in buon'ora, va'.

E colui risponde:

- Sia al nome di Dio -; e volte le spalle, ne va diritto al Podestà, e informalo di questa faccenda, e fallo richiedere per lo primo dí juridico.

Come ser Francesco si sente richiesto, dice:

- Alle guagnele! che par che dica da dovero!

E trovando Aghinolfo gli dice:

- O questa è ben bella novella che 'l calonaco si richiami di me: perché io non ti prestai il ronzino mio, dice che io gli debbo mendare il suo che tu gli hai guasto; se menda si venisse, tu gliel'averesti a fare tu.

Dice Aghinolfo:

- Se voi avete a fare col calonaco, e' me ne incresce; io non ho a mendare nulla; quando io serò chiamato, io risponderò.

Dice ser Francesco fra sé stesso: “L'uno dice male e l'altro peggio; va' abbi a fare con maggiori di te! Costoro pare che mi vogliono rubare; io venni a stare qui tra le maggioranze, poteva avere nel Canestruccio una casa per un pezzo di pane, ed era presso a' palagi de' rettori: or togli ser Francesco, va', sta' allato a' maggiori di te: Dio m'aiuti; io ho la ragione, vedremo che fia”.

Venuto il dí della richiesta, e ser Francesco è dinanzi al rettore; là dove il calonaco dice ordinatamente tutta la sua domanda. E 'l Podestà dice all'altra parte:

- E tu che di'?

Dice ser Francesco:

- Che ne pare elli a voi?

Dice il Podestà:

- Sono io Podestà, o tu o io, ché tu domandi me?

A ser Francesco parve nuovo introito questo per lui, e chiese perdonanza, dicendo:

- Io vi prego che voi mi facciate ragione.

E allegando l'una parte e l'altra, ser Francesco allega uno testo di messer Bartolo da Sassoferrato. Dice il calonaco:

- Io non dico che 'l ronzino sia sferrato, anco dico ch'egli è guasto, e non che 'l ronzino, ma tutto il basto è rotto.

- Buono buono! - dice ser Francesco di ser Barbagianni, - io allego uno dottore di legge che ebbe nome messer Bartolo da Sassoferrato, e non dico di ronzino sferrato.

Dice il calonaco:

- Io vi farò ben mostrare all'avvocato mio il contrario in cotesto medesimo dottore.

Brievemente, il Podestà e 'l collaterale suo dissono e allegorono tanto in contrario del detto ser Francesco che quasi egli si credette avere il torto. E quando il Podestà l'ebbe condotto dove volea, disse che per lo migliore accordasse il calonaco o che si compromettessino in avvocati comuni; e cosí fecero. Li quali avvocati furono anco partecipi di questo piacere, e in fine feciono o di tutto o di gran parte il calonaco contento.

E cosí arrivò ser Smemora, per non rigovernare sí la carta ch'e' porci di Santo Antonio non gli l'avessin tolta; e 'l calonaco e Aghinolfo se ne goderono di questa novella piú mesi, e 'l Podestà non si stette. Ser Francesco ne rimase stordito affatto, ché fra se stesso pensava pure se questo fatto era sogno o se era da dovero; e trovato che era pur vero, e' dicea in sé medesimo: “O io non ho bene apparato, o io sono smemorato”; e quasi mai non se ne diede pace. Egli allegava al calonaco Sassoferrato, e 'l calonaco sapeva lo 'nforzato, e con quello vinse la questione.

 

 

NOVELLA CXCVIII

 

Uno cieco da Orvieto con gli occhi mentali, essendoli furato cento fiorini, fa tanto col suo senno che chi gli ha tolti gli rimette donde gli ha levati.

 

Molto fu piú avveduto un cieco da Orvieto, con gli occhi d'Argo, a riavere fiorini cento che gli erano stati tolti sanza avere andare ad alcuno rettore, o chiamare avvocati arbitri, o allegar legge o noteria. Fu costui uno che già avea veduto, e avea nome Cola, ed era stato barbiere: avendo circa anni trenta, perdé la luce, e non possendo vivere, ché povera persona era, piú col guadagno né di quella arte, né d'alcuna altra, convenne che si desse a domandare la limosina; e avea preso per uso alla chiesa maggiore d'Orvieto fare ogni mattina almeno infino a terza la sua dimora, e quivi gli era fatto per l'amor di Dio, da' piú della terra, carità, tanto che in non molto tempo gli avanzò cento fiorini, e quelli segretamente tenea addosso in uno suo borsello.

Avvenne per caso che moltiplicando costui in avanzare, molto piú che non facea con le forbicine o col rasoio, gli venne pensiero una mattina, credendo essere rimaso nella chiesa dirieto a tutti gli altri, d'andare dopo la porta e mettere la borsa de' cento fiorini sotto uno mattone dell'ammattonato; ché già avea veduto come quello spazzo stava. E cosí come avea pensato, fece, non credendo che alcuno fosse nella chiesa rimaso che 'l vedesse. Era per avventura rimaso nella chiesa uno Juccio pezzicheruolo che adorava dinanzi a santo Giovanni Boccadoro, il quale adorando, vide ciò che Cola razolava, ma non sapea lo 'ntrinseco; onde elli aspettò tanto che Cola si fu partito, e subito andò nel luogo drieto a quella porta, e guardando, vide un mattone fuori di forma mosso dagli altri, e con uno coltello quasi come una lieva levatolo suso, vide il borsello; e subito se lo recò in mano, e racconciò il mattone come prima, e con li detti danari se n'andò a casa sua, per animo di non manifestarli mai.

Avvenne per caso che innanzi che passassono tre dí il cieco ebbe voglia di sapere se il suo era dove l'avea sotterrato; e colse tempo, e andò al mattone sotto il quale avea nascoso il suo tesoro, e levandolo, e cercando della borsa, e non trovandola, gli parve stare assai male; ma pur ripose il mattone in suo stato, e malinconoso se n'andò a casa. E là pensando come in un punto avea perduto quello che a poco a poco in gran tempo avea acquistato, gli venne in pensiero acuto, come a' piú de' ciechi interviene, che egli la mattina vegnente chiamò un suo figliuolo di nove anni, e disse:

- Vieni, e menami alla chiesa.

E 'l fanciullo ubbidí al padre; ma innanzi ch'elli uscissi di casa, l'ebbe nella sua camera, e disse:

- Vie' qua, figliuol mio: tu verrai meco alla chiesa, non ti partire da me; sederai dov'io nell'entrata della porta, e quivi guarderai molto bene tutti uomeni e donne che passeranno, e terrai a mente se niuno vi passa che mi guardi piú che gli altri, o che rida, o che faccia alcuno atto verso me, e tieni a mente chi egli è: sapra' lo tu fare?

Dice il fanciullo:

- Sí.

Informato il fanciullo, il cieco ed ello se n'andorono alla chiesa, e puosonsi alla posta loro. Il fanciullo, stando attento a' comandamenti del padre, stette tutta quella mattina alla mira di ciascheduno, e in brieve e' s'accorse che questo Juccio, passando, avea affisato e sorriso inverso il cieco padre. Ed essendo venuta l'ora di tornare a casa a desinare, prima che salisse il cieco col figliuolo la scala, il cieco fece l'esamine, e disse:

- Figliuolo mio, hai tu veduto niente di quello che io ti dissi?

Disse il fanciullo:

- Padre mio, io non ho veduto se non uno che vi guardò fiso e rise.

E 'l padre disse:

- Chi fu?

E quelli disse:

- Io non so come s'ha nome, ma io so bene ch'egli è pizzicheruolo, e sta qui presso da' Frati minori.

Dice il padre:

- Saprestimi tu menare alla sua bottega e dirmi stu 'l vedi?

Il fanciullo dice di si. Il cieco levò via ogni dimoranza, e dice al fanciullo:

- Menami là, e stu lo vedi, dimmelo: e quando favello con lui scostati e aspettami.

Il fanciullo guidò il padre tanto che lo trovò alla stazzone che vendea formaggio, e disselo al padre, e accostollo a lui. Come il cieco l'udí favellare con quelli che compravono, conobbe lui essere Juccio, col quale, quando avea la luce, ebbe già conoscenza; e cosí seguendo, disse che gli volea un po' parlare da sé e lui in luogo secreto. Juccio, quasi sospettando, il menò dentro in una cella terrena, e dice:

- Cola, che buone novelle?

Dice Cola:

- Frate mio, io vegno a te, e con gran fidanza e con grande amore: come tu sai, egli è buon tempo che io perdei il vedere, ed essendo in povero stato con gran famiglia, m'è stato forza di vivere di lemosina; e per grazia di Dio e per bontà e di te e degli altri Orvietani, io mi trovo avere fiorini duecento, de' quali fiorini cento ho in un luogo a mia petizione, e gli altri ho dati in serbanza a piú mia parenti che in otto dí gli averò. E pertanto, se tu vedessi modo di pigliare questi duecento fiorini, e farmi per amore di messer Domeneddio quella parte di guadagno che ti paia convenente per sostenere e me e' miei figliuoli, io ne serei molto contento, però che in questa terra non è alcuno in cui piú mi fidassi, e non voglio che di ciò si faccia alcuna scrittura, e che niente se ne dica e che niente se ne sappia. Sí che io ti priego caramente, che che partito tu pigli, che di ciò che io t'ho detto mai per te non se ne dica alcuna cosa; però che tu sai che come si sapesse che io avesse questi danari, tutte le limosine che mi sono date mancherebbono.

Juccio, udendo costui e immaginando di potere tirare l'aiuolo anco a' fiorini cento, disse a Cola assai parole, e di tenerli credenza, e che l'altra mattina tornasse a lui e risponderebbegli. Il cieco si partí, e Juccio, preso tempo, il piú tosto che poté andò con la borsa, che ancora non avea tocca, alla chiesa, e sotto quello mattone donde l'avea tolta, la ripose: però che ben s'avea pensato ch'e' fiorini cento che Cola dicea avere a sua posta erano i fiorini cento che avea sotto il mattone riposti, ed elli, perché la faccenda degli altri cento non mancasse, andò e riposevegli.

Cola dall'altra parte immaginò che nel dire di Juccio “domattina ti risponderò” fosse da credere che per avere gli altri cento potrebbe intervenire che, innanzi che facesse la risposta, ve gli riporterebbe: andò quel dí medesimo alla chiesa, e pensato di non essere veduto, levò il mattone, e cercato sotto trovò la detta borsa; la qual subito si cacciò sotto, e rimise il mattone sanza curarsene troppo, e tornossi a casa, avendo la buona notte; e la mattina vegnente andò a udire Juccio. Il quale come lo vide, gli si fece incontro dicendo:

- Dove va il mio Cola?

Cola disse:

- Io vegno a te.

Entrati in luogo segreto, disse Juccio:

- La gran confidenza che mi porti, mi fa sforzare a fare ciò che domandi; fa' d'avere li duecento fiorini: per di qui otto dí io farò una investita di carne salata e di cacio cavallo, ch'io credo guadagnare sí che io ti farò buona parte.

Dice Cola:

- Sia con Dio; io voglio andare oggi per fiorini cento, e forse anco per gli altri, e recherottegli; fammi poi quel bene che tu puoi.

Disse Juccio:

- Va' con Dio, e torna tosto, poiché ho deliberato fare questa investita, però che messer Comes raguna per la Chiesa gran gente d'arme, e credesi che faranno capo grosso qui; e' soldati son molto vaghi di queste due cose. Sí che, va', procaccia, ché io credo farne molto bene e per te e per me.

Cola n'andò, ma non con quell'animo che Juccio credea, però che 'l cieco accecava ora l'alluminato. E venuto l'altro dí, Cola con un viso tutto malinconoso n'andò a Juccio, il quale, veggendolo, tutto ridente gli si fece incontro, e disse:

- Lo buon giorno t'incappi, Cola.

Disse Cola:

- Ben lo vorrei avere comunale, non che buono.

Dice Juccio:

- E che vuol dir questo?

Dice Cola:

- Male per me, ché dov'io avea riposti cento fiorini, non gli ci truovo, che mi sono stati furati; e quelli miei parenti dov'io avea in serbanza gli altri cento in piú partite, chi mi dice non gli ha e chi peggio; sí che io non ho altro che strignere le pugna, tanto dolore ho.

Dice Juccio:

- Questa è dell'altre mie venture, ché, dove io credea guadagnare, perderò fiorini cento o piú; ed ècci peggio, che io ho quasi fatta l'investita; ché, se colui che m'ha venduta la mercanzia vorrà pur che 'l mercato vada innanzi, io non so di che mi pagare.

Dice Cola:

- E’ me ne pesa quanto puote per te, ma per me me ne duole molto piú forte, che rimango in forma che mal potrò vivere, e converrammi ricominciare a fare capital nuovo; ma, se Dio mi fa grazia che mai io abbia piú nulla, io non gli ficcherò per le buche, né ad alcuna persona, se fosse mio padre, gli fiderò o darò in serbanza.

Juccio, udendo costui, pensò se si potesse rattaccare in su' cento che gli parea avere perduti, e dice:

- Questi fiorini cento che hanno i parenti tuoi, se tu gli potessi avere e darmegli, io m'ingegnerei d'accattare gli altri cento, acciò che la investita andasse innanzi: e questo facendo, potrebbe molto ben essere che innanzi che fosse molto, tu te ne troverresti duecento in borsa.

Dice il cieco:

- Juccio mio, se io volesse appalesare i fiorini cento de' parenti miei, io me ne richiamerei e serebbemi fatto ragione, ma io non gli voglio far palesi, perché io averei perduto le limosine, come si sapesse. E pertanto io gli fo perduti, se già Iddio non gli spirasse, sí che da me non isperare alcuna cosa, poiché la fortuna ha cosí disposto: come che io rimanga, io per me, veggendo la tua buona disposizione, la quale era di farmi ricco, reputo d'averlo ricevuto e d'avere in borsa fiorini duecento, come se tu l'avessi fatto, però che da te non è mancato. Una cosa farò, che io farò fare l'arte a un mio amico, se nulla mi potesse dire di chi fosse stato; e se ventura ce ne venisse, io tornerò da te: fatti con Dio, ché io non ci voglio dormire.

Dice Juccio:

- Or ecco, va' e ingegnati con ogni modo, se puoi rinvenire e riavere il tuo; e se ti venisse ben fatto, tu sai dov'io sto, se niente ti bisogna; datti pace il piú che tu puoi e vatti con Dio.

E cosí finí l'investita del cacio cavallo e della carne insalata, la qual non si fece; e 'l cieco raddoppiò il suo, e tra sé stesso se ne sollazzò un buon tempo, dicendo: “Per santa Lucia! che Juccio è stato piú cieco di me”. E ben dicea il vero, ch'elli avea preso l'alluminato alla lenza, aescando cento fiorini per riavere gli altri.

E non è perciò da maravigliare, però che i ciechi sono di molto piú sottile intendimento che gli altri; ché la luce il piú delle volte, mirando or una cosa e or un'altra, occupa l'intelletto dentro; e di questo si potrebbono fare molte prove, e massimamente una piccola ne conterò. E’ seranno due che favelleranno insieme: quando l'uno è a mezzo il ragionamento, passerà una donna o un'altra cosa, quelli, guardando, resta il dire suo e non lo segue; e volendolo seguire, dice al compagno:

- Di che diceva io?

E questo è solo che quel vedere occupò lo 'ntelletto in altro; di che la lingua, la quale era mossa dallo 'ntelletto, non poté seguire il corso suo. E però fu che Democrito filosofo si cavò gli occhi per avere piú sottili intendimenti. Juccio dall'altra parte si dolea, parendoli avere perduto fiorini cento; e dicea fra sé: “Non mi sta egli molto bene? io avea trovato cento fiorini, e volevane anche cento, il maestro mio mi dicea sempre: "Egli è meglio pincione in mano che tordo in frasca'; e io non l'ho tenuto a mente; però che io ho perduto il pincione e non ho preso il tordo, e uno cieco m'ha infrascato; ché veramente egli ha aúto cento occhi, come li cento fiorini, a farmi questo; e' mi sta molto bene, che non mi bastava d'avere li cento, che l'avarizia mi mosse a volerne anche cento. Or togli, Juccio, che avevi comprata la carne insalata, ché ben fu vero che io comprai fiorini cento la carne del cieco, che è bene stata per me la piú insalata che io comprasse mai”. E non se ne poté dar pace buon tempo; dicendo a molti che li diceano: “Che hai tu?” rispondea che avea perduto in carne insalata fiorini cento. E ben gli stette, però che chi tutto vuole, tutto perde; e lo 'ngannatore molto spesso rimane appiè dello ingannato.

 

 

 

NOVELLA CXCIX

 

Bozzolo mugnaio, essendogli mandato grano a macinare, e con la guardia d'un fante che non si partisse acciò che non lo imbolasse, fa pescare la gatta, e imbola piú che mai.

 

Assai meglio seppe fare in su l'altrui Bozzolo mugnaio dalle mulina degli Angetti che non fece Juccio in tenere fiorini cento trovati; però che costui, avendo voce del miglior mugnaio, e di colui che miglior macinato facesse gran tempo, e togliendosi molto bene del grano altrui, come i piú fanno, nella fine il piú coperto ladro divenne che quasi mai macinasse grano, però che, avendo quasi recati al suo mulino la maggior parte de' Fiorentini, nella fine se gli fece suoi fratelli, dividendo con loro per metà quello che gli era portato.

Avvenne per caso che Biancozzo de' Nerli, gentiluomo fiorentino, avendo mandato piú volte al suo mulino per la gran fama che di lui udiva, e sí del buon macinato, e sí della lealtà, e in fine, trovando la cosa non riuscire alle forfici, ma di male in peggio, trovando piú l'una volta che l'altra scemare la farina di quello che dovea; e andando insino al mulino Biancozzo de' Nerli piú volte, e' dice a Bozzolo che la farina gli tornava quando meno il quarto e quando il terzo, che ciò piú non potea sofferire se non lo ristorasse. Rispose Bozzolo, come i suo' pari ancora fanno:

- E’ non dee potere essere; ché cosí m'aiuti Dio e san Brancazio, di cui sono divoto, che lealmente fo i fatti vostri; ma nel vostro grano ha molto del vòto.

Dice Biancozzo:

- Io non so che vòto; io ti dico del pieno, e se non mi ristori, lo mi richiamerò di te.

Risponde Bozzolo:

- Fate cosí: mandateci chi che sia che 'l rechi e non si parta, tanto che sia macinato, e vederete se è mio difetto o del grano.

Dice costui:

- Or bene, tu m'hai inteso -; e vassi con Dio.

E da ivi a pochi dí ebbe a mandare a mulino, e pensossi per le parole del mugnaio mandare un suo fante che avea nome Nutino; e fatto trovare il grano, gli comandò che con esso andasse a mulino, e mai non si partisse né dalla macina, né dalla tramoggia, che avesse a casa ritornato la farina. Il fante si partí, e disse di cosí fare. Giunto al mulino, dice a Bozzolo:

- Questo grano è del tale; pregati tu lo macini testeso ché vuole che io ne riporti subito la farina.

Dice Bozzolo:

- Egli ha preso sfidanza, e io voglio lasciare ogni altra cosa per servir lui.

E messo il grano nella tramoggia, e cominciato a macinare, e Nutino postosi a sedere appresso, fu tutt'uno. E stando Nutino molto attento, vedendo Bozzolo che non potea sbozzolare come volea, come avea ordinato chiamò la Saccente, che cosí avea nome la moglie, e dice che scenda dal palco e meni la gatta, ché vuole andare a pigliare parecchi pesci. Nutino al suon della macina cominciava quasi a sonneferare; ma a quello della gatta gli uscio il sonno, e levandosi disse:

- Questo ben voglio vedere.

E cosí la donna scende d'una scaletta con una gatta legata e col guinzaglio a mano e con un frugatoio, il quale diede a Bozzolo che avea il bigonciuolo da pesci già recatosi in mano, e uscendo dell'uscio si mettono in via.

Nutino, avendo tutto considerato, dice in sé medesimo: “Non è, dovesse andare quanto grano fu mai, che questo io non vada a vedere”; e uscito del mulino, tiene drieto a costoro. Come Nutino è di fuori e segue la gatta, dentro il garzone del mugnaio, come ordinato era, s'attacca al grano di Nutino il meglio che puote; tanto che quasi avvenne come del buon cotto, ché a mezzo torna. La brigata, che su per la riva con la gatta andavono pescando, non pigliavono pesci; il mugnaio col frugatoio percoteva l'acqua, con diversi atti guatando la gatta; Nutino smemoratino tralunava; il fante del mugnaio rinsaccava. Bozzolo, poiché un pezzo ebbe menato la giumenta al torneo, dice:

- Per certo egli è mia sventura che quasi in tutto uguanno non sono uscito piú a pescare con la gatta, che io non abbia preso almeno una libbra, che gli averei mandati a Biancozzo de' Nerli; non si può piú: altra volta ci ristoreremo.

E ritorna a mulino, e dietro a lui Nutino, il quale giunto, disse:

- Come! è macinato?

Disse il garzone del mulino:

- Presso tieni il sacco -; e comincia a mettere la farina, e cosí empiendo dicea: - Mai se si rammarica di questo, ben dirò che non sia mai d'aver piú fede in persona.

Piene le sacca, e Nutino portò la farina; e giunto a casa dice:

- Per certo, se questo non è buon lavorío, mai non ne fia alcuno.

E cosí stando, el signore chiama Nutino, e dice:

- Come hai fatto?

- Signore mio, bene; ho recato farina da far fanciulli maschi.

Chiama la fante, e dice:

- Abburatta, e misura com'ella è tornata.

La fante, abburattata che l'ebbe e misurata la sera, truova le sei staia di grano esser tornate quattro di farina; e dicelo al signore. Il signore adirato chiama Nutino, e dice:

- E’ da fanciulli maschi questa farina? anzi è da figliuoli delle forche, che sie mort'a ghiado, ch'io credo che tu ne sia stato col mugnaio.

Nutino si scusa. Il signore dice:

- Dimmi il vero e non aver paura: partistiti tu mai dal grano?

Quelli comincia a intrefolarsi. Dice il signore:

- Di' sicuramente.

Allora il fante narra tutta la faccenda, e come la pescagione della gatta avea fatto il mugnaio; e che elli non se ne sarebbe mai tenuto che non fosse ito a vedere; e pertanto gli perdonasse; e se per partirsi dal mulino il mugnaio avea imbolato il grano, tutto il mettesse a sua ragione. Il signore si ristrinse nelle spalle, e disse:

- Ogni cosa è d'ugn'anno; vatti con Dio, ché da' furti de' mugnai non veggio di potersi mai guardare. Una cosa farò, che Bozzolo mai non mi sbozzolerà mio grano; portalo oggimai a' frati d'Ognissanti.

E Nutino cosí fece; stando ne' tempi che vennono piú attento a guardare il grano, sanza vedere pescare la gatta.

Cosí è fatta l'astuzia de' ladri, che con tutte le sottigliezze del mondo stanno avvisati di tòrre l'altrui; e se in alcuna gente è questo difetto, è ne' mugnai. Da' a peso e ritogli a peso, da' a misura, sta' a vedere e fa' ciò che tu vuogli, che è? non c'è modo niuno che non imbolino, come ciascuno ha provato e tutto dí prova.

 

 

NOVELLA CC

 

Certi gioveni di notte legano i piedi di una orsa alle fune delle campane di una chiesa, la qual tirando, le campane suonano, e la gente trae credendo sia fuoco.

 

La precedente novella fu con danno e con le beffe; questa che seguita, fu d'una nuova beffa, quanto mai fosse alcuna, e con poco danno altrui; la quale sta in questa forma. Certi Fiorentini erano a cena in una casa di Firenze, la quale era non molto a lungi dal palagio del Podestà; ed essendo tra loro in quel luogo entrata una orsa, la quale era del Podestà ed era molto domestica, andando questa piú volte sotto la mensa a loro, disse uno di loro:

- Vogliàn noi fare un bel fatto? quando noi abbiamo cenato, conduciamo quest'orsa a Santa Maria in Campo, dove il vescovo di Fiesole tien ragione (ché sapete che non vi s'incatenaccia mai la porta) e leghiànli le zampe dinanzi, l'una a una campana, e l'altra a un'altra, e poi ce ne vegniamo; e vedrete barili andare.

Dicono gli altri:

- Deh, facciànlo.

Era del mese di novembre, che si cena di notte; essendo in concordia, danno di mano all'orsa, e per forza la conducono nel detto luogo; ed entrati nella chiesa, si avviano verso le funi delle campane, e preso l'uno di loro l'una zampa e l'altro l'altra, le legorono alle dette campane, e subito danno volta, andandosene ratti quanto poterono. L'orsa sentendosi cosí legata, tirando e tempestando per sciogliersi, le campane cominciano a sonare sanza niuna misura. Il prete e 'l cherico si destano, cominciano a smemorare:

- Che vuol dir quello? chi suona quelle campane?

Di fuori si comincia a gridare:

- Al fuoco, al fuoco .

La Badía comincia a sonare, perché l'Arte della lana è presso a quel luogo. I lanaiuoli e ogni altra gente si levano e cominciano a trarre:

- Dov'è dov'è?

In questo il prete ha mandato il cherico con una candela benedetta accesa, per paura che non fosse la mala cosa, a sapere chi suona. Il cherico ne va là con un passo innanzi e due a drieto e co' capelli tutti arricciati per la paura; e accostandosi al fatto, si fa il segno della santa croce; e credendo che sia il demonio, il volgersi, e 'l fuggire e 'l gridare: in manus tuas, domine , è tutt'uno. Giugnendo con questo romore al prete, che non sapea dove si fosse, dice:

- Oimè! padre mio, che 'l diavolo è nella chiesa, e suona quelle campane.

Dice il prete:

- Come il diavolo? truova dell'acqua benedetta.

Truova e ritruova, non ebbe ardire d'entrare nella chiesa, ma d'un buon galoppo per la porta del chiostro se n'uscí fuori, e 'l cherico drietogli. E giugnendo, molta gente trovò che cominciava a chiamare il prete, dicendo:

- Dov'è il fuoco?

E giugnendo fuori, essendo domandato: “Dov'è questo fuoco, prete?” appena potea rispondere, perché avea il battito della morte. Pur con una boce affinita e affiocata, dice:

- Io non so di fuoco alcuna cosa, né chi suona queste campane; costui v'è ito (e dice del cherico) a sapere chi le suona; par che dica che gli pare la mala cosa.

- Come la mala cosa? - rispondono molti; - reca qua i lumi; abbiàn noi paura di mali visi? chi ha paura si fugga.

E avviandosi in là cosí al barlume, e veggendo la bestia, non scorgendo bene quello che si fosse, la maggior parte si tornano indietro, gridando:

- Alle guagnele, che dice il vero!

Altri piú sicuri s'accostano e veggendo quello ch'è, gridano:

- Venite qua, brigata, ch'ell'è un'orsa.

Corrono là molti, e 'l prete e 'l cherico ancora; e veggendo questa orsa cosí legata, e tirare e nabissarsi con la boce, ciascuno comincia a ridere:

- Che vuol dir questo?

E non era però niuno che ardisse di scioglierla, e tuttavia le campane sonavono, e tutto il mondo era tratto.

In fine certi che conosceano l'orsa del Podestà essere mansueta, s'accostorono a lei e sciolsonla; avvisandosi i piú che qualche nuovi pesci avessono fatto questo per far trarre tutti e' Fiorentini. E tornatisi a casa, piú dí ragionorono di questo caso, e ciascuno dicea chi serebbe stato. I piú rispondeano:

- Dillo a me e io il dirò a te.

Alcuni diceano:

- Chiunque fu, fece molto bene; ché sempre sta quella porta aperta, che non ispenderebbe né 'l vescovo né il prete un picciolo per mettervi uno chiavistello.

E cosí terminò questa novella; e quelli che l'aveano fatto, erano in un letto e scoppiavono delle risa, essendosi fatti piú volte alle finestre con gridare con le piú alte voci che aveano: “Al fuoco, al fuoco ”; e quanta piú gente traea, piú ne godevano; domandando piú che gli altri in quelli di che volle dir quello, per avere diletto di chi rispondea loro.

E per ciò si dice: “Li nuovi uomeni, le nuove cose”. Costoro vollono o immaginoronsi di vedere la gente armata che trae al fuoco; ché per certo chi vi pon ben mente come compariscono, e, la è cosa d'avere diletto, a vedere le nuove cappelline, le nuove cuffie e le nuove cianfarde che recano, sanza le nuove chiocciole e' nuovi gabbani, i nuovi tabarroni, e le antiche arme; sí che appena si conoscono insieme, sguarguatando l'uno insino in sul viso all'altro, prima che si conoscano. Ma piú nuova cosa è a vedere l'usanza e l'avarizia de' cherici, che tutte le chiese e le loro case lasciano andare a ruina prima che vogliano fare una piccola spesa. Cosí, per misertà d'un chiavistello di cinque soldi, stava la porta di questa chiesa aperta: ché molto meritava piú il vescovo e 'l prete che quelli che legarono quest'orsa alle funi delle campane, l'avessono loro legata a' coglioni.

 

 

NOVELLA CCI

 

Madonna Cecchina da Modena, essendo rubata, con uno pesce grosso e uno piccolo, e uno suo figlioletto, sonando la campanella... .

 

Questo fu un bel giuoco di questa orsa; ma questo che segue di due pesci fu con piú sustanzia. Egli è gran tempo che nella città di Modena fu una donna vedova, rimasa di poco tempo d'uno mercatante assai ricco, la quale avea nome madonna Cecchina, e con lei era rimaso un suo figlioletto di forse dodici anni. E come in tutte le terre avviene, e spezialmente oggi che le vedove e' pupilli, essendo pecore e agnelli, hanno cattivi effetti co' lupi, dove ne sono; cosí questa donna, essendogli da' gran cittadini tolto oggi un pezzo del suo, e domane un altro, nella fine perdendo, ed essendogli, si può dire, rubata una sua possessione, e non trovando avvocati a' suoi piati che la difendessono, e se gli trovava, la forza pascea il prato, mossa da una mezza disperazione, si pensò di tenere un modo cosí fatto. Ella richiese un suo amico vicino che gli dovesse piacere di farli un gran servigio, e questo era che gli accattasse una campanella, in quella forma che quelle di santo Antonio, solo per un dí, e poi tornasse da lei. Accattato questo buon uomo una campanella da chiesa, o da cui si fosse, con essa ne venne alla donna. Come la donna l'ebbe, che era di quaresima, dice all'amico:

- Mo via, io voglio che tu venga con mi e con lo mio figliuolo alla pescheria, e comperami, com'io ti dirò, due pesci, uno grande e uno picciolino; e quando gli averai tolti, metterai il picciolino mezzo in gola al grande, e con essi scoperti, che ogni uomo gli veggia, torneremo a casa; e 'l mio figliuolo averà in mano questa campanella e verrà presso a te sonandola; e io serò dall'altra parte. Se alcuno domanderà: “Che vuol dir questo?” laghe rispondere a me.

L'amico si maravigliò forte, domandando per quello che ciò volea fare. La donna rispose:

- Fa' quello che io t'addomando, e pregoti; ché ancor oggi lo saperai e sera' ne contento.

Costui dice:

- Io farò ciò che voi volete.

La donna piglia un suo mantello, e dà la campanella al figliuolo, ammaestrandolo che non sonasse, se non quando gli lo dicesse; e cosí si partirono tutti e tre una mattina, e andarono alla pescheria. Giunti che furono là, la donna guarda e dice all'amico:

- Compra quello luccio grande e compra uno di quelli pesci piccolini che sono all'altra banca.

L'amico cosí fece; e aperta la gola al luccio, gli misse dentro insino al mezzo il pesce piccolo; e dicendoli la donna in che forma lo recasse, sí che ciascuno il vedesse bene, dice al figliuolo:

- Sta' allato a costui, e non restare mai di sonare la campanella -; ed ella dall'altro lato dicea: - Andiamo a casa.

E messisi in via con questa novità mostrando il pesce, e 'l figliuolo sonando la campanella, la gente traea. Chi dicea:

- Che è questo, madonna Cecchina? che vuol dir questo?

Chi domandava in un modo e chi in un altro. A tutti rispondea ch'e' pesci grandi si mangiavano i piccolini; e cosí continuo a tutti rispose, e mai non disse altro, tanto che giunse a casa.

E avendo adoperata la voce, e 'l figliuolo la campanella, e l'amico mostrando l'esemplo, o che non fosse chi leggesse né chi intendesse, poco frutto ne seguí, se non che, fatto cuocere lo pesce grande e piccolo, sel mangiarono a desinare tutti e tre.

E questo fu a tempo ch'e' Pigli erano signori di Modena. Io credo che assai intendessono la donna, ma feciono vista di non l'intendere. Sia certo ciascheduno che chi sostiene che le vedove e' pupilli siano rubati con doloroso fine vengono a perdere il loro stato. E ben si dimostrò in questi che erano signori, ché ivi a poco tempo, perdendo la signoria, venne la terra sotto a quelli da Gonzaga.

E nota, lettore, che quasi tutte le terre venute a signore, o a distruzione, ne sono stati cagione li cittadini possenti delle gran famiglie di quelle città che facendo divisione e contese fra loro, per essere ciascuno il maggiore, caccia l'uno l'altro e rimane la signoria a pochi, o a una famiglia, e poi dopo alcun tempo viene un solo, cioè un tiranno, e caccia coloro, e pigliasela elli. Esempli ne sono assai; ma quattro ne conterò che non è settant'anni che caddono in questa ruina. Cremona che in questo modo ne erano signori li Cuncioni; Parma che la signoreggiavono li Rossi; Reggio signoreggiavano quelli da Fogliano; e Modena detta gli Pigli, come detto è. Viene per caso che in Lombardia si creò una lega, forse a fine di pigliare queste terre, tra' marchesi da Ferrara, quelli di Gonzaga, e' Visconti e quelli della Scala. Questa lega tolse la signoria a quelli signori di queste quattro terre; e poi come elle erano quattro, cosí le divisono tra loro quattro. Li marchesi ebbono Modena, quelli da Gonzaga ebbono Reggio, i Visconti ebbono Cremona, e quelli della Scala Parma: e anco poi e Reggio e Parma ha raso un altro barbiere. E ciò non avviene se non ch'e' signori contendono alle ambizione delle signorie, non curandosi di fare né ragione né justizia, sanza la quale ogni regno e ogni città viene a ruina.

 

 

 

NOVELLA CCII

 

A uno pover'uomo di Faenza è rubata a poco a poco una pezza di terra: fa sonare tutte le campane, e dice che è morta la ragione.

 

Simil invenzione fu quella che viene alla passata, ma molto trovò justizia piú questa; però che, essendo signore di Faenza Francesco de' Manfredi padre di messer Ricciardo e d'Alberghettino, signore e savio e dabbene sanza alcuna pompa, che piú tosto tenea costume e apparenza con onestà di grande cittadino che di signore; avvenne per caso che uno possente di quella città avea per confine una pezza di terra a una sua possessione, la quale era d'uno omiciatto non troppo abbiente; e volendola comperare e piú volte fattone punga, e non essendovi mai modo perché quello omicciuolo il meglio che potea la governava, e mantenevasi la sua vita, e prima averebbe venduto sé che quella; di che, non potendo questo cittadino possente venire a effetto della sua volontà, si pensò usare la forza. Però che, essendo una piccioletta fossa tra lui e quell'altro per confine, ogni anno quasi quando s'arava la sua, pigliava, quando con un solco e un altro per anno, un braccio o piú di quella del vicino.

Il buon uomo, benché se n'accorgesse, non ardiva quasi dirne alcuna cosa; se non che con certi suoi amici secretamente si doleva; e tanto andò questa cosa oltre in pochi anni che se non fosse uno ciriegio che trovò nel detto campo che era troppo evidente a passarlo, però che ciascuno sapea il ciriegio essere nel campo di quello omicciuolo, e' s'averebbe in poco tempo preso a poco a poco. Di che, veggendosi questo buon uomo cosí rubare, e scoppiando d'ira e di sdegno, e appena non potere non che dolersi, ma dirne alcuna cosa; come disperato, si muove un dí con due fiorini di moneta in borsa e va a tutte le gran chiese di Faenza, pregandoli e prezzandoli a uno a uno, che tutte le loro campane alle cotante ore dovessono sonare, pigliando ora disusata dal vespro e dalla nona. E cosí seguí; ch'e' religiosi ebbono que' danari, e al tempo dànno nelle campane gagliardamente, per forma che tutti quelli della terra dicono:

- Che vuol dir questo? - guatando l'uno l'altro.

Il buon uomo, come uscito di sé, correa per la terra. Ciascuno veggendolo dicea:

- O voi, che correte? O tale, perché suonano queste campane?

Ed egli rispondea:

- Perché la ragione è morta -; e in altra parte dicea: - Per l'anima della ragione, ch'è morta.

E cosí col suono delle campane gittò questo detto per tutta la terra, tanto che 'l Signore, domandando perché sonavono, e in fine, essendoli detto non saperne altro se non quello che 'l tal uomo andava gridando; il Signore mandò per lui, il quale v'andò con gran paura. Come il Signore il vide, disse:

- Vie' qua; che vuol dir quello che tu vai dicendo? e che vuol dire el suono delle campane?

Elli rispose:

- Signor mio, io ve lo dirò, ma priegovi che io vi sia raccomandato; il tale vostro cittadino ha voluto comprare un mio campo di terra, e io non gli l'ho voluto vendere; di che, non potendolo avere, ogni anno quando s'è arata la sua, ha preso della mia, quando un braccio e quando due, tanto ch'egli è venuto allato a un ciriegio che piú là non può bene andare, che non fosse molto evidente; che benedetto sia chi 'l piantò! ché se non vi fosse stato, e' s'avea in poco tempo tutta la terra.

Di che, essendomi tolto il mio da uomo sí ricco e sí possente, e io essendo, si può dire, un poverello, non sanza gran pena sostenuta e soperchio dolore, mi mossi come disperato a salariare quelle chiese che hanno sonato per l'anima della ragione ch'è morta.

Udendo il Signore il motto di costui, e la ruberia fattali dal suo cittadino, mandò per lui; e saputa e fatta vedere la verità del fatto, fece restituire la terra sua a questo povero uomo, facendo andare là misuratori, e darli di quella del possente allato a lui tanta quanta tolta gli avea della sua; e fecegli pagare due fiorini che avea speso in fare sonare le campane.

Questa fu gran justizia e gran benignità di questo Signore, come che colui meritasse peggio; ma pur, ogni cosa computata, ella fu gran virtú la sua, e la justizia del povero uomo non fu piccola, e dove dicea ch'elle sonavano per la ragione che era morta, e' si potrebbe dire ch'elle sonorono per far resuscitare la ragione. Le quali oggi potrebbono ben sonare che ella resuscitasse.

 

 

 

NOVELLA CCIII

 

Barone di Spartano, dovendo ricevere un suo castello dal Papa, molto tempo con istento è tenuto in corte; di che con un notabil detto, mordendo il Papa, è spacciato.

 

E questa che seguita ancora fu bella astuzia a destare chi molto avea dormito in farli ragione. E’ non sono molti anni passati che là verso l'isola di Cipri nacque una gran questione tra certi castellani, li quali addomandavono a uno barone di Spartano alcune castella che tenea, dovere essere loro. Di che, ingrossando la questione, l'una parte ricorse al Papa, il quale era Gregorio XI, e l'altra parte ricorse a' Genovesi, e in loro commettendo la detta questione, si misono le castella nelle mani del Papa, e che nella fine desse le castella a colui di cui elle erano. Al tutto si vide che quelli castellani alcuna ragione non aveano nelle castella del detto barone di Spartano, e cosí si diffiní. Sentendo ciò il detto barone, che per questo era andato a Vignone, attese con ogni sollecitudine e spèndio di riavere la tenuta di quelle castella, delle quali era stato fuori durante la detta questione. Il Papa, tra che la corte avea in quelli tempi assai che fare, e anco perché chi ha preso sa mal lasciare; tenne questa cosa tanto per lunga che questo buon uomo, avendo speso assai denari che avea portato, vi stette ben tre anni innanzi che potesse riavere le sue castella. Onde un dí per disperato s'andò al Papa, e disse:

- Padre santo, io sono stato qui circa tre anni per la tale questione delle mie castella, delle quali me ne spodestai, e sotto la vostra clemenza le commisi, e ancora cosí sono. Avete veduto e terminato che a me debbono ritornare, e io ho consumato tanto tempo e ancora non le posso riavere; di che io vi dico cosí, che quando io venni qui, io ci recai un sacco pieno di denari, e uno pieno di verità, e un altro pieno di bugie: quello de' danari ci ho tutto speso, e altresí quello de' veri ho tutto e speso e consumato, restami quello delle bugie, non ho altro a che por mano. Io prego caramente la vostra benignità che mi vogliate restituire le mie castella, altrimente io comincerò a spendere il sacco delle bugie, e non avrò con che tornare a casa. Vogliate adunque farmi ragione, se la domando, e a me serà somma grazia; e non vogliate che io consumi e spenda il terzo sacco, com'io ho speso quelli due, e che io mi ritorni a casa con qualche cosa.

Il Papa, udendo costui, e sentendosi trafiggere e ancora comprendendo che non avea piú che spendere, diede sorridendo certe scuse, e l'altro dí spacciò e scrisse la lettera che le castella del barone Spartano gli fossono rendute. Ed egli, tolta la lettera e preso commiato dal santo Padre, si ritornò a casa e riebbe la tenuta delle sue castella.

Grande e lunghissime sono le corti, come ch'ell'abbiano nome corti; ma maggiore è l'avarizia che le fa essere lunghe, e spezialmente quella de' cherici che mai non ispacciano, infino ch'e' danari durano, pelando i cattivelli, come credo fosse pelato costui: ché è venuto a tanto il mondo che tutte le cose che si fanno, chi ben considera, non hanno riguardo se non a' danari, a tirare a sé.

E assai cose se ne potrebbono dire, le quali serebbono tutte parole al vento; e però non voglio piú stendermi sopra la presente materia.

 

 

NOVELLA CCIV

 

Messer Azzo degli Ubertini nel palagio de' signori di Firenze riprende uno soldato che si duole, domandando denari, in otto dí non essere spacciato, allegando sé per lo contrario.

 

Molto fu piú nuova cosa quella che al presente voglio raccontare, e io scrittore mi vi trovai. Nel tempo che il duca d'Angiò passò per venire contro al re Carlo terzo, come dicea, per vendicare la eccellentissima regina madonna Giovanna; e avendo lo Siri di Cosí con Marco da Pietramala e con altri preso Arezzo, e quasi in un'ora venendo la novella a Firenze di questa presura, parendo assai dolorosa, non stette molto che venne la novella che 'l duca d'Angiò era morto; la quale fu un prezioso unguento a sanare la mortal piaga della perdita d'Arezzo. Tanto che infine al Siri di Cosí essendo dati buona quantità di denari, diede Arezzo al Comune di Firenze; il quale, non essendo morto il duca, non che l'avesse o dato o venduto, ma egli era a gran pericolo la nostra città di non perdere il suo stato.

Venuto Arezzo sotto la signoria del Comune di Firenze, i Fiorentini cercorono d'avere tutte le sue castella da certi che contro a ragione le tenevano; fra' quali fu richiesto un savio e valoroso cavaliere, chiamato messer Azzo degli Ubertini d'Arezzo, che restituisse alcune castella che del contado d'Arezzo indebitamente tenea, però che al Comune di Firenze era stato venduto Arezzo con tutte le sue castella, e con ogni sua jurisdizione. Il cavaliere, non contradicendo alcuna cosa, ma piú tosto affermando, comparí dinanzi a' Signori, dicendo:

- Signori miei, se io avesse mille ragioni contro la vostra volontà e contro la vostra intenzione, non intendo d'allegarne nessuna. Una sola cosa vi dico: io tegno cotante castella; se tutte le volete, tutte ve le do, ed ecco le chiavi, pensando di rimanere molto piú ricco e maggiore, essendo povero e ubbidendo li vostri comandamenti, che tenere ciò che io ho, o ciò che io potesse avere, contro alla vostra volontà.

Con questo principio e mezzo e fine, giammai non rimutandosi, volendo dare al Comune del suo, fu tenuto piú mesi con istento e con fatica che non potea essere spacciato, e ogni dí era in casa li Signori. E ancora, diliberandosi per loro di volere certe castella delle sue o d'Arezzo che tenea, mai non dicendo altro che fiat, ancora era tenuto per lunga, non potendosi in piú mesi spacciare e tornare a casa sua.

Avvenne per caso che un dí, essendo nel palagio de' Priori il detto messer Azzo nella sala di fuori della porta della loro audienza, uno gentiluomo d'arme caporale, che era andato a' Signori a pregarli che dovesse loro piacere di farlo pagare di denari che avea servito, come che gli fosse risposto, egli uscí fuori tutto adirato, rampognando e quasi biestemando. Di che veggendolo messer Azzo, il domandò quello ch'elli avea. A cui elli rispose:

- Come diavol che ho? ché debbo avere dugento fiorini, serviti con gran fatica e sí e sí, e sonci venuto ben quindici dí, e non posso esser pagato!

Allora disse messer Azzo:

- O, buon uomo, tu déi essere poco uso in questo palazzo; io voglio che tu sappi che io ci sono stato presso a quattro mesi, e voglio dare il mio al Comune, e non posso essere spacciato: or pensa omai chi ha piú da dolersi, o tu o io.

Il gentiluomo, udendo il cavaliere, disse:

- In fé di Dio, voi mi date buona speranza di futura pena.

Fu rapportata la parola di messer Azzo da alcuno uditore a' Signori; e brievemente uno dell'officio, forse il piú intendente, disse:

- Egli ha detto molto bene, che non ci si dà spaccio a niuna cosa; ed è un bello onore che noi facciamo stare sei mesi e un anno talora un gentiluomo per gli alberghi, e mai di cosa che abbiamo a fare non ne caviamo le mani.

Di che tutti di concordia, mossi per queste parole, si posono in cuore di non intender mai ad altro che messer Azzo, e quel soldato serebbe spacciato; e sanza pigliare alcuno respitto, l'altro dí amendue furono spacciati.

Or questa virtú ebbono le parole del cavaliere, che feciono destare chi dormía. E qual'è piú bella cosa e piú onorevole a quelli che hanno a dare judicio che spacciare le cose che vengono loro innanzi ragionevolmente? tanto è bella cosa ch'e' sudditi non vorrebbon mai altra signoria; e tanto è penosa e sdegnosa cosa a fare il contrario ch'e' sudditi vorrebbono innanzi essere sotto il diavolo dell'inferno che sotto quelli che li menano sí per lunga, che molto tempo con fatica e danno consumano, anzi che possano vedere il fine d'una loro questione.

 

 

NOVELLA CCV

 

Messer Ubaldino della Pila fa tanto dell'impronto con un Vescovo, che fa licenziare al Vescovo che uno suo ortolano si faccia prete, e vienli fatto.

 

Molto fece dell'impronto per avere da uno Vescovo il suo intendimento messer Ubaldino della Pila, il quale, secondo il vero, essendo degli Ubaldini e stando piú del tempo a sue castella, aveva allevato un garzone contadino, il quale avea tenuto per fante e per ortolano. Essendo l'un dí piú grosso che l'altro, veggendo che non era piú da perdere tempo in lui, cercò di levarlo dalle cose terrene, e con le callose e dure mane metterlo ad esercitare le cose divine; e cominciollo a fare cherico, sanza sapere quasi leggere; e quanto piú venía in tempo, meno sapea. Dopo questo, cercò di farlo prete d'una sua chiesa; e convenendo che avesse la licenzia dal Vescovo, e mandarlo a lui che lo desaminasse, lo mandò adornato quanto poteo con panni d'altro cherico; e ammonitolo che modi dovesse tenere nel giugnere, nello stare e nel partire, li diede una lettera, la quale per sua parte appresentasse al detto Vescovo. Il cherico ammaestrato, ma non che nel capo li fosse entrato, si mosse, grossolano come era, e con la lettera andò accompagnato da un altro, tanto che pervenne dinanzi al Vescovo; e come giunse, dà la lettera a messer lo Vescovo, e appena mettendosi la mano al cappuccio, disse:

- Dio vi salvi, messere.

Disse il Vescovo:

- Qual se' tu?

E quelli rispose:

- Vegno di villa.

E 'l Vescovo disse:

- Cosí mi pare -; e lesse la lettera.

Letta che l'ebbe, fece una risposta a messer Ubaldino, dicendo che si maravigliava che elli volea fare prete un montone; e ritornossi con la lettera indrieto. Messer Ubaldino ammaestrandolo di nuovo, altra volta lo rimandò a lui, il quale ancora era piú ingrossato che prima. E 'l Vescovo risponde che ciò non può fare sanza sua grandissima vergogna, e che l'avesse per iscusato. E abbreviando la novella, mandando piú volte per questa cagione, e 'l Vescovo non consentendo, però che 'l cherico, non che gli paresse da ciò, ma e' gli parea quasi piú tosto bestia che persona, in fine lo mandò a lui, pregandolo caramente per una lettera, dicendo:

“Io vi prego che ne facciate un prete chente n'esce”.

Il Vescovo, udendo questo vocabolo, parve che dicesse: “Qui non si può dire di no”; e diede licenzia che se ne facesse un prete chente n'uscisse; e fu fatto prete chente n'uscío. E messer Ubaldino il mise nella sua chiesa; della quale si può dire che facesse uno porcile, però che non vi mise prete, ma misevi un porco per le spese, il quale non avea né gramatica, né altro bene in sé; ché quando dicea il pater nostro e volea dire: sicut in coelo et in terra , e quelli dicea: se culi in cielo e se culi in terra ; e altre cose strane come la sua grossezza l'avea dotato. E cosí tenne quel beneficio per messer Ubaldino, ché, quanto verso Dio, fu maleficio.

Molto n'è pieno il mondo di questi cosí fatti preti; che Dio il sa se, non sappiendo le parole della messa altramente che si sappiano se quello che celebrano è il corpo di Cristo; ma secondo la novella si potrebbe dire: “Egli è chente n'esce”. E questi cotali non basta loro una chiesa, ma spesso n'hanno due o tre per uno.

E a cosí fatti sacerdoti il nostro Signore in molti paesi viene nelle mani! Grande ignoranzia è de' maggiori prelati a correre a farli sí di leggiero, e l'avarizia vuol pur che cosí sia.

 

 

NOVELLA CCVI

 

Farinello da Rieti mugnaio, essendo innamorato di monna Collagia, la moglie sua, sappiendolo, fa tanto che nella casa e nel letto di monna Collagia entra e per parte della donna amata Farinello va a giacere con lei, e credendo avere a fare con monna Collagia, ha a fare con la moglie.

 

Per dare alcuna inframessa, voglio venire in su alcune novelle d'amorazzi, assai piacevoli a cui non fossono tocchi. Nella città di Rieti fu già un giovene mugnaio, il quale ebbe nome Farinello, e avea una sua donna assai giovane che avea nome Vanna. Ed essendo costui un poco leggiadro, secondo mugnaio, perché era innamorato d'una giovane vedova di bassa condizione, sí come era elli, e anzi bisognosa che no, la quale avea nome monna Collagia, volendo mettere ad esecuzione questo suo amore piú volte si mise a richiedere la donna, profferendoli di donare due quarti di grano, li quali sono ogni quarto quasi libbre centocinquanta, però che il ruggio di Rieti è libbre seicento, e 'l ruggio è quattro quarti.

Continuando costui questa sua improntitudine di molestare la donna, profferendoli questo dono, ed ella non possendo piú resistere a tanta importunità, un giorno se n'andò a monna Vanna, donna del detto Farinello, e giunta che fu a lei, li disse come ella si venía a dolere di quelle cose che 'l suo marito ogni dí gl'addomandava, non lasciandola requiare, le quali erano fuori d'ogni onestà; narrandole a parte a parte ciò che Farinello li proffereva, dicendo di due quarti di grano. Allora monna Vanna, udendo questa donna, pensò una sottile malizia con la quale quello che 'l marito dovea fare a monna Collagia si convertisse nella sua persona; e non fu di quelle che al tempo d'oggi arebbono schiamazzato, come quando la gallina fa l'uovo, facendo sentire il loro vituperio e de' loro mariti a' vicini e alli strani, ma con uno cheto modo e benigno ricolse monna Collagia, dicendo:

- Voi siate la ben venuta; se voi volete fare quello che io vi dirò, io vi leverò questa pena da dosso; e 'l modo è questo, che cosí come elli ti richiede, cosí da' ordine qual notte venga a te, della qual tu m'informerai; e quella notte va' segretamente a giacere con qualche tua vicina, e lascerai la casa a me; e dirai che ti rechi due quarti di grano, e io te ne vorrò dare uno io, sí che fiano tre; e poi lascia spacciare questa faccenda a me.

La donna, udendo questo, e che senza perdere la sua onestà avea cresciuto il suo guadagno, pensando già che Farinello averebbe di quel che ben gli stesse, fu subito accordata; e partitasi, si scontrò in Farinello che portava una soma a macinare, e accostatosi a lei, disse:

- Io ho presto quel grano ognora che voi lo volete.

La donna pianamente li disse che, per bisogno che ella avea, li convenía fare il suo piacere; e che quella sera lo recasse e venisse a lei; e cosí fu data la ferma.

Farinello, avendo promessa di quello che buona pezza era ito cercando, considerando al macinare che avea a fare la seguente notte, quasi quel giorno al macinare del mulino non attese, ma ordinò li due quarti di grano in due sacca, per portarli la seguente notte a casa di donna Collagia; e pensò d'uno fidato compagno che gli aiutasse portare uno de' sacchi.

E cosí pensato, richiese un suo intimo amico, mugnaio com'elli, che avea nome Chiodio, che la notte con lui insieme gli aiutasse portare il suo sacco, e che 'l tenesse segreto. Era questa cosa molto differente e contraria al costume de' mugnai, però che si caricono volentieri di grano o di farina quando la tolgono altrui, ma rade volte si caricono per donarlo. Tornando donna Collagia a monna Vanna il dí medesimo, gli narroe come avea fatto patto che Farinello la seguente notte li recasse il grano e andasse a giacere con lei, e ch'ella anderebbe a casa d'una sua vicina, come informata l'avea, ed ella della casa facesse il suo piacere. Donna Vanna rispose:

- Bene avete fatto; io verroe là istasera a ordinare quello che fare voglio, e voi non vi date piú fatica -; e cosí fu fatto.

Farinello era uso di stare gran parte della notte al mulino, e se mai vi stette tutta la notte, questa fu dessa, però che dal mulino si mosse, e altrove stette tanto che tutta la consumò. Però che monna Vanna sua moglie era andata a pigliare la possessione e letto di monna Collagia, e là aspettava il suo Farinello in iscambio di quella cui elli tanto avea bramato.

Quando Farinello, avendo la ventura ritta, gli parve tempo di dare le mosse alla giumenta, dall'uno lato col suo sacco di grano su le reni, e con l'altro l'amico suo Chiodio, si misono in cammino, e giunti all'uscio della donna, lo trovorono succhiuso; pinto che l'ebbono, introrono dentro, e scaricarono le sacca. Scaricate che l'ebbono, dice Farinello a Chiodio:

- Non t'incresca di aspettarmi un pezzo; ché, se m'aspetti, a te anco potrà giovare.

Chiodio udendo questo, dice:

- Amico mio, va' e sta' quanto tu vogli, ché io non mi partirò infino a tanto che tu tornerai.

Rimaso colui, Farinello ne va verso la camera, dove era data la posta e dove donna Vanna per iscambio di donna Collagia l'aspettava. E giunto al letto al barlume, si coricò allato a lei sanza favellare o l'uno l'altro, per non essere sentiti, gittando gran sospiri, accennando pur la donna che non si parlasse, mostrando ch'e' vicini fossono da lato; e ciò facea perché Farinello non la conoscesse. E Farinello di ciò la contentò, accostandosi a lei, e usufruttando con quel pensiero con che s'era mosso, ma non quello che credea; e per non grande spazio ricolse la decima quattro volte, e nell'ultimo si levò, dicendo:

- Io vo a orinare, e torno subito.

E cosí fatto, n'andò in verso Chiodio che l'aspettava, e dice:

- Fratel mio, costei m'ha fatto molto stentare, prima che abbia acconsentito al mio volere: tu ci recasti altrettanto grano quant'io; se tu vuogli essere partefice di questo beneficio, o maleficio che sia, tu te ne puoi andare diritto nella camera, e là sanza parlare punto entra nel letto, e fa' ragione d'essere me, ché quanto io, n'ho assai per istanotte.

Udendo Chiodio questo, non fu sordo; ma prestamente va alla camera, e intrato nel letto allato alla donna in luogo di Farinello, per tre volte in poco di tempo contentò il suo disio; e partitosi, tornò a Farinello che lo aspettava, e andorono al mulino donde partiti s'erano.

E la donna, credendosi in tutto esser giaciuta con Farinello, si ritornò a casa la mattina per tempo; e donna Collagia ancora la mattina dalla sua vicina si ritornò a casa sua, là dove trovò il letto molto bene sprimacciato. Aspettando donna Vanna a casa sua dove la cosa dovesse riuscire, ed ecco Farinello che sí franco cavaliero era stato, e diceli che tutta notte s'è sentito male al mulino, e che li vada a volgere due uova al fuoco. Dice la donna:

- Elle vogliono essere sette.

Dice Farinello:

- Che vuol dir questo? io non ne voglio se non due.

Dice la donna:

- Elle vogliono pur essere sette.

E quelli dice:

- Hai tu il farnetico?

La donna risponde:

- Farneticato avrai tu.

Farinello stava come tralunato. Dice la donna:

- Traluna bene, ché tu hai bene di che; tu se' stato stanotte un pro' cavaliere, ché hai macinato sette volte; e sa' ben dove, ma non con cui tu hai creduto, ché io sono stata io, e non monna Collagia quella dove tu hai macinato istanotte sette volte; per tal segnale che, finite le prime quattro, tu ti levasti per andare a pisciare, e poi ritornasti e tre volte ancora rifacesti il giuoco; sí che io ho aúto quello da te, essendo sconosciuta, che da te conosciuta mai non ebbi. Or mi domandi l'uova, che hai aúto mal di macinato. Tu di' ben vero, ché tu hai macinato su le carni mia; della qual cosa ne se' molto tristo, e Dio tristo ti faccia, che mi credi trattare per fancella e vai donando il grano, e io n'ho donato anco un sacco io, e ho fatta migliore spesa con un sacco che tu con due. Cosí intervenisse a tutti gli altri cattivi che con vitupero fanno fallo alle loro mogli; e alle loro donne intervenisse come è intervenuto a me stanotte. Ogni volta che tu vuogli di queste derrate, sempre mi troverai presta a dartene. Sí che va', e macina al tuo mulino, e arai assai che fare; procaccia di vivere, ché n'hai gran bisogno, e non andare infarinando le vedove con la mala ventura che ti vegna.

Udendo Farinello tante cose, non sapea che si dire, se non che dicea:

- Io non so che tu ti di'; se non che 'l tu di' per non mi dare dell'uova.

- Sí che tu hai a covare; - dice la donna, - va', cova al tuo mulino, e togli quante uova ti piace, macinando come tu hai fatto istanotte.

Farinello per lo migliore pose fine alle parole, veggendo che lo aguato era scoperto fuori della sua credenza, e parveli avere molto mal fatto: l'una che non avea macinato dove credea; e l'altra che a Chiodio avea fatto macinare nel suo mulino, credendolo fare macinare nell'altrui. E andossene al mulino tutto tristo, trasognando, sanza avere mangiato dell'uova; e trovando Chiodio disse come la sua donna parea che sapesse il tramazzo di quella notte, e che per Dio il tenesse segreto, però che, s'e' parenti di donna Collagia il sapessono, sarebbono amendue a gran pericolo. E mai per ciò non li scoperse che con donna Vanna fosse giaciuto. Dappoi, essendo Farinello un po' tornato in sé, si riconciliò un poco con la donna, dicendo:

- Son io il primo che sia innamorato, o smemorato? tu hai saputo sí fare che di questo tu déi essere contenta; e io anco mi sono contentato, avendo opinione che tu fossi quella che io credea.

A me costa questo fatto molto caro, ché ho messo piú su la tramoggia che io non potea, e tu te n'hai aúto il pro: ha'mene fatto una che m'è montata piú di sette.

E cosí convenne che Farinello, per racchetare il gridare della donna, con molte parole si rabbonacciasse, e poi spesse volte consumasse il matrimonio di quelle che averebbe dormito piú volentieri; però che quando stava sanza macinare, la donna subito rimproverava le sette volte di donna Collagia, le quali li fruttorono piú che sette volte sette in poco tempo, ed elli ne divenne quasi dicervellato. E cosí ebbe fine questa novella, che monna Vanna fu pagata d'opere, e donna Collagia di grano, con la metà piú. Farinello comperò quella derrata che non volea e che non andava cercando; e Chiodio sanza costo ebbe di quella farina scambiata che era di Farinello, credendo, sempre che visse, essere giaciuto con donna Collagia.

Cosí avviene spesso a chi ha a fare con femine, però che in cosí fatti casi di simili astuzie trapassano gli uomini; e ancora pare che Amore porga a loro di nuovi ingegni e malizie. Questa donna Vanna con questa sottigliezza fece una degna opera; ché, volendole il marito mancare di lavorío alla sua possessione, trovò modo che la lavorò meglio che mai li fosse lavorata. E 'l tristo del marito non gli bastava che donna Collagia se gli avesse dato l'amor suo, pigliarlo in grandissima grazia, sí la volle vituperare col compagno, e 'l vituperato rimase elli. E mai non trovai che amore desse ad alcuno un sí degno ben gli sta come qui diede a Farinello. Madonna Vanna, adoperando bene, ebbe il contrario, però che non meritava che Chiodio giacesse con lei; ma pur seguí una cosa molto disusata, che mai monna Vanna non seppe che quelle sette volte fossono se non del marito; e Chiodio mai non seppe che le sue tre fossono con donna Vanna.

 

 

 

NOVELLA CCVII

 

A Buccio Malpanno d'Amelia è fatto credere, colicandosi un frate minore con una sua donna e lasciandovi le brache, che quelle son quelle di santo Francesco, ed egli se 'l crede.

 

D'altra maniera e altro inganno fu questo che viene, essendo a uno semplice marito da uno frate minore mostrata la luna nel pozzo. Nella città d'Amelia fu già uno semplice uomo, chiamato Buccio Malpanno, e avea una sua moglie che avea nome donna Caterina, d'etade di venticinque anni, assai bella e non meno cortese, e spezialmente a uno giovene frate Antonio del detto ordine, dal quale, come da suo devoto, spesso era visitata; tanto che forse, perché il marito era magretto e di poco spirito, e una cosa e un'altra, il detto frate usufruttava piú i suoi ben temporali che non facea elli.

Avvenne per caso che Buccio, avendo una notte la guardia, come spesso in molte terre interviene, il detto frate diede posta d'andare a giacere con la detta donna Caterina: e perché de' piú de' suoi pari viene un poco di caprino, elli s'avea tratto li panni lini suscidi e aveasi mutato panni lini sottili e bianchissimi. E tutto fatto, e giunto nella camera della donna, andandosi a coricare, si cavò le bianche brache e misele sul capezzale. Di che occorse per alcuno accidente che Buccio, avendo bisogno d'essere a casa, ebbe la parola dall'officiale della guardia; e giugnendo all'uscio, mettendo la chiave nel serrame, e volgendola per aprirlo, il frate, sentendo il saliscendo, subito si leva, come colui che era destrissimo e sospettoso, e aggrappato la tonaca e gli altri panni e, non accorgendosi, lasciando le brache, si gettò da una finestra non molto alta dalla via, e 'l meglio che poteo s'andò con Dio.

Buccio, giunto alla camera, s'andò a posare nel luogo suo, il quale era stato di poco sagrato; e dormito che ebbono egli e la donna, che n'aveano aúto bisogno, sí per lo vegliare della guardia e per lo vegliare del culatario, infino a dí chiaro; aprendo la finestra, e veggendo Buccio le brache sul capezzale, credendo che fossono le sue, le prese per mettersele; e guarda su la cassa, ne vide un altro paio; di che in sé pensando dice: “Che vuol dire questo? io so bene che io non porto due paia di brache”; e conosciuto che quelle del capezzale non erano le sue, le ripose in una cassa e misesi le sue.

E immaginando d'un pensiero in un altro di cui potessono essere le brache, che alla grandezza pareano state d'uno gigante, gli era intrato una malinconia che quasi non mangiava. Frate Antonio dall'altra parte, parendoli avere mal fatto di avere lasciato le brache o la trabacca che fosse, secretamente lo fece sapere alla donna, raccomandandoli le brache che avea lasciate. La donna, che niente non sapea, non trovandole, veggendo il marito cosí malinconoso, si pensò troppo bene che esso l'avesse trovate e riposte; e stava con gran timore, come ch'ella non lo mostrasse; donde, non potendo adempire quello che 'l suo devoto volea, li rispose che 'l marito l'avea trovate e ch'ella non sapea dov'ella si fosse, tanto dolore n'avea, immaginando che scusa da potere fare non avea, e aspettava la mala ventura.

Sentito il frate questo, e per lei e per lui li parve essere a mal partito. E dolutosi di ciò segretamente con un frate Domenico molto suo fidato, il quale, perché era molto scienziato e sperto, gli era data molta fede, e ancora d'anni era assai antico; a cui il detto frate Domenico diede con parole assai riprensione; e per ovviare alla infamia dell'ordine prima, e poi a quella di frate Antonio, disse alla fine:

- Or ecco, io m'ingegnerò levare questo sospetto a Buccio -; e disse a frate Antonio: - Andiamo, tanto che troviamo il detto Buccio; e lascia dire a me.

E cosí si misono in via, e tanto andorono che scontrorono il detto Buccio; e andati verso lui, frate Domenico salutandolo il prese per la mano, e guardandolo in viso, li disse:

- Buccio mio, tu hai malinconia.

Disse Buccio:

- O di che? non ho malinconia alcuna.

E frate Domenico disse:

- Veramente io il so per revelazione di santo Francesco; e per la verità io volea venire a casa tua per una reliquia che la tua donna portò a questi dí. E acciò che tu lo sappi bene, noi abbiamo una reliquia, la quale ha grandissima virtú a fare generare le donne che non menano figliuoli, e queste sono li panni di gamba del beato messer santo Francesco, le quali spesso prestiamo per questa cagione; e recandole una donna, che l'avea accattate, alla nostra sagrestia, abbattendovisi la donna tua, e sentendo la virtú loro e ch'ella era sterile, con grandissima benignità me le chiese acciò che santo Francesco gli desse grazia di fare figliuoli, com'ella desiderava; e io, considerando l'amore che io ti porto, glile prestai, e halle tenute piú dí. Ora, essendomi chieste per altre donne, ché ce ne sono assai che non fanno figliuoli, ce ne conviene pur servire ed esserne piú larghi forse che non si converrebbe; sí che io t'ho chiarito, s'alcuno sospetto avessi. E però ti prego che non t'incresca che andiamo per esse con quella reverenza che si conviene, però che sono reliquie di povertà e d'umiltà.

Detto che ebbe il frate queste parole, disse Buccio:

- Io credo che voi siate l'Angelo di Dio, che ogni cosa m'avete detto di che io dubitava, e avetemi ben chiarito ogni mio sospetto che era di male, dov'egli è sommo bene.

E cosí si misono in via, andando alla casa di detto Buccio; là dove giunti, disse il frate:

- Dov'è questa santa reliquia?

E Buccio lo menò a una cassa, dov'erano altre masserizie, e disse:

- Queste sono desse -; essendovi continuo presente la donna.

Quando il frate vede come l'ha tenute, trae fuori uno mantile di seta, e dice:

- Buccio mio, sono queste cose d'averle tenute in tal maniera? tu hai peccato mortalmente.

E prese le dette reliquie, e mettendole nel mantile della seta, cominciò a dire: De profundis clamavi , e molti altri salmi, per darli meglio a credere la bugia; e oltre a ciò li fece la confessione; e dandoli a credere che era caduto in iscomunicazione, dandoli molto bene d'una mazzuola su le spalle, lo ricomunicoe con molti ammaestramenti, li quali tutti furono in favore dell'appetito di frate Antonio, mettendo ad esecuzione come li piacque.

Il cattivello di Buccio si rimase con questa credulità, aspettando ogni dí ch'ella fosse gravida; ma ben lo poté aspettare, ché tutto il tempo della vita sua donna Caterina non fece figliuoli, ma ben se ne sforzò con frate Antonio quanto poteo. E frate Domenico con frate Antonio se ne portorono quella culare reliquia, la quale con altre donne non adoperò forse meno per li tempi avvenire che avesse adoperato con donna Caterina.

Che sperienza o che arte dirén noi che fosse questa che usò questo frate Domenico? che, essendoli dato piú fede che ad alcun altro frate di tutto l'ordine, abbandonò ogni onestà per ricoprire il defetto del suo compagno, ed eziandio del suo convento; e volendo ricoprire questo disonesto adulterio, maggiore disonestà usò contro al beato messer santo Francesco sotto il cui ordine vivea, e a cui elli intitoloe cosí venerabile reliquia; che ben potea almeno averla intitolata in qualche altro, come che male era; ma molto era il meglio che avesse tenuto con gastigamento e con sí stretta vita frate Antonio che 'l disordinato caldo li fosse attutato; ma non si vergognò di ciurmare, e di trovare una cattiva falsità, intitolando san Francesco, il quale tra quanti santi sono non truovo in alcuno mostrarsi tanto miracolosa e divina potenza quanta il nostro Signore mostrò in lui, a segnarlo delle sue preziose stimate sul santo monte della Vernia. Il quale luogo, se fosse tra gl'Infedeli, se ne farebbe molto maggiore stima che a esserci cosí presso; però che in tutto il mondo sono due luoghi superlativamente notabili; il primo tra gl'Infedeli è il Sepolcro, il secondo tra Cristiani è questo.

E questo ipocrito, piú tosto rubaldo che religioso, essendo suo frate, non si vergognò in sí vituperosa opera comporre una falsità, con tanta disonestà del beato messer santo Francesco, di cui era frate: ma a lungo andare la comperò come meritava; perché divenne lebbroso in forma che convenne si dilungasse e dall'ordine e dalla terra. E piú anni vivette con sí puzzolente infirmità, e poi morí come era degno. E fu de' miracoli che fa il nostro Signore, che questo ipocrito e vizioso frate, mostrando, con la coverta di santo Francesco, essere un uomo di santa vita, convenne che mostrasse di fuori con malattia di lebbra, la quale stava dentro del suo corpo coverta, il suo difetto.

 

 

NOVELLA CCVIII

 

Mauro pescatore da Civita_nuova, recando granchi marini gli mette nella rete sul letto, escene uno fuori la notte, e piglia la donna nel luogo della vergogna, e Mauro, soccorrendo co' denti, è preso dal granchio per la bocca; e quello che ne seguita.

 

Nuova novella di moglie e di marito è questa che seguita, e differente forse da tutte quelle che s'udiranno mai. Nella terra di Civita_nuova nella Marca presso alla marina, fu già un pescatore di piccole pescagioni, pescando con ami e con lenze e con reticelle di minore maniera; era giovane e avea nome Mauro, avendo una moglie giovanetta chiamata Peruccia. E venendo per caso un giorno che questo Mauro, essendo andato a pescare, avesse preso certi granchi marini; li quali, perché sono molto malagevoli a tenerli, avea messo in un carniere di rete; e chi ha già veduto li detti granchi, può considerare, veggendo le loro bocche, quanto sono piacevoli quando afferrano altrui.

Tornato questo Mauro con la detta pescagione in su la sera, volontoroso e di mangiare e di bere, come incontra a chi usa quell'arte, disse a Peruccia:

- Truova modo che io ceni -; e questo carniere da piede puose sul letto; e poi per poco spazio, essendo apparecchiato da cena, il marito e la moglie si posono a cena; e cenato che ebbono, volontorosi d'andarsi a posare, se n'andorono a dormire, sanza ricordarsi di muovere il detto carniere.

Di che, dormendo, quasi sul primo sonno, uno di questi granchi, sí come quelli che mai non truovono luogo, cercando de' fori donde possano uscire, e ancora rimbucarsi, uscí per la bocca del detto carniere, ed entrò tra l'uno lenzuolo e l'altro, accostatosi alla donna verso la parte dove è la bocca senza denti, forse per rimbucarsi; e la donna sentendolo, come paurosa, con la mano toccandolo per sentire quello che fosse, e 'l granchio per lo sentirsi toccare, come fanno, ristrignendosi, per lo labbro prese la detta bocca, e stringendo, fu costretta Peruccia di trarre un gran guaio. Al cui romore il suo marito Mauro si destò, dicendo:

- Che hai tu?

Ed ella risponde:

- Marito mio, io non so che fiera m'ha preso nella tal parte.

E 'l marito subito si leva, e va per lo lume e dice:

- Ov'è, dov'è? - come quando si trae al fuoco.

La donna con istrida manda il copertoio giú, e dice:

- Per Dio! guata quello che m'ha vituperata -; e con questo tuttavia forte languendo.

Mauro, veggendo il granchio, come e dove l'avea afferrata, dice:

- Per Santa Maria dell'Oreno! che uno di quelli granchi marini che iersera pigliai, è uscito del carnieri che puosi sul letto, e hatti cosí agghermigliata -; e ingegnandosi con le mani pigliare ora un piede e ora l'altro, tirava il granchio per spartirlo dalla donna; e 'l granchio, come è di lor natura, quanto piú si sentiva tirare, piú mordeva, e piú assannava, e con l'altra bocca s'ingegnava pigliare le mani di chi lo tirava; e la donna, gridando, sentiva soperchio dolore.

Ond'il marito s'avvisò di provare un altro magistero, e molto semplice; e questo fu che, chinato il capo verso quel luogo, s'avvisò con li denti troncare quella zanca la quale cosí forte molestava la donna; e come la bocca porse, per pigliare co' denti la zanca del granchio, el granchio con l'altra bocca afferra costui per lo labbro, il quale subito comincia a gridare, e la donna grida e tira, e colui grida e tira.

El gridare di Mauro era molto grande, però che rimbombava nella citerna; e quanto piú tiravano, e 'l granchio piú mordea. A questo romore quelli della casa traggono, gridando:

- Che è?

E li vicini traggono; e intrati dentro, accostansi alla camera, la quale essendo da un debole uscetto serrata, pinsono in terra, ed entrorono dentro; e domandati che aveano, dissono la cagione, come che Mauro la dicea con gran fatica, come quelli che era preso per lo labbro della bocca. La donna per vergogna, oltre l'altra pena, tirava il copertoio in su: il marito gridava però che, oltre al duolo, affogava sotto il copertoio. Quelli della casa piú baldanzosi dissono:

- Per certo noi vederemo che è questo -; e scuoprono il copertoio, e veggendo presi la moglie e 'l marito da uno granchio marino in due si diversi luoghi, si maravigliano, segnandosi con la croce; e Mauro si lamenta, e dice il meglio che puote che l'aiutino.

Era fra la brigata uno valente maniscalco, il quale disse a un suo discepolo che per le tanaglie andasse alla sua stazzone, il quale subito andato e tornato con esse, il maniscalco troncoe le bocche del granchio; delle quali tanaglie e Peruccia e Mauro ebbono gran paura, sanza la vergogna, che non fu minore. E cosí la moglie e 'l marito vituperati, furono dal maniscalco liberati dal granchio marino; il quale lasciò loro sí fatti segni e sí dogliosi che 'l marito andò piú dí con una pezzuola d'unguento sul labbro, e la donna forse si medicò anch'ella, però che buon pezzo andò a gambe aperte. E gli uomini della terra di tal novella piú tempo n'ebbono a ridere e a parlare. Ma ancora ci fu meglio, che 'l maniscalco domandò d'essere pagato, e Mauro contradiceva, allegando che si dovea pagare di ferrare, e non di sferrare. E 'l maniscalco rispondea:

- Come! o non mi debb'io pagare, quando io medico uno cavallo levandolo da pericolo di morte, o d'altro fortunoso caso? o se uno cane rabbioso, com'era questo granchio, avesse afferrato uno cavallo, e non lo lasciasse, e io facessi sí che lo lasciasse e guarisselo, non doverrei io essere pagato? - e di molte altre belle ragioni disse tanto che li diede soldi venti, come se avesse ferrato uno cavallo.

Cosí avviene spesso agli uomini trascurati, o piú tosto, si potrebbe dire, smemorati; ché, venendo costui dal mare co' granchi, li puose sul letto, e gli ne intervenne quello che ben gli stette; però che s'egli avea preso il granchio, e 'l granchio si vendicò, pigliando lui e la moglie per sí fatta maniera che quando il granchio ne fu levato dal maniscalco si potea dire, come disse Dante: “La bocca sollevò dal fiero pasto ec.”. E cosí in questa vita spesso son presi gli uomini da diversi casi, e sono tanti che uomo non gli potria mai immaginare. E però non si dee alcuno fidare della fortuna però che spesse volte il morso d'un piccolo ragnolo ha morto uno fortissimo uomo.

 

 

NOVELLA CCIX

 

Il Minestra de' Cerchi, avendo debito e guardandosi, stando a Candeghi è preso da' messi, li quali l'aescarono con una anguilla messa in una fonte.

 

Ma che dirén noi della novella che segue, la quale dimostrerrà come con una anguilla fu preso alla lenza uno gentiluomo fiorentino? Il Minestra de' Cerchi fu uno uomo grasso e con corto vedere, ed era molto goloso, e sempre parea che stesse in debito. Avea uno suo luogo a Candegghi, là dove il piú si dimorava, e là stava in casa, e quasi mai non usciva fuori per paura di non esser preso. Di che avvenne che, dovendo uno avere buona quantità di denari da lui, e avendone gran bisogno, e non possendo vedere né via né modo in che maniera potesse essere pagato, trovando un dí due messi della nostra città, che l'uno avea nome Mazzone e l'altro Messuccio, disse loro se alcuno modo vedessono di pigliare questo suo debitore, e pigliassono il prezzo come a loro piacesse. Di che si tirorono da parte e pensorono in che modo il potessono fare; e dissono al creditore che dava loro il cuore di sí, ma che voleano fiorini dieci.

A colui parve mill'anni, e disse che era contento. Fatto il patto e considerato ciò che aveano a fare, eglino andorono tanto cercando a' pescatori ch'egli ebbono una anguilla viva di circa due libbre, e con questa in uno orciuolo d'acqua se n'andorono verso la Badía a Candegghi; però che sapeano che 'l detto Minestra beeva dell'acqua d'una fonte, non molto di lungi dal luogo suo, e che la sua fante a quella andava per l'acqua per lui. Onde andorono alla detta fonte, ed entro vi misono quella anguilla. Messa che ve l'ebbono, nascosamente si misono in aguato, per essere presti a quello che poi venne lor fatto. Venendo l'ora dopo desinare, andando la fante per l'acqua forse per lavare le scodelle, guardando nella fonte, ebbe veduta questa anguilla, e sforzandosi quanto poté di pigliarla, vi consumò una mezz'ora; e in fine, abbandonatala, si torna con la mezzina dell'acqua a casa; là dove, parendo al Minestra che troppo fosse stata, dice:

- Il diavol ti ci reca; che hai tu tanto fatto?

Ella risponde:

- Non gridate, ché io v'ho creduto recare una bella anguilla che è nella fonte, che è grossa come quell'asta di lancia; e credendola piú volte avere presa, ella m'è schizzata di mano, che sapete com'elle sdrucciolano.

Disse il Minestra:

- Sciocca che tu se', ella fia una serpe; onde verrebbe l'anguilla costí?

Dice la fante:

- Sia col buon anno, s'io non conosco il baccello da' paternostri! io vi dico ch'ella è un'anguilla.

Il Minestra, udendo questo, ché già se la cominciava a manicare, disse:

- Per certo, s'io dovesse essere preso, io non me ne terrei che io non v'andasse.

E tolto un bucinetto che avea in casa da pigliare passere alle buche, andò alla detta fonte e menò seco la fante, però che elli non averebbe veduto la bufola nella neve, non che l'anguilla nella fonte. E dicendo alla fante:

- Vedila tu?

Ella dice che sí; ed elli li dice come ella debbe adoperare quel bucine.

La fante, ubbidendo, in poco d'ora la tirò su nel bucine; e 'l Minestra cosí nella rete se la recò in mano dicendo: - Padella!

E avviandosi con essa verso casa, ed ecco Mazzone e 'l compagno uscire dell'aguato, e giugne e piglia il Minestra, dicendo:

- Tu non la mangerai sanza me.

Il Minestra, conoscendolo alla voce, ché poco lo scorgea con la vista, dice:

- Eja, Mazzone, che vuol dir questo?

Dice Mazzone:

- Convientene venir con noi -; ché v'erano ancora quattro berrovieri.

Il Minestra cominciò a gridare:

- Accurr'uomo, che io sono stato tradito.

Dicono i messi alla famiglia:

- Menatelo oltre a Firenze.

E tolsonsi l'anguilla loro; pregandoli il Minestra quanto poteo che 'l lasciassino e non lo volessono disfare. Elle furono parole, ché lo menorono a Firenze preso, e rassegnoronlo in Bolognana, e andorono al creditore a significarli la presa essere fatta; il quale per letizia abbraccioe e bascioe Mazzone, dicendo e domandando in che maniera l'aveano preso. Eglino gli 'l dissono. Di che, del modo ancora piú si maravigliò; e subito gli menò dove accattò fiorini dieci, e pagolli, e andollo a raccomandare per lo suo debito. E 'l Minestra, per paura di non v'essere staggito per altrui, subito trovò modo di pagare; e cosí gli costò cara l'anguilla.

Né piú né meno feciono questi messi come fa il demonio, il quale sempre sta avvisato di pescare e d'uccellare con nuove esche, e con nuovi zimbelli, e con nuove trappole per pigliare l'anime: e quanti n'ha già preso nel vizio della gola, e con l'anguille e con le lamprede, e con gli altri cibi! Ben fu preso in questo Nozzino Raúgi nostro fiorentino, che fu lasciato ricchissimo dal padre, e nella gola consumò ciò ch'egli avea, e avvolse la lampreda intorno al cappone, e arrostigli insieme, ponendogli nome il baccalare cinghiato : ma nella fine fu ben cinghiato di tanta miseria che morí miseramente. E molti altri potrei contare, che per questo vizio sono venuti in miseria e in ruine.

E notino li padri e le madri, che allevano i loro figliuoli, acciò che non li crescano in questo vizio; ché questo è quel vizio che per lo primo peccato ci ha condotto a morte, e fa altrui incorrere in molti terribili peccati e disfazione di famiglie; però che dalla gola viene lussuria, prodigalità, giuoco e molti mali; e in fine quando manca l'avere, che non abbia di che supplire all'appetito, a tutti e' mali si reca per avere danari. Se io volessi descrivere quanti e quali, non so se capessono in questo libro. E come il demonio aesca nella gola, cosí nella lussuria e nella concupiscenza carnale, cosí nell'avarizia con la moneta e con le ricchezze e stati e beni terreni; e quando li giugne alla fonte, come Mazzone giunse il Minestra, gli piglia e dagli a' berrovieri, cioè a' diavoli, che gli menino alla Bolognana, nel centro dell'abisso; e allora è pagato colui che dee avere, e al debitore è dato quello che merita.

 

 

NOVELLA CCX

 

Certi gioveni fiorentini, uccellando alle quaglie, andando, per ben cenare con le quaglie prese, al Pantano, luogo di Curradino Gianfigliazzi si trovorono piú là che Malalbergo.

 

Io non so chi arrivasse peggio, o questo Minestra, di cui sopra è detto, per volere mangiare l'anguilla presa, o certi gioveni, per volere mangiare le quaglie che aveano prese. Come è d'usanza, del mese di settembre, quelli che tengono sparviere, s'accozzano insieme e cercano diversi piani per andare uccellando a quaglie; e cosí feciono brigata, non è molti anni, certi gioveni fiorentini di buone famiglie, e uccellorono tutto un dí tra Prato e Pistoia: e avendone prese convenevolmente, deliberorono andare la sera a cena e albergo a uno luogo chiamato il Pantano, dove dimorava un gentiluomo de' Gianfigliazzi, chiamato Curradino. E cosí s'avviarono di concordia; là dove giugnendo, però che 'l luogo era affossato intorno, e valicavasi il fosso su per un'asse assai stretta di faggio, cominciorono a chiamare Curradino, il quale, fattosi dall'altra parte su la ripa del fosso, dice:

- Voi siate i ben venuti; scendete e passate su per l'asse, e' cavalli mettete a nuoto per lo fosso, ché altremente non possono passare.

Udendo costoro questo, l'uno guarda l'altro; e alla fine, essendo lor forza il giuoco, scendono e danno i cavalli a' lor fanti, e dicono:

- Mettetevi per l'acqua, e passate di là.

I fanti malvolentieri pur vi si missono; ed eglino passorono su per l'asse, che per la debolezza si piegava sí che parea ognora ch'ella si volesse rompere. Pur passati a grande stento, e quelli del ponte e quelli del guado, la raccoglienza fu grandissima, come è d'usanza de' gentiluomini; dicendo pur in fine:

- Voi starete come voi potrete; or via, mettete i cavalli qua -; e avviolli in uno casolare che era mezzo coperto di paglia e mezzo no, e disse: - Acconciateli qui -; là dove per la strettezza s'accostava sí l'uno all'altro che poteano ben mordere, ma non trarre l'uno all'altro; il tetto che era di sopra, non era tanto largo ch'e' cavalli non stessono all'aria dal mezzo in giú.

Il gentiluomo della casa dice a' fanti:

- Date lor bere, se non hanno beúto.

I fanti rispondono:

- Egli hanno aúto acqua assai.

Li gioveni delle quaglie erano continuo, com'è d'usanza, a fare governare le loro bestie, e quanto piú s'affaticavono, piú le vedeano sgovernate. Passoronsene come poterono; e avvioronsi a trovare le quaglie e pelare, per dare ordine alla cena; e venendo al fuoco per arrostirle, dissono venissono delle legne. Quivi furono recati sagginali, dicendo:

- Noi ardiamo poco altre legne.

In effetto elle si convennono arrostire co' sagginali, però che l'ora era tarda, e volendo essere andati a trovare modo d'averne, si convenía al buio passare Rubicone. Quando le quaglie furono cotte, o vero affumicate, e' furono posti a uno descaccio che tuttavia parea che fosse in fortuna, e su una panchetta che stava peggio.

- Hacci del vino? - dice uno di loro.

Dice il gentiluomo a uno della casa:

- Va', fa' del vino.

E quelli va, e preme in uno orciuolo grappoli d'uve con le mani. Dicono gli uccellatori:

- O che fa quelli?

Dice il gentiluomo:

- Io non beo altrimenti in questo tempo, ch'egli è mesi che mi mancò il vino vecchio.

Chi strigne le labbra e chi le spalle: e' convenne loro pur bere; sanza l'acqua, che era naturale secondo il nome del luogo; il pane parea di mazzero e biscotto, come se fossono in galea: egli erano bene in fortuna. E poco stettono a tavola che andorono a vedere e' cavalli, li quali parea che dicessono favole, e non guardavano meno li loro signori ch'e' loro signori guardassono loro.

Ad abbreviarla, egli stettono male quanto dire si puote. Pensorono di passare le loro pene questi uccellatori col dormire il piú tosto che potessono; e inviati a una camera, o vero cella cavata, o vivaio che vogliamo dire, scesono quattro scaglioni, e all'ultimo era un'asse che era ponte dallo scaglione alla panchetta del letto; però che nella detta camera era l'acqua alta un mezzo braccio. Passò la brigata il detto ponte, lieti come ciascun dee credere; e volendo andare alla guarderoba, tre passi in su tre pietre convenía lor fare in punta di piedi, per non toccare l'acqua; poi entrorono, quattro ch'egli erano, in uno letticciuolo che avea una coltricetta cattiva, che parea piena di gomitoli e di penna d'istrice, con uno copertoio tutto stampanato, e con ogni altra cosa da fare penitenza. E Curradino si parte da loro, dicendo:

- Fate penitenza, io son povero gentiluomo, e sto come fanno i gentiluomini; godete e datevi buon tempo.

E cosí si partí, e la brigata rimase in guazzetto. Dice l'uno:

- Dic'elli che noi godiamo? se noi fossomo ranocchi, anguille o granchi, potremmolo fare.

Dice l'altro:

- Noi fummo ben granchi a venirci, che morti siàn noi a ghiado, che ci venimmo.

Dice un altro:

- Egli è il tale che vuole risparmiare lo scotto dell'albergo; egli era ben meglio andare all'albergo al Ponte Agliana, com'io dissi.

Il quarto dice:

- E’ son be' risparmi i nostri; e' ci potrà costare questa venuta ancora sí cara che tristi a noi che mai ci venimmo; noi ce ne avvedremo a' medici e alli sciroppi e alle suzzacchere, che sapete quello che costono, e anche non so se noi ce ne camperemo.

E cosí tutta notte quasi non dormirono, parendo loro mill'anni che fosse dí per levarla. Uno vantaggio ebbono, che tutta notte pisciorono per la camera, e non si parea. Venuto il giorno, col canto delle botte e de' ranocchi, si levorono e uscirono del molticcio, facendo subito sellare i cavalli e chiamando i cani, e tolti gli sparvieri in braccio, dissono:

- Curradino, fàtti con Dio.

Curradino disse:

- Io v'aspetterò a desinare.

Risposono:

- Se noi verremo, tu te ne avvedrai -; e passorono il ponte, e' cavalli il fosso a nuoto; e saliti a cavallo, come se 'l diavolo gli ne portasse si dileguorono per dilungarsi dal Pantano.

E dicevano insieme tra loro:

- Non v'avessimo noi lasciati gli occhi, credendoli riavere, che noi vi ritornassimo -; e spesso si volgeano a drieto, o per vedere se dal Pantano s'erano ben dilungati, o per paura che non andasse loro drieto; e mai non ristettono che ritornorono a Firenze; affermando tutti, non che di ritornare mai al Pantano, ma stare un anno che non uscirebbono della porta al Prato.

E riempierono Firenze della gentilezza che aveano trovata, che fu ancora piú nuova che io non ho scritto.

Molto ha preso oggi la gentilezza romitana forma, però che con grande astinenza vivono quelli che sono chiamati gentiluomini, salvo che quando pigliano di ratto, e siano questi di qualunche vita sia o viziosa o scellerata, si dice: “E’ sono pur de' tali, che sono gentilissima famiglia”; e pare che per tale titolo e' si convenga loro usare qualunche vita piú laida sia, o non s'intende per costoro che non aveano piú che s'avessono. E cosí s'usa il verso di Dante per lo contrario: “È gentilezza dovunch'è virtute, ec.”.

 

 

NOVELLA CCXI

 

Il Gonnella buffone vende alle fiera di Salerno stronzi di cane per galle di grandissima virtú, e spezialmente da indovinare; e come, ricevuto di ciò gran prezzo, se ne va libero.

 

Ancora non mi pare che certi arrivassono molto bene in volere assaggiare d'una vivanda che comperorono da uno che la vendea, come che non l'avessono a cuocere co' sagginali. Gonnella buffone, il quale di fare cose nuove non ebbe pari, come ancora in certe novelle a drieto è narrato, andando spesso per lo mondo in piú strani luoghi che potea, arrivò una volta in Puglia alla fiera di Salerno. E veggendo assai gioveni che aveano piene le borse per comprare mercanzia, s'addobbò d'una veste in forma che parea uno medico venuto d'oltramare; e trovata una scatola bassa e larga, e una tovagliuola bianchissima messa dentro, e distesala, su quella pose quasi trenta pallottole di stronzi di cane; e con questa in mano alla scoperta, e con uno de' capi della tovagliuola in su la spalla, giunse in su la detta fiera, e postosi da parte su uno desco, avendo seco un famiglio da lato, puose la detta mercanzia; e cominciando a parlare quasi gergone col famiglio, come venisse dal Torissi, fece trarre a sé diversa gente. Alcuni lo domandavono

- Maestro, che mercanzia è questa?

E quelli dicea:

- Andatevi con Dio; ella non è da fatti vostri, ell'è cosa di troppo valore, e non si fa per chi non ha da spendere.

E a cui dicea in una forma e a chi in un'altra, solo per aguzzar piú gli appetiti di quelli che erano d'attorno: tanto che certi giovani, tirandolo da parte, li dissono:

- Maestro, noi ti vogliamo pregare che tu ci dica che pallottole sono quelle.

E quelli dice:

- Voi mi parete uomeni da dirvi il vero, e non parete caleffatori, - e parlando quasi tra tedesco e latino, disse: - Quella è mercanzia che chi la conoscesse l'arebbe piú cara che tutto quello che è su questa fiera; e se voi mi vedeste quando ci venni, la recai io proprio, e non la fidai al mio famiglio.

Costoro pur domandono. Elli disse che quelle pallottole aveano tanta virtú che chi ne mangiava pur una, subito sapea indovinare: e che con gran pena avea aúto questa ricetta dallo re di Sara, che signoreggia trentadue reami d'infedeli; e perché elli spesso usava di mangiare, era venuto cosí gran signore.

Dissono i gioveni:

- Che costerebbe l'una?

Rispose il Gonnella:

- Ella non può costare quello che non sia grandissimo mercato; però che voi sapete che dice il proverbio: “Fammi indovino e farotti ricco”; e io era povero uomo, e per averle usate sto sí bene che io son ricco, e non mi manca nulla; ma perché voi mi parete gentiluomeni, io vi torrò fiorini cinque dell'una.

Ellino dissono, per amore e per grazia ne voleano quattro, e darli fiorini dodici. Il Gonnella, udendo la profferta, s'allegrò dentro, e di fuori si mostrò delle cento miglia, dicendo:

- Io non le darei ad altrui per tre cotanti.

Alla fine caddono in patto di fiorini quindici; ed elli disse:

- Fate una cosa; direte al desco che me n'abbiate dato fiorini cinque dell'una -; e cosí dissono di fare.

Il Gonnella che pensava, come malizioso, al fine, dice a costoro, perché la fiera durava tutto il giovedí vegnente:

- E’ ve li conviene pigliare in venerdí a digiuno tra la terza e la nona, però che è quel dí e quell'ora che 'l nostro Signore ebbe la passione; altrimente non avereste fatto nulla.

Coloro dissono di farlo; e ch'ella era leggiera cosa a fare. Ed elli tolse fiorini quindici, e diede loro quattro pallottole. Gli altri d'attorno, veggendo spacciare, udendo la fama che già era, che chi mangiava una di quelle subito indovinava, concorsono a comprare per lo miglior patto che poterono, tutti avendo la ricetta dal Gonnella di pigliarle il venerdí a digiuno, e all'ora detta; tanto che tutte e trenta le vendé circa fiorini centoventi.

Fatto questo il Gonnella, il venerdí a buon'ora col suo famiglio e con la valigia sale a cavallo; sanza dire all'albergatore che via tenesse, entrò in cammino. Venuta l'ora ch'e' comperatori desideravano, cioè di mangiare le pallottole per indovinare, due di quelli gioveni primi comperatori, volonterosi d'essere indovini, danno di morso a gran bocconi ciascuno in una, e subito l'uno sputa fuori, e dice:

- Oimè! che sono stronzi di cane, - e l'altro fa il somigliante; e subito vanno all'albergo, e domandono del medico che vendea le pallottole.

L'albergatore dice:

- E’ dee essere dilungato sei miglia, tanto è ch'egli andò.

- E dove?

Rispose non sapere, ma per questa via tenne. Li gioveni erano bene in gambe, cominciano a piè a camminare, e vanno tanto ratti che lo giunsono a... che era a cavallo per partirsi dall'albergo. Come giungono a lui, dicono:

- Maestro, tu ci hai venduto troppo cari li stronzi del cane; come noi gli avemmo in bocca, le sputammo.

Disse il Gonnella:

- Che vi dissi io?

- Dicesti che subito indovineremmo.

Rispose il Gonnella:

- E cosí avete indovinato -; ed essendo bene a cavallo, dà delli sproni elli e 'l famiglio e vannosi con Dio.

Li gioveni, quasi rimasi scornati, e veggendo non poter tenerli dietro, si tornano addietro assai dolenti, dicendo:

- Noi ce n'abbiamo una nostra una; egli è peggio ancor la beffa che 'l danno.

E giunti a Salerno, truovano degli altri che aveano comprata di quella mercanzia; chi s'era messo alla cerca da una parte e chi da un'altra, e chi si stava come smemorato, e ciascuno si doleva e stava scornato di sí brutta beffa. Alcuni altri, sappiendo la novella, cominciorono a cantare:

- A chi vuole indovinare, in bocca li possa un can cacare.

E cosí si rimasono i comperatori scornati per un buon tempo: e 'l Gonnella se n'andò al suo viaggio verso Napoli, là dove con via piú nuova malizia tirò a sé piú denari che non furono questi, come nella seguente novella si dichiarerà.

Io son certo che 'l Gonnella dicea poi avere guadagnato; e' si potea dire piú tosto rubato, e con grandissimo inganno e tradimento; nelle quali cose nessuno altro mai fu con sí sottile e acuto ingegno. E grande maraviglia mi pare che ne' dí suoi non trovasse chi lo pagasse del lume e de' dadi, come meritava, come che le sue erano cose da ridere a cui non toccava.

 

 

 

NOVELLA CCXII

 

D'una grande sperienza che 'l Gonnella buffone al tempo del re Ruberto fece verso Napoli, traendo da uno ricchissimo e avarissimo abate quello che mai da alcuno non fu possuto trarre; e per questo n'ebbe e dal re e da' suoi baroni grandissimi doni.

 

Giunto il Gonnella una volta a Napoli, andò a fare la reverenza allo re Ruberto; e là, essendo conosciuto e dal re e da' suoi baroni, al tutto si disposono di non darli alcuna roba o dono se elli non trovasse modo di farsi donare a uno abate ricchissimo e avarissimo di Napoli alcuna cosa; considerando che mai dal detto abate alcuno non poté trarre solo un bicchiere d'acqua. Il Gonnella, udendo e lo re e' baroni, per fare prova di sé, non se ne scontentò però molto. E saputo dove stava questo abate, subito pensato il modo, si vestí assai poveramente come pellegrino. E partendosi dallo re e da' baroni, disse:

- Santa corona, poiché cosí mi comandate con la vostra baronía, io vo dov'è di vostro piacere, e metterommi alla ventura.

E mettesi in via, e va in verso la Badía; e giunto alla porta, domanda dello abate, dicendo che avea gran bisogno di favellarli. Il portinaio andò all'abate, e disse:

- Alla porta è giunto uno pellegrino che dice che ha gran bisogno di favellarvi.

L'abate, ciò udendo, dice:

- Serà qualche gaglioffo che vorrà limosina -; e muovesi, e va nella chiesa, e dice: - Digli che vegna a me.

Ciò detto, e 'l pellegrino n'andò nella chiesa a lui, e inginocchioni lo pregò che lo dovesse confessare. L'abate rispose che li darebbe uno de' suoi monaci che lo confesserebbe. Il pellegrino dice:

- Padre santo, io vi prego per misericordia che voi mi confessiate voi, però che io ho uno peccato sí grande che io non lo direi, se non a persona di maggior dignità che monaco; e però contentatemi di questo; e io ve ne prego per l'amor di Dio.

L'abate, udendo costui, gli venne voglia d'esaudire a' suoi preghi per sapere che peccato fosse quello che era sí grande; e disse s'aspettasse un poco, tanto che andasse alla sua camera: e cosí s'aspettò. E stando un poco, l'abate viene vestito d'una bellissima cappa paonazza, con li cordoni di seta dinanzi e con alcuni monacelli drieto; e andato a una sedia del coro, chiamò il pellegrino, il quale subito fu presto; e inginocchiatosi a piede dello abate, cominciò la sua confessione; e fondossi sopra il peccato avea sí grande che quasi non ardiva di dirlo, e non credea che Dio mai avesse misericordia di lui.

L'abate come fanno, il confortava che dicesse sicuramente. Aliora il pellegrino dice:

- Messer l'abate, io ho una natura o condizione sí perversa, che spesse volte io divento lupo, con sí gran rabbia che qualunche persona m'è innanzi io divoro, e non so da che né donde proceda; e perché l'uomo fosse armato, cosí lo divoro come se fosse gnudo; e piú e piú volte questo caso m'è avvenuto, e come io sono per diventare lupo, io comincio a sbadigliare e a tremare forte.

L'abate, udendo costui, si cominciò tutto a cambiare, avendo grandissimo timore. Il Gonnella, che avea gli occhi d'Argo, come ciò vede, comincia a tremare e sbadigliare forte, dicendo:

- Oimè, oimè! che io comincio a diventar lupo! - e aprendo la bocca verso l'abate.

All'abate non parve scherzo; levasi in piede e fugge verso la sagrestia. Il pellegrino, come accorto, avea afferrato la cappa, e non lasciandola, sull'entrare dell'uscio della sagrestia l'abate, sfibbiandosi il cordone, lasciò la cappa di fuori, e serrossi dentro all'uscio. Gli altri monaci per la paura s'erano dileguati chi qua e chi là. Il pellegrino, messasi la cappa sotto, se ne va quanto piú puote nella Corte del re, dove avea lasciati li sua panni; e spogliatisi li panni peregrini, si vestí di quelli che piú portava, e andò nella presenza del re e de' suoi baroni, e disse in credenza quello che avea fatto, e ciò che seguíto era.

Lo re e' baroni con grandissime risa si maravigliarono della industria e sagacità del Gonnella; e lo re con tutti li baroni li donorono grandemente, sí che acquistò per la cappa dell'abate molto piú che con li stronzi di cane venduti a Salerno. E spacciate in Napoli le sue faccende, si partí, e andò a suo viaggio. L'abate, tutto stordito con li suoi monaci, credea per certo essere colui stato il nimico di Dio che in forma di peregrino era venuto a mordere la sua avarizia; e disse questa novella con alcuni, sí che pervenne alli orecchi del re. Il quale mandò per lui, e domandollo se fosse vero quello ch'egli avea udito. L'abate affermava di sí, e che veramente credea fosse stato il diavolo, e in fine soffiava e sospirava della sua cappa. Lo re e' baroni, che ciò sapeano, udendo l'abate, ne presono doppio sollazzo; e in fine credo che l'abate il sapesse, benché mai non mostrò di saperlo per non arrogere li scorni e le beffe al danno.

Molto dee essere caro a' piú de' lettori, quando si fatte beffe veggono fare agli uomeni cosí avari e spezialmente a' cherici, ne' quali ogni vizio di cupidità regna, avendo sempre gli animi per quella a dire menzogne, a fare escati, a tendere trappole, a vendere Iddio e le cose sacre. Sallo Elli medesimo, che a loro gli ha conceduti, chi sono o da che sono li piú che hanno a governo li suoi templi; ché serebbe meno male che quelli rovinassono che essere fatti ostelli di sí viziosa gente.

 

 

NOVELLA CCXIII

 

Cecco degli Ardalaffi, volendo correre un'asta di lancia verso li nimici facendosi guidare a Giannino suo famiglio il quale trascorrendoli innanzi, il detto Cecco pone a lui, credendo porre a' nimici.

 

Non fu netto il tratto che volle fare Cecco degli Ardalaffi come furono netti li tratti del Gonnella. Passando il duca d'Angiò con gran brigata di cavalieri vicino di Forlí, quando andò in Puglia contro al re Carlo della Pace, e venendo verso la terra certa gente fiorita, il detto Cecco chiamò un suo famiglio, ch'avea nome Giannino, e disseli che apparecchiasse un suo gran cavallo con le sue arme e certa compagnia d'armati. E ciò fatto, s'armò nobilemente, e salito a cavallo con la sua compagnia, e Giannino allato alla briglia, e certi con le lance molli, s'avviò verso la porta dal lato di Cesena, e uscendo di quella, perché avea molto il vedere corto, chiamò Giannino e disse:

- Mettimi il bacinetto in testa, e dara'mi la miglior lancia in su la coscia, e guidami e appressami quanto tu puoi, dove è la brigata che tu sai.

Giannino guida il cavallo, come dice, e tutti gli altri drietoli. Come si furono appressati a un trarre di balestro, dice Giannino:

- Signor mio, prendete l'asta, ch'e' nimici vi sono dinanzi a rincontro.

E ingozzata l'asta, pigliando Giannino il cavallo per le redine, dando delli sproni a un ronzino su che era, e Cecco seguendolo, essendo quasi a mezza via, avendo lasciato Giannino il cavallo, e Cecco con l'asta bassa correndo forte, credendo porre a uno di quelli cavalieri gli venne posto nel culo al detto Giannino. Il qual Cecco, credendo avere fatto un bel colpo in qualche valentre uomo, cominciò a gridare:

- O Giannino, va' per quel prigione.

Giannino dall'altra parte, sentendosi inaverato, con gran voci comincia a dolersi, e dire:

- Oimè! Cecco, voi m'avete morto.

Dice Cecco:

- Io ti dico, va' per quel prigione, che ti nasca il vermocane.

Allora Giannino con alte voci piú si duole, dicendo:

- Io vi dico che voi m'avete confitto il culo nella sella.

Cecco, come infiammato di letizia, dicea pur:

- Va' pel prigione.

E Giannino nel fine sferra l'asta, la quale nel vero tra pelle e pelle era entrata, e viene verso Cecco, e dice:

- Ecco il vostro prigione.

Ancora dice Cecco:

- Dov'è?

Giannino si dispera, e dice:

- Favell'io greco, o ècci cosí buio? io vi dico che 'l prigion vostro in cui voi avete cosí ben posto, son io; e se non fosse per mal parere, io vel farei toccare con mano; ma, perché il colpo è nel culo, non voglio.

Cecco ancora dice che ciò non potea essere, però che gli parea aver dato a uno che avea l'arme dorate.

Dice Giannino:

- Forse avev'io il culo fregiato di lucciole; io non credea che voi lo nimicasse cosí fieramente; e che se l'asta fosse cosí giunta nel mezzo, com'ella giunse da lato, io non era mai piú Giannino.

Dice Cecco:

- In fé di Dio, e' mi pare strano che ciò possa essere, io credea che tu caleffassi.

Dice Giannino:

- Io non ho da caleffare, ché mi pare mill'anni che io sappia da qualche medico se 'l colpo è cassale o no, sí che lo mi possa acconciare dell'anima.

Allora Cecco disse:

- Se tu mi guidasti in forma che ne sia seguito quello che tu di', tu stesso t'hai fatto il male: dicevat'io che tu facesse che la mia lancia ti si ponesse al culo, che appena mi pare che debba potere essere?

Dice Giannino:

- Io veggio che voi non credete ancora, ma io ne farò certo ciascuno.

E innanzi a tutta la brigata alza li panni e mostra la fedita e la sella, dove l'asta si confisse, e dice:

- Deh guardate, se questo vi pare colpo di Calaves?

Chiarito per questo modo, Cecco cominciasi a contorcere dicendo:

- Vie' za, Giannino, noi torneremo a Forlí, e io ti farò curare al medico nostro; ma a lui e a qualunche altro dirai che uno di quelli di là, correndo verso te, ti puose la lancia.

E cosí promise, ed elli lo fece curare; ché nel vero poco male avea, però che la lancia tra pelle e pelle l'avea confitto nella sella; e guarito che fu, mai non lo volle addestrare piú, però che Cecco era una buona lancia, ma la cattiva vista gli facea errare la posta, e averebbeglila possuto porre un'altra volta in luogo che gli serebbe putito tutti i dí della vita sua.

Non è molto strana cosa, quando il vedere ha alcuno impedimento, d'errare per simile forma o per altra; però che la fragilità de' nostri sensi, essendo ancora sanza difetto, spesse volte gli fa errare. E non si vede elli manifesto che colui che avrà piú chiaro il vedere spesse volte crederrà vedere una cosa, ed elli ne vede un'altra? Un altro crederrà d'udire una voce in uno busso, o uno suono, ed e' fia un altro. Un altro con l'odorato crederrà sentire o un odore o un puzzo, e quello fia un altro. Un altro crederà toccare una cosa, ed ella fia un'altra; e un altro crederrà conoscere per lo gusto uno sapore, credendo quello essere d'uno frutto o d'una spezie, e quello fia d'un'altra. E cosí interviene ancora de' sensi intellettivi. Sí che quello di Cecco, avendo gli occhi difetto, fu difetto della natura; ancora essendo stati chiarissimi, il detto caso potea intervenire. E però nessuno, o signore, o qual vuole si sia, si può fidare nelle sue potenzie; ché tutto dí interviene che l'uomo crederrà trarre in uno luogo, e trarrà in un altro, sí come il bue, che spesso crede andare a pascere, e anderà ad arare.

 

 

NOVELLA CCXIV

 

Uno gentiluomo nel contado di Firenze va a furare un porco, e mettelo su una cavalla; guastasi la cavalla, e 'l porco per poco sale pute; e un altro che era insalato in casa fa il simigliante; e cosí rimane tristo e doloroso.

 

Molto fu di maggiore scorno e di piú danno la novella che seguita, però che non è gran tempo che verso Montelupo contado di Firenze fu uno gentiluomo, il cui nome tacerò per onestà, riguardando a' suoi consorti. Avea costui molto per costume, quando avesse possuto, di fare dell'altrui, suo. Avvenne per caso ch'egli ebbe aocchiato un porco di smisurata grassezza, il quale era d'uno notaio del detto paese; e fatto ragionamento con due contadini, che spesso lo accompagnavono a fare delle sue mercatanzie, si puosono di volere furare il detto porco; e una notte, salito il gentiluomo su una sua ronzina, s'avviò con detti contadini per fare la faccenda; e giunti con l'esca e con argomenti perché la cosa andasse cheta, il trassono del porcile, e avvioronsi col detto porco, il quale per la grassezza andava a grande stento. E dilungati alquanto, giugnendo in uno burrato, e 'l porco non possendo fare l'erta, non sapeano che si fare; e strascinare non lo voleano, però che arebbe fatto romore; di che deliberorono d'ucciderlo, e di porlo su la ronzina, e avviluppatoli al grogno quanti panni aveano, perché il suo stridere non si sentisse, l'uccisono; e poi con gran pena e con grande affanno, consumando grand'ora della notte, il puosono su la ronzina; e a grande stento, camminando con la cavalla, che molto male potea quella soma, giunsono alla magione del gentiluomo; là dove la ronzina giunse stracca, e in fine guasta, che mai piú non fu da farne conto. E 'l gentiluomo ancora era presso che stracco; ma perché la materia avea bisogno di spedizione, elli feciono ragionamento in che modo il porco s'insalasse; e non essendo sale in nessuna delle loro case, disse il gentiluomo:

- Io salai un porco forse otto dí fa, e misevisi su tanto sale che io credo che quello abbia preso il sale che dee: l'avanzo spazziamo e mettiamo su questo, e credo che basterà.

Presono il detto partito; e' due contadini abbruciorono e governorono il porco, e intanto il gentiluomo andò a dormire. E levatosi innanzi dí alquanto, spezzorono la carne, e insaloronla con l'avanzo dell'altro porco.

E cosí stando la cosa per alcuni giorni, essendo la cavalla guasta, venendosi a cavare li due porci di sale, non che elli ne venisse di dolce, ma in quella casa di puzzo non si potea stare, sí che per forza convenne la carne o sotterrassino o gittassesi via. In questo mezzo venne sentore al notaio come il suo porco gli era stato imbolato e da cui; di che egli pensò, come il piú delle volte interviene, di combattere co' dua contadini, e del cittadino lasciare andare la mazza. E facendo li detti convenire e facendo vista di farli impiccare, ebbe da loro fiorini dodici, e stettonsene cheti per lo migliore; e al gentiluomo parve avere cacato nel vaglio, veggendosi aver perduta la ronzina e 'l porco suo che avea insalato, e quello che avea imbolato, e ancora fiorini dodici, li quali credo che la maggior parte furono suoi, perché li contadini non lo dicessono.

E cosí il volere imbolare un porco ad altri gli fece perdere il porco suo e 'l sale, e 'l porco imbolato, e la ronzina, e fiorini dodici.

E giusto e degno fu, però che spesso avviene che chi vuole con rapina, con furto e con altro modo l'altrui, Dio, che tutto vede, gli fa perdere il suo. E non si può errare che l'uomo in questa vita faccia col suo e lasci stare l'altrui; e se altro non fosse o non avvenisse, l'uomo, che non ha lealtà e vuole quello che dee essere d'altrui, da ciascheduno è schifato; e colui che vive leale, stando contento del suo, da ciascuno è ricevuto e amato. Ma li gentili d'oggi tengono essere gentilezza vivere di ratto su l'altrui ricchezza.

 

 

NOVELLA CCXV

 

Jacopo di ser Zello mena uno garzone contadino da Altomena per farlo sperto orefice; e certi suoi compagni li mostrano come meni lo smalto, di che si ritorna a casa.

 

Non volle Jacopo di ser Zello nostro cittadino che uno garzonetto figliuolo d'uno contadino stesse in contado acciò che non gli fosse furato il porco. Questo Jacopo, essendo ricco orefice, andando a suo' luoghi ad Altomena, ed essendo tra certi contadini, cominciò a ragionare che la spazzatura della sua bottega valea ogni anno piú d'ottocento fiorini; e voltosi verso loro, disse:

- E voi state sempre qui poveri a rivolgere le zolle!

E veggendo uno figliuolo d'uno ivi presente, che avea forse sedici anni, disse se volea darlilo, che lo avviarebbe e farebbelo buon uomo. Al contadino parve mill'anni, credendo subito che divenisse ricco, e spezialmente considerando alla valuta della spazzatura ch'egli avea detto.

E tornando Jacopo a Firenze, ne menò il detto garzone con seco, e l'altro dí vegnente il menò alla sua bottega; e passato in uno fondachetto, dove lavoravono due piacevoli uomeni, li quali l'uno era chiamato Miccio e l'altro Mascio, il raccomandò loro, dicendo che come a sua cosa gl'insegnassono ben l'arte. Costoro dissono di farlo: e partitosi un poco Jacopo da loro, dice l'uno all'altro:

- Questo nostro maestro è un nuovo pesce, che non gli pare che noi abbiamo tanto a fare a digrossare l'ariento, che ci mena di contado contadini a dirozzare.

- Alle guagnele! - dice Mascio, - che io gl'insegnerò come fia degno.

E andato su per una scaletta, il detto Mascio, come s'era composto col Miccio, salí su un palco dove menavano lo smalto, e là su chiamò il garzone; il quale giunto suso, e Mascio mettendosi mani alle brache, dice a costui:

- Va', mena qua.

Il giovene tutto vergognoso si volge d'altra parte. E Mascio dice:

- Va', mena qua, ti dico.

Risponde il garzone:

- Io non so che voi mi vogliate far fare; io non ci venni per questo.

E Mascio, dettogli ancora che menasse, e 'l giovane aombrando e contradicendo, però che avea ragione, Miccio, che era di sotto e ogni cosa udía, chiama Jacopo e dice:

- Voi ci menate gent'ebrea, e voleteli fare orafi! quel vostro da Altomena è sul palco, e non vuol fare cosa che Mascio gli dica.

Come Mascio sente Jacopo di sotto, grida forte al garzone, che meni; e dice forte:

- O Jacopo, e' non vuole menare.

Jacopo che avea il pensiero al menare dello smalto, grida, volgendosi in su:

- Mena, che sie mort'a ghiado, e' mi sta molto bene, io ho tolto a dirozzare villani: mena, che tu sia tagliato a pezzi.

Il giovane, sentendosi tanto dire, andò verso Mascio, per ubbidire al suo maestro, e non senza grande e temerità e vergogna. E Mascio, veggendo cosí venire il semplice verso lui, rimise la cosa naturale nel debito luogo, e lui menò verso il menatoio dello smalto, dicendo:

- Figliuolo, perché tu non intenda cosí bene, nello 'mprincipio non te ne curare, ché io feci anche io cosí io -; e cosí gli fece menare lo smalto poi da dovero quasi tutto dí.

L'altra mattina vegnente, o per la prima novità di Mascio, o per la fatica d'avere menato lo smalto, il garzone, sanza dire alcuna cosa, si tornò al padre ad Altomena; e 'l padre, maravigliandosi, domandava della cagione. Il garzone dicea:

- Mandatevi un altro che appari quell'arte, ché io non son buono a ciò.

E tanto lo scongiurò che 'l garzone li disse ciò che Berta filò. Il padre, smemorato della novità del fatto, fra sé stesso dicea: “È questa la spazzatura che valea fiorini ottocento? deh! dàgli il malanno a lui e agli altri mercatanti, se sono cosí fatti”. E passati certi giorni, tornò Jacopo ad Altomena; trovandosi col padre e col garzone, si dolea che se n'era venuto, e come per la prima cosa, ciò era il menare dello smalto, egli avea preso ombra, ed erasene venuto; e che chi si ponea ad un'arte, non che dovesse menare lo smalto quando gli era detto, ma, se gli fosse detto mena il diavol di ninferno , il dovea fare; sí che non si vuol fare cosí dell'o ci .

- Io l'avea accomandato a due migliori lavoranti che io avesse mai in bottega, ed èvvi tale che guadagna l'anno mille fiorini, e ha nome Miccio, che 'l dovete conoscere pur al nome; ma sapete che vi dico? statevi nelle zolle, e voi zolle averete.

Il padre disse:

- Jacopo mio, io credo che gli uomeni nascono con le venture in mano: sta pur che le sappiano pigliare; e cosí sono di quelli che nascono con le sciagure in mano, e questo mio figliuolo è di quelli: steasi in contado tra le zolle, e forse fia il suo megliore.

E mai non disse piú oltre, e cosí rimase la cosa.

Assai vollono dimostrare questi due piacevoli uomeni a Jacopo, se elli l'avesse voluto intendere, che non erano con lui a quello mestiere per dirozzare contadini. E ciò che feciono, non feciono perché fosse occulto, ma perché la novella si sapesse d'attorno, riputandosi d'esserne tenuti piú piacevoli; però che chi udío poi la novella, tre cotanti rideano di Jacopo, che essendo di sotto biestemmava il garzone perché non volea menare, che non rideano o di loro o del garzone.

 

 

 

NOVELLA CCXVI

 

Maestro Alberto della Magna, giugnendo a uno oste sul Po, gli fa un pesce di legno con lo quale pigliava quanti pesci volea, poi lo perde l'oste, e va cercando il maestro Alberto acciò che gliene faccia un altro, e non lo può avere.

 

E’ mi conviene entrare in alcune altre novelle, e prima ne nominerò una d'uno valentissimo e sant'uomo, il quale ebbe nome maestro Alberto della Magna, il quale, andando per le parti di Lombardia, s'abbatteo una sera a una villa sul Po, che si chiama la Villa di Santo Alberto. Entrato in casa un povero albergatore per cenare e per posarsi quella sera, gli vide molte reti con che elli pescava, e da altra parte vide molte fanciulle femine; onde domandò l'oste di suo stato, e come era abiente, e se quelle erano sue figliuole. E quelli rispose:

- Padre mio, io sono poverissimo, e ho sette fanciulle femine; e se non fosse il pescare, io morrei di fame.

Allora maestro Alberto domandò come ne pigliava. Ed elli rispose:

- Gnaffe! non ne piglio quanto mi bisognerebbe, e non ci sono in questa arte molto avventurato.

Allora maestro Alberto, innanzi che la mattina si partisse dall'albergo, ebbe fabbricato un pesce di legno, e chiamò a sé l'oste e disse:

- Togli questo pesce, e legalo alla rete quando tu peschi, e piglierai con esso sempre grandissima quantità di pesci; e fiano forse tanti che ti faranno grande aiuto a maritare queste tue figliuole.

Il povero oste, udendo ciò, molto volentieri accettò il dono, rendendo grandissime grazie al valentre uomo; e cosí si partí la mattina dell'albergo, andando al suo viaggio verso la Magna. Rimaso l'oste con questo pesce di legno, volontoroso di vedere la prova, in quello dí andò con esso a pescare: tanta moltitudine di pesci traevano a quello, ed entravano nelle reti, che appena gli potea trarre dell'acqua né recare a casa. E continuando questa sua ventura, molto bene facea i fatti suoi, e di povero uomo si facea ricco per forma che in poco tempo averebbe maritate tutte le sue figliuole.

Avvenne per caso che la fortuna, inimica di tanto bene, fece sí che uno dí, tirando costui la rete con gran numero di pesci, la cordellina del pesce di legno s'era rotta, e 'l pesce se n'era ito giú per lo Po, in forma che mai non lo poteo ritrovare; onde, se mai fu alcuno dolente di caso che gl'intervenisse, costui fu desso, piagnendo la sua sventura quanto piú potea; e con questo provava di pescare sanza il pesce di legno, ma niente era, ché de' mille l'uno non pigliava. Onde tapinandosi: “Che farò, che dirò?”, si dispose al tutto di mettersi in cammino, e di non restare mai, che fosse nella Magna alla casa di maestro Alberto, e a lui dimandare di grazia che li rifacesse il pesce perduto. E cosí non ristette mai che elli giunse dov'era maestro Alberto; e quivi con grandissima reverenzia e pianto, inginocchiandosi, gli contò la grazia che da lui avea ricevuta, e come infinita quantità di pesci pigliava, e poi come, la corda del pesce essendosi rotta, il pesce se n'era ito giú per lo Po, e perduto l'avea: e pertanto pregava la sua santità che, per bene e per misericordia di lui e delle sue figliuole, gli dovesse rifare un altro pesce, acciò che ritornasse in quella grazia che egli gli avea donata di prima.

Guardando maestro Alberto costui, forte gli ne increbbe, dicendo:

- Figliuol mio, ben vorrei poterti fare quello che mi addomandi; ma io non posso; però che io ti fo assapere che quando ti feci quello pesce che io ti diedi, il Cielo e tutti i pianeti erano in quell'ora disposti a fare avere quella virtú a quel pesce; e se io o tu volessimo dire: questo punto o questo caso può ritornare, che un altro se ne possa fare con simile virtú, e io ti dico di fermo e di chiaro che questo non può avvenire di qui a trentasei migliaia d'anni: sí che or pensa, come si può rifare quello che io feci.

Udendo l'albergatore questo tempo tanto lungo, cominciò a piagnere dirottamente, piagnendo maggiormente la sua sventura, dicendo:

- Se io l'avessi saputo, io l'avrei legato con un filo di ferro, e tenutolo sí che mai perduto non lo avrei.

Disse allora maestro Alberto:

- Figliuolo, datti pace, però che tu non se' il primo che non hai saputo tenere la ventura, quando Dio la ti manda; ma e' sono stati molti e piú valentri uomeni di te, che, non che l'abbiano saputa prendere e usare quel picciolo tempo che l'hai usata tu, ma e' non l'hanno saputa pigliare quand'ella s'è fatta loro innanzi.

E poi dopo molte parole, con simili conforti, il povero albergatore si partí, e tornossi nella sua stentata vita, guardando piú tempo per lo Po se rivedesse il perduto pesce; ma ben poté guardare, ch'egli era forse già per lo mare maggiore con molti pesci attorno; e non v'era con lui né l'uomo né la ventura. E cosí visse quel tempo che piacque a Dio, con uno repetío in sé del perduto pesce; che molto serebbe stato il meglio che mai quello non avesse veduto.

Cosí fa tutto dí la fortuna che molte volte si mostra lieta, per vedere chi la sa pigliare, e molte volte chi meglio la sa pigliare ne rimane in camicia; e molte volte si mostra acciò che chi non la sa pigliare sempre poi se ne dolga e viva tapino, dicendo: “Io potei avere la cotal cosa e non la volli”. Altri la pigliano e sannola tenere molto poco, come fece questo albergatore. Ma, a considerare tutti i nostri avvenimenti, chi non piglia il bene quando la fortuna e 'l tempo gnel concede, il piú delle volte, quando si ripensa, il rivorrebbe e non lo ritruova, se non aspettasse trentasei migliaia d'anni, come disse il valentre uomo. Il qual detto mi pare che sia conforme a quello che certi filosofi hanno già detto, che di qui a trentasei migliaia d'anni il mondo tornerà in quella disposizione che è al presente. E sono stati già a' miei dí di quelli che hanno lasciato ch'e' loro figliuoli non possono né vendere né impegnare, che mi pare che debbano credere a questa opinione acciò che truovino il loro quando torneranno in capo di trentasei migliaia d'anni.

 

 

NOVELLA CCXVII

 

 

Uno Altopascino di Siena fa un brieve a una donna di parto, acciò che ella partorisca sanza pena, e giovali molto, e simile a molte donne a cui ella il prestò, dopo certo tempo il brieve s'apre, truovasi che dice cose strane e di grandi scherne, di che tutta Siena con grande risa ne rimase scornata.

 

Altramente fu viziosa questa novella che seguita e di grande scorno. Fu in Siena, al tempo che reggeva l'officio de' Nove, una gentil giovane di pochi anni andata a marito, e quelli figliuoli che facea, facea con grandissima pena e fatica; e al presente era gravida di sette mesi; e come paurosa, ognora cercava di leggende di santa Margherita, e di medicine e di brievi, e d'ogni altra cosa che credesse che li giovasse alla sua passione.

Avvenne per caso che uno Altopascino, come sempre ne sono per le terre, volendo trarre da questa giovene alcuna quantità di danari, disse un dí a una feminetta che usava nella casa che elli avea udito dire a due frati Ermini che elli sapeano fare un brieve che, tenendolo la donna addosso, non serebbe sí duro parto, che sanza pena non partorisse. La feminetta udendo questo, avvisò di portare novelle da roba; e andata alla casa della giovene, disse ciò ch'ella avea udito: di che alla donna venne talento d'avere questo brieve. E mandata la feminetta a trovare il modo, e patteggiare come il brieve s'avesse, l'amico disse che gli convenía trovare due frati, che erano da Finibus_terre, e che bisognavano, tra per loro e per le cose, fiorini cinque.

- Per denari, - disse la feminuccia, - non mancherà - , e tornata alla giovene, gli parve mill'anni, che subito le dié fiorini cinque per avere il detto brieve, e con li detti denari tornò all'amico; il quale tantosto fece vista d'andare fuori di Siena, e disse:

- Io vo a trovare gli amici, e credo recare il brieve anzi che sia molti dí.

E andò a stare in questo mezzo a una Badía di Buonconvento, e là fece una cedola scritta, e piegatala, la legò tra piú zendadi e cucilla in diverse maniere, e ritornato da ivi a piú dí a Siena, mandò per la feminetta, e mostrandosi molto affaticato le disse:

- Sallo Dio che pena m'è stata ad avere questo brieve ma lodato Dio, io l'ho pur recato; ché ne voleano piú ben due fiorini; andate e dite alla donna che 'l porti addosso, e mai non l'apra, ché subito perderebbe la sua virtú; e se mai lo prestasse a persona, dicali similmente che guardino che non lo aprissono.

E cosí, con questo rapporto, portò il brieve alla giovene; la quale con tanta fede il ricevette quanto avesse ricevuto il verace corpo di Cristo e venne in sul parto, e sanza nessuno dolore partorí. E ancora tanto si sparse la fama di quello brieve che beata quella donna gravida in Siena lo potesse accattare; e per tutta Siena piú anni e anni ebbe grandissimo corso; beata quella donna che 'l detto brieve potea avere. E come che si andasse la mazza, né la donna che l'avea comprato, né dell'altre che l'accattassono, ne perivano; e cosí durò molti anni.

Io mi credo che, quando la persona porta molta fede che uno brieve o altra cosa gli abbia a giovare, che quella cosa non gli possa fare altro che utile; e cosí poté avvenire anco di questa.

Ma per ispazio di piú anni, venendo volontà alla donna di sapere che parole erano quelle che avessono cotanta virtú, se n'andò un dí con una compagna che sapea leggere in una camera dinanzi alla tavola di nostra Donna; e con grandissima reverenza cominciorono a scucire il detto brieve; e trovata la scritta in carta sottilissima di cavretto, lessono il detto brieve, il cui tenore dicea cosí:

“Gallina, gallinaccia, Un orciuolo di vino e una cofaccia, Per la mia gola caccia, S'ella il può fare, sí 'l faccia, E se non sí, si giaccia” .

Udito che ebbon le donne queste sante parole, quasi con risa uscirono di loro stesse, e l'una si volgea all'altra, dicendo:

- Per certo questo è un bel brieve; e fu pur buona spesa quella di cinque fiorini!

E in fine, d'una donna in un'altra, tutta la terra se ne riempié, per tanto che gran tempo vi durò che quando una donna gravida passava per la via, o fanciulli o altri diceano:

- Gallina, gallinaccia -; e quasi le donne se ne vergognavono.

E venendo ciò agli orecchi del marito di quella che l'avea comperato fiorini cinque, volle sapere chi era stato il mercatante, e trovò che forse d'uno anno innanzi s'era morto; ché forse si fece per lui, però che era materia da poterli dare la mala ventura: e cosí terminò questo brieve.

Buona cosa è avere la fede, ma spesso è il peggio averne troppa; però che si dee pensare chi è colui che ti dice o che ti dà la cosa, e quanto è credibile o verisimile quello che t'è detto. Molto ci corrono le donne, e spezialmente cotali feminelle, che paiono sorocchie di santa Verdiana; ed elle se ne rimangono poi con le beffe e col danno, come rimase questa.

 

 

 

NOVELLA CCXVIII

 

Uno judeo fa un brieve a una donna perché uno suo figliuolo cresca, ed essendo da lei ben pagato, se ne va; poi a certi dí s'apre il brieve, e truovasi scritto in forma di gran beffe e scorno.

 

Ben fu maggior beffa questa che séguita, considerando come e chi la fece. Fu già in Mugello, contado di Firenze, una giovane castellana vedova e assai abbiente e avea un suo figlioletto di forse undici anni, il quale, o che fosse di razza d'esser piccolo, o che alla madre non paresse che crescesse come si convenía, delle maggior pene era ch'ella portasse. Di che un giorno di festa, standosi a sedere a un uscio su la strada e avendo seco questo suo fanciullo, per avventura passò alcuno judeo; e sceso da cavallo per acconciare una cinghia che gli s'era rotta, e in questo cominciò a domandare la donna come stava; e quella, considerando già che era judeo, e pensando, come poco savia, in lui dovere essere gran virtú a poterli dare rimedio al suo dolore, disse:

- Io sto bene, se Dio mi facesse grazia che questo mio figliuolo crescesse, che non cresce e non crepa -; e poi soggiunse: - Deh, voi sete judeo, e sapete fare assai cose; non mi dareste voi qualche remedio che elli crescesse?

Allora il judeo, come reo, s'avvisò di guadagnare gran parte delle spese che avea fatte per cammino, e rispose:

- Madonna, se la spesa non vi dolesse, voi sete bene abbattuta, però che io non credo che sia alcuno che possa meglio dare rimedio a quello che desiate, come poss'io.

Allora disse la donna:

- Sia la spesa qual io la possa fare, io non la ricuserò.

Disse il judeo:

- Madonna, e' conviene che sia un brieve formato e composto su molte cose, che monterebbe la spesa otto o nove fiorini.

Disse la donna:

- Per insino in fiorini otto non voglio che manchi.

Il judeo rispose:

- Poiché cosí mi dite, io non mi partirò che io avrò fatto ciò che bisogna; e voi seguirete diligentemente ciò ch'io vi dirò.

La donna allora, piú volontorosa, disse che facesse ciò che fosse da fare, e li denari erano presti, purché ella vedesse che questo suo figliuolo non fosse un piccinaco. Lo judeo stette in quella notte ad uno albergo, e disse di fare ciò che bisognava, e la mattina darebbe compimento alla faccenda. La donna il pregò che cosí facesse, e la sera gli presentò vivande e vini nobilmente. Poi egli ordinò uno brieve fasciato e legato con molte cerimonie; la mattina vegnente andò a casa la donna, alla quale non parve vedere uno judeo, ma piú tosto uno angiolo del paradiso. Il quale judeo, come reo, disse:

- Madonna, non sanza gran fatica io ho fatto questo brieve, il quale appiccherò al collo a questo vostro figliuolo, e terrallo nove dí e nove notti; e in capo di nove dí lo menerete al prete e alla chiesa del vostro populo, dicendo che lo discioglia e legga innanzi al populo, e faccia quello che dice; e vedrete grande sperienza del crescere che avrà fatto.

La donna, volontorosa, disse che ogni cosa serebbe fatto, e diede fiorini otto al judeo, il quale, lasciato il brieve al collo del figliuolo, s'andò a suo viaggio; e la donna rimase con grandissima speranza de' nove dí.

E fatto ogni cosa con diligenzia, come gli avea detto il judeo, venuto in capo di nove dí mattina la donna, per vedere la perfezione di quel brieve, menoe il figliuolo alla chiesa, e disse al prete che li dovesse piacere d'aprire quel brieve e leggerlo dinanzi al populo. Il quale, scuscendo e aprendo il brieve, lesse le parole, le quali furono queste:

“Sali su un toppo, E serai grande troppo; Se tu mi giugni, Il cul mi pugni” .

Udendo il prete e la donna e gli altri questa leggenda, ciascuno si maraviglia. La donna, come quella che non seppe occultare lo intrinseco della sua passione, aspettando della sua speranza in quella mattina avere il frutto, con grandissimo pianto disse al prete e al populo come uno judeo l'avea gabbata; e promettendoli di fare uno brieve che 'l suo figliuolo serebbe cresciuto sterminatamente, e avendone aúto buon prezzo, le parole del brieve erano fatte come ciascuno vedea. Allora chi la racconsolò di qua e chi di là; e spezialmente il prete che disse:

- Questo brieve non ha mentito niente di quello che vi fu promesso; però che, se voi mettete il fanciullo su uno toppo, come dice, ben sapete ch'elli crescerà -; e cosí ciascuno dicea la sua.

E la donna nella fine si volse al fanciullo, dicendo:

- Se tu vuogli essere nano, e tu ti sia, ché mai né judeo né cristiano non m'archerà piú -; e rimenatolo a casa piccolo come era, si diede pace come poteo.

Quanto è nuova cosa questo aventarsi nell'opere de' judei! e molte volte interviene che si crederrà piú tosto a uno judeo che a mille cristiani: benché i cristiani sono oggi sí tristi, e con sí poca fede, che abbiansene il danno. E anco non so dove manchi piú la fede, o nell'uno o nell'altro. Credo io che, qual femina va caendo brievi per volere fare una creatura grande che Dio ha voluto far piccola, doverrebbe ringraziare Dio di ciò che fa; e se altro volesse da Lui, con l'orazioni umilmente pregarlo, se 'l meglio dovesse essere, esaudisse i suoi prieghi: e tenersi otto fiorini in borsa e non gli dare a' judei.

 

 

 

NOVELLA CCXIX

 

 

Due cognate moglie di duo fratelli, avendo gran voglia di far figliuoli, pigliano beveraggio da uno judeo, e paganlo bene; poi ad alcuno mese si truova che ha dato loro uova di serpi, e quello di ciò seguío.

 

Se la passata donna fu semplice, queste due giovene sequenti furono molto stolte in quello che credettono a uno altro judeo. Il mondo è pieno d'arcadori, li quali con diversi lacciuoli s'ingegnano d'uccellare o di pescare a' ranocchi, non pensando mai se non come possano trovare modi che tirino li denari a loro: e se di questi sono de' maliziosi e falsi, sono tra' judei, e tanto hanno bene quanto ingannano con falsità li cristiani.

Fu adunque, già è buon tempo passato, nella città di Firenze due giovinette gentili e di buona famiglia, ed erano mogli di due giovani fratelli molto ricchi, e ogni bene mondano aveano, salvo che nessuna di loro facea figliuoli, e tanta volontà n'aveano che niuna cosa averebbono lasciato a fare per averne. Avvenne che, essendo una volta di state a una loro possessione di fuori della terra, e standosi a cuscire o filare come hanno per usanza, uno judeo che avea nome David, assai pover uomo, capitò nel paese; ed essendo presso al luogo dov'erano le donne a due balestrate, veggendo il casamento dalla lunga, cominciò a domandare una vecchia contadina che filava a filatoio come si chiamava quella villa e di cui era quel bel luogo che vedea; e ogni cosa investigata, si fermò ad aescare sopra le due giovani che non faceano figliuoli; e messosi in cammino verso quel palagio, appunto s'abbatteo alla porta dove le due giovane cuscivano, e salutatole, seguí:

- O quanto bene avereste da Dio, se voi faceste figliuoli! ogni bene avete fuor che questo; voi giovani e belle e ricche, con li vostri mariti gentiluomini e dabbene.

Udendo queste donne questo David cosí favellare, maravigliandosi, lo domandorono chi egli era e come cosí sapea li fatti loro. E quelli, gittando un grande sospiro, disse:

- Madonne mie, io sono uno cosí fatto, come voi vedete, e sono judeo; e come io so i fatti vostri, e non ci fui mai piú, cosí saprei di molti altri che sono per lo mondo; e anco mi darebbe il cuore di darvi a pigliar cosa che, usando co' vostri mariti, subito ingravidereste.

Costui non disse a sorde; però che, veggendo le donne costui esser quasi profeta, sappiendo tutti i lor fatti, s'accostorono a pregarlo teneramente che desse loro forma come elle ingravidassono.

Rispose il judeo:

- Se io non andasse a Fiorenza a comprare cose assai che bisognano ad alcuno beveraggio che bisogna, non lo potrei fare; e a questo bisogna denari, che da me non ho, ché io son povero, come voi vedete -; e brievemente disse che a due beveraggi bisogna fiorini quattro di spezierie e altre cose; della sua fatica facessono a loro discrezione.

Le donne gli dierono subito fiorini quattro, e dell'avanzo dissono fare sí che serebbe contento. David si partí con quattro fiorini, e andossi tanto aggirando che trovò uova di serpi, e quelle divise per metà, mettendole in due bocciuoli di canna con altre cose miste; e ivi a certi dí tornò il detto judeo alle donne, le quali con grande desiderio l'aspettavano; e' mariti quasi ogni mattina veníano a Firenze, com'è d'usanza.

Giunto dinanzi a loro, diede a ciascuna il suo bocciuolo, dicendo:

- Direte domattina tre paternostri a reverenzia del Dio patre, e poi ciascuna pigli il suo, e con li vostri mariti ingegnatevi d'usare quanto sie possibile, e in poco sentirete grandissima prova del vostro gravidamento.

Le giovani parea che n'andassino in cielo; e tolti li bocciuoli, dierono ancora denari al judeo, il quale detto loro quanto li piacque si partí, ricevendo da loro ogni cortesia che si dee fare a un povero e valentre uomo, come parea elli.

La mattina vegnente la piú attempata delle due cognate, come piú mastra, si pensò, e fra sé stessa disse: “Che so io chi è costui che è venuto a darci questa ricetta? per lo mondo vanno di cattivi uomeni, e per uno denaio tradirebbono Cristo; e costui è judeo, che lo tradirono e venderono trenta danari: io per me non voglio avere sí gran voglia di figliuoli che io mi metta a fare cosa che mi mettesse peggiore ragione”. Diliberò al tutto di riporre il bocciuolo del beveraggio e dire alla compagna, se la domandasse: io l'ho preso ; e mise questo bocciuolo in una cassa, dove era lino; e quella serrata, volle stare a vedere come la cognata di questa ricetta capitasse.

E stando per uno spazio di tempo, forse piú di due mesi, la piú giovane cognata che era stata volontorosa a pigliare la medicina, dice alla maggiore cognata:

- E’ par che mi cresca el corpo, e parmi sentir guizzare il fanciullo; sentilo tu ancora tu?

E quella disse:

- Io non sento ancora cosa che di fermo io potesse dire alcun sentore ch'io abbia, ma ben mi pare avere un poco di cambiamento -; e con questo si partono con gran letizia, quella che sentía il buzzicare, credendo essere grossa, e l'altra che era stata a vedere come la barca arrivasse, lieta andava a pigliare il beveraggio che avea messo nella cassa del lino per ingrossare come la compagna. E andata alla cassa e aperta che l'ebbe, tra quello lino trovò e vide avvolte certe serpicelle, nate di picciol tempo; onde, come savia, guardando nel bocciuolo, considerò di quello cannone essere uscite quelle serpi, e veramente alla sua cognata essere nate nel ventre quelle di che ella dicea sé gravida sentire. Di che, aúto il suo marito, gli disse ciò che era loro intervenuto, capitando loro uno judeo all'uscio, e quella bevanda avea loro data, la quale veramente avea presa la sua cognata, e già diceva sentire novità al corpo.

- E per questo, credendo lei essere gravida, avendo insino a qui voluto stare a vedere, corsi alla cassa per pigliare quello che avea lasciato a me com'a lei, di che io ho trovato queste serpicelle, come tu vedi.

Il marito, assai doloroso di questa cosa, disse che male avean fatto, e che si volea accozzare col fratello, e vedere modo che la giovene, che a quello passo era condotta, per consiglio di medici si curasse. Accozzatosi col fratello; e poi andati alla cassa e con quella donna che non avea preso, ogni cosa compresa, pensaro di avere consiglio di valentri medici; li quali, ogni cosa veduta e intesa, aoppiorono la giovane e ordinorono d'avere latte e appiccare la giovane con la bocca di sotto, e tenere alla bocca il latte, sí che li serpicini, correndo al latte, n'uscissono.

E cosí per grande spazio, e non sanza grande industria, li serpicini per la bocca uscirono fuori al latte, e la giovane rimase libera: e destasi dello aoppiamento, le fu detto per lo marito e per lo cognato a che partito per sua stoltizia s'era messa, credendo a cosí fatti, non uomeni ma diavoli, essendo judei; facendo ciò che poterono in fine delle parole per giugnere quello judeo, non possendolo mai ritrovare. Cosí si rimase ancora questa cosa e con la beffa e col danno. Poi quando Dio volle feciono de' figliuoli, e forse piú che non averebbono voluto.

O quanto è stolta cosa che la donna, non volendo Dio che abbia figliuoli, vorrà fare d'averli per fattura d'uno judeo, o eziandio per fattura d'alcuno uomo terreno! Gran cosa è che li cristiani uomeni e femine daranno maggiore fede a uno judeo che a cento cristiani; ed eglino niuna fede darebbono a uno cristiano! ma noi siamo vaghi di cose strane. Piú tosto torranno i cristiani moglie da lunga che vicina; e piú tosto comperranno un cavallo che meneranno doglioso gli erri dalla Magna a Roma, che non comperranno quello del vicino, sentendolo perfetto. Ma molto è piú nuova cosa che una donna voglia sforzare Dio e la natura per avere figliuoli; e molto maggior dolore è averne che non averne: nel non averne è una passione, nell'averne sono assai tormenti. Se sono cattivi, vivono assai, e mai altro che male non se n'ha; se son buoni, e' si muoiono; e ciascuno cerca pur di volerne, e le piú volte cerca la sua mala ventura.

 

 

 

NOVELLA CCXX

 

Gonnella buffone compera un paio di capponi, e andando uno fanciullo con lui per li denari si contraffae per forma che 'l fanciullo per paura si fugge e dice che non è desso.

 

Bello inganno di poca cosa fu quello del Gonnella buffone, il quale fu maestro de' maestri, come a drieto in alcune novelle è fatto menzione; fu questa piccola cosa e piacevole. Capitando il Gonnella in alcuna terra in Puglia, e avendo bisogno per uno carnesciale d'uno paio di capponi, pensando come gli potesse avere sanza costo, come era uso, assai bene addobbato per avere il credito andò in polleria; e convenutosi d'un paio di capponi per soldi quarantacinque, disse al pollinaro mandasse un suo fantino co' capponi insino al banco e darebbegli i danari. Il pollinaro diede li capponi a uno garzonetto, e disse:

- Va' con lui, e reca quarantacinque soldi.

Partesi il Gonnella col fanciullo drieto, e quando vede tempo, lascia i capponi a casa d'un suo amico, e dice al fanciullo:

- Andiamo alla tavola per li denari.

Il garzon drietoli. E 'l Gonnella ne va drieto a un banco, e là ragionava alcuna volta di Berta e di Bernardo; e 'l fanciullo aspettava di dreto a lui che si volgesse con li denari: e stato per ispazio di presso a un'ora, non volgendosi il Gonnella e non facendo sembianti di darli e' denari, il garzone tirò il Gonnella per lo mantello. Come il Gonnella si sente tirare, subito si trae della scarsella una gran sanna di porco, e mettesela alla bocca, e ciò fatto s'arrovescia le ciglia degli occhi che pareano di fuoco, e con questi facendo un fiero viso, si volse al garzoncello, dicendo:

- Che vuo' tu?

Il garzone, veggendo questo viso cosí orribile, pieno di spavento, dice:

- Voi non siete esso, io non dico a voi -; e come smemorato guarda di qua e guarda di là, nella fine tornò al suo maestro sanza denari, dicendo:

- Io andai con lui alla tavola, e aspettai un buon pezzo, e nella fine, tirandolo per lo mantello e' si volse che parea un diavolo con gli occhi rossi e con le sanne grandissime; io dissi: “Voi non sete esso”; e guardai di quello che ebbe e' capponi, mai non lo potei rivedere.

Lo pollinaro cominciò a gridare allo fanciullo e a darli, dicendo:

- Perché lasciastú li capponi, prima che ti desse i denari?

Le scuse furono assai. Il pollaiuolo andò tutto dí guardando se rivedesse quel de' capponi; ma il Gonnella s'avea già mutata un'altra vesta, che mai non l'averebbe riconosciuto; e fece il carnesciale con quelli capponi di buon mercato; ma il fanciullo credo che ebbe cattivo carnesciale, avendo di molte busse e dell'erbe, se ne seppe mangiare.

Questa novelluzza del Gonnella fu uno peccato veniale, e di gran piacere a chi la seppe poi; ma non fu di piacere al pollaiuolo né al suo garzonetto. E poche cose facea mai, se non con trappole; e pertanto in questa vita non si può stare troppo avvisato, però che d'ogni parte sono tesi gli inganni e' tradimenti per fare dell'altrui suo. Meglio serebbe a non avere che avere: a tanto è venuto il mondo che la piú sicura vita che sia è la povertà, se altrui la conoscesse.

 

 

 

NOVELLA CCXXI

 

 

A messer Ilario Doria, venuto a Firenze ambasciadore per lo imperadore di Costantinopoli, con una sottile malizia da uno, mostrandosi famiglio di uno cittadino di Firenze, è tolta una tazza d'argento di valuta di trenta fiorini.

 

Non voglio lasciare una novelletta che fu ne' miei dí poco tempo fa. Per lo imperadore di Costantinopoli venne alla città di Firenze e in altri luoghi uno ambasciadore molto orrevole, il quale avea nome messer Ilario Doria gentiluomo di Genova, e dal Comune e da' singulari cittadini gli fu fatto grande onore e ricchi doni. Tornava il detto ambasciadore da casa i Pazzi all'albergo della Corona. Standosi per alquanti dí il valentr'uomo al detto albergo, uno che non si poté mai trovare chi fosse (ma io scrittore credo che fosse discendente del Gonnella), avvisandosi di tirare a sé qualche piattello d'argento, e forse ne avea maggiore bisogno di lui, con una gran reverenza spuose dinanzi da lui che uno gentiluomo fiorentino e suo amico, il quale poi lo verrebbe a vicitare, lo mandava pregando caramente che mandasse uno de' suoi famigli con uno de' suoi piattelli d'argento, che li volea mandare de' suoi confetti.

Il gentiluomo Doria, udendo costui, chiamò un suo famiglio, e fégli dare una tazza che passava ben tre libbre d'argento, e disse:

- Va' con costui, e fa' quello che ti dice.

Partironsi, e facendo la via verso le scalee della Badía di Firenze, giunti a quelle, dice colui che era ito all'ambasciadore:

- Dammi il piattello, ché io voglio andare a farl'empiere, e aspettati qui.

Il famiglio forestiero, non uso nella città, veggendo le scalee della Badía, s'avvisò che andasse in una casa di qualche gentiluomo: diégli liberamente il piattello. Tolto il piattello, questo cattivo uomo entra nel cortile della Badía, e 'l forestiere rimane ad aspettare. Come quello del piattello entra per l'una porta, cosí se n'esce per quella che va in Santo Martino e dà de' remi in acqua e vassene col piattello. Il famiglio forestiero aspetta il corbo, e aspetta tanto che la grossa è sonata.

Andando la famiglia del Podestà alla cerca, come son fuori veggono costui, e piglianlo, e dicono:

- Che fai tu qui?

Quelli il mandano al Podestà, e 'l Podestà il domanda. Quelli dice ch'egli è famiglio del tale ambasciadore, e la cagione il perché aspettava. Udendo il Podestà costui, mandò il cavaliero all'albergo della Corona, sappiendo se era uno suo famiglio, e udito di sí e la cagione piacevole, lo lasciò; avendo gran voglia di spiare chi fosse quello rubaldo che avesse fatto quella cattività; e mai, com'io ho detto di sopra, non si poté trovare chi fosse. L'ambasciadore, non istante al danno e alla beffa, se ne rise, dicendo che per certo in Firenze dovea avere di sottili uomini da saper tirare a loro.

Ella va pur cosí, ché chi ha fatto le mane a uncini e vuole vivere di ratto, ognora pensa come possa arraffare; e colui che viverà puramente, non si guarda, ma vive alla sicura: e come detto è, malagevole è vivere sanza questi pericoli, però che chi ha bisogno non pensa se non come possa avere; e quando ciò fanno, non pensano alle forche.

 

 

 

NOVELLA CCXXII

 

Messer Egidio cardinale di Spagna manda per messer Giovanni di messer Ricciardo, perché sente avere fatto contro a lui; ed elli vi va, e con sottile avvedimento gli esce dalle mani, e torna a casa.

 

Un bello inganno, o piú sapere, voglio raccontare nella presente novella. Ne' tempi che messer Egidio cardinale di Spagna con felice tempo dominava, essendo ad Ancona, gli venne sentito che messer Giovanni di messer Ricciardo de' Manfredi, signore di Bagnacavallo, di Valdilamona in gran parte, e di Modigliana e d'altre terre, avea trattato o ragionamento stretto con messer Bernabò, signore di Melano, allora signor di Luco ivi vicino, e ciò era contro al detto Cardinale, e in loro difesa. Di che mandò per lo detto messer Giovanni; ed elli, non sanza gran sospetto, andò ad Ancona; e poi che là fu giunto, gli fu detto da alcuno che s'egli andasse al Cardinale egli era a ristio non tornare mai a Bagnacavallo. Con tutto ciò, come saputo cavaliere, poiché insino a quivi era venuto, si diliberò al tutto andare a lui; e cosí fatto, giunto al Cardinale con la debita reverenzia, il Cardinale gli domandò piú cose, fra le quali fu che elli volea porre l'oste a Luco, e ciò facendo avea bisogno della sua vettovaglia, e che elli avea bisogno della maggior quantità che potesse de' suoi bon fanti; e in ultimo bisognava che li prestasse fiorini dieci mila.

Messer Giovanni alla prima chiesta disse che della vittuaglia gli era grazia, però che cosí si venderebb'ella ad altrui: de' fanti disse che volentieri n'averebbe ogni numero che a lui fosse possibile: de' denari disse che gliene potea prestare ventimila sanza alcuno sconcio; e del rendere si fidava di lui, e questo fosse a ogni suo piacere.

Udendo il cardinale sí libere risposte, pensò di tirare l'aiuolo, e spezialmente all'ultima, dicendo:

- Quando poss'io avere i dinari?

Rispose il cavaliero:

- Mandate con meco il tesoriere vostro, quando io ne vo, e daròglile.

Il Cardinale, udendo la buona intenzione di messer Giovanni, mandò con lui il tesoriere, dando della mano in su la spalla a messer Giovanni, e disse:

- Ecce filius meus dilectus, qui mihi complacuit  -; e disse: - Va', e reca quelli denari, che messer Giovanni ti darà.

Giunti che furono a Bagnacavallo, e messer Giovanni smonta e va alla sua camera, e dopo piccol spazio di tempo torna al tesoriere, e dice che 'l suo cameriero, che ha la chiave del cassone, è andato in Toscana per alcuna cagione che portava, e pertanto lo scusi al suo signore messer lo Cardinale e da ivi a otto dí torni a lui. Lo tesoriere si tornò zoppo col dito nell'occhio, e giunse al Cardinale che aspettava con la borsa aperta; e udita la risposta del tesoriere, s'avvisò avere teso nello spaniato, e che male avea creduto a quella volta, e pentesi d'avere lasciato venire a Bagnacavallo messer Giovanni, per credere a san Giovanni Boccadoro; e innanzi che fossono passati dí quindici del termine, il signore detto di Faenza s'accordò con messer Bernabò, come avea principiato, e 'l Cardinale si rimase sanza il pincione per volere il tordo della frasca.

Come il denaio fu creato, cosí nacque l'inganno. Essendo questo Cardinale degli astuti signori del mondo, e avendo di questo signore gran sospetto, come la profferta de' denari fu fatta, ogni altra cosa mise in abbandono; e la gran profferta fatta da messer Giovanni fu lo scampo suo, ché, se cosí non avesse fatto, avea forse mal tirato; e 'l Cardinale si dee credere n'avesse gran pentimento, ma poco li valse.

 

 

NOVELLA CCXXIII

 

Lo conte Joanni da Barbiano fa al marchese che tiene Ferrara uno grande inganno, ovvero trattato doppio, promettendogli d'uccidere il marchese Azzo da Esti che gli facea guerra, e dandogli a divedere che l'ha morto, riceve da lui castella e denari.

 

Poiché qui sono, io voglio raccontare un altro inganno con una sottile astuzia fatto per lo conte Joanni da Barbiano. Nel tempo che 'l marchese Azzo, figliuolo del marchese Francesco da Esti, era fuori di Ferrara, come lungo tempo era stato, ed eziandio il padre, avvenne per caso che morí il marchese Alberto, il quale con li suoi fratelli lungamente avea signoreggiato; ed essendo l'ultimo, e non rimanendo di loro altro che un solo figliuolo naturale del detto marchese Alberto; al detto marchese Azzo, come valentre signore, venne volontà di trovare modo se potesse rientrare in casa sua; e accozzatosi col conte Joanni detto, e facendo grande apparecchio di passare sul Ferrarese, a quelli che teneano la terra per lo fanciullo parve che lo stato di Ferrara fosse a gran pericolo, vivendo lui, e spezialmente veggendo ch'egli era per fare suo sforzo quanto potea per passare là. Di che pensarono e ordinorono in ogni modo che potessono, per piú stato sicuro, fare morire per qualche modo il detto marchese Azzo.

Di che, accozzatisi con uno Giovanni da San Giorgio, bolognese e amico del detto conte Joanni, trattorono che, se potesse fare che 'l conte Joanni uccidesse il detto marchese, gli voleano donar Lugo e Conselice. Onde Joanni si mosse, e andò a trattare la detta faccenda; e favellato col detto conte Joanni quanto in ciò s'appartenea, il detto conte gli rispose in ogni cosa essere presto e apparecchiato; ma che volea vedere che sicurtà avea, ciò facendo, d'avere le castella.

Disse il commissario:

- Io scriverrò al consiglio del marchese che mandino tanta argenteria in Conselice che vaglia fiorini quindici mila; e io starò qui stadico che mai non mi partirò infino che all'opera averete dato effetto e che la tenuta delle dette castella abbiate.

Il conte fu contento, e 'l commessario fece tutto come detto avea. Lo conte, trattando con questo Joanni, ciò che facea o dicea ogni cosa conferiva col marchese Azzo, ed eziandio con un valentre caporale del detto conte, il quale avea nome Conselice, avvisandosi di fare uno trattato doppio, come fece. E ordinorono insieme che uno todesco, assai simigliante di fazione del detto marchese, vestisse ne' suoi panni, dicendo che voleano fare una beffa a quello Joanni da San Giorgio, dicendoli che fosse il marchese. Colui, ridendo, si lasciò vestire; e cosí fatto, li dissono stesse là dall'un canto nascosto. E poi il detto Conselice menò il detto Joanni da San Giorgio nella camera a vedere Azzo marchese, e favellare con lui. E cosí stati un pezzo, disse Conselice ch'egli era ora d'andare a cena.

E Joanni disse:

- Andiamo -; dicendo al marchese: - Signore, fate con Dio.

E cosí andando, quando furono alquanto fuori dell'uscio, il marchese, com'era ordinato, andò su per una scaletta sopra un sopraletto e là si nascose; e Conselice, quando credette lui essere nascosto, ritenne alquanto Joanni, e disse:

- Tu attenderai bene ciò che tu hai promesso?

Colui di nuovo gl'impalmò e promise.

Allora disse Conselice:

- Non ti partire di qui, ché io voglio andare a spacciarlo.

E lasciato ivi Joanni, torna nella camera, e va inverso il tedesco che era nascoso, e con una daga, dandoli nel petto, l'uccise; e perché lo detto morto non potesse esser conosciuto, tutto il viso di piú colpi percosse. Poi esce fuori, e chiama il detto Joanni, e dice:

- Vie' qua a vedere com'io te l'ho concio.

Costui andò a vederlo, e veggendolo in terra con quelli propri panni, disteso in terra morto, ebbe per certo il marchese essere stato morto, perché altrui nella detta camera veduto non avea. E subito scrisse al giovane marchese e al suo consiglio che 'l marchese Azzo era stato morto, e ch'elli si potea dire esservi stato presente, e avealo veduto, e che mandassono i segni a Bavagasse castellano di Conselice per lo marchese, che desse il castello a cui Joanni dicesse. Allora il marchese e suo consiglio mandorono uno ingegnere del marchese, chiamato mastro Bartolino con ben cinquanta uomeni a cavallo con pieno mandato che, di ciò certificatosi, facesse dare le castella, e 'l corpo del marchese poi facesse portare onorevolmente a Ferrara.

Giunto il maestro Bartolino, e veggendo il morto, ebbe per certo quello essere il marchese; e ancora, per dare piú colore all'opera, mostrò Conselice avere preso Azzo da Roniglia, e tutti i caporali del marchese Azzo; e questi presi sapeano bene il trattato. Maestro Bartolino gli fece allora mettere in tenuta di Lugo e di Conselice; e 'l detto maestro Bartolino, partitosi dal Barbiano con la sua brigata, portando il corpo morto, quando furono al molino presso a Lugo uscirono fuori la brigata del conte Joanni, gridando:

- Alla morte, alla morte! - e pigliorono maestro Bartolino con tutta la brigata: e Conselice, entrando in Conselice, ebbe la terra e l'argenteria che era venuta da Ferrara.

E in Barbiano si cominciò con grida a far festa della resurrezione del marchese Azzo; e cosí ebbe termine questo trattato o inganno doppio.

Se ogni inganno o tradimento venisse a quello fine che venne questo, pochi se ne principierebbono, e massimamente quando colui che lo muove rimane preso da quel laccio che vuol fare pigliare altrui. Di questa stirpe da Esti non era rimaso alcun signore legittimo, se non costui; e per por fine a questa progenie era ordinata la morte sua per cosí fatta forma.

 

 

NOVELLA CCXXIV

 

Ancora il conte Joanni da Barbiano fa uno sottile tratto, credendo pigliare una bastía fiorentina edificata in suoi danni, come che non gli vien fatto, e tornasi addietro sanza avere approdato alcuna cosa.

 

Perché questo conte Joanni da Barbiano, quasi poco tempo dopo alla scritta novella di sopra mosse un altro inganno, benché non gli venisse fatto al suo pensiero, lo voglio raccontare. Guerreggiando il detto conte con Astorre de' Manfredi per li Fiorentini, che erano con lui in lega, fu posta una bastía presso a Barbiano, la quale si chiamava la bastía fiorentina, e faceali grandissimo danno; onde per questo il conte si pensò con sottile inganno quella pigliare.

Era allora soldato di detto Astorre uno todesco che avea nome Guernieri, il quale con numero di dieci suoi compagni sempre assaliva il detto conte, predando insino alle mura di Barbiano. Avvisò il conte di mettere un dí parecchie paia di buoi tra Barbiano e la bastía, e con li loro bifolchi arassono la terra; e dall'altra parte, armato uno in somiglianza di Guernieri, e dieci compagni simili d'arme e di veste a' suoi, gli cacciò fuori di Barbiano il piú celato che poteo da quelli della bastía, e mandolli verso Faenza. Poi dato volta che parea fosse Guernieri e' suoi compagni che di là venisse, assalirono li bifolchi co' detti buoi, e quelli presono. Com'egli erano a questo passo, il detto caccia fuori tutta sua brigata, e questi cosí fatti assaliscono quelli che aveano presi i buoi, gridando:

- Alla morte, alla morte.

Quelli de' buoi, ammaestrati, mostrando essere Guernieri, rifuggono con la preda verso la bastía, gridando che gli soccorressino e aprissono. Quelli della bastía, credendo per lo fermo essere Guernieri con li suoi, aprirono la porta del cerchio di fuori; onde elli entrorono dentro: e quando egli erano per aprire la porta del secondo cerchio, uno di quelli de la bastía, piú antico d'anni e piú saggio, disse:

- Non aprite, se prima Guernieri non vi si mostra fuori del bacinetto, però che altrimente potremo ricevere grande inganno.

Detto costui questa santa parola, gridarono tutti:

- Guernieri, càvati il bacinetto che noi ti vogliamo vedere.

Come li detti sentono questa voce, subito danno volta. Quelli della bastía, con le pietre e con la balestra, danno loro addosso, tanto che ebbono ben caro potersi ricogliere sanza troppo impedimento, e non sí che non ne fossono fediti quattro e lasciandovi quattro paia di buoi; e tornoronsi a Barbiano con questo acquisto. E 'l conte Joanni mise i buoi e l'altro acquisto che qui fece, appiè di quello inganno che prima avea fatto del marchese Azzo, però che la cosa gli andò tutta per lo contrario; e quelli della bastía, di non pensato, si guadagnorono quattro paia di buoi e scamporono d'un grande pericolo.

Molto sono strani gli avvisi degli uomeni dell'arme, e grandi sono le industrie, e dove non giucassono l'inganni o' tradimenti, care sono a udirle, e ancora a comprenderle, per poterle usare quando il caso avvenisse. Ben pare che oggi niuna coscienza si faccia, e spezialmente nella maestria dell'arme, di fare, e con tradimenti e con inganni e con ogni modo, quello male che si puote.

Non costumava cosí Scipione, Catone e gli altri virtuosi, ma facealo Curio, Catellina e Jugurta e simili altri. Questo conte, e di molti altri che sono nel presente tempo, direbbono che Scipione fosse stato un uomo con poca virtú, quando, avendo vinti quelli di Celtiberia, gli venne nelle mani la vergine d'infinita bellezza che, sanza alcuna macula, la rimandò cosí vergine, bene accompagnata e ancora da lui dotata, al padre. Cosí si fa nel presente, che, non che le vergini, ma eziandio li fanciulli innocenti pigliano e crescono con gran vergogna e vituperio, e pongono loro nome paggi, con tanti vizii che io non so vedere come l'abisso non inghiotte l'universo, e spezialmente tutta Italia.

 

 

 

NOVELLA CCXXV

 

Agnolo Moronti fa una beffa al Golfo, dormendo con lui, soffia con uno mantaco sotto il copertoio, e facendoli credere sia vento, lo fa quasi disperare.

 

Sollazzevole inganno fu quello che fece a uno, Agnolo Moronti di Casentino, piacevole buffone, del quale a drieto in alcuna novella è fatta menzione. Erasi partito il detto Agnolo da casa sua, e andato a una festa per guadagnare, come li suoi pari fanno; e tornando indietro, s'avviò verso il Pontassieve, dove un'altra festa si facea; alla quale appressandosi, si mise un suo asino innanzi, il quale avea appiccato un cembolo alla sella, e aveali messo un cardo sotto la coda; di che l'asino, per lo cardo scontorcendosi e saltando, nell'andare facea sonare il cembalo, e alcun'ora con lo spetezzare li facea il tenore; e Agnolo drieto ballando con questo asino e con questo stormento, giunse alla festa; là dove ciascuno, per novità, con grande risa corse a vedere il detto trastullo. E standosi tutto dí a questa festa, non andò a suo viaggio, ma fu ritenuto la sera a casa alcuno cittadino, e a cena e albergo. E veduto che ebbe tra la brigata un nuovo Gufo, o Golfo che avesse nome, chiese di grazia al signore della magione che con quello Golfo lo facesse dormire la notte; e cosí gli fu promesso.

Cenato che ebbono fu dato la camera ad Agnolo e al Golfo; e donde Agnolo se l'avesse, o da sé o d'altrui, elli si colicò da piedi con uno mantachetto segretamente, e 'l Golfo da capo, coprendosi molto bene, perché era attempato. Come Agnolo vede che Golfo è per legare l'asino, comincia a soffiare col mantaco sotto il copertoio inverso il Golfo; il quale, come sente il vento, comincia a dire: - Ohimè! Agnolo, e' ci dee avere qualche finestra aperta, ché ci trae un gran vento.

Dice Agnolo:

- Io non sento vento, io non so che tu ti di' -; e stando un poco, e' risoffia col mantico.

Il Golfo comincia a gridare, e dice:

- Oimè! o tu di' che 'l non senti; io aggiaccio -; e tira il copertoio, calzandosi con esso attorno attorno.

Dice Agnolo:

- Io non so che tu ti fai; tu mi lievi il copertoio da dosso, e di' che aggiacci; io credo che tu sogni; a me non fa freddo: lasciami dormire, se tu vuogli.

E come lo vedea posato un poco e per cominciare a dormire, e Agnolo mantacava.

Il Golfo levasi a sedere sul letto, e grida:

- Io non ci voglio stare, e' debbono essere aperti gli usci e le finestre -; e guarda attorno attorno, e poi guatava verso il palco.

Dice Agnolo:

- Golfo, se tu non vuo' dormire, lascia dormire almeno a me.

Dice il Golfo:

- Alle guagnele! che tu non hai ragione; a me pare essere a campo, tanto vento viene su questo letto; nol senti tu?

- Io non sento, - dice Agnolo, - né vento né freddo; io credo che tu abbi i capogirli.

Il Golfo si rimette a giacere, e Agnolo, stando un poco sanza soffiare, dice il Golfo:

- Ora non mi par che ci sia il freddo che era dianzi.

E Agnolo si stette infin che 'l sentí cominciare a russare; e ricomincia adoperare il mantaco.

Il Golfo chiama quello della casa, che dormía in una camera vicino a quella, e dice:

- Morto sie tu a ghiado che qui mi menasti, che rovinare possa questa casa infino a' fondamenti! e' mi par essere, come se io fosse nudo sul monte al Pruno.

Agnolo da altra parte, mantacando, dicea:

- Se Dio mi dà grazia che io esca di questa notte, tu non mi ci coglierai mai piú; per certo, Golfo, tu déi essere indozzato, io so ben ch'io sono di carne e d'ossa come tu e non sento questo giaccio.

Dice il Golfo:

- Buono, buono! sí che io sono smemorato che io non sento il vento che ci è! - e comincia a gridare, uscendo del letto, e mettendosi suo' panni addosso, va alla camera, dove dormivano degli altri, e grida: - Apritemi per Dio, ché io son morto di freddo.

La brigata era stretta nel letto: aprirono, stando un pezzo, a grande stento, e feciono alquanto luogo a Golfo che avea quasi il tremito della morte, dicendoli chi una cosa e chi un'altra, e ne fu per impazzare; e infine uno se n'uscí di quel letto, perché vi stava stretto, e andò a dormire con Agnolo Moronti, donde il Golfo era partito, dicendo ad Agnolo:

- Che ha il Golfo istanotte? ha' gli tu fatto nulla?

Agnolo, scoppiando delle risa, dice la novella dal capo alla fine. Di che colui, udito e veduto come, gran parte della notte ne risono insieme.

La mattina, levato Agnolo, dicea:

- E’ par bene che 'l Golfo sia allevato nella città; io nacqui e invecchiato sono nella montagna, di che non mi curo né di freddo né di venti; e 'l Golfo gridava istanotte, quando un farfallino volava per la camera, per quello poco del vento che facea con l'alie.

Dice il Golfo:

- Ben eran alie, non fossono elle state d'avoltoio! e' mi par mill'anni che io ne vada a Firenze nella camera mia.

E cosí si tornò con l'altra brigata, dicendo che a quella festa né a quel luogo mai non tornerebbe; e Agnolo se n'andò in Casentino, avendo fatto appieno ciò ch'egli avea pensato.

Nuove condizioni e nuovi avvisi hanno li piacevoli uomeni, e spezialmente i buffoni. Costui aocchiò in tutta quella brigata il piú nuovo uomo che vi fosse, e chiese di grazia di dormire con lui per fare questa novità, la quale diede gran piacere a tutti, e quasi un anno durò, poi che furono tornati a Firenze, il sollazzo che aveano del Golfo, udendo le cose che dicea della gran freddura che avea aúto in quella camera, e quanto n'era diventato ventoso. E fu forse cagione che n'andò poi al Bagno alla Porretta, e non vivette diciotto mesi, poi che la detta novella fu.

 

 

NOVELLA CCXXVI

 

La Castellana di Belcari, veggendo passere da una finestra, e poi un asino, gitta un piacevol motto.

 

Alcuna inframessa è da dare a questi inganni, però che le piú volte n'escono cattivi scherzi; e voglio venire a certi motti venuti da piacevoli donne e oneste, come che quelli paiano disonesti nelle parole. Verso la Proenza vicino al Rodano, non molto di lungi a Vignone, è una terra che si chiama Belcari, e 'l suo principe si chiamava il Castellano di Belcari, e la sua donna era chiamata la Castellana di Belcari, donna bella e valorosa e piacevole piú che altra. Stando costei a un balcone del suo palagio un giorno di primavera, e avendo a piedi di sé la sua cameriera, guardando verso una piaggetta vicina di rincontro dove augelli e bestiame molto usava, ebbe veduto una passera calcare ben cento volte un'altra, e scendere e salire, e dire pi pi, com'elle fanno. E avendo l'occhio a questo giuoco, sopravvenne che un asino ragliando, con la ventura diritta, corre verso l'asina per dare nella chintana; onde, levato la donna gli occhi dal primo giuoco, veggendo il principio e la fine del secondo, chiama verso la cameriera, e dice in sua lingua:

- O Marione, per mie foy, ch'egli è meglio uno aiari che cento pi pi; che mala ventura è, giú e su, pi pi, e sali e scendi, pi pi.

La cameriera, o Marione che vogliamo dire, piacevole anco ella molto, dice:

- Madama, egli è bella ciosa a sapere vedere e conoscere la natura degli animali; lo passere rade volte fa, se non male, e non è quasi se non da danno all'umana natura; l'asino è lo contrario, ché porta e adduce per servire a noi; e nostro Signore volle nascere appresso di lui, e anco lo portò, come savete. Sí che a me pare che 'l vostro judicio diritto sia a parerve meglio l'opere dell'asen che quelle del passer; e io vorrei innanzi un asen che mille passere.

Dice la Castellana:

- Io non credea, Marione, che tu sapessi cosí la santa scrittura, che cosí bella oppinione con essa hai diffinita: e per certo, al partito che piglieresti, non mi pare che tu sia matta; ma tengo che aggi molto saggia la mente.

Marione rispose:

- In fine, madama, io v'ho detto senza menzogna; se ho detto cosa di vostro piacere, son molto contenta; se non l'avessi detto, serebbe difetto dell'appetito e dell'ignoranza, della qual vi domanderei continuo perdono.

E cosí si terminò questa disputazione.

Piacevole Castellana, e piacevole Marione, che per passare tempo con sollazzo mosse questa opinione. E cosí li signori e le loro donne con piacevolezza spesso muovono detti che paiono sozzi e vituperosi, e nelle loro operazioni sono stati onestissimi, come che chi disse: “Qui de terra est, de terra loquitur ”, e altri assai tengono che di quello in cui uomo e donna si diletta, di quella materia li giova di parlare. Io credo che sono molti che parlano di cose non molto oneste per diletto, che negli effetti sono onestissimi; e cosí per e converso  gl'ipocriti nelle parole e negli atti mostrano santi e negli effetti sono diavoli, come già vidi alcuno che tanto avea diletto quanto pescava e stava nell'acqua, e non mangiava mai pesci; e cosí di molti simile si potrebbe dire.

 

 

 

NOVELLA CCXXVII

 

Una donna fiorentina, veggendo passere in amore, gitta un piacevole motto verso la suocera.

 

Un'altra passera mi viene alla mente di raccontare con piú brevità. Nella città di Firenze morí già un gentiluomo, e lasciò una sua donna con un solo fanciullo maschio, il quale, crescendo con poca prosperità, e non molto di forte natura, la madre ne facea gran guardia; e pure, perché la famiglia non rimanesse spenta, li diede moglie una fanciulla baldanzosa e gaia e di forte natura, e con questo piacevolissima; e ogni cosa considerata, la madre, avendo paura del mancamento del figliuolo, rade volte lo lasciava giacere con lei.

Avvenne per caso che, essendo questa giovene e con la suocera e con altre donne in sala, chi cucendo e chi filando, ebbe veduta a uno orticello fuori d'una finestra, o a uno tetto che fosse, una passera calcare l'altra spessissime volte, come hanno per uso; e subito dice:

- Buon per te, passera, che non avesti suocera.

Le donne, guardando l'una l'altra, cominciano a squittire delle risa, ed ella anco se ne rise; ma la suocera torse il capo e cominciò a borbottare; e la giovene, che uscí pur oltre, che non parve suo fatto. Questa novelletta o motto si sparse per la terra in forma che, quando alcuna donna si trovava con lei, dicea:

- Buon per te, passera, che non avesti suocera.

Ed ella, come baldanzosa, se ne rideva, e anco facea piú chiaro loro la faccenda con molte ragioni.

Spesso interviene, ed è intervenuto a molte, che è dato loro marito, e poi è loro tolto o prestato a certi lunari. E non so se questa via tiene il giovane con meno pericolo però che quando se ne fa gran carestia, con maggior desiderio si sforza poi la natura, quando si congiunge insieme. Credo che, quando è dato moglie a un giovane per tale forma, si doverrebbe fare ragione della compagna, che non si marita perch'ella viva casta. E a molti è già intervenuto che, cominciando e non seguendo l'uso carnale, le donne tavolta son ite cercando di mettere uno scambio in luogo del marito; però che molto è gran follia mettere fuoco in un pagliaio, e non credere ch'egli arda. In tutte le cose chi si veste i panni del compagno non può errare.

 

 

NOVELLA CCXXVIII

 

Il duca di Borgogna, andando a vedere certi suoi tesorieri in piú parti, s'abbatte a uno che non ricevendolo riccamente li dice che è la cagione; diceli che non vuole rubare; e quello che ne segue.

 

De' mottetti che certe piacevole donne hanno già detto ne sono assai, come per a drieto d'alcune è narrato e come innanzi forse se ne potrà dire, come alla memoria verranno; ma ora voglio dire una novelletta che potrà essere esemplo a molti.

E’ fu già uno duca di Borgogna, valentrissimo principe, il quale si dispose, come spesso s'usa, andare per gran parte del suo tenitorio e vedere gli suoi officiali, che erano per quelli luoghi, e spezialmente li suoi tesorieri, come facessono e come si portassono. E giugnendo alle magioni di sei suoi tesorieri che in diversi luoghi erano, dalli cinque primi riccamente e onorevolmente fu ricevuto, e in bellissimi palazzi; dal sesto, ch'era il piú vecchio e piú anticamente v'era stato, fu ricevuto in piccola casetta assai debolmente. Il duca, ciò veggendo, si maraviglia, e conta al tesoriere de' palazzi e dell'onore che gli altri gli hanno fatto, e domanda quale di ciò sia la cagione. Risponde allora il tesoriere:

- Monsignore, s'io avesse voluto rubare e imbolare, come per avventura fanno degli altri, io averei ricca e bella magione; ma io mi sono vissuto forse con troppa lealtà, a volere vivere riccamente come quelli che raccontate.

Disse il duca:

- E io voglio che tu rubi e facci come gli altri, acciò che con bella magione io ti truovi, quando altra volta io rivenisse qui.

Disse allora il tesoriere:

- Poiché cosí vi piace, e io lo farò.

E lo duca l'altro dí si partí e tornò a casa. E stando per ispazio d'un anno e mezzo o piú, similmente tornò a rivedere i suoi tesorieri, e giunto a casa di costui, e veduto ch'ebbe gli altri, niuno a rispetto di questo era da vedere; e cosí della vita che facea, il simigliante. Onde il duca chiamò lo tesoriere, e disse:

- Io ho compreso che tu sai fare e bella vita e belli palazzi con la licenzia ch'io ti diedi; e considerato che tal cosa puote venire in pregiudizio di molti, e forse piú in danno di me che degli altri, io non voglio che da quinci innanzi tu imboli, o abbi piú: tu hai bella magione e piú ricca che alcuno degli altri, con quella ti riposerai, e con quella come mio tesoriere riccamente ognora mi potrai ricogliere.

Risponde il tesoriere:

- Monsignore, io di primiera tenea la via che ora volete che io tegna, e a voi piacque che quella piú io non seguisse, ma che io seguisse la contraria; la quale in poco tempo ho sí ben compresa che alla prima non saprei per alcun modo ritornare.

El duca disse che al tutto non volea che piú imbolasse o rubasse. Lo tesoriere rispose non saperlo fare; e pertanto li piacesse tòrre il suo palazzo, e ogni tesoro e avere il quale avea, e un altro tesoriere prendesse, però ch'egli era vecchio, e piú per lui non facea. Lo duca poté assai dire, che mai costui non si rivolse, tanto che lo licenziò e lasciollo partire da sé con poco avere, e tolsene un altro.

Cosí si partí da giuoco questo saggio tesoriere, e forse volentiere, per non perdere l'anima per lo duca; e questa serebbe stata gran virtú, avere usata una medicina per lo contrario e lasciare il buono e 'l male acquisto al duca. E forse avea assaggiato sì il boccone dello imbolare e del rubare che non li dava cuore di vivere altrimente; e questo serebbe stato gran vizio. E non si maravigli alcun lettore di ciò, però che vulgarmente si dice che chi comincia a imbolare, non se ne riman mai. Ma lasciamo andare queste due opinioni, l'una buona e l'altra rea... dello tesoriere. In questa novelletta si comprende chiaramente quello che dicono certi, cioè che lealtà... lendini. E ben si vede nel moderno tempo. Chi fa e chi possiede le gran ricchezze o' gran palazzi, da qual via o da qual parte hanno aúto principio? ché le piú hanno fondamento di furti o d'imbolare, o vero che ogni cosa si chiama guadagno; e li piú in questo latino trascorrono, e fannosi la minestra come a loro piace. Ma una cosa ci è, che Colui che 'l tutto vede fa poi li taglieri, e taglia come a lui pare che si convenga.

 

 

 

NOVELLA CCXXIX

 

Maestro Jacopo da Pistoia, facendo una sepoltura a messer Aldighieri degli Asinacci da Parma, fa diverse beffe a un prete, ed elli si gode il suo.

 

Messer Aldighieri degli Asinacci da Parma volle procacciare da fare la magione della morte, come il duca di Borgogna quella della vita. Questo messer Aldighieri fu gran cittadino e molto innanzi con messer Galeazzo Visconti; al quale venendo voglia di far fare una ricca sepoltura di marmo, essendo a Melano un grande maestro fiorentino d'intagli di marmi, chiamato maestro Alberto, e lavorando il piú del tempo della sua vita a petizione del detto messer Galeazzo, veggendo lui non potere avere, volle il suo consiglio donde ne potesse aver uno che 'l detto sepolcro li facesse; ed egli consigliatolo d'uno maestro Jacopo da Pistoia, chiamato Pistoia, ed essendo mandato per lui, fu tutt'uno.

Era questo maestro di strana condizione; il quale venuto, e accozzatosi con messer Aldighieri nella magione di Santo Antonio in Parma, dove il detto sepolcro si dovea fare, e rispondendo nuovamente e alla traversa spesse volte a messer Aldighieri, lo fece pensare piú volte non essere costui uomo da fare il suo lavorío. Ma pur immaginando che maestro Alberto gli l'avea accattato e che valentre artista di ciò dovea essere, si fermò di sofferire la sua fantasia e dare alla sua opera effetto. E ordinando il detto maestro d'andare a procacciare per lo marmo a Carrara, ebbe compreso e veduto un giovane prete di quel luogo come morbidamente vivea, e come avea una pulita camera, e come di quelli dí se n'era andata una sua femina. Si partí con uno nuovo avviso, e giunto là, e avendo dato ordine al marmo, si ritornò a Parma. Dove, tirando un dí il prete da parte, li disse che a Carrara avea trovata una giovane, la quale da lui s'era partita, e che uno vecchio se la tenea, ed era molto copiosa d'avere; ma pur ella stava sì mal volentieri con lui che, se elli andasse per lei, la se ne menerebbe. Lo prete, che altro non desiderava, pensò subito di mettersi in cammino e andare a Carrara.

Ito il prete, il Pistoia fece tanto con messer Aldighieri che la camera del prete convertí a suo uso, e venneli ben fatto, salvo che 'l fiato della femina, al quale la camera era molto usata, a lui molto non piacea. Andando lo prete a suo viaggio, passando per Lunigiana, da malandrini fu preso e rubato, e cosí male in arnese, uscito delle loro mani, seguí il suo viaggio.

Giunto a Carrara, guarda e riguarda, a ogni pezzo di marmo si volgea, credendo fosse la femina sua; e in fine non veggendola, cominciò a domandare. Ciascuno si strignea nelle spalle, dicendo che niente ne sapeano; onde cosí rubato e smemorato si ritornò a Parma: là dove giugnendo dove il Pistoia era, disse che mai trovato l'amica sua non avea; ma avea ben trovato malandrini che l'aveano spogliato d'ogni suo bene. Lo Pistoia rispose a lui parere gran fatto; ma, dovendovi a pochi dí tornare, vedrebbe chi di loro fosse che dicesse il vero. E ritornò l'altro dí a Carrara, sanza vedere quello che vedere non potea né volea; si ritornò a Santo Antonio a Parma, e 'l primo che li si fece innanzi fu lo prete, al quale subito disse il Pistoia:

- Se voi sete cieco, ch'è mia colpa? io la vidi, e ancora piú, che di sua mano mi diede bere e dissemi che se voi vi andassi (che gli pare mill'anni), di subito se ne verrebbe con voi e piú tosto, per partirsi da quel vecchio malagurato.

Il prete, ciò udendo, subito fu mosso, dicendo al suo maggiore che andava a suo paese a vedere certi parenti; e cosí partitosi, giunto a un altro passo, fu da robatori ancora spogliato; e con tutto ciò, caldo d'amore e freddo di vestimento, seguí pur il suo cammino. E giunto a Carrara cosí scamiciato, domandando molto piú che la prima volta, e con questo consumandosi e nulla trovando, tristo tristo si tornò a Parma; e al maestro Pistoia raccontò la sua sventura, e come niente mai avea trovato. Il Pistoia si segnò, dicendo:

- O ella canta una, e fa un'altra! o jamo... come si dice; e questo è che quando siete dov'ella, e voi non vedete.

Dice il prete:

- O vuole cieco o vuole alluminato, io non sono per andarvi piú, e di quello che io sono ito, mi pento; - e con questo il prete cominciò a cantare la canzone di maestro Antonio da Ferrara: - Egli è molto da pregiare, Chi ha perduto e lascia andare .

E 'l meglio che poteo si cominciò a rassettare nella camera sua; dalla quale dubitando il maestro Jacopo non li convenisse partire, dormendo insieme col prete nel suo letto, piccolo a due, ma ben fornito, pensò, poiché piú non lo potea mandare a Carrara, d'ingannarlo altramente. Onde li disse che di quelli dí che v'era stato avea trovato nella camera una gran serpe, e alcuna volta nel letto.

Il prete, pauroso di ciò, come si dee credere, dicea ciò mai non avere veduto elli; e se ciò era, elli abbandonerebbe Parma, non che la camera.

Disse il Pistoia:

- Forse non è quello che mi pare; ma se pur fia, qualche cosa per innanzi ne vedremo.

Stando il prete sbigottito, e 'l Pistoia avendo tesa la trappola, andò tanto che trovò una pelle d'anguilla, la quale di suoi artificii empieo; e acconciala, la notte vegnente dormendo insieme, la cacciò tra' piedi al prete; il quale, subito gridando, schizza fuori del letto. Il Pistoia mostra di destarsi e dice:

- Che è?

Lo prete gli lo dice. Allora il Pistoia racconta al prete che guardi che al buio non li ponesse piede, che subito co' morsi velenosi l'ucciderebbe. Dice il prete:

- Come n'esco? io ci vorrei uscire.

Il Pistoia allora dice:

- Io sono della casa di San Paulo, se io li ponesse piede, non me ne curo; se voi volete io vi porterò... per quella scaletta, tanto che io vi caverò di qui.

Il prete pauroso dice:

– Io ve ne priego per l'amore di Dio.

Il Pistoia s'accosta allora a una cassa, e 'l prete li si cala addosso; e con questa soma ne va a uno uscetto, dal quale scendea una scaletta in una stalla; e quando fu a mezza scala, facendo vista d'incespicare, getta il prete a terra della scala nella stalla; e rammaricandosi forte, il Pistoia ancora si dolea, facendo vista d'aversi travolta o rotta la gamba. E lo prete, avendo un gran cimbotto, stette parecchi dí nel letto, dicendo che una gran serpe, apparita nella sua camera, n'era stata cagione, il perché, fuggendo di notte dalla tal scala, era caduto; e che 'l maestro Pistoia non se ne curava, dicendo che era ciurmato:

- Steavisi sanza astio, che ivi non son io per dormire mai piú.

E cosí maestro Jacopo ebbe la camera libera; e 'l prete si dormí buon tempo con un altro prete assai strettamente. Davali il Pistoia spesso a credere nuove cose di questa serpe, e come s'era avvezzo con lei, e non gli farebbe male, però che era ciurmato ec.

Io mi credo che se 'l prete avea commesso assai peccato in tenere quella femina, maestro Jacopo non avea commesso minore, ma maggiore peccato...

 

 

 

NOVELLA CCXXX ( frammento)

 

……………………………………………………………………………………………..

... credette essere divorato dicendo:

- Che romore è quello? - fu segno che quasi, come quelli che avea il battito della morte, non conoscea quello essere il raglio dell'asino, e comincia a chiamare Filippo.

Filippo a nulla rispose, se non che quelli due dissono:

- Priega per l'anima.

Allora il Bate, addolorando piú che mai, ed essendo quasi tre ore di notte, essendo per loro menato l'asino in un certo luogo, nel mezzo d'una pianiera strada lo scaricarono a traverso, e lascioronlo stare tutta la notte.

La mattina la brigata, e Filippo con loro, si levorono per tempo, e andorono a Firenze e lasciorono che quelli due, che erano due contadini, la mattina di buon'ora facesson vista d'andare verso Firenze e vedessono ciò che del fatto seguisse. I quali cosí feciono; e giugnendo al luogo, sí come furono informati con altri che anco passavono, veggendo un sacco pieno, e 'l buzzicare e 'l dolersi, sí fanno vista di maravigliarsi, facendosi il segno della croce. E sciogliendolo, dicono:

- Buon uomo, chi se' tu?

Quelli si duole, e dice ciò che gli è intervenuto; e guardando attorno, dice:

- Ove son io?

Coloro dicono:

- E’ serebbe meglio a stare in inferno, che stare in questo contado; che è a dire, che allato alla porta sieno gli uomeni presi e insaccati!

Dice il Bate:

- E’ m'hanno tutta notte martoriato in questo sacco, e lodato sia Iddio, poiché qui sono, che non m'hanno morto; ma io credo ch'egli abbino morto Filippo Baroni, ch'era il maggiore amico che io avesse in questo mondo.

Dicono i contadini:

- Loda Iddio, poiché tu se' qui.

Dice il Bate:

- E io lo lodo e ringrazio, che non so ancora dov'io mi sia.

Dicono coloro:

- Se' presso a Firenze un miglio.

Il Bate, essendo alquanto rivenuto in sé, prese commiato e passo passo se ne venne a Firenze, e giunto in via Maggio, la novella era sparta come da dovero fosse; e ciascuno lo guardava per maraviglia. Li suoi compagni gli si faceano incontro; e quelli dicea:

- Voi la levaste meglio di me; saprestemi voi dire quello che è di Filippo Baroni?

Dicono che n'è bene, però che l'aveano preso e scampato. Quelli dice:

- Lodato sia Dio sempre, che io averei giurato che gli avessono segate le veni -; e mai non ristette che lo trovò e disse: - Come se' tu campato? io t'udi', si può dire, facendo l'atto della gola, quando t'uccisono.

Disse Filippo come cauto: - Quando tu udisti quello atto, fu che mi voleano uccidere, e io presi uno di loro per la canna e avere' lo strangolato, se non che allora io mi fuggi'.

Lo Bate credette ogni cosa, e botossi di non andare piú a cena fuori della porta; e botossi, e fecesi fare in un sacco di cera co' malandrini d'intorno, e mandollo a Cigoli. Li Fiorentini di questo caso impaurirono, e chiamorono uno bargello del contado; e la cosa stette gran tempo segreta, avendo chi la sapea gran diletto, quando faceano dire al Bate tutti gli andamenti.

Egli è bella cosa a trovar nuovi sollazzi, per passare tempo, ma questo fu de' novissimi, però che non era gran fatto se elli se ne fossi morto; ma io credo che quella notte gli fosse un gran purgatorio, però che prestava a usura, e anco avea degli altri vizii assai brutti.

 

 

 

NOVELLA CCXXXI

 

Donnellino vende due oche a una donna a un nuovo pregio, sí ch'egli ha da lei ciò che vuole; la lascia vituperata e con danno e con beffe.

 

Questa che segue fu una gran beffa, e in gran vergogna e danno d'una donna. Fu in Firenze un giovene chiamato Donnellino, piacevolissimo quanto alcun altro. Questo Donnellino era tenuto di dare a uno cittadino fiorentino un paio d'oche per la festa d'Ognissanti; di che si levò quella mattina per tempo, e comperò le dette oche, e portatole a una fantina che le portasse; giugnendo presso a San Friano, si recò l'oche in mano, e una bella donna, vedendole, disse alla fante:

- Chiama quel forestiero -; credendo che fosse uno villano.

Lo chiamò, ed elli venne cortese, ed ella il domandò se le vendea; e Donnellino a nulla rispuose, però che, guardando la donna, che era bellissima, disse:

- Io non le vendo, ma io le dono a voi, e altro non ne voglio che solo basciarvi.

Disse la donna:

- Siàn noi sul motteggiare? io ti dico se tu le vendi.

Donnellino sta gran pezza come mentecatto. Dice la donna:

- O che non rispondi?

E Donnellino dice:

- Madonna, voi m'avete ferito, come che forte sono innamorato di voi, e siete quella che il cuore m'avete tolto, sí che morto mi sento, se non m'aiutate. Vi priego dunque, donna cara, aiutate un vostro servo... spirito da me si parte, e togliete l'oche, e una volta mi contentate... resuscitarmi da morte.

La donna, veggendo parlare sí disonestamente, gitta... e dice:

- O che di' tu? a cui credi tu dire, che Dio ti maladica? ché, se 'l marito mio t'udisse, e' ti farebbe giuoco che mai mangeresti piú al mondo, e ben ti starebbe che t'uccidesse.

Ed elli disse:

- O donna, io fo... che vostro marito mi...

Disse la donna:

- Non ci dare piú briga, vattene con esse; ché, se elli ti ci giugne, te n'anderai con mal commiato; ti consiglio per lo migliore.

Donnino dice:

- Poiché vi piace, e io me n'andrò...

Dice la fante:

- Buono! madonna, se potete guadagnare quell'oche per cosa che non si può sapere dalla gente, ché non le guadagnate?

La donna dice:

- O questa è ben piú bella novella! guarda quello che questa fancella dice, sozza che tu se'!

Ed ella adirata risponde:

- Meglio farete a torvele; per una volta che 'l baciate, credete voi che ve la scemi?

La donna dice:

- O questa è ben nuova cosa a volere dare altrui questo consiglio! guarda... per lui, se elli te le vuole dare, pigliale da lui; e se non le ti vuole dare, vedi ben quello che mi consigli.

Allora la fante vuol cominciare a chiamarlo, dicendo:

- O buon uomo dell'oche, torna qua.

E Donnellino torna e dice:

- Che volete, madonna?

La donna dice:

- Ti vuol questa mia fante, ed ella ti...

 

 

 

 

NOVELLA CCXXXII (frammento)

 

Lo re Filippo di Francia manda allo re di Spagna per un cavallo, il quale abbia tutte le proprietà di bene; e quelli li manda uno stallone e una cavalla, e dice se ne faccia fare uno come li piace.

 

 

 

NOVELLA CCLIV

 

 

Uno piacevole motto che uno disse sul punto estremo della sua morte non gittò minor frutto che facessono le parole di messer Ottone Doria. E’ fu già grandissima guerra tra Catalani e Genovesi, e come spesso incontra, le guerre vengono spesso sí crudeli e sí perfide che, sanza alcuna discrezione e umanità, con ogni modo disperato l'uno uccide l'altro; e li Catalani l'hanno aúto molto per costume. In quelli tempi, arrivando una galea di Genovesi o d'altra nazione, che con loro tenea, nelle mani d'un'armata di Catalani della quale era ammiraglio un uomo sanza alcuna pietà, volendo vendicarsi d'alcuna offesa in quelli dí ricevuta, con animo fellone e sdegnoso dispose di gittare in mare a uno a uno tutti quelli di quella galea; e, per maggiore dilegione, dare prima mangiare a uno a uno mezzo panattello, o mezzo biscottello, e dopo quello mangiare, dire: “Va', bei”; e gittarli in mare.

E cosí, facendo questa crudeltà insino a trenta, toccò a uno di venire a cosí fatto judicio; il quale, mentre che mangiava il pane, con le mani giunte, inginocchione, disse all'ammiraglio:

- O monsignore, questo è piccol mangiare a tanto bere.

Udito l'ammiraglio costui, o che l'aumiliassono quelle parole, o che avesse pietà de' modi che a costui vidde fare, perdonò a costui e a tutti gli altri, che erano piú di cento che l'uno dietro all'altro aveano a fare cosí aspra morte. E quando vide tempo e modo, li mise in terra, e lasciogli andare, e tolsesi il corpo della galea.

In questa novelletta si puote comprendere di quanta virtú sono le parole, quando uno mottetto d'uno vile marinaio si può dire avesse tanta virtú che uno cosí crudele ammiraglio facesse diventare umile. Ben si può comprendere quanta virtú dee essere nell'orazione, quando si fa a Colui che è Somma Misericordia; nessuna cosa è che tanto vaglia all'anima, quando è detta per forma che vegna dal cuore. E nessuna cosa mosse mai il nostro Signore, quanto questa, a dare salute all'anima di colui che l'ha detta con puro cuore. Esempli ne sono assai, che serebbe lungo il contarli, come la Evangelica e la Santa Scrittura ne dimostra.

 

 

 

NOVELLA CCLV ( frammento)

 

 

Messere Albertaccio da Ricasoli allega a un suo fratello una usanza di Francia, che si fa per lui, quelli ne allega un'altra che 'l vince.

 

Piacevol motto fu quello che è seguíto tra due gentiluomeni fratelli fiorentini. Fu nella nostra città uno cavaliere valoroso e morale, chiamato messer Albertaccio da Ricasoli; il quale, per divisa che avesse a fare con li suoi fratelli, o per questione che avessono per lo dividere, disse..., considerando l'usanza di Francia; quanto è gran ritegno di no...

 

 

NOVELLA CCLVIII

 

Ser Francesco dal Poggio a Vico vuole mandare pippioni a vendere; la mattina truova essere morto l'asino, che gli dovea portare, da un lupo; e 'l lupo è poi morto.

 

Se al signore, di cui abbiamo detto nella precedente novella, fosse incontrato, dell'avere robato quello mercatante, come incontrò a un lupo di quello che rapí in questa novella, molto bene gli stava. Fu già ne' dí miei un notaio in Valdisieve, contado fiorentino, il quale era chiamato ser Francesco dal Poggio a Vico.

Avea costui una bellissima e grande colombaia, e avendone tratti gran quantità di pippioni, una domenica del mese di luglio disse e ordinò col fante suo che 'l lunedí mattina all'alba si dovesse levare e sellare l'asino, e andare per lo fresco a Firenze a vendere i detti pippioni. Il fante disse di cosí fare; e andatosi la sera al letto, acconciato l'asino e datagli la biada, quando fu un pezzo fra notte, un lupo passando ebbe sentore di questo asino; e guardato una finestra aperta e non ferrata, alta poco piú di tre braccia, s'avventò a quella e gittossi dentro. E 'l giugnere, e 'l dar di piglio all'asino, e morto, e pascersi di quella carnaccia per gran spazio di notte, fu tutt'uno.

Quando fu pieno quanto potea, cominciò a saltare verso la finestra dond'era entrato, e non vi giugnea a due braccia, però ch'egli avea pieno il ventre, e delle busecchie avea fatte salsicce d'asino; sí che la cosa, se all'entrare era stata leggiera, all'uscire non v'era modo, tant'era gravissima. E cosí riprovandosi il lupo tutta notte di uscirne, e non potendo, giunse l'alba, quando il fante si dovea levare, e chiamandolo ser Francesco, il fante si levò; e non avendo lume, andando nella stalla per sellare l'asino, pigliando la sella, credendola mettere all'asino la volea porre in sul lupo. Il lupo, come è di loro usanza, mai non istette fermo. Di che il fante cominciò a gridare:

- Istà, che sie mort'a ghiado! - e seguendolo gran pezzo, per metterli la sella, credendo quello essere lo asino il lupo continuo avvolgendosi, il fante continuo gridando: - Tru, te, istà, che ti scortichi!

E ser Francesco, destandosi al romore, dice:

- O verra' ne mai a capo, doloroso? lasciati pur còrre al dí.

Il fante risponde:

- Come diavolo! ché mi levai ben un'ora, e per cosa che sia non posso mettere la sella a questo asino!

Ser Francesco, che non volea ch'e' pippioni soprastessino, subito si lieva, e toglie un lume e va alla stalla, dicendo:

- Quest'asino non suole mai fare questo -; e giugnendo nella stalla, percosse nell'asino morto con le gambe, in forma che quasi fu caduto; e dice al fante: - Fatti qui: ov'è l'asino?

E 'l fante risponde:

- Andò testè in quel canto -; e chinando il lume, vede l'asino morto e sbudellato; e alzando il lume, vede il lupo là ricantucciato.

- Alle guagnele! - dice ser Francesco, - noi abbiamo poco ben fatto; l'asino è qui morto, e costà è il lupo, che l'ha devorato: serra la finestra...

 


 

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