Giovanni Boccaccio
Ninfale Fiesolano
Edizione di riferimento: Giovanni
Boccaccio: Ninfale Fiesolano, a cura di Armando Balduino,
in Giovanni Boccaccio: Tutte le opere, a cura di Vittore Branca, vol. III,
Mondadori, Milano 1974.
Edizione elettronica a cura del Bolero di Ravel
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luglio 2002
COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO NINFALE: E PRIMAMENTE MOSTRA IL FACITORE CHE DI
FAR QUESTO GLI È CAGIONE AMORE.
1
Amor mi fa parlar, che m'è nel core
gran tempo stato e fatto n'ha su' albergo,
e legato lo tien con lo splendore
e con que' raggi a cui non valse usbergo,
quando passaron dentro col favore
degli occhi di colei, per cui rinvergo
la notte e 'l giorno pianti con sospiri,
e ch'è cagion di tutti e' mie' martìri.
2
Amor è que' che mi guida e conduce,
nell'opera la qual a scriver vegno;
Amor è que' ch'a far questo m'induce,
e che la forza mi dona e lo 'ngegno;
Amor è que' ch'è mia scorta e mia luce,
e che di lui trattar m'ha fatto degno;
Amor è que' che mi sforza ch'i' dica
un'amorosa storia molto antica.
3
Però vo' che l'onor sia sol di lui,
poi ch'egli è que' che guida lo mio stile,
mandato dalla mia donna, lo cui
valor è tal ch'ogni altro mi par vile,
e che 'n tutte virtù avanza altrui,
e sopra ogni altra è più bella e gentile:
né non le mancheria veruna cosa,
sed ella fosse un poco più pietosa.
4
Or priego qui ciascun fedele amante
che siate in questo mia difesa e scudo
contro a ogni invidioso e mal parlante
e contro a chi è d'amor povero e 'gnudo;
e voi care mie donne tutte quante,
che non avete il cor gelato e crudo,
priego preghiate la mia donna altera
che non sia contro a me servo sì fera.
5
Prima che Fiesol fosse edificata
di mura o di steccati o di fortezza,
da molta poca gente era abitata:
e quella poca avea presa l'altezza
de' circustanti monti, e abandonata
istava la pianura per l'asprezza
della molt'acqua ed ampioso lagume,
ch'a pie de' monti faceva un gran fiume.
6
Era 'n quel tempo la falsa credenza
degl'iddii rei, bugiardi e viziosi;
e sì cresciuta la mala semenza
era, ch'ognun credea che graziosi
fosson in ciel come nell'apparenza;
e lor sacrificavan con pomposi
onori e feste, e sopra tutti Giove
glorificavan qui sì come altrove.
7
Ancor regnava in que' tempi un'iddea
la qual Diana si facea chiamare,
e molte donne in divozion l'avea;
e maggiormente quelle ch'osservare
volean verginità, e che spiacea
lor la lussuria e a lei si volean dare,
costei le riceveva con gran feste,
tenendole per boschi e per foreste.
8
Ed ancor molte glien'erano offerte
dalli lor padri e madri, che promesse
l'avean a lei per boti, e chi per certe
grazie o don che ricevuto avesse;
Diana tutte con le braccia aperte
le riceveva, pur ch'elle volesse
servar verginità e l'uom fuggire,
e vanità lasciar e lei servire.
9
Così per tutto 'l mondo era adorata
questa vergine iddea; ma ritornando
ne' poggi fiesolan, dove onorata
più ch'altrove era, lei glorificando,
vi vo' contar della bella brigata
delle vergini sue, che, lassù stando,
tutte eran ninfe a quel tempo chiamate
e sempre gìan di dardi e d'archi armate.
10
Avea di queste vergini raccolte
gran quantità Diana, del paese,
per questi poggi, benché rade volte
dimorasse con lor molto palese,
sì come quella che n'aveva molte
a guardar per lo mondo dall'offese
dell'uom; ma pur, quando a Fiesol venìa,
in cotal modo e guisa ella apparia:
11
ell'era grande e schietta come quella
grandezza richiedea, e gli occhi e 'l viso
lucevan più ch'una lucente stella,
e ben pareva fatta in paradiso,
con raggi intorno a sé gittando quella,
sì che non si potea mirar ben fiso;
e' cape' crespi e biondi, non com'oro,
ma d'un color che vie meglio sta loro.
12
E le più volte sparti li tenea
sopra 'l divelto collo, e 'l suo vestire
a guisa d' una cioppa il taglio avea;
d'un zendado era ch'a pena coprire,
sì sottil era, le carni potea:
tutta di bianco, sanz'altro partire
cinta nel mezzo, e talor un mantello
di porpora portava molto bello.
13
Venticinque anni di tempo mostrava
sua giovinezza, sanz'aver niun manco;
nella sinistra man l'arco portava,
e 'l turcasso pendea dal destro fianco,
pien di saette, le qua' saettava
alle fiere selvagge, e talor anco
a qualunque uom che lei noiar volesse
e le sue ninfe gli uccidea con esse.
14
In cotal guisa a Fiesole venìa
Diana le sue ninfe a visitare,
e con bel modo, graziosa e pia,
assai sovente le facea adunare
intorno a fresche fonti, o all'ombria
di verdi fronde, al tempo ch'a scaldare
comincia il sol la state, com'è usanza;
e di verno al caldin faceano stanza.
15
E quivi l'amoniva tutte quante
nel ben perseverar verginitate;
alcuna volta ragionan d'alquante
cacce che fatte aveano molte fiate
su per que' poggi, seguendo le piante
delle fiere selvagge, che pigliate
e morte assai n'avean, ordine dando
per girle ancor di nuovo seguitando.
16
Cota' ragionamenti tra costoro,
com'io v'ho detto, tenean di cacciare;
e quando si partia Diana da loro,
tosto una ninfa si facea chiamare,
la qual fosse di tutto il concestoro
di lei vicaria, faccendo giurare
all'altre tutte di lei ubidire,
se pel suo arco non volean morire.
17
Quella cotal da tutte era ubidita,
come Diana fosse veramente;
e ciascheduna d'un panno vestita
di lin tessuto molto sottilmente,
faccendo, con lor archi, d'esta vita
passar molti animali assai sovente:
e qual portava un affilato dardo,
più destre che non fu mai liopardo.
Qui tien Diana consiglio alla fonte;
Africo vede, innamorasi d'una
di quelle ninfe che poi sale il monte:
di sé si duole e de la sua fortuna.
18
Era 'n quel tempo del mese di maggio,
quando i be' prati rilucon di fiori,
e gli usignuoli per ogni rivaggio
manifestan con canti i lor amori,
e' giovinetti, con lieto coraggio,
senton d'amor i più caldi valori,
quando la dea Diana a Fiesol venne,
e con le ninfe sue consiglio tenne.
19
Intorno ad una bella e chiara fonte
di fresca erba e di fiori intorniata,
la qual ancor dimora a piè del monte
Cécer, da quella parte che 'l sol guata
quand'è nel mezzogiorno a fronte a fronte,
e fonte Aquelli è oggi nominata,
intorno a quella Diana allor sì volse
essere, e molte ninfe vi raccolse.
20
Così a sedere tutte quante intorno
si poson alla fonte chiara e bella,
ed una ninfa, sanza far sogiorno,
si levò ritta, leggiadretta e snella,
ed a sonar incominciò un corno
perch'ognuna tacesse: e poi, quand'ella
ebbe sonato, a seder si fu posta,
aspettando di Diana la proposta.
21
La qual, com'usata era, così allora
diceva lor ch'ognuna si guardasse
che con niun uom facesse mai dimora,
– E se avvenisse pur che l'uom trovasse,
fuggal come nimico ciascun'ora,
acciò che 'nganno o forza non usasse
contra di voi: ché, qual fosse ingannata,
da me sarebbe morta e sbandeggiata. –
22
Mentre che tal consiglio si tenea,
un giovinetto ch'Africo avea nome,
il qual forse venti anni o meno avea,
sanz'ancor barba avere, e le sue chiome
bionde e crespe, ed il suo viso parea
un giglio o rosa, over d'un fresco pome;
costui, ind'oltre abitava col padre,
sanz'altra vicinanza, e con la madre;
23
il giovane era quivi in un boschetto
presso a Diana quando il ragionare
delle ninfe sentì, ch'a suo diletto
ind'oltre s'era andato a diportare;
per che fattosi innanzi, il giovinetto
dopo una grotta si mise a 'scoltare,
per modo che veduto da costoro
non era, ed e' vedeva tutte loro.
24
Vedea Diana sopra l'altre stante,
rigida nel parlar e nella mente,
con le saette e l'arco minacciante,
e vedeva le ninfe parimente
timide e paurose tutte quante,
sempre mirando il suo viso piacente,
istando ognuna cheta, umile e piana
pel minacciar che facea lor Diana.
25
Poi vide che Diana fece in piede
levar ritta una ninfa, ch'Alfinea
aveva nome, però ch'ella vede
che più che niun'altra tempo avea,
dicendo: – Ora m'intenda qual qui siede:
i' vo' che questa nel mio loco stea,
però ch'i' 'ntendo partirmi da voi,
sì che, com'io, ubidita sia poi. –
26
Africo stante costoro ascoltando,
fra l'altre una ninfa agli occhi li corse,
la qual alquanto nel viso mirando,
sentì ch'Amor per lei il cor gli morse
sì che gli fe' sentir, già sospirando,
le fiaccole amorose: ché gli porse
un sì dolce disio, che già saziare
non si potea della ninfa mirare.
27
E fra se stesso dicea: «Qual saria
di me più grazioso e più felice,
se tal fanciulla io avessi per mia
isposa? Ché per certo il cor mi dice
ch'al mondo sì contento uom non saria;
e se non che paura mel disdice
di Diana, i' l'arei per forza presa,
che l'altre non potrebbon far difesa».
28
Lo 'nnamorato amante in tal maniera
nascoso stava infra le fresche fronde,
quando Diana, veggendo che sera
già si faceva, e che 'l sol si nasconde
e già perduto avea tutta la spera,
con le sue ninfe, assai liete e gioconde,
si levâr ritte, ed al poggio salendo,
di belle melodi' e canzon dicendo.
29
Africo quando vide che levata
s'era ciascuna, e simil la sua amante,
udì che da un'altra fu chiamata:
– Mensola, andianne –, e quella, su levante,
con l'altre tosto si fu ritrovata.
E così via n'andaron tutte quante:
ognuna a sua capanna si tornoe,
poi Diana si partì e lor lascioe.
30
Avea la ninfa forse quindici anni:
biondi com'oro e grandi i suoi capelli,
e di candido lin portava i panni;
du' occhi in testa rilucenti e belli,
che chi li vede non sente mai affanni;
con angelico viso ed atti isnelli,
e 'n man portava un bel dardo affilato.
Or vi ritorno al giovane lasciato.
31
Il qual soletto rimase pensoso,
oltre modo dolente del partire
che fe' la ninfa col viso vezzoso,
e ripiatando il passato disire,
dicendo: «Lasso a me, che 'l bel riposo
ch'ho ricevuto mi torna in martire,
pensando ch' i' non so dove o 'n qual parte
cercarmene giammai, o con qual arte.
32
Né conosco costei che m'ha ferito,
se non ch'io udi' che Mensola avea nome:
e lasciato m'ha qui, solo e schernito,
sanz'avermi veduto; ed almen come
i' l'amo sapesse ella, e a che partito
Amor m'ha qui per lei carche le some!
Omè, Mensola bella, ove ne vai,
e lasci Africo tuo con molti guai?».
33
Poi, ponendosi a seder in quel loco
ove prima seder veduto avea
la bella ninfa, e nel suo petto il foco
con più fervente caldo s'accendea;
così continovando questo gioco,
il viso bel nell'erba nascondea:
baciandola dicea: – Ben se' beata,
sì bella ninfa t'ha oggi calcata. –
34
E poi dicea: «Lasso a me,» sospirando
«qual ria fortuna, o qual altro destino,
oggi qui mi condusse lusingando,
perché, di lieto, dolente e tapino
io divenissi una fanciulla amando,
la qual m'ha messo in sì fatto cammino,
sanz'aver meco scorta o guida alcuna,
ma sol Amore è meco e la fortuna!
35
Almen sapesse ella pur quanto amata
ell'è da me, o veduto m'avesse!
Ben ch'i' credo che tutta spaventata
se ne sarebbe, sed ella credesse
esser da me o da uom disiata;
e son ben certo, in quanto ella potesse,
ella si fuggiria, sì come quella
c'ha 'n odio l'uomo ed a lui si rubella.
36
Che farò dunque, lasso, poi ch'io veggio
ch'a palesarmi saria 'l mio piggiore,
e s'io mi taccio, veggio ch'è 'l mio peggio,
però ch'ognor mi cresce più l'ardore?
Dunque, per miglior vita, morte cheggio,
la qual sarebbe fin di tal dolore:
bench'io mi credo ch'ella penrà poco
a venir, se non si spegne esto foco.»
37
Cotali ed altre simili parole
diceva il giovinetto innamorato;
ma poi, veggendo che già tutto 'l sole
era tramonto, e che 'l cielo stellato
già si facea, il che forte gli dole
per lo partir; ma poi ch'alquanto stato
sopra sé fu, e' disse: «O me tapino,
ch'or foss'egli di domane il mattino!».
38
Ma pur levato, piede innanzi piede,
pien di molti pensier, per la rivera
si mise vêr l'ostello, che ben vede
che non ritorna qual venuto v'era;
così pensoso che non se n'avvede,
alla casa pervenne, la qual era,
scendendo verso 'l pian, della fontana
forse un quarto di miglio o men lontana.
39
Quivi tornato, nella cameretta
dove dormia, soletto se n'entroe,
e sospirando in sul letto si getta,
ch'a padre o madre prima non parloe;
quivi con gran disio il giorno aspetta,
né 'n tutta notte non s'adormentoe,
ma in qua e 'n là si volge sospirando
e ne' sospir Mensola sua chiamando.
40
Acciò che voi, allora, non crediate
che vi fosson palagi o casamenti,
com'or vi son, sì vo' che voi sappiate
che sol d'una capanna eran contenti;
sanz'esser con calcina allor murate,
ma sol di pietre e legname le genti
facean lor case, e qual facea capanne
tutte murate con terra e con canne.
41
E forse quattro eran gli abitatori
che facevano stanza nel paese,
giù nelle piagge de' monti minori,
che son a piè de' gran poggi distese;
ma ritornar vi voglio a' gran dolori
che Africo sentia, che presso a un mese
stette sanza veder Mensola mai,
benché dell'altre ne scontrasse assai.
Venere ad Africo viene in visione;
promettegli aiuto; ricerca per lei,
truova altre ninfe, domanda di lei:
fuggon sanza rispondere al garzone.
42
Amor, volendo crescer maggior pena,
come usato è di fare, al giovinetto,
parendogli ch'avesse alquanto lena
ripresa e spento il foco nel suo petto,
legar lo volle con maggior catena,
e con più lacci tenerlo costretto,
modo trovando a fargli risentire
le fiaccole amorose col martìre.
43
Per ch'una notte il giovane, dormendo,
veder in visione gli parea
una donna con raggi risplendendo,
ed un piccol garzone in collo avea,
ignudo tutto ed un arco tenendo;
e del turcasso una freccia trata
per saettar, quando la donna: – Aspetta, –
gli disse – figliuol mio: non aver fretta. –
44
E poi la donna, ad Africo rivolta,
sì gli diceva: – Qual mala ventura,
o qual pensier, o qual tua mente stolta
t'ha fatto volger? Credo che paura
o negligenza Mensola t'ha tolta,
ché di suo amor non par che facci cura,
ma com'uom vile stai tristo e pensoso,
quando cercar dovresti il tuo riposo.
45
Leva su, dunque, e cerca queste piagge
di questi monti, e tu la troverai,
ch'a lor diletto le fiere selvagge
con l'altre ninfe seguir la vedrai:
e ben ch'al correr le sien preste e sagge,
sanza niun fallo tu la vincerai,
né ti bisogna temer di Diana,
però ch'ell'è di qui molto lontana.
46
E i' ti prometto di darti il mio aiuto,
al qual niuno può far mai resistenza,
pur che questo mio figlio abbi voluto
ferir con l'arco per la mia sentenza;
ch'i' son colei che sì ben ho saputo
adoperar con questa mia scienza,
che, non ch'altri, ma Giove ho vinto e preso
con molti iddii, che niun non s'è difeso. –
47
Poi disse: – Figliuol mio, apri le braccia,
fagli sentire il tuo caldo valore;
fa' che tu rompa ogni gelata ghiaccia,
dentro al suo petto e nel gelato core;
or fa', figliuol mio, fa' sì che mi piaccia,
come far suoi –; e poi parea ch'Amore
per sì gran forza quell'arco tirasse,
che 'nsieme le duo cocche raccozzasse.
48
Quando Africo volea chieder mercede,
sentì nel petto giugner la saetta,
la qual, dentro passando, il cor gli fiede
sì che, svegliato, la man puose in fretta
al petto, ché la freccia trovar crede:
trovò la piaga esser salda e ristretta;
poi guardò se la donna rivedea
col suo figliuol che fedito l'avea.
49
Ma non la vide, perch'era sparita,
e 'l sonno rotto che gliel dimostrava;
e battendogli 'l cor per la ferita
che ricevuto avea, si ricordava
della sua amante, quando fe' partita
dalla fontana, e nel cor gli tornava
gli atti gentili col vezzoso modo,
e ta' pensier al cor gli facean nodo.
50
E poi dicea: «Questa donna mi pare,
ch'ora m'apparve, Vener col figliuolo:
e, s'io bene intesi il suo parlare,
promesso m'ha di far sentir quel duolo
a Mensola, ch'a me ha fatto fare;
però, s'ella esce mai fuor dello stuolo
dell'altre ninfe, i' pur m'arrischieroe:
per forza o per amor la piglieroe».
51
Così, racceso di questo disio
la fiamma nel suo petto, si dispose
di Mensola cercar per ogni rio,
fin che la troverà; e cota' cose
pensando, intanto il bel giorno appario,
il qual egli aspettava con bramose
voglie: e soletto di casa s'usciva
e 'nvêr la fonte Aquelli se ne giva.
52
E quivi giunto, alquanto vi ristette,
i sospiri amorosi rinnovando,
«Di qui» dicendo «mi fêr le saette
d'Amor già partir forte sospirando».
Ma poi che tai parole egli ebbe dette,
saliva 'l poggio, la fonte lasciando,
ascoltando e mirando tuttavia
se ninfa alcuna vedeva o sentia.
53
Così salendo suso verso il monte,
trasviato d'amor e dal pensiero,
alto portando sempre la sua fronte
per veder me' per ciaschedun sentiero,
e le gambe tenendo preste e pronte,
se gli facesse di correr mestiero;
ed ogni foglia che menar vedea,
credea che fosse ninfa e là correa.
54
Ma poi che cota' beffe ed altre assai
avean più volte il giovane ingannato,
sanza niuna ninfa trovar mai,
e' presso che 'n sul monte era montato,
quando un pensier gli disse: «Dove vai
pur su salendo, e nulla ci hai trovato,
e già è terza. I' non vo' più salire,
ma per quest'altra via vogli' or gire».
55
E 'nverso Fiesol vòlto, piaggia piaggia
guidato d'Amor, ne gìa pensoso,
caendo la sua amante aspra e selvaggia,
e che facea lui star malinconoso;
ma pria ch'un mezzo miglio passato aggia,
ad un luogo pervenne assai nascoso,
dove una valle i duo monti divide:
quivi udì cantar ninfe, e poi le vide.
56
Quando appressato fu a quel vallone
alquanto, udì un'angelica boce
con duo tinori. Ad ascoltar si pone,
faccendo delle braccia a Giove croce,
con umil priego stando ginocchione,
dicendo: «Iddio, sarebbe in questa foce
Mensola tra costoro? Or voglia Iddio
ch'ella vi sia, ch'i' v'anderò anch'io».
57
Qual è colui che 'l grillo vuol pigliare,
che va con lunghi e radi e leggier passi
sanza far motto, tal era l'andare
che Africo facea su per que' massi,
pur dietro andando a quel dolce cantare
che nella valle udia, e 'nnanzi fassi
tanto che vide dimenar le fronde
d'alcun querciuol che le ninfe nasconde.
58
Per che, sanza scoprirsi, s'appressava
tanto che vide donde uscia quel canto:
vide tre ninfe, ch'ognuna cantava;
l'una era ritta, e l'altre duo in un canto
a un acquitrin, che 'l fossato menava,
sedeano, e le lor gambe vide alquanto,
ché si lavavan i piè bianchi e belli,
con loro cantando dimolti augelli.
59
L'altra che stava in piè colse due frondi,
e d'esse una ghirlanda si facea,
poi sopra suoi capelli crespi e biondi
la si ponea, perché 'l sol l'offendea;
poi, per le sue compagne, folte e fondi
ne fece due, e poi quelle ponea
in sulle trecce lor non pettinate,
le quali eran di frondi spampanate.
60
Africo si diceva infra se stesso:
«E' non mi par che Mensola ci sia».
E poi, fattosi a lor un po' più presso,
la sua mata ventura maladia,
dicendo: «Vener, quel che m'hai promesso
non mi par ch'avvenuto ancor mi sia;
ma che farò? Domanderò costoro
s'elle la sanno, e scoprirommi a loro».
61
Diliberato adunque 'l giovinetto
di scoprirsi a costor, si fece avanti
oltre vicino a lor; poi ebbe detto
con bassa boce e con umil sembianti:
– Diana, a cui 'l cor vostro sta suggetto,
vi mantenga nel ben ferme e costanti!
O belle ninfe, non vi spaventate,
ma priegovi chun poco m'ascoltiate.
62
I' vo caendo una di vostra schiera,
la qual Mensola credo che chiamata
sia da voi per ciascuna rivera,
e ben è un mese ch'io l'ho seguitata;
ma ella è tanto fuggitiva e fera,
che sempre innanzi a me s'è dileguata:
però vi priego, dilettose e belle,
che la 'nsegniate a me, care sorelle. –
63
Quali sanza pastor le pecorelle,
assalite dal lupo e spaventate,
fuggon or qua or là, le tapinelle,
gridando bé con boci sconsolate;
e qual fanno le pure gallinelle,
quand'elle son dalla volpe assaltate,
quanto più posson ognuna volando
verso la casa, forte schiamazzando;
64
tal fêr le ninfe belle e paurose:
quando vidon costui, – Omè – gridaro;
alzando i panni, le gambe vezzose,
per correr meglio, tutte le mostraro;
e già niuna ad Africo rispose,
ma, ricogliendo lor archi, n'andaro
su verso 'l monte, e qual pur per la piaggia,
forte fuggendo com fiera selvaggia.
65
Africo grida: – Aspettatemi un poco,
o belle ninfe, ascoltate 'l mio dire;
sacciate ch'io non venni in questo loco
per voi noiar o per farvi morire,
ma sol per darvi allegrezza con gioco,
in quanto voi non vogliate fuggire;
io vengo a voi come di voi amico,
e voi fuggite me come nimico. –
66
Ma che ti vale, o Africo, pregalle?
elle si fuggon pur su per la costa,
e tu soletto riman nella valle,
sanza da lor aver altra risposta.
Rimanti, dunque, di più seguitalle,
poi ch'ognuna a fuggir è pur disposta;
le tue lusinghe col vento ne vanno,
e le ninfe di correr non ristanno.
67
Ell'eran già da lui tanto lontane
che di veduta perdute l'avea:
per che di più seguirle si rimane,
e 'nfra se stesso forte si dolea
di quelle ninfe sì selvagge e strane.
«Che farò dunque, lasso a me?» dicea.
«I' non ci veggio modo niun pel quale
i' possa aver da lor altro che male.
68
E' non mi val lusinghe né pregare,
e nulla fare' mai s'io mi tacessi;
né non posso con lor la forza usare,
che volentier l'userei, s'i' potessi.
E s'io potessi almen pure spiare
dove Mensola fosse, o pur sapessi
dove cercarne, o dove si riduce!
Ma vo errando com'uom sanza luce».
69
Tanto 'l diletto l'avea tranquillato,
di Mensola cercare, e poi di quelle
ninfe che nel vallone avea trovato
istare all'ombra di fresche ramelle,
e poi dal seguitarle trasviato,
sol per saper di Mensola novelle,
che non s'accorse ch'egli era già sera,
e poco già lucea del sol la spera.
70
Per che, malinconoso e malcontento,
sé maladiva e la vegnente notte
che sì tosto venia; e poi con lento
passo scendeva giù per quelle grotte,
perché di star più quivi avea pavento
degli anima' crudeli, ch'a quell'otte
cominciavan andar pe' folti boschi,
donando a chi trovavan di lor tòschi.
71
Così, sanz'aver punto il dì mangiato,
verso la casa sua prese la via,
ove quel giorno dal padre aspettato
era stato con gran malinconia,
paura avendo che non fosse stato
da qualche bestia morto ove che sia,
e divorato con doglia l'avesse:
però a casa tornar non potesse.
72
Ed ancor di Diana avea temenza,
che non si fosse con lei abbattuto,
come nimica della sua semenza
sempre mai stata, e da lei fosse suto
morto, o fattolo, per più penitenza,
diventar pietra o albero fronzuto;
e 'n tai pensieri stava lui aspettando,
or una cosa or altra imaginando.
Di Girafone ad Africo suo figlio
un esempletto perché più non vada
dietro alle ninfe, ché corre periglio.
73
Il sol era già corso in occidente,
e sì nascoso che più non lucea,
e già le stelle e la luna lucente
nell'aria cilestrina si vedea;
e l'usignuol più cantar non si sente,
ma cantan que' che 'l giorno nascondea
per lor natura, e scuopreli la notte;
Africo giunse a casa a cota' otte.
74
Alla qual giunto, l'aspettante padre
con gran letizia ricevette il figlio,
sì come que' che temea che le ladre
fiere non gli avesson dato di piglio;
e la pietosa e piangente sua madre
l'abracciava dicendo: – O fresco giglio,
ove se' tu stato oggi, car figliuolo,
che tu ci hai dato tanta pena e duolo? –
75
E similmente il padre il domandava
ove stato era il dì, sanza mangiare.
Africo sopra sé alquanto stava
per legittima scusa a ciò trovare,
la qual Amore tosto gl'insegnava,
come far suoi gli animi assottigliare
de' veri amanti; ed al padre rispose,
e una bugia cotal sì gli dispose:
76
– O padre mio, egli è gran pezzo ch'io
in questi poggi vidi una cerbietta,
la qual tanto bella era, al parer mio,
che mai non credo ch'una sì diletta
se ne vedesse, e veramente Iddio
con le sue man la fe' sì leggiadretta;
e nell'andar come gru era leve,
e bianca tutta come pura neve.
77
Sì ne 'nvaghii, ch'io la seguii gran pezza,
di bosco in bosco, credendo pigliarla;
ma ella tosto de' monti l'altezza
prese; per ch'io, di più seguitarla
sì mi rimasi con molta gramezza,
e 'n cor mi puosi d'ancor ritrovarla,
e con più agio seguirla altra volta;
e così, a casa tornando, die' volta.
78
Io mi levai staman e, a dire il vero,
veggendo il tempo bel, mi ricordai
della cerbietta, e vennemi in pensiero
di lei cercar: così diliberai.
Così mi misi su per un sentiero,
ch'io non m'accorsi ch'io mi ritrovai
a mezzo 'l poggio quando 'l sol già era
a mezzo 'l ciel, con la lucente spera;
79
quando sentii e vidi menar foglie
di freschi quercioletti, ond'io più presso
mi feci alquanto. Dietro alcune scoglie
tacitamente per veder fu' messo:
vidi tre cerbie gir con pari voglie
l'erba pascendo, per che, 'nfra me stesso
avvisando pigliarne una, pian piano
vêr lor n'andai con un po' d'erba in mano.
80
Ma com'elle mi vidon, si fuggiro
suso al monte, sanza punto aspettarmi,
ed io di questo alquanto me n'adiro,
veggendo quivi beffato lasciarmi;
e così dietro loro un pezzo miro
poi a seguirle, sanz'aver altre armi
che ora m'abbia, infin che di veduta
non me le tolse la notte venuta.
81
Or sai della mia stanza la cagione,
o caro padre, e di questo sie certo. –
Il padre, ch'avea nome Girafone,
gli parve intender quel parlar coperto,
e ben s'avvide e tenne oppinione,
sì come savio e di tai cose sperto,
che ninfe state dovean esser quelle
ch'e' dicea ch'eran cerbie tanto belle.
82
Ma per non farlo di ciò mentitore,
e non paresse ch'e' se n'accorgesse,
e per non crescergli 'l disio maggiore
di più seguirle, ed ancor se potesse
far che lasciasse da sé questo amore,
e, sanza palesargliel, giù 'l ponesse,
ciò c'ha detto fa vista di credègli;
poi 'ncominciò in tal guisa a parlar egli:
83
– Caro figliuolo, e dolce mio diletto,
per Dio ti priego ti sacci guardare
da quelle cerbie che tu or m'hai detto,
ed in malora via le lascia andare:
ché sopra la mia fé io ti prometto
che di Diana son, cha diportare
si van pascendo su per questi monti,
l'acque bevendo delle fresche fonti.
84
Diana, le più volte, va con esse
con le saette e l'arco micidiale,
e se per tua sventura s'avvedesse
che tu le seguitassi, con lo strale
morte ti donerebbe, come spesse
volte ell'ha fatto a chi vuol far lor male;
sanza ch'ell'è grandissima nimica
di noi e della nostra schiatta antica.
85
Omè, figluol, ch'a lagrimar mi muove
la morte del mio padre sventurato,
tornandomi a memoria il come e 'l dove
fu da Diana morto e consumato;
o figliuol mio, così m'aiuti Giove,
com'io dirò il vero del suo peccato,
che, come sai, ebbe nome Mugnone
il padre mio, sì com'io Girafone.
86
La storia saria lunga, a voler dire
ogni parte del suo misero danno,
ma per tosto all'effetto pervenire,
per questi monti andava, come vanno
i cacciator, per le bestie ferire;
e così andando, dopo molto affanno,
'n una piaggia sopra un fiume arrivoe,
il qual Mugnon poi per lui si chiamoe.
87
E quivi giunto, ad una bella fonte
trovò una ninfa star tutta soletta,
la qual, vedutol, tutta nella fronte
impalidio, e su si levò in fretta
«Omè, omè» dicendo, e giù pel monte
si fuggìa paurosa e pargoletta;
il volonteroso padre a pregarla
incominciò, e poi a seguitarla.
88
O miser padre, tu non t'avvedevi
che tu correvi dietro alla tua morte;
e' lacci suoi, tapin, non conoscevi,
dove preso tu fosti con rie sorte;
gl'iddii volesson che, quando correvi
dietro alla ninfa sì veloce e forte,
Diana l'avesse in uccel trasmutata,
o 'n pietra, o 'n alber l'avesse piantata!
89
Ella non era al fiume giunta appena,
che la raccolta e sottil sua guarnacca
tra le gambe le cadde, e già la lena
perdea, di correr e di dolor fiacca;
lo sciagurato Mugnon gioia ne mena,
avendola già giunta per istracca,
e presa la tenea infra le braccia,
donando baci alla vergine faccia.
90
Quivi usò forza e quivi violenza,
quivi la ninfa fu contaminata,
quivi ella non potè far resistenza:
o misero garzone, o sventurata
ninfa, quanto dogliosa penitenza
divise amendue voi quella fiata!
Diana, di sul soprastante monte,
abracciati gli vide a fronte a fronte.
91
Ella gridò: «O miser, quest'è l'ora
che 'nsieme n'anderete nello 'nferno!
voi sarete oggi d'esto mondo fora,
sanza veder di questa state il verno;
e' vostri nomi faranno dimora
nel fiume dove siete, in sempiterno!».
E poscia l'arco tese con grand'ira,
faccendo de' duo amanti una sua mira.
92
A un'otta giunson l'ultime parole
e la freccia che 'nsieme li confisse.
O figliuol mio, io non ti dico fole:
così gl'iddii volesson ch'io mentisse,
che per dolor ancor il cor mi dole!
E' convenne ch'ognun di lor morisse:
un ferro sol tenea fitti i duo cori;
così finiron quivi i loro amori.
93
Il sangue del mio padre doloroso
il fiume tinse di rosso colore,
e corse tutto quanto sanguinoso,
e manifesto fe' questo dolore;
e 'l corpo suo ancor vi sta nascoso,
che mai non se ne seppe alcun sentore,
né dove s'arrivasse poi e 'l come,
salvo che 'l fiume ritenne il suo nome.
94
Dissesi che Diana ragunoe
il sangue della ninfa tutto quanto,
e 'l corpo, insieme con quel, trasmutoe
in una bella fonte dall'un canto
allato al fiume; e così la lascioe,
acciò che manifesto fosse quanto
ell'è crudele, forte e dispietata
a chi l'offende solo una fiata.
95
Così di mille te ne potre' dire
che 'n questi monti son fonti ed uccelli,
e qua' in alber ha fatto convertire,
che misfatto hanno a lei, i tapinelli;
ancor del sangue tuo fece morire,
anticamente, duo carnal fratelli;
però ti guarda, per l'amor di Dio,
dalle sue mani, caro figliuol mio! –
Qui truova Africo Mensola sua
e priegala; ella fugge e non risponde;
lanciali un dardo, e poi si nasconde.
96
Posto avea fine al suo ragionamento
il vecchio Girafone lagrimando;
Africo ad ascoltarlo molto attento
istava, bene ogni cosa notando;
e come che alquanto di pavento
avesse per quel dir, pur fermo stando
nella sua oppinione, al padre disse:
– Deh, non temer cotesto a me venisse!
97
Da or innanzi, i' le lascerò andare,
sed egli avien ch'i' le truovi più mai;
andianci dunque, padre, omai a posare,
ch'i' sono stanco, sì m'affaticai
oggi per questi monti, per tornare
di dì a casa, che mai non finai
ch'i' son qui giunto con molta fatica,
sì ch'io ti priego che tu più non dica. –
98
Giti a dormir, non fu sì tosto il giorno
ch'Africo si levava prestamente
e negli usati poggi fe' ritorno,
dove sempre tenea 'l cor e la mente;
sempre mirandosi avanti e dintorno,
se Mensola vedea poneva mente;
e com piacque ad Amor, giunse ad un varco
dov'ella gli era presso ad un trar d'arco.
99
Ella lo vide prima ch'egli lei,
per ch'a fuggir del campo ella prendea;
Africo la sentì gridar – Omei –
e poi, guardando, fuggir la vedea,
e 'nfra sé disse: «Per certo costei
è Mensola» e poi dietro le correa,
e sì la priega e per nome la chiama,
dicendo: – Aspetta que' che tanto t'ama.
100
Deh, o bella fanciulla, non fuggire
colui che t'ama sopra ogni altra cosa;
io son colui che per te gran martìre
sento, dì e notte, sanz'aver mai posa;
io non ti seguo per farti morire,
né per far cosa che ti sia gravosa:
ma sol Amor mi ti fa seguitare,
non nimistà, né mal ch'i' voglia fare.
101
Io non ti seguo come falcon face
la volante pernice cattivella,
né ancor come fa lupo rapace
la misera e dolente pecorella,
ma sì come colei che più mi piace
sopra ogni cosa, e sia quanto vuol bella;
tu se' la mia speranza e 'l mio disio,
e se tu avessi mal, sì l'are' io.
102
Se tu m'aspetti, Mensola mia bella,
i' t'imprometto e giuro sopra i dèi
ch'io ti terrò per mia sposa novella,
ed amerotti sì come colei
che se' tutto 'l mio bene, e come quella
c'hai in balia tutti i sensi miei;
tu se' colei che sol mi guidi e reggi,
tu sola la mia vita signoreggi.
103
Dunque, perché vuo' tu, o dispietata,
esser della mia morte la cagione?
Perch'esser vuoi di tanto amor ingrata
verso di me, sanz'averne ragione?
Vuo' tu ch'i' mora per averti amata,
e ch'io n'abbia di ciò tal guiderdone?
S'i' non t'amassi, dunque, che faresti?
So ben che peggio far non mi potresti.
104
Se tu pur fuggi, tu se' più crudele
che non è l'orsa quand'ha gli orsacchini,
e se' più amara che non è il fiele,
e dura più che sassi marmorini;
se tu m'aspetti, più dolce che 'l mèle
sei, o che l'uva ond'esce i dolci vini,
e più che 'l sol se' bella ed avvenente,
morbida e bianca, ed umile e piacente.
105
Ma i' veggio ben che 'l pregar non mi vale,
né parola ch'io dica non ascolti,
e di me servo tuo poco ti cale,
e mai indietro gli occhi non hai volti;
ma com'egli esce dell'arco lo strale,
così ten vai per questi boschi folti,
e non ti curi di pruni o di sassi,
che graffian le tue gambe, o di gran massi.
106
Or poi che di fuggir se' pur disposta
colui che t'ama, secondo ch'i' veggio,
sanza ai mie' prieghi far altra risposta,
e par che per pregar tu facci peggio,
i' priego Giove che 'l monte e la costa
ispiani tutta, e questa grazia cheggio,
e pianura diventi umile e piana,
ch'al correr non ti sia cotanto strana.
107
E priego voi, iddii, che dimorate
per questi boschi e nelle valli ombrose,
che, se cortesi foste mai, or siate
verso le gambe candide e vezzose
di quella ninfa, e che voi convertiate
alberi e pruni e pietre ed altre cose,
che noia fanno a' piè morbidi e belli,
in erba minutella e 'n praticelli.
108
Ed io, per me, omai mi rimarroe
di più seguirti, e va' ove ti piace,
e nella mia malora mi staroe
con molte pene, sanz'aver mai pace;
e sanza dubbio al fin ch'i' ne morroe,
ch'i' sento 'l cor che già tutto si sface
per te, che 'l tieni in sì ardente foco,
e mancali la vita a poco a poco. –
109
La ninfa correa sì velocemente,
che parea che volasse, e' panni alzati
s'avea dinnanzi per più prestamente
poter fuggir, e aveasegli attaccati
alla cintura, sì ch'apertamente,
di sopra a' calzerin ch'avea calzati,
mostra le gambe e 'l ginocchio vezzoso,
ch'ognun ne diverria disideroso.
110
E nella destra mano aveva un dardo,
il qual, quand'ella fu un pezzo fuggita,
si volse indietro con rigido sguardo,
e diventata per paura ardita,
quello lanciò col buon braccio gagliardo,
per ad Africo dar mortal ferita;
e ben l'arebbe morto, se non fosse
che 'n una quercia innanzi a lui percosse.
111
Quand'ella il dardo per l'aria vedea
zufolando volar, e poi nel viso
guardò del suo amante, il qual parea
veracemente fatto in paradiso,
di quel lanciar forte se ne pentea,
e tocca di pietà lo mirò fiso,
e gridò forte: – Omè, giovane, guarti,
ch'i' non potrei omai di questo atarti! –
112
Il ferro era quadrato e affusolato
e la forza fu grande, onde si caccia
entro la quercia, e tutt'oltre è passato,
come se dato avesse in una ghiaccia;
ell'era grossa sì ch'aggavignato
un uomo non l'arebbe con le braccia;
ella s'aperse, e l'aste oltre passoe,
e più che mezza per forza v'entroe.
113
Mensola allor fu lieta di quel tratto,
che non aveva il giovane ferito,
perché già Amor l'avea del cor tratto
ogni crudel pensiero, e fatto 'nvito;
non però ch'ella aspettarlo a niun patto
più lo volesse, o pigliasse partito
d'esser con lui, ma lieta saria stata
di non esser da lui più seguitata.
114
E poi da capo a fuggir cominciava
velocissimamente, poi che vide
che 'l giovinetto pur la seguitava
con ratti passi e con prieghi e con gride;
per ch'ella innanzi a lui si dileguava,
e grotte e balzi passando ricide,
e 'n sul gran colle del monte pervenne,
dove sicura ancor non vi si tenne.
115
Ma di là passa molto tostamente,
dove la piaggia d'alberi era spessa,
e sì di fronde folta, che niente
vi si scorgeva dentro: per che messa
si fu la ninfa là tacitamente,
e come fosse uccel, così rimessa
nel folto bosco fu, tra verdi fronde
di bei querciuol, che lei cuopre e nasconde.
Africo qui nell'amor si raccese
quando il parlare di Mensola intese.
116
Diciamo un poco d'Africo, che, quando
vide il lanciar che la ninfa avea fatto,
alquanto sbigottì, ma poi ascoltando
il gridar «Guarti guarti» con un atto
assai pietoso verso lui mostrando
con la luce degli occhi, che 'n un tratto
gli ferì 'l core e fecel più bramoso
di seguitarla, e più volonteroso.
117
E come fa 'l tizzon ch'è presso a spento,
e sol rimasa v'è una favilla,
ma poi che sente il gran soffiar del vento,
per forza il foco fuor d'esso ne squilla,
e diventa maggior per ognun cento;
tal Africo sentì, quando sentilla
a lui parlar con sì pietosa boce,
maggiore 'l foco che lo 'ncende e coce.
118
E gridò forte: – Ora volesse Giove,
poi che tu vuo', che tu m'avessi morto
a questo tratto, acciò che le tue pruove
fosson compiute, avendomi al cor porto
l'aguto ferro, il qual percosse altrove;
e come che tu abbia di ciò 'l torto,
i' pur sare' contento d'esser fore,
per le tue man, delle fiamme d'Amore. –
Ismarrisce Africo Mensola; torna
a casa e dice si sente gran duolo;
duolsi di Vener e Amor suo figliuolo,
po' s'adormenta in sul suo letticciuolo.
119
Appena avea finito il suo parlare
Africo, quando Mensola giugnea
in sul gran monte, e videla passare
dall'altra parte, e più non la vedea;
onde di ciò molto mal gliene pare,
perch'ella innanzi a lui tal campo avea
ch'e' temea forte che lei di veduta,
com'egli avvenne, non aver perduta.
120
E lassù giunto dopo molto affanno,
gli occhi a mirar di lei subito pone;
e come i cacciatori spesso fanno
quando levata s'è la cacciagione,
e di veduta poi perduta l'hanno,
con la testa alta vanno baloccone,
correndo or qua or là, or fermi stando,
e come smemorati dimorando;
121
tal Africo faceva in sul gran monte,
di lei mirando con alzato volto,
e con le man si percotea la fronte,
e di fortuna ria si dolea molto,
che già gli aveva fatte dimolte onte;
e poi ne giva verso il bosco folto,
poi ritornava indietro e dicea: «Forse
ch'ella da questa mano il cammin torse».
122
E tosto là, correndo, se n'andava,
se vederla potesse in nessun lato,
e poi che non la vede, ritornava
in altro loco, molto addolorato;
e poi ch'andata fosse s'avvisava
da un'altra parte, ma 'l pensier fallato
tuttavia li venìa, onde che farsi
e' non sapea, né dove più cercarsi.
123
E ben dicea fra sé: «Forse costei
in questo bosco grande s'è nascosa;
e s'ella v'è, mai non la troverei,
se menar non vedessi alcuna cosa,
e più d'un mese cercar ne potrei
la piaggia tutta per le fronde ombrosa;
e non ci veggio donde entrata sia,
né fatta per lo bosco alcuna via.
124
Né 'l cor giammai mi dare' d'avvisare
in qual parte sia ita, tante sono
le vie dond'ella se ne puote andare:
e se a cercar di lei più m'abandono,
per avventura il contrario cercare
potre' dov'ella fosse, onde tal dono,
chente aver mi parea, non prender mai,
ond'io rimaso son con molti guai.
125
Né so s'io me ne vo, né s'io m'aspetti
se riuscir la veggio in nessun lato,
benché sì folti son questi boschetti,
che vi staria a cavallo un uom celato
sanza d'esser veduto aver sospetti;
e pognàn pur ch'ella uscisse d'aguato:
più ch'un buon mezzo miglio di lontano
da me uscirebbe, ond'io correrei 'nvano».
126
E poi guardò il sol, che presso all'ora
di nona era venuto, onde dicea:
«Poi che io son d'ogni speranza fora
d'aver colei, la qual i' mi credea,
i non vo' più quinci oltre far dimora»,
tornandogli a memoria quel ch'avea
raccontatogli il padre, il dì davanti,
come fûr morti insieme i due amanti.
127
Dall'altra parte Amor gli facea dire:
«I' non curo Diana, pur che io
sol una volta empiessi il mio disire,
che poi contento sarebbe il cor mio;
e se mi convenisse poi morire,
n'andre' contento ringraziando Iddio;
ma di lei più che di me mi dorrebbe:
s'ella morisse per me, mal sarebbe».
128
Cota' ragionamenti rivolgendo
Africo in sé, vi dimorò gran pezza,
né che si far né che dir non sappiendo,
tanto Amor lo lusinga e si l'avvezza;
e nella fin pur partito prendendo,
che, per non dar al padre suo gramezza,
d'a casa ritornar contro a sua voglia;
così si mise in via con molta doglia.
129
Così sen torna Africo malcontento,
rivolgendosi indietro ad ogni passo,
istando sempre ad ascoltare attento
se Mensola vedea, dicendo: «Lasso
a me tapino, in quanto rio tormento
rimango, e d'ogni ben privato e casso!».
E – Tu rimani, o Mensola? – chiamando,
più e più volte indietro ritornando.
130
Molto sarebbe lungo chi volesse
le volte raccontar che e' tornava
indietro e innanzi, tant'erano spesse,
per ogni foglia che si dimenava;
e quanta doglia dentro al cor avesse,
ognuno il pensi, e quanto gli gravava
di partir quindi; ma per dir più brieve,
a casa si tornò con pena grieve.
131
Alla qual giunto, in camera ne gìa
sanza da padre o madre esser veduto,
e 'n sul suo picciol letto si ponia,
sentendosi già al cor esser venuto
Cupìdo, il qual già si forte 'l feria,
che volentieri arebbe allor voluto,
morendo, uscir di tanta pena e noia,
veggendosi privato di tal gioia.
132
E tutto steso in sul letto bocconi,
Africo sospirando dimorava;
e sì lo punson gli amorosi sproni,
che – Omè, omè – per tre volte gridava
sì forte, ch'agli orecchi que' sermoni
della sua madre vennon, che si stava
'n un orticello allato alla casetta,
e ciò udendo in casa corse in fretta.
133
E nella cameretta ne fu andata,
del suo figliuol la boce conoscendo,
e giunta là, si fu maravigliata,
il suo figliuol boccon giacer veggendo;
per che con boce rotta e sconsolata
lui abbracciò, – Caro figliuol, – dicendo –
deh, dimmi la cagion del tuo dolere,
e donde vien cotanto dispiacere.
134
Deh, dimmel tosto, caro figliuol mio,
dove ti senti la pena e 'l dolore,
sì che io possa, medicandoti io,
cacciar da te ogni doglia di fore;
deh, leva 'l capo, dolce mio disio,
ed un poco mi parla per mio amore:
i' son la madre tua che t'allattai,
e nove mesi in corpo ti portai. –
135
Africo, udendo quivi esser venuta
la sua tenera madre, fu cruccioso
perch'ella s'era di lui avveduta;
ma fatto già per amor malizioso,
tosto nel cor gli fu scusa caduta,
e 'l capo alzò col viso lagrimoso,
e disse: – Madre mia, quando tornava,
istaman, caddi, e tutto mi fiaccava.
136
Poi mi rizzai, e rimasemi al fianco
una gran doglia, ch'appena tornare
potei 'nfin qui, e divenni sì stanco
che sopra me non pote' dimorare,
ma come neve al sol veniva manco;
per ch'io mi venni in sul letto a posare,
e parmi alquanto la doglia ita via,
che prima tanto forte m'impedia.
137
E però, madre mia, se tu m'hai caro,
ti priego che di qui facci partenza,
e, per Dio, questo non ti sia discaro,
che 'l favellar mi dà gran penitenza,
né veggio alla mia doglia altro riparo;
or te ne va', sanza più resistenza
far al mio dir, che per certo conosco
che 'l più parlar m'è velenoso tòsco. –
138
E questo detto, il capo giù ripose,
sanza più dir, ma forte sospirando.
La madre, avendo udito queste cose,
con seco venne alquanto ripensando,
dicendo: «E' mi s'accosta che gravose
e maggior pena gli sia favellando,
ché forse gli rimbomba quella boce
dove la doglia nel fianco gli nuoce».
139
E della camera uscita, in sul letto
lasciò 'l figliuol pien di molti sospiri,
il qual po' che si vide esser soletto,
d'Amor si dolea forte e de' martirî,
i qua' crescean nel non usato petto
con maggior forza e più caldi disiri
che prima non facean, dicendo: «I' veggio
ch'Amor mi tira pur di mal in peggio.
140
I' mi sento arder dentro tutto quanto
dall'amorose fiamme, e consumare
mi sento 'l petto e 'l core da ogni canto,
né non mi può di questo alcuno atare,
né conforto donar, poco né quanto;
sol una è quella che mi può donare,
s'ella volesse, aiuto e darmi pace,
e di me sol può far quanto le piace.
141
E tu sola, fanciulla bionda e bella,
morbida, bianca, angelica e vezzosa,
con leggiadro atto e benigna favella,
fresca e giuliva più che bianca rosa
ed isplendente sopra ogni altra stella,
se', che mi piaci più ch'ogni altra cosa,
e sola te con disidèro bramo,
e giorno e notte ed ognora ti chiamo.
142
Tu se' colei ch'alle mie pene e guai
sola potresti buon rimedio porre;
tu se' colei che nelle tue mani hai
la vita mia, e non la ti posso tôrre;
tu se' colei la qual, se tu vorrai,
me da misera morte potrai storre;
tu se' colei che mi puo' atar, se vuoi:
così volessi tu, come tu puoi!».
143
E poi diceva: «Oh me lasso dolente,
che tu se' tanto dispietata e dura,
e tanto se' selvaggia dalla gente,
che hai di chi ti mira gran paura;
e di mia vita non curi niente,
la qual in carcer tenebrosa e scura
istà per te, e tu, lasso, nol credi
ch'i' per te senta quel che tu non vedi».
144
Poi, sospirando, a Vener si volgea,
dicendo: – O santa iddea, la quale suoi
ogni gran forza vincer, che volea
difesa far contro a li dardi tuoi,
e niun da te difendersi potea,
ora mi par che vincer tu non puoi
una fanciulla tenera, la quale
la forza tua contra lei poco vale.
145
Tu hai perduto ogni forza e valore
contro di lei; e lo 'ngegno sottile,
che suol aver il tuo figliuol Amore
contro ad ogni cor villano e gentile,
perduto l'ha contro al gelato core,
il qual ogni tua forza tien a vile,
e sprezza l'arco e l'agute saette
che solea far con esse tue vendette.
146
Tu ti credesti forse lei pigliare
agevolmente come me pigliasti
e nel gelato petto tosto entrare
co' tuoi 'ngegni, come nel mio entrasti:
ma ella fe' le frecce rintuzzare,
con le qua' di passarla t'ingegnasti;
ed io, tapin, che non fe' difensione,
rimaso son in eterna prigione.
147
Né spero d'essa giammai riuscire,
né pace aver né triegua né riposo,
ma ben aspetto che maggior martìre
mi cresca ognor col pensier amoroso,
il qual al fin farà del corpo uscire
l'anima trista con pianto noioso,
e gir fra l'ombre nere a suo dispetto:
e questo fia di me l'ultimo effetto.
148
Ed io ti cheggio, Morte, poi che dèi
medicina esser di mia amara vita;
perché contro a mia voglia viverei,
se non mi dài nel cor la tua ferita,
e sempre mai di te io mi dorrei,
e se tu vien, sarai da me gradita;
dunque, vien tosto, e scio' questa catena,
con la qual son legato in tanta pena. –
149
Poi, detto questo, forte lagrimando,
si ricordò del dardo il qual lanciato
gli avea la bella ninfa, e poscia quando
con pietose parole avea parlato
ch'egli schifasse il dardo, che volando
venia ver lui per l'aria affusolato;
quelle parole gli davan fidanza
alcuna di pietà con isperanza.
150
Così piangendo e sospirando forte
lo 'nnamorato giovane in sul letto,
bramando vita e chiamando la morte,
isperando e temendo con sospetto,
lo dio del sonno uscì delle gran porte
e fece adormentare il giovinetto,
il qual per le fatiche era sì stanco,
che quasimente venìa tutto manco.
[La tener madre, credendo che 'l duolo
d'Africo fosse molto periglioso,
colse certe erbe per farlo gioioso:
e prestamente gli fe' un bagnuolo.]
151
La maestrevol madre colto avea
d'erbe gran quantità, per un bagnuolo
far a quel mal, il qual ella credea
che nel fianco sentisse il suo figliuolo,
sì come quella che non conoscea
onde veniva l'angoscioso duolo;
e mentre che tal opera dispone,
a casa ritornava Girafone.
152
Il qual del caro figlio domandava,
se in quel giorno a casa era tornato.
La donna, ch'Alimena si chiamava,
di sì rispose, e poi gli ha raccontato
il fatto tutto, e come gli gravava
sì lo parlar che so l'ha lasciato,
perché si possa a suo modo posare:
– Però ti priego che tu 'l lasci stare.
153
I' ho fatto un bagnuol molto verace
a quella doglia, il qual, poscia ch'alquanto
riposato sarà quanto a lui piace,
il bagneren' con esso tutto quanto;
questo bagnuol ogni doglia disface
e sanerallo dentro in ogni canto:
però lo lascia star quanto si vuole,
che, quando parla, il fianco più gli duole. –
154
Il paterno amor non sofferse stare
che non vedesse subito 'l figliuolo;
udendo quelle cose raccontare
alla sua donna, al cor sentì gran duolo,
e nella cameretta volle andare,
ov'Africo dormia 'n sul letticciuolo;
e veggendol dormir, lo ricopria
e tostamente quindi se n'uscia.
155
E disse alla sua donna: – O cara sposa,
nostro figliuol mi pare adormentato,
e molto ad agio in sul letto si posa,
sì ch'a destarlo mi parria peccato,
e forse gli saria cosa gravosa,
se io l'avessi del sonno isvegliato. –
– E tu di' ver, – rispondeva Alimena –
lascial posar, e non gli dar più pena. –
[Dormito ch'ebbe, Africo doloroso
su si levò, e ‘l padre domandollo
e la sua madre molto confortollo;
dicean: – Perché sì se' malinconoso? –]
156
Poscia che 'l sonno ebbe Africo tenuto
nelle sue reti gran pezza legato,
e fu nel petto suo tutto soluto,
un gran sospir gittando, fu svegliato;
e poi che vide non esser veduto,
nel suo primo dolor fu ritornato,
e non gli era però di mente uscito
il dolce sguardo che l'avea ferito.
157
Ma per non far la cosa manifesta
al padre, che sentito già l'avea,
su si levò, faccendo sopravesta,
col viso infinto, ad Amor che 'l pungea;
e poi ch'alquanto il bel viso e la testa
e gli occhi col lenzuol netto s'avea,
perch'era ancor di lagrime bagnato,
poi uscì fuori, un pochetto turbato.
158
Girafon, quando 'l vide, tostamente
gli si faceva incontro, domandando
del caso suo e poi come si sente;
ed Alimena ancora, lui mirando,
il domandava, e que' diceva: – Niente
quasi mi sento, e dicovi che, quando
i' mi destai, mi senti' andato via
la doglia che sì forte m'impedia. –
159
Nondimen fece il padre apparecchiare
il bagnuol caldo perché si bagnasse:
ed e' vi si bagnò, per dimostrare
ch'altra pena non fosse che 'l noiasse.
O Girafon, tu nol sai medicare,
e non potresti far che si saldasse
con bagnuol la ferita che fe' Amore:
e non la vedi, ch'è nel mezzo al core!
160
Ma lasciàn qui che, poi che fu bagnato,
passò quel giorno assai malinconoso;
e l'altro e 'l terzo e 'l quarto egli ha passato
con molte pene senz'alcun riposo,
e già, ogni diletto abandonato,
sanza mai rallegrarsi sta pensoso;
né mai partiva il pensier da colei,
per cui dì e notte chiamava gli omei.
161
Già padre e madre e tutt'altre faccende
gli uscian di mente sanz'averne cura,
né più a niuna cosa non attende,
lasciandole menare alla ventura;
ma ogni suo pensier in quella spende,
la qual il tien in tal prigione oscura,
e solo in lei ha posto ogni sua speme,
e di lei ha paura, e lei sol teme.
162
Esso, quando poteva in nessun loco
che veduto non fosse ritrovarsi,
quivi, sfogando l'amoroso foco,
dogliendosi d'Amor poneva a starsi;
e sol questo era suo sollazzo e gioco,
quando potea con agio lamentarsi
e ricordar i casi intervenuti,
ch'eran tra lui e la sua amante suti.
163
Continovando adunque in tal lamento
Africo, ognora crescendogli pena,
e già sì stanco l'aveva il tormento,
ch'avea perduto la forza e la lena;
vivea contra sua voglia, malcontento,
e già sì stretto l'avea la catena
d'Amor, che quasi punto non mangiava,
e più di giorno in giorno lo stremava.
164
Già fuggito era il vermiglio colore
del viso bello, e magro divenuto,
e 'n esso già si vedea 'l palidore
e gli occhi in dentro col mirar aguto;
e trasformato sì l'avea il dolore,
ch'appena si saria riconosciuto
a quel ch'esser solea prima che preso
fosse d'Amor, e dalle fiamme offeso.
165
Sì gran dolor il padre ne portava,
che raccontar non vel potre' giammai;
e con parole spesso il confortava,
dicendo: – Figliuol mio, dimmi che hai
e che è quella cosa che ti grava:
ch'i' ti prometto che, se 'l mi dirai,
pur che sia cosa che possibil sia,
per certo tu l'arai in fede mia.
166
E s'ell'è cosa che non si potesse
aver per forza o per ingegno umano,
provederem s'altro modo ci avesse
a cacciar via questo pensier villano,
acciò che tanta noia non ti desse,
e che tu torni, com'esser suoi, sano;
e' non può esser che qualche consiglio
i' non ti doni buon, caro mio figlio. –
167
Simile ancora la sua madre cara
il domandava spesso qual cagione
fosse della sua vita tanto amara,
che 'l conduceva a tanta turbagione,
dicendo: – Figlio, tanto m'è discara
questa tua angoscia, ch'a disperazione
i' credo venir tosto, poi ch'i' veggio
che ogni giorno vai di mal in peggio. –
168
Niun'altra cosa Africo rispondea,
se non che nulla di mal si sentia,
e la cagion di questo non sapea;
alcuna volta pur acconsentia
ch'un poco il capo o altro gli dolea,
perché di più domandarlo ristia;
onde più volte egli era medicato
non di quel mal che saria bisognato.
[Africo, essendo in dolorosa vita,
andando un dì coll'armento pel monte,
si specchiò arrivando ad una fonte
e la persona sua vide smarrita.]
169
Adunque, in cotal vita dimorando,
Africo, un giorno, essendo con l'armento
del suo bestiame, quind'oltre guardando,
sen giva in qua e 'n là con passo lento;
sempre della sua amante gìa pensando,
per la qual dimorava in tal tormento;
poi una fonte vide molto bella
presso di lui, più chiara ch'una stella.
170
Ell'era tutta d'alber circundata,
e verdi fronde che faceano ombria
ad essa; e poi ch'alquanto l'ha mirata,
a piè di quella a seder si ponia,
pensando alla sua vita sventurata,
e dove Amor condotto già l'avia;
poi si specchiava nell'acqua,
e pon cura quanto fatta era la sua faccia scura.
171
Per che, pietà di se stesso gli venne,
veggendosi sì forte sfigurato,
e le lagrime punto non ritenne,
ma forte a pianger ch'egli ha cominciato,
maladicendo ciò che gl'intervenne
il primo giorno che fu 'nnamorato,
dicendo: «Lasso a me, a che periglio
veggio la vita mia sanza consiglio!».
172
E con la man la gota sostenendo,
in sul ginocchio il gomito posava,
e sì diceva, tuttavia piangendo:
«Oh me dolente, la mia vita prava!
ch'ella si va come neve struggendo
al sol, tanto questa doglia la grava,
e come legno al fuoco mi divampo,
né veggio alcun riparo allo mio scampo.
173
Io non posso fuggir che io non ami
questa crudel fanciulla che m'ha preso
il cor, e ch'io non lei sempre ma' brami
sopra ogni cosa; e poi veggio ch'offeso
i' son sì forte da questi legami,
che giorno e notte i' sto in foco acceso,
sanza speranza d'uscirne giammai,
se morte non pon fine a questi guai».
174
E poi, guardando, vide nel suo armento
le belle vacche e' giovenchi scherzare;
vedea ciascuno il suo amor far contento,
e l'un con l'altro si vedea baciare;
sentia gli uccei con dolce cantamento
ed amorosi versi rallegrare,
e gir l'un dietro all'altro sollazzando,
e gli amorosi effetti gir pigliando.
175
Africo, questo veggendo, dicea:
«O felici animai, quanto voi sete
più di me amici di Venere iddea,
e quanto i vostri amor più lieti avete,
e con maggior piacer ch'i' non credea,
e quanto più di me lodar dovete
Amor de' vostri amori e bei piaceri,
ch'e' v'ha prestati sì compiuti e 'nteri!
176
Voi ne cantate e menatene gioia,
manifestando la vostra allegrezza,
ed io ne piango con tormento e noia,
e giorno e notte menando gramezza,
e veggio pur ch'al fin convien ch'i' muoia:
così mi liberrò d'ogni gravezza,
sanz'aver mai avuto alcun diletto,
di quella che m'ha 'l cor tanto costretto!».
177
E dopo un gran sospir, sì fortemente
a pianger cominciava il giovinetto,
e le lagrime sì abondevolmente
gli uscian degli occhi, che le guance e 'l petto
parevan fatte un fiumicel corrente,
tant'era dalla gran doglia costretto;
poi nella fonte bella si specchiava,
e con l'ombra di se stesso parlava.
178
Poi che si fu con lei molto doluto,
e la fonte di lagrime ripiena,
e molti pensier vari avendo avuto,
alquanto di più pianger si raffrena,
per un pensier che nel cor gli è venuto
ch'alquanto mitigò la grieve pena,
tornandogli a memoria la speranza,
che gli diè Vener sopra sua leanza.
179
Ma veggendo l'effetto non venire
di tal promessa, e sé condotto a tale
che 'n brieve tempo gli convien morire,
disse: «Forse che Vener, del mio male
non si ricorda, né del mio martìre,
né vede come morte ria m'assale».
Per che, con sacrificio ed onor farle,
propose la 'mpromessa rammentarle.
180
E 'n piè levato, se ne giva in parte,
donde vedeva il ciel meglio scoperto:
e quivi, con fucile e con su' arte,
il foco accese molto chiaro e aperto,
e poi con un coltel taglia e diparte
dimolte legne, e 'l foco n'ha coperto;
e ratto poi prese una pecorella
del suo armento, molto grassa e bella.
181
E quella presa, la condusse al foco
e quivi tra le gambe la si mise,
e come que' che ben sapeva il gioco,
nella gola ferendola l'uccise,
e 'l sangue uscendo fuori a poco a poco
sopra 'l foco lo sparse; e poi divise
la pecorella, e duo parti n'ha fatto,
e nel foco la mise molto ratto.
182
L'una parte per Mensola vi misse,
l'altra in suo nome volle che v'ardesse,
per veder se miracol n'avenisse
per lo quale speranza ne prendesse,
o buona o rea, pur che ella venisse,
acciò sapesse che sperar dovesse;
e poi si mise in terra ginocchione,
faccendo a Vener cotale orazione:
[A Venere fa Africo orazione;
raccomandasi a lei divotamente
che in suo aiuto sia liberamente,
sì come ha fatto a molte altre persone.]
183
– O santa iddea, la cui forza e valore
ogni altra passa mondana e celesta,
o Vener bella, col tuo figlio Amore,
che fere i cori e gli animi molesta,
a te ricorro con divoto core,
sì come quella c'hai in tua podesta
il cor di tutti, ché questo mio priego
degni ascoltar, e non mi facci niego.
184
Tu sai, iddea, come agevolmente
i' mi lascia' pigliar al tuo figliuolo,
il giorno che Diana parimente
vidi alla fonte con l'adorno stuolo
delle sue ninfe, e come tostamente
nel cor sentii delle tue frecce il duolo,
per una ch'io vi vidi tanto bella,
che sempre poi m'è stata nel cor quella.
185
E quanti sien poi stati i miei martirî,
ch'i' ho per lei patiti e sostenuti,
e l'angosciose pene ed i sospiri,
assai ben chiar gli puo' aver conosciuti;
e quanto la fortuna a' miei disiri
contraria è stata, posson esser suti
ver testimoni i boschi tutti quanti
di questa valle, sì gli ho pien di pianti!
186
Ancora il viso mio assai palese
fa manifesto come la mia vita
è stata e sta ancora in fiamme accese,
e che tosto morendo fia finita,
e fuor di tutte quante le tue offese,
se prima la tua forza non l'aita;
e se non pon' rimedio alla mia pena,
morte mi scioglierà di tal catena.
187
Tu prima fosti che principio desti
alla mia angoscia, e che in visione
venendo a me col tuo figliuol, dicesti
ch'io seguissi la mia oppinione;
e detto questo, poi mi promettesti,
come tu sai, che sanza tardagione,
che tosto il mio amor verria in effetto;
poi mi lasciasti ferito in sul letto.
188
Per che del tuo parlar presi speranza,
e l'animo disposi ad amar quella,
avendo in te di ciò ferma fidanza;
ed un giorno trovandola, quand'ella
mi vide, di me prese gran dottanza,
ed a fuggir si diè crudele e fella,
e sì veloce che una saetta,
quand'esce d'arco, non va tanto in fretta.
189
Né mai pote', con lusinghe o preghiera,
far ch'ella mai aspettar mi volesse,
ma com'un veltro se ne gìa leggiera,
mostrando ben che poco le calesse
della mia vita; e poi ardita e fera,
veggendo ch'a seguirla aveva messe
tutte mie forze, si volse, ed un dardo
ver me lanciò col bel braccio gagliardo.
190
Allor potestù ben vedere, o dea,
che morto da quel colpo saria stato,
se un albero non fosse, il qual avea
davanti a me, che 'l colpo ebbe arestato.
Poi passò 'l monte, e più non la vedea,
lasciando me tapino e sconsolato;
né pote' poi ritrovarla giammai,
ond'io rimaso son con molti guai.
191
Ond'io ti priego, iddea, per tutti i prieghi
che far si posson per l'umana gente,
ch'un poco gli occhi tuoi verso me pieghi,
e mira la mia vita aspra e dolente
pietosamente, e che nel cor tu leghi
di Mensola il tuo figlio strettamente,
sì ch'a lei facci come a me sentire
le fiaccole amorose col martìre.
192
E se tu questo non volessi fare,
ti priego almen che, quando la mia vita
verrà a morte, che poco più stare
potrà che le converrà far partita
di questo mondo e 'l corpo abandonare,
che la mia amante veggia mia finita,
e che la morte mia non le sia gioia
almen, poi che la vita mia l'è noia. –
[Miracol vide della pecorella
Africo, di che, preso gran conforto,
e' ringraziò Venere iddea bella.]
193
A pena avea finita l'orazione
Africo, quando, nel foco mirando,
vide che 'n esso era arso ogni tizzone,
e che la pecorella, su levando,
l'una parte con l'altra s'accozzone,
come fu mai, e poi, forte belando,
sanz'arder punto stette ritta un poco,
e poi, ardendo, ricadde nel foco.
194
Questo miracol donò gran conforto
ad Africo ch'ancora lagrimava,
parendogli vedere assai iscorto,
che Vener l'orazion sua accettava,
la qual divotamente l'avea porto;
per che sovente la dea ringraziava,
parendogli il miracol buon segnale
da dover aver fine omai 'l suo male.
195
E perché già il sol era calato
in occidente, e poco si vedea,
tutto l'armento suo ebbe adunato,
e 'nverso il suo ostello il conducea,
dove, nel volto assai più che l'usato
e nella vista allegro, vi giugnea,
e dove fu dal padre suo raccolto
e dalla madre ancor con lieto volto.
196
Ma poi che nel ciel già tutte le stelle
si vedean e la notte era venuta,
cenaron tutti, e dopo assai novelle
d'una cosa e d'un'altra intervenuta,
Africo, ch'avea poco il core a quelle,
la stanza quivi gli era rincresciuta;
per che a dormir s'andò tutto soletto,
da speranza e pensier nuovi costretto.
197
Ma prima che dormir punto potesse,
o che sonno gli entrasse nella testa,
migliaia di volte credo si volgesse
pel letticciuol, d'altra parte or da questa,
mostrando ben che tutto il core avesse
fisso a colei che tanto lo molesta;
ma pure, atato forte da speranza,
del sì e del no stava in dubitanza.
198
Pur alla fine, già press'al mattino,
il sonno vinse gli occhi dell'amante:
e leggiermente dormendo supino,
Venere iddea gli venne davante,
e 'n collo avea Amor, picciol fantino,
con l'arco e le saette minacciante;
poi gli pareva che Venere iddea
cota' parole verso lui dicea:
199
– Lo sacrificio tuo e l'orazione
che mi facesti fu da me accettata,
per modo che n'arai buon guiderdone
da me, di quel che fu' da te pregata:
ed abbi certa e ferma oppinione
che la mia forza non ti fia negata
in tuo aiuto e quella del mio figlio,
se tu seguir vorrai il mio consiglio.
200
Fatti una vesta fatta in tale stile
ch'ella sia larga e lunga insino a' piedi,
tutta ritratta ad atto feminile;
poi d'un arco e d'un dardo ti provedi,
a modo d'una ninfa tutto umìle;
poi ti metti a cercar se tu la vedi.
Tu parrai, come lor, ninfa per certo,
se tu saprai con lor andar coperto.
201
E se tu truovi Mensola, con lei
piacevolmente a parlare enterrai
di cose sante e di cose d'iddei,
e con lei ragionando ti starai.
E perché sappi ben ciò che far déi,
questo mio figlio nel cor tu arai,
e ben t'insegnerà dire ogni cosa
che fia a lei piacente e graziosa.
202
E quando 'l tempo ti vedi più bello,
e tu a lei allor ti manifesta:
ella si fuggirà, sì come uccello
seguito dal falcon per la foresta,
ma fa' che tu non fossi tanto fello
che, quando ti palesi, ella più presta
fosse a fuggir che tu presto a pigliarla:
che non ti varria poi più lo 'ngannarla.
203
Non temer di sforzarla, ché 'l mio figlio
la ferirà in tal modo e tal maniera
che non potrà uscir del tuo artiglio,
e di lei arai ogni tua voglia intera.
Or fa' che tu t'attenga al mio consiglio,
e adempierai ciò che 'l tuo disio spera. –
E poi sparì, quand'Africo sentissi,
ch'era già dì, e tosto rivestissi.
204
E come que' che molto ben avea
la vision di Venere compresa,
e molto questo modo gli piacea,
onde si fu allor la fiamma accesa
più nel suo core, sì che tutto ardea
per la speranza che già n'avea presa:
per che pensava come aver potesse
una gonnella, la qual si mettesse.
205
Ma dopo assai pensar, si ricordava
che la sua madre aveva un bel vestire,
il qual non mai o poco lo portava,
e fra sé disse: «S'i' 'l posso carpire,
ottimo fia»; poi la madre aspettava,
se fuor di casa la vedesse uscire,
per quel vestir in tal parte riporre
che d'imbolìo non l'avesse più a tòrre.
206
E fugli assai in questo la fortuna
favorevole e buona: ché, già sendo
ispenti tutti i raggi della luna
e delle stelle e già 'l giorno venendo,
si levò Girafone, e sanza alcuna
stanza quivi, fuori di casa uscendo,
dandosi a fare certi suoi lavori;
così la donna ancor s'uscì di fuori.
207
Africo non fu lento a questo tratto,
veggendo ognun di lor di fuor andato,
ma dov'era il vestire n'andò ratto,
e, sanza cercar troppo, l'ha trovato;
e ben gli venne ciò che volea fatto,
ché, sanz'esser veduto, l'ha portato
fuor dalla casa un gran pezzo lontano,
e nascoselo in luogo molto strano.
208
Poi verso casa faccendo ritorno,
gli pareva il suo avviso aver fornito,
né però metter si volle quel giorno
a Mensola trovar, ma 'n casa gito
ritrovò tosto un suo bell'arco adorno,
ed un turcasso a saette guernito,
e d'ogni cosa si fu proveduto.
Passò quel giorno, e l'altro fu venuto.
[La vesta bianca Africo si mette
e verso 'l monte ne va isperando,
e vede ninfe le qua' van cacciando
un porco: Africo il fier con sue saette.]
209
Febo era già, co' veloci cavalli,
col fin di Leo venuto in oriente,
e già faceva gli alti monti gialli,
e rosseggiava l'aria in occidente,
ma non luceva ancor per tutte valli,
quand'Africo, levato prestamente,
l'arco e 'l turcasso prese, e fuor si caccia,
alla madre dicendo: – I' vo alla caccia. –
210
E dove il dì d'innanzi aveva messo
il vestir della madre ne fu gito,
e quivi giunto, i panni di lui stesso
si trasse, e tosto quel s'ebbe vestito
e una vitalba si cinse sopr'esso,
per poter esser più presto e spedito;
e certamente che Vener l'atava
acconciar quel vestir, sì ben gli stava.
211
Po' i suoi capelli, non già pettinati,
pendean in giù con non troppa grandezza,
ma biondi sì che d'or parean filati,
e ricciutelli con somma bellezza;
ma come che, per gli affanni passati,
nel viso avesse ancor la palidezza,
pur nondimen, quel color era tale
che più gli dava feminil segnale.
212
E poi che s'ebbe acconcio in tal maniera,
il turcasso si cinse al destro lato,
e l'arco in mano, e una freccia leggiera;
e poi ch'alquanto sé ebbe mirato,
gli parve essere quel ched e' non era
e femina di maschio trasmutato.
E certo chi non l'avesse saputo,
per maschio non l'arìa mai conosciuto.
213
Poscia i suoi panni in quel loco rimise,
donde 'l vestir feminile avea tratto;
poi verso i monti fiesolan si mise
così acconcio, non già troppo ratto,
e molte fiere in questo mezzo uccise,
prima che su fosse salito affatto;
ma poi che fu in sul monte maggiore
de' tre, sentì di là un gran romore.
214
Africo, vòlto verso quelle stride,
vide più ninfe ind'oltre gir cacciando
ed accennar vêr lui con alte gride:
– Sta' ferma, al passo la fiera aspettando. –
Africo pose mente, e venir vide
un fier cinghiar fortemente rugghiando,
con frecce molte fitte nel suo dosso.
Africo sbarra l'arco suo dell'osso,
215
e d'una freccia, nel petto, al cinghiale
ferì, che li passò insino al core,
ché pelle dura o callo non gli vale,
e poco andò che gli mancò 'l furore,
e cadde in terra pel colpo mortale;
e come piacque a Vener ed Amore,
Mensola era in luogo che assai scorto
vide quel colpo, e 'l cinghiar cader morto.
216
Quivi trasse di ninfe gran brigata,
credendo ben ch'Africo ninfa fosse,
e Mensola con lor si fu adunata,
e poi alle compagne a parlar mosse,
ed a lor la novella ha raccontata,
dicendo: – I' vidi com'ella il percosse,
né sì bel colpo vidi alla mia vita
quanto fe' questa ninfa qui apparita. –
217
Quanto Africo sentisse di piacere
dentro dal cor, udendosi a colei
lodar cotanto che già dispiacere
le fu vederlo, dir non vel potrei,
ma color sol lo posson ben sapere
c'hanno d'Amor sentiti i colpi rei;
e a chi non lo sapesse fo palese
che presso fu più volte non la prese.
218
Ma credo il tenne, più ch'altro, paura
delle compagne e degli archi ch'avièno;
ma poi ch'alquanto con lor s'assicura,
cominciò a dir di quel ch'elle dicièno,
e ragionar con lor della sventura
di quel cinghiar che morto lì tenièno,
e come lo trovaro, e tutti i tratti
ch'ognuna avea adosso al cinghiar fatti.
219
Mensola disse: – Or ci fosse Diana,
che noi le faren questo bel presento. –
Africo, udendo che di lì lontana
era Diana, fu molto contento;
ma poi ch'ebbon assai di questa strana
bestia tenuto lì ragionamento,
fecion da parte un berzaglio tra loro
e cominciaro a saettar costoro.
220
Ognuna quivi l'animo assottiglia
con gli archi loro, e qual dardo lanciava.
Mensola tosto il suo dardo in man piglia,
e più presso che l'altre al segno dava;
Africo di ciò si fe' maraviglia,
e tosto l'arco suo 'n man si recava,
e allato al dardo di Mensola ha messo
la freccia, sì ch'amenduo fûr più presso.
221
E come Amor sa ben far quando vuole
far l'un dell'altro tosto innamorare,
quel giorno usò gl'ingegni ch'usar suole,
quando le cose ad effetto menare
vuole e non menarle per parole;
così quel giorno seppe sì ben fare,
che d'Africo e di Mensola lo strale
sempre mai eran più presso al segnale.
222
Per la qual cosa Mensola, veggendo
che sempre di lor due era l'onore,
ognora più le veniva piacendo
e già gli aveva posto molto amore.
Africo, sempre gli occhi a lei tenendo,
piacevolmente le dava favore
e acconsentiva ciò ch'ella dicea,
ed ella a lui il simile facea.
223
Ma poi ch'ell'ebbon molto saettato,
a rincrescer cominciò loro il gioco;
per che tutte partîrsi da quel lato,
ed ivi presso ne giron a un loco
dov'era una caverna, e lì trovato
una di quelle ninfe ch'avea il foco
acceso e messo a cuocer del cinghiale,
e con esso non so ch'altro animale.
224
Aveva il sole già la terza via
fatta del corso suo, quando costoro
s'adunâr tutte ad una bell'ombria
che facea lì un grandissimo alloro;
e sopra un masso grande si ponia
la cotta carne, sanz'altro savoro,
e pan che di castagne allor facièno,
che grano ancor le genti non avièno.
225
Per bere, usavan acqua con mèl cotta
e con cert'erbe, e quello era lor vino;
e li nappi con che beveano allotta
di legname era, il grande e 'l piccolino;
e apparecchiata tutta quella frotta
delle ninfe, mangiando di cor fino,
Africo a Mensola si sedea allato,
con l'altre avendo il masso circondato.
[Mangiato ebber le ninfe con fervore,
chi 'n qua chi 'n là a lor diporto andaro;
Africo e Mensola s'accompagnaro:
nell'acqua poi la prese con dolzore.]
226
Venuto il fin dell'allegro mangiare,
le ninfe tutte quante si levaro,
e per lo monte, con dolce cantare,
a due a tre a quattro se n'andaro,
chi qua chi là, come ad ognuna pare;
Africo e Mensola non si scevraro,
ma con tre altre ninfe si partiro:
su per lo colle inver Fiesol ne giro.
227
Com'i' v'ho detto, Mensola invaghita
tra d'Africo sì, pel saettare
che sì ben avea fatto, e per l'ardita
presenza sua, e pel dolce parlare,
che già l'amava come la sua vita,
né saziar si potea di lui guatare;
ma non pensi niun che già mai questo
amor fosse con pensier disonesto,
228
però che fermamente ella credea
che ninfa fosse ind'oltre del paese,
perché segnal mascolin non avea
nella persona, che fosse palese;
ché, se saputo quel che non sapea
avesse, non saria suta cortese,
com'ella fu, con l'altre a fargli onore,
ma dànno gli arìan fatto e disonore.
229
S'Africo innamorato di lei era
non bisogna più dir, ch'assai n'ho detto;
ma 'nsieme andando per cotal maniera,
portava ascoso il foco dentr'al petto,
e più ardeva che non fa la cera;
veggendosi mirar al suo diletto,
e parlar e toccar e farsi onore,
per peritezza gli batteva il core.
230
E fra sé dicea: «Come farò io?
i' non so ch'i' mi dica, o ch'i' mi faccia:
se io scuopro a costei il mio disio,
i' temo forte che poi i' non le piaccia,
e che 'l suo amor non mi tornasse in rio
odio, e con l'altre mi desson la caccia;
e s'io non me le scuopro questo giorno,
non so quando a tal caso mi ritorno.
231
Se queste ninfe almen si gisson via,
che son con noi, i' pur mi rimarrei
qui solo nato con Mensola mia,
e più sicuramente mi potrei
a lei scoprire, e mostrar quel ch'i' sia;
e se fuggir volesse, allor sarei
a pigliarla sì accorto, che fuggire
non si potrebbe, né da me partire.
232
Ma io mi credo che punto da noi
in questo giorno non si partiranno;
e s'io m'indugio, non so se mai poi
queste venture innanzi mi verranno;
meglio è che tu facci or quel che tu puoi,
ché molti per indugio perduto hanno».
E fu tutto che mosso per pigliarla;
poi si ritenne, e non volle toccarla.
233
«Ora m'insegna, Vener, or m'aiuta,
ora mi dona il tuo caro consiglio;
ora mi par che l'ora sia venuta,
nella qual debbo a costei dar di piglio.»
E poi, pensando, il pensier suo rimuta,
parendogli a far questo pur periglio:
e 'l sì e 'l no nel capo gli contende,
e l'amoroso foco più lo 'ncende.
234
Ell'eran già tanto giù per lo colle
gite, ch'eran vicine a quella valle
ch'e' duo monti divide, quando volle
d'Africo Amor le voglie contentalle,
né più oltre che quel giorno indugiolle,
trovando modo ad effetto menalle;
ché, mentre in tal maniera insieme gièno,
nella valle acqua risonar sentièno.
235
Né furon guari le ninfe oltre andate,
che trovaron due ninfe tutte ignude,
che 'n un pelago d'acqua erano entrate,
dove l'un monte con l'altro si chiude;
e giunte lì, s'ebbon le gonne alzate,
e tutte quante entrâr nell'acque crude,
con l'altre ragionando del bagnare:
– Che faren noi? Voglianci noi spogliare? –
236
Perch'allor era la maggior calura
che fosse in tutto 'l giorno, e dal diletto
tirate di quell'acqua alla frescura,
e veggendosi sanz'alcun sospetto,
e l'acqua tanto chiara e netta e pura,
diliberaron far com'avean detto,
e per bagnarsi ognuna si spogliava;
e Mensola con Africo parlava,
237
e sì diceva: – O compagna mia cara,
bagnera'ti tu qui con esso noi? –
Africo disse con la boce chiara:
– Compagna mia, i' farò quel che vòi,
né cosa che vogliate mi fia amara. –
E fra se stesso si diceva poi:
«S'elle si spoglian tutte, al certo ch'io
non terrò più nascoso il mio disio».
238
Ed avvisossi di prima lasciarle
tutte spogliar, e poi egli spogliarsi,
acciò che le lor armi adoperarle
contra lui non potessono, ed a trarsi
cominciò lento il vestir, per poi farle,
quando nell'acqua entrasse per bagnarsi,
per vergogna fuggir pe' boschi via:
e Mensola per forza riterria.
239
E 'nnanzi che spogliato tutto fosse,
le ninfe eran nell'acqua tutte quante;
e poi spogliato verso lor si mosse,
mostrando tutto ciò ch'avea davante.
Ciascuna delle ninfe si riscosse,
e, con boce paurosa e tremante,
cominciarono urlando: – Omè, Omè,
or non vedete voi chi costui è? –
240
Non altrimenti lo lupo affamato
percuote alla gran turba degli agnelli,
ed un ne piglia, e quel se n'ha portato,
lasciando tutti gli altri tapinelli:
ciascun belando fugge spaventato,
pur procacciando di campar le pelli;
così correndo Africo per quell'acque,
sola prese colei che più gli piacque.
241
E tutte l'altre ninfe molto in fretta
uscîr dell'acqua, a' lor vestir correndo;
né però niuna fu che lì sel metta,
ma coperte con essi via fuggendo,
ché punto l'una l'altra non aspetta,
né mai indietro si givan volgendo;
ma chi qua e chi là si dileguoe,
e ciascuna le sue armi lascioe.
242
Africo tenea stretta nelle braccia
Mensola sua nell'acqua, che piangea,
e baciandole la vergine faccia,
cota' parole verso lei dicea:
– O dolce la mia vita, non ti spiaccia
se io t'ho presa, ché Venere iddea
mi t'ha promessa, cuor del corpo mio;
deh, più non pianger, per l'amor di Dio! –
243
Mensola, le parole non intende
ch'Africo le dicea, ma quanto puote
con quella forza ch'ell'ha si difende,
e fortemente in qua e 'n là si scuote
dalle braccia di colui che l' offende,
bagnandosi di lagrime le gote;
ma nulla le valea forza o difesa,
ch'Africo la tenea pur forte presa.
244
Per la contesa che facean si desta
tal che prima dormia malinconoso,
e, con superbia rizzando la cresta,
cominciò a picchiar l'uscio furioso;
e tanto dentro vi diè della testa,
ch'egli entrò dentro, non già con riposo,
ma con battaglia grande ed urlamento
e forse che di sangue spargimento.
245
Ma poi che messer Mazzone ebbe avuto
Monteficalli, e nel castello entrato,
fu lietamente dentro ricevuto
da que' che prima l'avean contastato;
ma poi che molto si fu dibattuto,
per la terra lasciare in buono stato,
per pietà lagrimò, e del castello
uscì poi fuor, umil più ch'un agnello.
246
Poi che Mensola vide esserle tolta
la sua verginità contro a sua voglia,
forte piangendo ad Africo fu volta
e disse: – Poi c'hai fatto la tua voglia
ed hai 'ngannata me, fanciulla stolta,
usciàn dell'acqua almen, ch'i' muo' di doglia,
però ch'i' vo' del mondo far partita,
togliendomi con le mie man la vita. –
247
Africo, udendo il suo pietoso dire,
con lei insieme uscì dell'acqua fuori,
e veggendo la doglia sua e 'l martìre,
dentro dal cor ne sentia gran dolori;
e ben ch'avesse in parte il suo disire
contento, gli crescevan vie maggiori
le fiamme dentro al petto e più cocenti,
veggendo a lei cotanti turbamenti.
248
Ma poi che rivestiti amenduo furo,
Mensola il dardo suo prendeva presta,
e al petto si poneva il ferro duro,
per morte darsi sanz'altra richiesta.
Veggendo Africo il suo pensier oscuro,
prestamente là corse, e prese questa
alle gavigne, e quel dardo gittava
per lo boschetto, e poi così parlava:
249
– Omè, anima mia, o che è quello
che tu volevi far? O che sciocchezza
è questa? O qual pensier fu tanto fello,
che qui ti conducea a cotal fierezza?
O lasso, a me, che fare' io tapinello
se io perdessi la tua gran bellezza?
Che solo un'ora in vita non starei,
ma con le propie man m'ucciderei! –
250
Sì gran dolore a Mensola al cor venne
che, nelle braccia d'Africo cascata,
tramortì tutta; ond'egli la sostenne,
e poi che nel bel viso l'ha mirata,
le lagrime negli occhi più non tenne,
temendo ch'ella non fosse passata
di questa vita: per che tra le fronde
de' molti albori con lei si nasconde.
251
Quivi a seder con lei 'nsieme si pose,
in sul sinestro braccio lei tenendo,
e con la destra man le lagrimose
guance di lei asciugava, e poi piangendo
diceva con parole aspre e pietose:
– O Morte, or hai ciò ch'andavi caendo:
che, poi che tolto m'hai ogni mia gioia,
con lei insieme converrà ch'i' muoia. –
252
E poi baciando il tramortito viso,
lei chiamando, diceva: – O amor mio,
perché da te sì tosto m'ha diviso
la ria fortuna e questo giorno rio? –
E questo ed altro, mirandola fiso,
diceva, bestemmiando il suo disio
che fu troppo corrente a tal impresa,
e che sì forte avea Mensola offesa.
253
Ma poi ch'egli ebbe fatto gran lamento
sopra 'l palido viso tramortito,
e mille volte e più con gran tormento
baciato, e delle lagrime forbito,
non più avendo di viver talento,
di morte darsi avea preso partito;
e per morir già si volea levare
quando Mensola sentì sospirare.
254
Gli spiriti di Mensola, errando
eran per l'aria buona pezza andati,
e dopo molto nel corpo tornando
nelli lor luoghi si fûr rientrati,
quando Mensola, forte sospirando,
si risentì, con atti spaventati
dicendo: – Omè, omè, lassa, ch'i' moro! –
E a pianger cominciò sanza dimoro.
255
Africo, quando vide ch'era viva
Mensola sua, che prima parea morta,
tutto nel cor di letizia ravviva,
e poi con tai parole la conforta:
– O fresca rosa aulente e giuliva,
per cui la vita mia gran pena porta,
deh, non ti sgomentar, né aver paura,
che tu puo' star con meco ben sicura.
256
Tu sei 'n braccio di colui il quale
sopra ogni cosa t'ama e vuolti bene;
ed ogni tuo spiacere ed ogni male
sono, nei cor mio, angosciose pene.
Oh, lasso a me, ch'i' mi credetti aguale
che morte ti tenesse in sue catene,
e voleami levar per morte dare,
se non che ora ti senti' sospirare! –
[Duolsi Mensola con molto dolore;
Africo con pietà la confortava
e dolcemente, ch'ella ripiatava,
raccontandole prima il suo amore.]
257
–Oh me dolente, lassa, sventurata! –
diceva Mensola Africo mirando.
– Tapina a me, perché fu' i' mai nata,
o mai vivuta? dicea lagrimando.
– Or foss'io stata il giorno strangolata
ch'io prima fu' veduta, o almen, quando
le veste di Diana mi fûr Messe,
ch'un feroce cinghiar morta m'avesse! –
258
Deh, non ti sgomentare, anima mia,
Africo disse – ché 'l cor mi si sface,
veggendo a te tanta malinconia,
sanza prender consolazione o pace,
e menar la tua vita tanto ria;
e certo che bisogno non ti face,
però che se' con colui che più t'ama
che non fa sé, e che sola te brama.
259
Acciò che tu mi creda che sia vero
ch'io t'ami tanto quanto ora t'ho detto,
io ti vo' raccontare il fatto intero:
ch'egli è ben quattro mesi che soletto
giva cacciando sanza alcun pensiero
per questa costa, quando in un boschetto
sentii mormorar boci, onde più presso,
per veder chi parlava, mi fu' messo.
260
I' vidi intorno a una bella fontana
molte ninfe sedere, e vidi poi,
sopra tutte, seder la dea Diana,
che sermonando amoniva voi
con rigido parlar e molto strana;
poi a' miei occhi corson gli occhi tuoi
e la tua gran bellezza, ché nel core
sentii ferirmi dello stral d'Amore. –
261
Poi le diceva com'ivi nascoso
gran pezza stette sol per lei mirare,
e come venne sì desideroso
di lei, che non potea gli occhi saziare
di mirar questo bel viso vezzoso
(e sì dicendo lo volle baciare)
e come poi, quando ognuna partie,
– Mensola, andianne – chiamarla sentie.
262
Raccontò poi le lagrime e' sospiri
che per lei avea sparte in abondanza,
e l'angosciose pene co' martirî;
e come Vener, sopra sua leanza,
gli avea promesso lei ne' suoi dormiri,
e datogli di ciò grande speranza;
e quante volte l'era ita cercando,
ed ogni cosa le venìa narrando.
263
E poi com'egli un giorno la trovoe
tutta soletta, e com'ella fuggiva,
e quanto umilemente la pregoe.
e com'ella, crudele, non l'udiva;
e poi del dardo ch'ella gli lancioe,
e della quercia dove quel feriva,
e come disse: Guarti! e poi smarrilla,
né più la vide poi, né più sentilla;
264
ancor del sacrificio ch'avea fatto
alla dea Venere, e della risposta
ch'ella gli fe', e come tosto e ratto
si contrafe', e poi per quella costa,
a modo d'una ninfa contrafatto,
a cercar lei si mise sanza sosta,
e com'ora in sul monte la trovoe:
Da poi sai tu com'io che seguitoe.
265
Ora t'ho raccontato il gran tormento
ch'i' ho, per te, portato e sostenuto;
però se io ho usato isforzamento,
l'ho fatto sol perché forza m'è suto,
non perch'i' sia di noiarti contento;
ma sol Amor, che m'ha per te tenuto
in queste pene, n'ha colpa e cagione.
Duolti di lui, che n'arai più ragione!
266
Mensola, avendo Africo bene inteso
ciò ch'avea detto del suo innamorare,
e come fu da prima per lei preso,
e poi le cose ch'Amor gli fe' fare,
alquanto nel suo cor si fu acceso
il foco, e cominciava a sospirare:
e pure Amore l'avea già ferita,
come che le paresse esser tradita.
267
Poi disse: – Omè, e' mi ricorda bene
ch'i' fu', l'altrier, gran pezza seguitata
da un, non so se tu quel desso sene
che ora m'hai così vituperata;
e ben so io che, per donarti pene,
inverso lui mi rivolsi crucciata,
e 'l dardo mio a lui forte lanciava,
veggendo pur ched e' mi seguitava.
268
E ricordami ancor che, se non fosse
che quando vidi 'l dardo vêr lui gire,
non so perché, pietà allor mi mosse,
ch'io gridai: – Guarti guarti! – e po' a fuggire
mi die', e vidi che 'l dardo percosse
in una quercia e félla tutta aprire;
poi mi nascosi ivi presso in un bosco:
se tu se' desso, i' non ti riconosco.
269
Non mi ricorda mai più ne' dì miei,
da poi ch'i' fu' a Diana consacrata,
ch'io vedessi uomo; e volesson gl'iddei
che anche tu non m'avessi trovata,
né mai veduta: ch'ancora sarei
da Diana con l'altre annoverata,
dov'or sarò da lei, omè, sbandita,
e sanza fallo mi torrà la vita.
270
E tu, o giovinetto, il qual cagione
sarai della mia morte e del mio danno,
come tu sai, sanz'averne ragione,
ti rimarrai sanz'alcuno affanno;
ma sian di me a Diana testimone
alberi e fiere, che veduta m'hanno,
com'io mi sono a mia possa difesa,
e come tu per forza m'hai pur presa,
271
ed io, fanciulla pura ed innocente,
son da te stata ingannata e tradita.
Ma di questo peccato veramente
m'assolverò, togliendomi la vita
con le mie mani; e poi che del presente
mondo sarò, tapina, dipartita,
ti rimarrai contento, né giammai,
lassa, di me non ti ricorderai. –
[Piacevolmente Africo abracciava
Mensola e priegala si dia conforto;
è, s'ella s'uccidesse, lui ancor morto;
e i suo' begli occhi con dolzor baciava.]
272
Africo allora l'abracciava stretta,
e lagrimando disse: – Oh me tapino,
non creder che giammai così soletta
i' ti lasciassi, dolce amor mio fino!
ma vo' che, per mio amor, tu mi prometta
di levar via questo pensier meschino,
o in pria che tu, la vita mi torroe,
sì che dietro da te non rimarroe.
273
I' non potre' giammai stare diviso
da te, dolce mio bene. E poi baciando
la dolce bocca e l'angelico viso,
e con la mano i begli occhi asciugando,
dicendo: Veramente in paradiso
tu fosti fatta; e' capei rispianando,
giva dicendo: Mai sì be' capelli
non fûr veduti, tanto biondi e belli.
274
Benedetto sia l'anno e 'l mese e 'l giorno,
e l'ora e 'l tempo, ed ancor la stagione,
che fu creato questo viso adorno,
e l'altre membra con tanta ragione!
ché chi cercasse il mondo a torno a torno,
e nel cielo ancor tra la legione
delle dee sante, non poria trovarsi
una ch'a te potesse ma' agguagliarsi.
275
Tu se' viva fontana di bellezza,
e d'ogni bel costume chiara luce;
tu sei adatta e piena di franchezza;
tu se' colei, 'n cui sola si riduce
ogni vertù ed ogni gentilezza,
e quella che la mia vita conduce;
tu se' vezzosa e se' morbida e bianca:
niuna cosa bella non ti manca!
276
Dunque, deh, non voler, Mensola mia,
guastar una sì bella e tanta cosa
chente tu se', con tua malinconia,
né con niun'altra cosa niquitosa:
ma da te caccia ogni rio pensier via
e non istar con meco più crucciosa,
chi esser non può non fatto quel ch'è fatto,
perch'io con teco ancor fossi disfatto.
277
Però ti priego che tu ora facci
sì come savia, e di questi partiti
il miglior prendi e 'l piggior da te cacci;
e gli spiriti tuoi ispauriti
conforta un poco, e fa' che tu m'abracci,
e bacia me con baci savoriti,
anima mia, sì com'io bacio tene;
prendi diletto, se tu vuoi, di mene! –
[Africo, seppe tanto lusingare
Mensola sua con vere ragioni,
ch'egli la svolse di sue oppinioni,
ché ella cominciò lui ad amare.]
278
Amor legava tuttavia il core,
con le parole ch'Africo dicea,
di Mensola, sì che 'n parte il dolore
s'era partito già, perché vedea
ch'altro esser non potea, e poi l'amore,
ch'ad Africo portò quando credea
che ninfa fosse, or più forte s'accende
quando le sue dolci parole intende.
279
E, per volerlo in parte contentare,
gli gittò in collo il suo sinistro braccio,
ma non lo volle ancor però baciare,
forse parendole ancor troppo avaccio
di doversi con lui sì assicurare;
e disse: – Oh me tapina, ch'i' non saccio
com'io possa campar, se tal peccato
sarà a Diana giammai appalesato.
280
Né ardirò giammai con ninfa alcuna,
com'io solea, nell'acqua più bagnarmi,
né anco, poi che vuol la mia fortuna,
dove ne sia niuna ritrovarmi:
ché, s'elle ciò sapesson, ciascheduna
tosto a Diana andrebbon accusarmi,
onde pur sola mi converrà stare,
fuggendo quel che già solea cercare.
281
E ben conosco che, s'io m'uccidessi,
che 'l mio peccato minor non sarebbe;
e quel che tu hai fatto non avessi,
son molto certa ch'esser non potrebbe;
e se 'l contradio di questo credessi,
a quest'otta, doman non giugnerebbe
la vita mia, ché di cotal fallenza
m'are' ben data degna penitenza.
282
Ma poi ch'e' tuoi conforti son sì buoni
che rivolto hanno tutto 'l mio pensiero,
e sì legata m'hanno i tuoi sermoni
che 'l mio voler tanto crudel e fiero
ho via levato; ma quel che ragioni
di rimanerti meco, a dirti 'l vero,
non consentire' mai, perché sarebbe
mal sopra mal, e saper si potrebbe.
283
Perché riconosciuto tu saresti
da tutte quelle ninfe che veduto
questo dì t'hanno, e forse che potresti
esser morto da lor, se conosciuto
fossi da loro; e creder lor faresti
quel che non è ancor per lor saputo,
ch'i' dirò sempre, a chi di lor mi truova,
ch'i' abbia teco vinto la mia pruova;
284
come che lor compagnia sempre mai,
a giusto 'l mio potere, i' fuggirò;
e priego te, o giovane, poi c'hai
toltomi quel che giammai non riarò,
che tu ne vadi, e me con questi guai
lascia star sola, che 'l me' ch'i' potrò
mi passerò, dandomi di ciò pace;
deh, fallo, i' te ne priego, se ti piace! –
285
Africo aveva molto ben compreso,
per le parole sue, che già il foco
Amor l'aveva dentr'al petto acceso,
ma pur ancor si vergognava un poco;
e poi ch'egli ebbe tutto bene inteso,
disse fra sé: «Prima che d'esto loco
mi parta, tu farai meco ragione:
e farotti cantar d'altra canzone».
286
Poi baciandola disse: – O savorita
dolce mia bocca, cor del corpo mio;
o faccia bella, fresca e colorita,
nella qual i' ho messo il mio disio,
tu donna sola se' della mia vita,
ed amo te più ch' i' non faccio Iddio;
io son risuscitato, poi ch'i' veggio
che pigli 'l meglio e lasci andar il peggio.
287
Ma come potre' io mai sofferire
di partirmi da te, che t'amo tanto
che sanza te mi par ognor morire?
Essendo teco, non so giammai quanto
più ben mi possa aver, né più disire;
ma sallo ben Amor, in quanto pianto
istà la vita mia, la notte e 'l giorno,
mentre non veggio questo viso adorno.
288
E pognàn pur che partirmi potessi
come tu di': mai non sarei contento
che sì malinconosa rimanessi
e gissi, a mia cagion, faccendo stento;
e non so se mai più ti rivedessi:
onde la vita mia maggior tormento
non sentì mai quanto allor sentirei,
e più che vita, morte bramerei.
289
Ma poi che tu non vuogli che con teco
rimanga qui, venirtene potrai
qui presso a casa mia, con esso meco,
e con la madre mia lì ti starai:
la qual, mentre che tu sarai con seco,
sempre come figliuola tu sarai
da lei trattata, e da mio padre ancora,
e potrai esser d'amenduo lor nuora. –
[Africo priega Mensola con lui
a la sua casa ne dovesse andare;
ella per nulla cosa il volse fare,
ma ben promise di tornare a lui.]
290
–Cotesto ancora per nulla vo' fare, –
Mensola disse – ch'io teco ne venga
a casa tua, per voler palesare
il mio peccato, ed ancor mi convenga
in questo sì gran mal perseverare;
prima la vita mia morte sostenga,
ch'i' vada mai là dove sia persona,
poi ch'o perduta sì bella corona.
291
I' non mi misi a seguitar Diana
per al mondo tornar per niuna cosa;
che, s'i' avessi voluto filar lana
con la mia madre, e divenire sposa,
di qui sarei ben tre miglia lontana
col padre mio, che sopra ogni altra cosa
m'amava e volea bene; ed è cinqu'anni
che mi fûr messi di Diana i panni.
292
Però ti priego, se 'l mio pregar vale,
per quell'amor che tu ora m'hai detto
che fu cagion di far far questo male,
che te ne vadi a casa tua soletto;
ed io ti giuro per colei la quale
tu di' che ti ferì per me nel petto,
ch'io bramerò la vita per tuo amore
ed amerotti sempre di buon core. –
293
Se io credessi Africo disse allora
che tu facessi quel che mi prometti,
e che nel cor m'avessi ciascun'ora,
alquanto andrebbon via li miei sospetti;
ma quel che più m'offende e più m'accora,
si è ch'i' temo, se 'n questi boschetti
ti lascio sola, di mai ritrovarti,
e però temo sanza me lasciarti. –
294
Mensola disse: Io verrò molto spesso
in questo loco, sì che tu potrai
meco parlar e vedermi da presso,
onestamente, quanto tu vorrai;
e certamente quel ch'i' t'ho promesso
i' t'atterrò, se mai ci tornerai,
però che tu m'hai già mezza legata
e parmi esser venuta innamorata. –
295
Africo, quando tai parole intende,
infra se stesso si rallegra molto,
veggendo che Amor forte l'accende
e che 'l pensier suo rio avea rivolto;
più stretta con le braccia allor la prende
e poi, baciando l'angelico volto,
le disse: – Intendi un poco mia parola,
poi che disposta se' di star pur sola.
296
I' vo', se t'è 'n piacer, rosa novella,
da te una grazia prima ch'io mi parti:
tu sai quanto la tua persona bella
i' ho bramata, e quanti ingegni ed arti
usato ho per averti, o chiara stella;
or, per piacerti, mi convien lasciarti;
però ti priego sia di tuo volere,
ch'io teco prenda un poco di piacere.
297
E più contento poi mi partirò,
poi che pur vuoi ch'io mi parta da te;
or dammi la parola, ch'io farò
cosa, che fia diletto a te e a me,
e poi, doman, qui a te tornerò
a rivederti, però che tu se'
colei in cui ho messo i miei diletti.
Deh, di' ch'io prenda gli'amorosi effetti! –
298
Oh me dolente, che vuo' tu più fare,
Mensola disse o che altro diletto
puo' tu di me sventurata pigliare,
che tu preso hai? E però, giovinetto,
ti priego che omai ne debbi andare,
ed io mi rimarrò com'io t'ho detto;
tu vedi che del giorno omai ci ha poco,
e potremmo esser trovati in sto loco. –
299
– Tu sai ben che 'l diletto ch'i' ho avuto
di te, insino a qui chent'egli è stato,
e quel che tra noi due è addivenuto,
e con quanti dolor s'è mescolato,
che 'n verità poco piacer m'è suto;
ma or ch'ognun di noi è consolato,
sarà il nostro diletto assai maggiore
e più compiuto e con maggior dolzore. –
300
Deh, non volere, o giovane piacente,
che sopra 'l mal c'ho fatto i' faccia peggio:
ché, s'i' fossi di ciò consenziente,
gran pena ancor n'arei, e chiaro il veggio,
se mai Diana ne saprà niente;
però di grazia questo don ti cheggio:
che ti piaccia partir, come ch'a me
non sia, forse, minor doglia ch'a te. –
301
– Anima mia, quel mal arai di questo,
ch'aver tu dèi di quello ch'abbiàn fatto, –
Africo disse – benché manifesto
non fia a Diana mai questo misfatto,
né a persona, sì ch'alcun molesto
per questo non arai, che tanto piatto
è suto e sì nascoso, che veduti,
se non da Dio, non possiam esser suti.
302
E certissima sia che, s'io ne voe
sanza da te aver niun'altra cosa,
per gran dolor, tosto me ne morroe;
deh, sia un poco verso me pietosa! –
Ed una volta e due la ribacioe
dicendo: – Or bacia me, o fresca rosa,
assicurati meco e prendi gioia,
e non voler che per amarti io muoia! –
303
Molte lusinghe e molte pregherie,
più ch'i' non dico, ben per ognun cento,
Africo fece a Mensola quel die,
baciandole la bocca e 'l viso e 'l mento
sì forte che più volte ella stridie,
come che ciò le fosse in piacimento;
ancor la gola le baciava e 'l seno,
il qual pareva di viole pieno.
[Le dolci parole e lusinghe avièno
il cor di Mensola infin convertito
al disio d'Africo e <a> l'appetito:
con gran piacer insiem si congiugnièno.]
304
Qual torre fu già mai sì ben fondata
in sulla terra, che, sendo ella suta
da tanti colpi percossa e scalzata,
che non si rosse piegata o caduta?
O qual fu quella mai sì dispietata,
col cor d'acciaio, che non fosse arrenduta
per le lusinghe d'Africo e 'l baciare,
ch'arebbon fatto le montagne andare?
305
Mensola, che d'acciaio non avea 'l core,
s'era gran pezza scossa e ancor difesa,
ma non potendo alle forze d'Amore
risister, fu da lui legata e presa;
ed avendo ella il suo dolce sapore
prima assaggiato con alquanta offesa,
pensò portar quel poco del martìre
mescolato con sì dolce disire.
306
E tant'era la sua semplicitade,
che non pensò che altro ne potesse
addivenir, come quella che rade
fiate o forse mai niuna avesse
giammai udito per qual degnitade
l'uom si creasse, e poi come nascesse;
né sapea che quel tal congiugnimento
fosse 'l seme dell'uomo e 'l nascimento.
307
Ella 'l baciò, e disse: Amico mio,
i' non so qual destino o qual fortuna
vuol pur ch'io faccia tutto 'l tuo disio,
né vuol ch'io faccia più difesa alcuna
contro di te, e però m'arrendo io,
come colei che non ha più niuna
forza a poter contastar ad Amore,
che m'ha, per te, ferito a mezzo 'l core.
308
Però, farai omai ciò che ti piace;
ché tu puo' far di me ciò che tu vuoi,
poi c'ho perduta ogni forza ed aldace
contro ad Amor, e contro a' prieghi tuoi;
ma ben ti priego, se non ti dispiace,
che poi ne vadi il più tosto che puoi,
che mi par esser tuttavia trovata
dalle compagne mie e da lor cacciata. –
309
Sentì Africo allora gran letizia,
veggendo che a ciò era contenta,
e donandole baci a gran dovizia,
a quel che bisognava s'argomenta;
più da natura che da lor malizia
atati, s'alzâr su le vestimenta,
faccendo che lor due parevan uno,
tanto natura insegnò a ciascheduno.
310
Quivi l'un l'altro baciava e mordeva,
e strignean forte, e chi le labbra prende:
– Anima mia! – ciaschedun diceva.
– All'acqua all'acqua, ché il foco s'accende! –
Il mulin macina quanto poteva,
e ciaschedun si dilunga e distende:
– Attienti bene! Omè, omè, omè,
aiuta aiuta, ch'i' moio 'n buona fé! –
311
L'acqua ne venne, e 'l foco fu ispento,
il mulin tace, e ciascun sospirava;
e come fu di Dio in piacimento,
d'Africo Mensola s'ingravidava
d'un fantin maschio, di gran valimento
e di virtù, sì ch'ogni altro avanzava
al tempo suo, sì come questa storia
più 'nnanzi al fin ne fa chiara memoria.
312
Il giorno tutto quasi se n'era ito,
e molto poco si vedea del sole,
quando ciascuno i suoi fatti ha fornito,
e preso quel piacer che ciascun vuole.
Africo, poi ch'avea preso partito
di doversene andar, forte si duole,
e, Mensola tenendo infra le braccia,
dicea, baciando l'amorosa faccia:
313
– Maladetta sia tu, o notte scura,
tanto invidiosa de' nostri diletti;
perché mi fai da sì nobil figura
partir sì tosto, come ch'io aspetti
ancor riaver questa cotal ventura? –
E con cotali e con molt'altri detti,
quanto poteva il più, si dolea forte,
parendogli il partir più dur che morte.
314
Mensola bella, tutta vergognosa
stava, parendole aver fatto fallo,
come che non le fosse sì gravosa,
come la prima volta, il contentallo,
e che paruta le fosse la cosa
molto più dolce, sanza risalgallo.
Pur, di non esser trovata col frodo
avea paura, e parlò in questo modo:
315
Or non so io che tu possa più fare,
né che di non partirti abbia cagione;
però, per lo mio amor ti vo' pregare
che, poi che 'nteramente tua intenzione
da me avuta hai, te ne deggi andare,
sanza far meco più dimoragione:
ché sicura non mi terrò giammai,
se non quando tu gito ne sarai.
316
E com'i' veggio menar una foglia,
le mie compagne mi credo che sièno;
però 'l partir da me non ti sia doglia,
ché sopra me le colpe tornerièno.
Come che sia 'l partir anche a me doglia,
io il consento perché 'l mal sia meno,
e perché si fa sera, e noi abbiàno
andar ciascun di qui assai lontano.
317
Ma dimmi prima, giovane, il tuo nome,
ch'accompagnata mi parrà con esso
esser, e più leggier mi fian le some
d'Amor, che non sarian sendo sanz'esso. –
Africo disse: – Anima mia, o come
potrò io viver, non sendoti presso? –
E 'l nome suo le disse e fece chiaro,
e mille volle insieme si baciaro.
318
I' non potrei giammai raccontar quante
fiate fûr per partirsi i duo amanti,
né i baci e le parole, che fûr tante
che non si potrian dire in mille canti;
ma puollo ben saper ciascun amante,
se di questi piaceri ebbe mai tanti,
e che gran doglia sia e che martìre
il dipartir da sì dolce disire.
319
E' si baciaron non solo una volta,
ma più di mille, e poi che dipartiti
s'erano un poco, indietro davan volta,
dandosi baci a' visi coloriti.
– Anima mia, perché mi se' tu tolta? –
diceva l'uno all'altro; ed infiniti
sospir gittando, partir non si sanno,
ma or si parton, or tornan, or vanno.
320
Ma poi che vidon che più dilungare
non si potea 'l partire, alle gavigne
si preson amenduo, ed abracciare
si cominciaro, e sì l'un l'altro strigne
che' n mena furon di non ne scoppiare,
sì forte Amor di pari gli costrigne;
e così stetton gran pezza abracciati
insieme, i due amanti innamorati.
[Partîrsi i due amanti sospirando
ed insieme composon di tornare
il dì a venire, e ivi sollazzare,
pria l'un l'altro mille volte baciando.]
321
Pur alla fine l'un l'altro ha lasciato,
e per partirsi le man si pigliaro,
e poi ch'alquanto fiso s'han mirato,
il modo a ritrovarsi lì ordinaro;
così preson l'un dall'altro commiato,
sendo ad ognun di lor molto discaro:
– Vatti con Dio, Mensola mia, addio! –
– Va', che Dio mi ti guardi, Africo mio! –
322
Africo se ne giva verso 'l piano;
Mensola al monte su pel colle tira,
molto pensosa, col suo dardo in mano,
e del malfatto forte ne sospira.
Africo, ch'era ancor poco lontano
da lei, con gli occhi la segue e rimira,
e ad ogni passo indietro si voltava
a rimirar colei che tanto amava.
323
Mensola ancora spesso si volgea
a rimirar colui ch'a forza amava,
e che ferita sì forte l'avea
che poco altro che lui disiderava;
e l'un all'altro di lontan facea
ispesso cenni ed atti, e salutava
infin che non fu lor dal bosco folto
e dalle coste e ripe il mirar tolto.
324
Tornossi Africo là dove nascoso
aveva il suo vestir quella mattina,
e quivi giunto, sanz'altro riposo,
si vestì la gonnella mascolina,
poi verso casa tornando gioioso;
e giunto lì, la vesta feminina
ripose nel suo luogo, che la madre
non se n'accorse, né ancora il padre.
325
E come che assai malinconia
avesse avuto, il giorno, Girafone
ed Alimena, mirando la via
se ritornar vedevano il garzone,
pur, quando ritornato lo vedia,
amenduo n'ebbon gran consolazione,
e domandârlo perché tanto stato
era, ch'a casa non era tornato.
326
Molte bugie e scuse Africo fece
per ricoprir l'amoroso disire,
il qual, più che non fa 'l foco la pece,
l'ardeva più che mai, a non mentire;
e pareali aver fatto men ch'un cece,
e 'nfra se stesso incominciava a dire:
«Sarà giammai doman, che io ritorni
a baciar quella bocca e gli occhi adorni?»
327
Così ogni cosa venìa raccontando,
con seco stesso, di ciò ch'avea fatto,
molto diletto di questo pigliando,
rammentandosi ben di ciascun atto
ch'avean insieme fatto; ma poi, quando
il tempo fu, per dormir n'andò ratto,
come che punto dormir non potette,
ma tutta notte in tai pensieri stette.
[Mensola si dolea fra sé, dicendo
«Oh me tapina, lassa e sventurata!»,
maladicendo il dì ch'ella fu nata,
il suo peccato molto riprendendo.]
328
Torniamo un poco a Mensola, la quale
sen gìa, pensosa e sola, su pel monte;
e parendole aver fatto pur male,
forte pentiasi, e con la man la fronte
si percotea, dicendo: «Poi che tale
fortuna m'ha percossa con tant'onte,
deh, Morte, vieni a me: i' te ne priego,
che non mi facci d'uccidermi niego».
329
Così passò del gran monte la cima,
e poi scendendo giù per quella costa,
là dove 'l sol percuote quando prima
si leva, e ch'a oriente è contraposta;
e secondo che 'l mio avviso stima,
era la sua caverna, in quella, posta,
forse un trar d'arco sopra 'l fiumicelo,
ch'a piè vi corre con grosso ruscello.
330
E giunta alla caverna sua, in quella
entrò occupata di molti pensieri,
e quivi ogni sua doglia rinnovella,
dicendo: «Lassa a me, perché l'altr'ieri,
quand'Africo mi vide tanto bella
con Diana alla fonte, da primieri,
non fu' io morta, o 'l giorno maladetto
ch'i' mi scontrai in questo giovinetto?
331
Non so giammai, tapina, con qual faccia
vada innanzi a Diana, nè che modo
i' mi debba tener, né ch'io mi faccia;
ché di paura mi consumo e rodo,
ed ogni senso dentro mi s'agghiaccia,
e nella gola mi s'è fatto un nodo,
per la malinconia e pel dolore
ch'i' sento, che m'offende dentro al core.
332
Deh, Morte, vieni a questa sventurata,
vieni a questa mondana peccatrice,
vieni a colei che 'n malora fu nata;
non t'indugiar, ché mi fia più felice,
morir agual, poi che contaminata
i' ho verginità: che 'l cor mi dice
che, se da te non verrai molto tosto,
di farmi incontro a te ho 'l cor disposto.
333
Omè, compagne mie, voi non pensate
ch'i' sia uscita fuor di vostra schiera;
omè, compagne mie, che solavate
tenermi tanto cara, quand'io era
sanza peccato e con verginitate,
ora mi caccerete come fiera,
e come quella che ha al tutto corrotta
verginità, e vostra legge rotta.
334
I' posso esser annoverata omai,
o Caliston, con teco, che com'io
già fosti ninfa, e poi con molti guai
Diana ti cacciò per ogni rio,
perché Giove t'ingannò, come sai,
ed in orsa, crudel, ti convertio;
e givi errando, e le cacce temevi,
mugghiando quando favellar volevi.
335
O Cialla ninfa, di Diana compagna,
la qual fosti sforzata da Mugnone,
Diana, che di te ancor si lagna,
t'uccise nelle braccia col garzone;
ed or se' fatta fonte, e Mugnon bagna,
a piè di te, le rive del vallone;
i' son di vostra schiera, a mio dispetto:
così sia questo giorno maladetto!
336
E' mi par già che Diana trasmuti
le membra mie in un corrente fiume,
overo in fiera co' dossi velluti,
o com'uccel mi par già aver le piume,
o alber fatta co' rami fronzuti,
e di persona perduto 'l costume;
né son più degna del dardo portare,
né anco come ninfa più cacciare.
337
O padre, o madre, o fratelli e sorelle,
quando a Diana voi mi consecrasti,
e vestistimi le sacre gonnelle,
ben mi ricorda che mi comandasti
che Diana ubidissi, e tutte quelle
che seguon lei, e poi m'accompagnasti
in questi monti, non perch'io peccassi,
ma sempre mai verginità osservassi.
338
Voi non pensate ch'i' abbia rotta fede
alla sacra Diana, né ch'i' sia
in tanta angoscia, e niun di voi vede
in quanta pena sta la vita mia:
che, se 'l sapesse, pietà né merzede
non aresti di me, ma come ria
e peccatrice me uccideresti,
e certamente molto ben faresti».
339
Sì grande era la doglia e 'l gran lamento
che Mensola menava, e l'angoscioso
e duro pianto con grieve tormento,
ch'i' nol potre' mai pôr sì doloroso
in iscrittura che, per ognun cento,
maggior non fosse: il suo parlar pietoso
arebbe fatto le pietre e gli albòri
sol per pietà di lei menar dolori.
340
E con cota' lamenti e pianto amaro
logorò quella notte; ma apparito
che poi fu 'l giorno bellissimo e chiaro,
perché la notte non avea dormito,
sì gli occhi lagrimosi la gravaro,
ch'ogni spirito fu da lei partito,
e adormentossi, mentre che piangea
per la gran doglia che patito avea.
[Africo torna la mattina al loco
credendo trovar Mensola alla fonte,
e non trovolla; con parole pronte,
sperando e non venendo, entrò nel foco.]
341
Africo, che nell'amoroso foco
ardeva più che mai, si fu levato,
come vide 'l mattin, che molto poco
la notte avea dormito, e fu 'nviato
sus'alto al monte, e giunto fu nel loco
dove con Mensola, il giorno passato,
avea preso piacer, diletto e gioia,
come ch'al fine gli tornasse in noia.
342
Quivi credette Mensola trovare,
ma non trovando lei, infra sé disse:
«Egli è ancor assai tosto» ed a 'spettare
la cominciò, perché, quando venisse,
quivi 'l trovasse; e perché 'l soprastare
non gli paresse lungo, sì si misse,
per far ghirlande, ind'oltre a coglier fiori
piccioli e grandi e di vari colori.
343
E fatta che n'ebbe una, in su' capelli
biondi di lui si mise, e la seconda
cominciò a far, d'alquanti fior più belli,
mescolando con essi alcuna fronda
d'odoriferi e gentili albuscelli,
dicendo: «Questa in sulla treccia bionda,
con le mie man, di Mensola porroe
quando verrà, e poi la baceroe».
344
Così aspettando invano il giovinetto
Mensola sua, la qual ancor dormia,
cogliendo ind'oltre fiori a suo diletto
perch'aspettarla grave non gli sia,
e riguardando spesso pel boschetto
e 'n qua e 'n là, se Mensola venìa ;
ed ogni busso che ode, o che vede
foglia menar, che Mensola sia crede.
345
Ma, sendo l'ora già più che di terza,
e non veggendo Mensola venire,
aspettò tanto, che del sol la ferza
era sì calda che già sofferire
non si potea; onde più non ischerza
con fiori o con ghirlande, ma a sentire
cominciò pena e farsi maraviglia,
alzando spesso or qua or là le ciglia.
346
E cominciò: «Omè,» seco dicendo
«che vorrà questo dir, ch'ella non viene?»
E 'nfra sé pensier nuovi va volgendo,
scuse trovando spesso alle sue pene,
e di lei mille casi al core avendo,
sì come ad altri assai spesso interviene,
che, disiando che la cosa venga,
imagina ch'assai cose intervenga.
347
Passò la nona e 'l vespro, e già la sera
era venuta, e 'l giorno era fuggito,
che Mensola venuta mai non v'era:
ond'Africo rimase sbigottito,
forte doglioso, e con turbata cera
di partirsi di lì prese partito,
dicendo: «Forse ch'ella arà trovato,
tra via, le sue compagne in qualche lato,
348
le quai l'aranno forse ritenuta,
e però l'aspettar mio saria 'nvano;
e veggio già la notte esser venuta,
ed i' ho andar di qui molto lontano:
e bench'i' abbia oggi la beffe avuta,
per aspettarla in questo luogo strano,
i' ci ritornerò pur domattina».
E per girsene scese la collina.
[Mensola abandona Africo a gran torto,
fuggendo per li boschi a nol trovare;
Africo, il qual de' lei sempre cercare,
non la trovando, col dardo s'è morto.]
349
Mensola s'era in su la nona desta
tutta dogliosa e forte addolorata,
sendole molte cose per la testa
gite, ch'ella se n'era spaventata;
ma non tanto la 'mpedí la tempesta,
ch'ella avesse, però, dimenticata
ciò che 'l giorno davanti avea promesso
ad Africo, di ritornar ad esso.
350
Ma tanto s'era di quel ch'avea fatto
pentuta, che disposto ha non tornare
dove avea fatto con Africo patto
di doversi con lui il dì trovare;
ma, quant'ella potesse, in ciascun atto
volere il fallo suo grande occultare,
acciò che, quando Diana venisse,
il fallo ch'avea fatto non sentisse.
351
Non però le potè giammai del core
Africo uscir, che continovamente
non gli portasse grandissimo amore,
e che nol disiasse occultamente;
ma tanto la costringeva il timore
ch'aveva di Diana nella mente,
ch'ella non andò mai dove credesse
ch'Africo fosse, o trovarlo potesse.
352
Così passò 'l secondo e 'l terzo giorno,
e 'l quarto e 'l quinto e il sesto, e ancora il mese,
ch'Africo mai non vide il viso adorno
della sua amante, ma con molte offese
vivea, faccendo sovente ritorno
nel luogo là dove Mensola prese
e qua e là per lo monte cercando,
molte cose di lei imaginando.
353
Ma nulla venia a dir la sua fatica:
ché la Fortuna, già fatta invidiosa
di lui, e d'ogni suo piacer nimica,
volle pôr fine misera e angosciosa
alla sua vita dolente e mendica,
come colei che non truova mai posa,
ma sempre va le cose rivolgendo
del mondo, nulla mai fermo tenendo.
354
Per che, già sendo un mese e più passato
che non poté mai Mensola vedere,
e sendogli pel gran dolor mancato
sì la natura e la forza e 'l podere,
ch'un animal parea già diventato
nel viso e nel parlar e nel tacere,
e 'l capo biondo smorto era venuto
e sanza parlar quasi stava muto.
355
E sendo un giorno a guardia del suo armento,
ind'oltre a piè del monte, come spesso
egli era usato, gli venne talento
di gir al luogo là dove promesso
da Mensola gli fu, con saramento,
di ritornare a lui; e fussi messo,
lassando del bestiame il grande stuolo,
sol con un dardo in man, nel cammin solo.
356
E pervenuto all'acqua del vallone,
ove Mensola sua sforzato avea,
quivi mirandosi intorno, il garzone
«O Mensola,» infra se stesso dicea
«i' non credetti mai tal tradigione
della tua fé, che promesso m'avea
di ritornar con saramenti e giuri:
or par che poco di Dio o di me curi!
357
Non ti ricorda quando con le mani
insieme in questo luogo ci pigliamo,
e con tuoi saramenti falsi e vani
dicesti di tornar, poi ci baciamo
insieme gli occhi, che stann'or lontani,
ed in quel luogo poi ci partavamo?
Non ti ricorda quanti testimoni
aggiugnesti alle tue promessioni?».
358
I' non potre' mai dir tanti lamenti,
quant'Africo facea quivi piangendo;
e', per crescer maggiori i suoi tormenti,
giva ogni cosa quivi rivolgendo
de' suoi amori, ciascuni accidenti,
buoni e cattivi; per questo, crescendo
la doglia sua ognor molto maggiore,
diliberò d'uscir di tal dolore.
359
E sopra l'acqua del fossato gito,
l'aguto dardo si recava in mano,
e al petto si ponea 'l ferro pulito,
e 'n terra l'asta, dicendo: «O villano
Amor, che m'hai condotto a tal partito,
ch'i' moro in questo modo tanto strano!
e pure, innanzi ch'i' voglia più stare
in cotal vita, mi vo' disperare.
360
O padre, o madre, fatevi con Dio!
i' me ne vo nello 'nferno angoscioso;
e tu, fiume, riterrai 'l nome mio,
e manifesterai il doloroso
caso, ch'è occorso sì crudel e rio;
a chiunque ti vedrà sì sanguinoso
correr, o lasso, del mio sangue tinto,
paleserai dove Amor m'ha sospinto».
361
E detto questo, Mensola chiamando,
il ferro tutto nel petto si mise,
il qual, al cor tostamente passando
del giovinetto, con doglia l'uccise;
per che, morto nell'acqua allor cascando,
l'anima da quel corpo si divise,
e l'acqua che correa per la gran fossa,
del sangue tinta, venne tutta rossa.
[Il sangue in abondanza se n'andava
d'Africo, e giva forte ruinando
e 'nverso della sua casa andando:
e Girafon veggendol mal pensava.]
362
Facea quel fiume, sì come fa ancora,
di sé duo parti alquanto giù più basso;
e quella parte che fa minor gora,
presso alla casa del giovane lasso,
correva sanguinoso: e sendo allora
Girafon fuori, e' vide il fiume grasso
di sangue, per che subito nel core
gli venne annunzio di futur dolore.
363
Per che, sanza dir nulla, di presente
n'andò dove sentì ch'era 'l suo armento;
e non trovando Africo, immantanente
su per lo fiume, non con passo lento,
tenne per trovar donde primamente
di quel sangue venia 'l cominciamento,
e di chi fosse, e chi n'era cagione;
e giunse al loco ov'Africo trovòne.
364
Quando vide 'l figliuol morto giacere,
col dardo fitto nel giovanil petto,
appena in piè si potea sostenere,
sì fu dal dolor subito costretto,
e per l'un braccio con gran dispiacere
il prese, e disse: – Omè, qual maladetto
braccio fu quel che ti diè tal ferita,
o figliuol mio, che t'ha tolto la vita? –
365
Egli 'l trasse dell acqua, e 'n sulla riva
il pose lagrimando, il padre vecchio,
e con dolor quel giorno maladiva,
dicendo: O figliuol, del tuo padre specchio,
or che farà la madre tua cattiva,
che non arà mai più un tuo parecchio?
Che faren noi, tapini e pien di duoli,
poi che rimasi siàn di te sì soli? –
366
E 'l fitto dardo gli cavò del core,
e 'l ferro rimirava con tristizia,
e poi dicea con pianto e con dolore:
Chi ti lanciò così crudel nequizia
nel petto, o figliuol mio, con tal furore
ch'i' n'ho perduto ogni ben e letizia?
Credo che fu Diana dispietata,
che non fia ancor del mio sangue saziata.
367
Ma poi ch'egli ha quel dardo rimirato
più e più volte, conobbe ch'egli era
quel che 'l suo figlio sempre avea portato;
per che, con trista e lagrimosa cera,
disse: O tapin figliuolo sventurato,
qual fu quella cagion cotanto fera
che ti condusse qui, a sì rie sorte?
O chi ti diè col dardo tuo la morte? –
368
Poi, dopo molto ed infinito pianto,
Girafone il figliuol si gittò 'n collo,
e con quel dardo, doloroso tanto,
alla casetta lor così portollo,
ed alla madre il fatto tutto quanto,
piangendo tuttavia, raccontollo;
e 'l dardo le mostrava, e sì dicea
come del petto tratto gliel'avea.
369
Se la madre fe' quivi gran lamento
non ne domandi persona nessuna,
ché dir non si potrebbe a compimento
le grida e 'l pianto, per cosa veruna,
e quanta doglia sentì con tormento,
bestemmiando gl'iddei e la fortuna;
e 'l viso stretto con quel del figliuolo
tenea, piangendo e menando gran duolo.
370
Pure alla fine, sì com'era usanza
a quel tempo di far de' corpi morti,
così allor, dopo gran lamentanza
ed urli e pianti durissimi e forti,
arson quel corpo con grande abondanza
di lagrime e dolor sanza conforti,
come color ch'altro ben non avièno,
il qual si veggon or venuto meno.
371
E poi raccolson la polver dell'ossa
del lor figliuol, e al fiume se n'andaro,
là dove l'acqua ancor correva rossa
del propio sangue del lor figliuol caro;
e 'n sulla riva feciono una fossa,
e dentro quella polver sotterraro,
acciò che 'l nome suo non si spegnesse,
ma sempre mai quel fiume il ritenesse.
372
Da poi in qua quel fiume dalla gente
Africo fu chiamato, e ancor si chiama.
Quivi rimase sol tristo e dolente
il padre e la sua madre molto grama.
Tal fu la fine d'Africo piacente,
e così al fiume rimase la fama.
Or lasciam qui, e ritorniamo omai
a Mensola, la qual io vi lasciai.
[Fe' creder Mensola alle sue compagne
ch'ella scampata fosse da colui,
il qual pigliar la volse, e poi da lui
si sviluppò, ch'ancor ne trema e piagne.]
373
Mensola, in questo mezzo, assai dolente
era vivuta e con malinconia,
ma pur, veggendo che levar niente
di ciò che fatto avea non si poria,
de' casi avversi venne paziente,
e cominciò con la sua compagnia
alcuna volta pur a ritrovarsi,
e contro alla sua voglia a rallegrarsi.
374
E più fiate si trovò con quelle
ninfe che 'l giorno con lei eran sute
che Africo la prese; e le novelle
per tutte l'altre già eran sapute,
non dico del peccato, ma com'elle
dal giovane pigliar furon volute;
e Mensola con suoi casi e bugie
fe' creder lor ch'anch'ella si fuggie.
375
Così più ogni giorno assicurata
Mensola s'era, da poi ch'ella vede
che dalle sue compagne era onorata
sì come mai, e ch'ognuna si crede
che com'elle non sia contaminata,
e ch'alle sue bugie si dava fede,
e perché, ancor, a Diana credea
il peccato celar che fatto avea.
376
Né però Amor l'avea tratto del petto
Africo, ch'ella non si ricordasse
del nome suo e del preso diletto,
e che tacitamente nol chiamasse
quand'avea 'l tempo, ed alcun sospiretto
assai sovente per lui non gittasse;
sì come innamorata e paurosa,
tenea la fiamma dentro al cor nascosa.
377
E come far solea, già cominciava
con le compagne sue, col dardo in mano,
a gir cacciando, e quand'ella arrivava
dove Africo la prese, di lontano
quel luogo rimirando, sospirava,
dicendo infra se stessa molto piano:
«O Africo mio, quanta gioia avesti
già in quel luogo, quando mi prendesti!
378
Or non so io più che di te si sia,
ma credo ben che stai in gran tormento
per me; ma non è già la colpa mia:
paura è che mi toglie ogni ardimento».
Così dicendo, volentier vorria
Africo suo aver fatto contento,
ove credesse che giammai saputo
da Diana o da ninfa fosse suto.
[E sendo già i tre mesi passati,
il corpo a Mensola cominciò a ingrossare;
ella si cominciò a maravigliare,
non sappiendo dello 'mpregnar gli aguati.]
379
Vivendo adunque Mensola in tal vita,
innamorata e suggetta a temenza,
alquanto nel bel viso impalidita
era venuta, per quella semenza
che nel suo ventre già era fiorita;
passò tre mesi sanz'aver credenza
di partorir giammai o far figliuolo,
com'ella fece poscia con gran duolo.
380
Ma faccendo suo corso la natura,
in capo di tre mesi incomincioe
a manifesto far la creatura
che dentro al ventre suo s'ingeneroe;
per la qual cosa, a ciò ponendo cura,
Mensola forte si maraviglioe,
veggendosi ingrossare il corpo e' fianchi,
e di gravezza pieni e fatti stanchi.
381
Di questo si facea gran maraviglia
Mensola, la cagion non conoscendo,
come colei che mai figliuol né figlia
non avea avuto, ma fra sé dicendo:
«Saria, questo, difetto, che mi piglia
sì la persona, ch'ognor va crescendo,
ed ogni giorno vengo più pesante,
e fatta tutta svogliata e cascante?».
382
Una ninfa abitava in quella piaggia,
un mezzo miglio a Mensola vicina,
a una spelonca profonda e selvaggia,
la qual, maestra d'ogni medicina,
sopra dell'altre ell'era la più saggia,
e ben sapea di ciascuna dottrina;
e di cent'anni e più ell'era vecchia,
e chiamata era ninfa Sinedecchia.
383
Mensola puramente n'andò a questa,
e disse: – O madre nostra, il tuo consiglio
m'è di bisogno – e poi le manifesta
il caso suo e ciascun suo periglio;
Sinedecchia, con la crollante testa,
rispose tosto con turbato piglio:
– Figliuola mia, tu hai con uom peccato,
e non puoi più tener questo celato. –
384
Mensola nel bel viso venne rossa,
udendo tai parole, per vergogna,
e non veggendo che negarlo possa,
con gli occhi bassi timida trasogna,
volendosi mostrar di questo grossa;
ma poi, veggendo che non le bisogna
celar a lei che tutto conoscea,
sanza guatarla, o risponder, piangea.
385
Sinedecchia, veggendo il suo lamento,
e la vergogna e la sua puritade,
avvisò che di suo consentimento
non fosse questo, né sua volontade,
ma fosse stato con isforzamento;
perché alquanto gliene venne pietade,
e per volerla un poco confortare,
in questo modo cominciò a parlare:
386
– Figliuola mia, questo peccato è tale,
che nol potrai celar lungamente;
e come ch'abbi fatto pur gran male,
non vo' però che tanto fieramente
tu ti sconforti, ch'omai poco vale,
se tu te n'uccidessi veramente;
ma veniamo a' rimedi, e dimmi come
e chi ti tolse di castità il pome. –
387
Niente a questo Mensola risponde,
ma, per vergogna, in grembo il capo pose
a Sinedecchia, e 'l bel viso nasconde,
udendo rammentarsi cota' cose;
e gli occhi suoi parean fatti due gronde
che fosson d'acqua molto doviziose,
tanto forte piangea e dirottamente,
sanza parlar o risponder niente.
388
Ma Sinedecchia pur le disse tanto,
con sue parole, ch'ella confessoe,
con boce rotta e con singhiozzi e pianto,
sì come un giovinetto la 'ngannoe,
ed in che modo è 'l fatto tutto quanto,
e come ultimamente la sforzoe;
e poi a pianger cominciò più forte
per la vergogna, chiamando la morte.
389
La vecchia ninfa, quando questo intese,
come per sottil modo fu ingannata
e quanti lacci quel giovane tese,
pietà le venne della sventurata;
poi con parole alquanto la riprese
del fallo suo, perch'un'altra fiata,
sotto cotal fidanza, non peccasse,
e perché più 'ngannar non si lasciasse.
390
Poi tanto seppe dire e confortarla,
ch'ella la fe' di piangere restare,
promettendole di sempre ma' atarla
come figliuola, in ciò che potrà fare;
poi, d'ogni cosa volendo avvisarla,
in questo modo cominciò a parlare:
– Figliuola mia, quel ch'io ti dico intendi,
e fa' che bene ogni cosa comprendi.
391
Quando compiuti i nove mesi arai,
dal giorno che peccasti cominciando,
una creatura tu partorirai;
allor la dea Lucina tu chiamando,
il suo aiuto l'addomanderai,
e la pietosa tel darà; e poi, quando
nato sarà, quel che fia noi 'l vedremo,
e ben ad ogni cosa provedremo.
392
E tu di questo non ti dar pensiero:
lascialo a me, ch'i' ho ben già pensato
dentro dal cor ciò che farà mestiero,
e ciò che far dovrò quando fia nato;
ma fa' che tu fuor di questo sentiero
non vadi 'n questo mezzo, che 'l peccato
non sia palese a quelle che nol sanno,
che tornar ti potrebbe in troppo danno.
393
Ma sola ti starai alla caverna,
e' panni porta larghi quanto puoi,
sanza cintura, che non si discerna
il corpo grande' pe' peccati tuoi;
e quivi pianamente ti governa,
dandoti pace, sì come far suoi,
e spesso vieni a me, ed io ti dirò
ciò che far tu dovrai intorno a ciò. –
394
Queste parole dieron gran conforto
alla fanciulla, e disse: – Madre mia,
poi che condotta sono a questo porto
pel mio peccato e per la mia follia,
perch'io conosco molto chiaro e scorto
che 'l vostro aiuto molto buon mi fia,
a voi mi raccomando e al vostro aiuto,
poi ch'ogn'altro consiglio i' ho perduto. –
395
– Or te ne va', – Sinedecchia rispose
ch'i' t'atterrò ben ciò ch'io t'ho promesso,
e non ti dar pensier di queste cose:
tien' pur celato il peccato commesso. –
Mensola, con le guance lagrimose,
disse: – I' 'l farò – e pel cammin più presso
si mise, e ritornò alta sua stanza
alquanto confortata da speranza.
396
Quivi si stava pensosa e dolente
sanza gir mai, come soleva, attorno,
e per compagno tenea nella mente
Africo sempre col suo viso adorno;
e perché sempre continovamente
il corpo suo più crescea ogni giorno,
sanza cintura i panni suoi portava;
e assai sovente a Sinedecchia andava.
397
E cominciolle a crescer sì nel core,
per la creatura ancor non partorita,
contro ad Africo un sì fervente amore,
che volentier ne vorrebbe esser gita
con esso lui a starsi a tutte l'ore,
il giorno ch'ella si tenne tradita,
e 'l dì se ne pentea mille fiate,
chiamando lui, con lagrime versate.
398
Questo pensier la fe' più volte andare
al loco ov'ella fu contaminata,
sol per saper s'Africo può trovare,
per essersene a casa con lui andata;
ma non si seppe mai tanto arrischiare,
per la vergogna, d'andar sola nata
a casa sua; e pur presso v'andoe,
alcuna volta, e poi 'ndietro tornoe.
399
Ma invan cercava, perché non sapea
ched e' si fosse per lei disperato.
E già 'l suo corpo sì cresciuto avea,
e 'l peso del fantin tanto aggravato,
ch'andare attorno omai più non potea;
per che, sanza cercar più 'n nessun lato,
si stava alla caverna, ed aspettava
del parto il tempo ch'omai s'appressava.
400
E tanta grazia le fe' la fortuna,
che 'n questo mezzo non s'accorse mai
ch'ell'avesse peccato ninfa alcuna,
e già trovate pur n'aveva assai;
come che maraviglia ciascheduna
di lei si desse, ne' tempi sezzai,
veggendola si magra nella faccia,
e non andar, come solea, alla caccia.
[Mensola partorì un bel figliuolo,
e in quel tempo Diana lì venne
e con le ninfe sue consiglio tenne;
Lucina soccorse Mensola, ma con duolo.]
401
Diana a Fiesol in quel tempo venne,
com'usata era sovente di fare;
grande allegrezza pe' monti si tenne,
sentendo di Diana il ritornare,
e ciascheduna ninfa festa fenne:
e cominciârsi tutte a ragunare,
com'usate eran, con lei molto spesso
tutte le ninfe, da lunge e da presso.
402
Mensola sentì ben la sua venuta,
ma comparir non volle innanzi a lei
per non esser da lei mal ricevuta,
dicendo: «S'io v'andassi, i' non potrei
tener celata la cosa ch'è suta,
e grande strazio di me far vedrei».
E fu da Sinedecchia consigliata
di non v'andar, ma stessisi celata.
403
Avvenne adunque in questi giorni, un die,
ch'alla caverna sua Mensola stando,
per tutto 'l corpo doglie si sentie;
per che, la dea del parto allor chiamando,
un fantin maschio quivi partorie,
il qual Lucina di terra levando
gliel mise in collo e disse: – Questi fia
ancor gran fatto – e poi isparì via.
404
Come che doglia grande e smisurata
Mensola avea sentita, come quella
ch'a tal partito mai non era stata,
veggendo aversi fatto una sì bella
creatura, ogn'altra pena fu alleggiata;
e subito gli fece una gonnella,
com'ella seppe il meglio, e poi lattollo,
e mille volte quel giorno baciollo.
405
Il fantin era sì vezzoso e bello
e tanto bianco, ch'era maraviglia,
e 'l capel com'òr biondo e ricciutello,
e 'n ogni cosa il padre suo somiglia
sì propiamente, che parea, a vedello,
Africo ne' suoi occhi e nelle ciglia,
e tutta l'altra faccia sì verace,
ch'a Mensola per questo più le piace.
406
E tanto amore già posto gli avea,
che di mirarlo non si può saziare;
e a Sinedecchia portar nol volea,
per non volerlo da sé dilungare,
parendo a lei, mentre che lui vedea,
Africo veder propio: ed a scherzare
cominciava con lui, e fargli festa,
e con le man gli lisciava la testa.
[Standosi Mensola in questa allegrezza,
Diana molte volte domandava
di lei ed ancor come ella stava;
'n acqua la convertì con molta asprezza.]
407
Diana avea più volte domandato
quel che di Mensola era le compagne:
fulle risposto, da chi l'era allato,
che gran pezzo era che 'n quelle montagne
veduta non l'avean in nessun lato;
altre dicean che, per certe magagne,
e per difetto ch'ella si sentia,
davanti a lei con l'altre non venìa.
408
Per che un dì, di vederla pur disposta,
perché l'amava molto e tenea cara,
con tre ninfe se ne gì 'n quella costa
dove la sventurata si ripara;
e giunta alla caverna sanza sosta,
innanzi all'altre Diana si para,
credendola trovar, ma non trovolla;
per ch'a chiamar ciascuna cominciolla.
409
Ell'era andata col suo bel fantino
inverso 'l fiume giù poco lontana,
e 'l fanciul trastullava ad un caldino,
quando sentì la boce prossimana
chiamar sì forte, con chiaro latino.
Allor mirando in su, vide Diana
con le compagne sue che giù venièno,
ma lei ancor veduta non avièno.
410
Sì forte sbigottì Mensola, quando
vide Diana, che nulla rispose;
ma tutta quanta per paura tremando,
in un cespuglio tra' pruni nascose
il bel fantino, e lui solo lasciando,
di fuggir quindi l'animo dispose:
e 'nverso 'l fiume ne gìa quatta quatta,
tra quercia e quercia fuggendo via ratta.
411
Ma non potè sì coperta fuggire,
che Diana, fuggendo, pur la vide,
e poi cominciò quel fanciullo a udire,
il qual forte piangea con alte stride.
Diana incominciò allotta a dire
inverso lei con grandissime gride:
– Mensola, non fuggir, ché non potrai,
se io vorrò, né 'l fiume passerai.
412
Tu non potrai fuggir le mie saette
se l'arco tiro, o sciocca peccatrice!
Mensola già per questo non ristette,
ma fugge quanto può alla pendice,
e giunta al fiume, dentro vi si mette
per valicarlo; ma Diana dice
certe parole, ed al fiume le manda,
e che ritenga Mensola comanda.
413
La sventurata era già a mezzo l'acque,
quand'ella i piè venir men si sentia,
e quivi, sì come a Diana piacque,
Mensola in acqua allor si convertia;
e sempre poi in quel fiume si giacque
il nome suo, ed ancor tuttavia
per lei quel fiume è Mensola chiamato.
Or v'ho del suo principio raccontato.
[Comandato Diana che portato
il bel fantino a Sinedecchia sia,
subito le ninfe misonsi in via:
a casa a Girafon fu trasportato.]
414
Le ninfe ch'eran con Diana, veggendo
come Mensola era acqua diventata,
e giù per lo gran fiume va correndo,
perché molto l'avean in prima amata,
per pietà tutte dicevan piangendo:
– O misera compagna sventurata,
qual peccato fu quel che t'ha condotta
a correr sì com'acqua a fiotta a fiotta? –
415
Diana disse lor che non piangessono,
ché quel martir molto ben meritava;
e perché 'l suo peccato elle vedessono,
dove 'l fanciul piangeva le menava;
poi disse lor che elle lo prendessono,
e traessol de' prun dov'egli stava;
allor le ninfe sel recaro in braccio,
e trassol del cespuglio molto avaccio.
416
Molta festa le ninfe gli facièno,
veggendol tanto piacevole e bello,
e racchetandol, volentier vorrièno
con esso loro in que' monti tenello;
ma a Diana dirlo non volièno,
la qual comandò lor che tosto quello
fantin portato a Sinedecchia sia,
e con lor ella ancor si mise in via.
417
Giunta Diana a Sinedecchia, disse
com'ella avea quel fantolin trovato
in un cespuglio, ove Mensola il misse
per celato tenere il suo peccato:
– Ma ella dopo questo poco visse,
ché, fuggendo ella, e volendo 'l fossato
di là passare, il fiume la ritenne,
e com'io volli, allor acqua divenne. –
418
Mentre Diana dicea tai parole,
la vecchia ninfa per pietà piangea,
tanto 'l caso di Mensola le dole,
e quel fanciullo in braccio poi prendea,
ed a Diana disse: – O chiaro sole
di tutte noi, altri ch'io non sapea
questo peccato, e a me sola lo disse,
e tutta nelle mie man si rimisse. –
419
Poi ogni cosa a Diana ebbe detto,
come Mensola era stata sforzata,
e 'l dove e 'l come, da un giovinetto,
e 'n che modo da lui fu ingannata;
e disse poi: – O iddea, i' ti 'mprometto
sopra la fé ch'i' t'ho sempre portata,
che, s'io non fossi, morta si sarebbe,
ma io non la lasciai, sì me ne 'ncrebbe.
420
Ma poi che tu l'hai fatta diventare
acqua, ti priego, almen, che tu mi doni
questo fanciullo, che 'l vorrò portare
di qui lontano assai, 'n certi valloni,
ov'io ricordo anticamente stare
uomini con lor donne a lor magioni,
e a loro il donerò, che car l'aranno,
e me' di noi allevare lo sapranno. –
421
Quando Diana tai parole intende,
come Mensola era stata tradita
alquanto del suo mal pietà le prende,
perché molto l'amò quand'era in vita;
ma perché l'altre da cota' faccende
si guardasson, si mostrò 'ncrudelita,
e disse a Sinedecchia che facesse,
di quel fantin, quel che me' le paresse.
422
Poi si partì con la sua compagnia,
e a Sinedecchia quel fantin lascioe;
la qual, poscia che vide andata via
Diana, tostamente s'invioe
con esso in collo, e 'n quelle parti gìa
ove Mensola bella l'acquistoe ;
ché ben sapea per tutto ogni rivera,
tanto tempo in que' monti usata era.
423
E già aveva da Mensola udito,
com'avea nome que' che la sforzone,
e più da lei ancora avea sentito,
quando partissi, in qual parte n'andone;
per che, considerato ogni partito,
istimò troppo ben che quel garzone
in quella valle stesse, ove vedea
una casetta che fummo facea.
424
Là giù n'ando, non con poca fatica,
e per ventura trovò Alimena,
alla qual disse: – O carissima amica,
grande è quella cagion ch'a te mi mena,
ed è pur di bisogno ch'io tel dica;
però ti priego che non ti sia pena
d'ascoltar una gran disavventura,
e com'è nata questa creatura. –
425
Poi ogni cosa le venne narrando:
com'un giovane, ch'Africo avea nome,
sforzò una ninfa, e 'l dov' e 'l com' e 'l quando
a parte a parte disse, e poscia come
ell'era ita gran pezza tapinando,
poi partorì quel bello e fresco pome,
e poi come Diana trasmutoe
la ninfa in acqua, e dove la lascioe;
426
e come quel fantin avea trovato
Diana, tra molti pruni, e come a lei,
con altre ninfe, poi l'avean donato;
ma mentre che cota' cose costei
raccontava, Alimena ebbe mirato
nel viso quel fantino, e disse: – Omei,
questo fanciul propiamente somiglia
Africo mio! – e poi in braccio il piglia.
427
E lagrimando per grande allegrezza,
mirando quel fantin, le par vedere
Africo propio in ogni sua fattezza,
e veramente gliel par riavere;
e lui baciando con gran tenerezza,
diceva: – Figliuol mio, gran dispiacere
mi fia a contare, e grandissimo duolo,
la morte del tuo padre e mio figliuolo. –
428
Poi cominciò alla vecchia ninfa a dire
del suo figliuol, per ordine, ogni cosa,
e come stette gran tempo in martìre,
e della morte sua tanto angosciosa.
Sinedecchia, stando questo a udire,
venne del caso d'Africo pietosa,
e con lei 'nsieme di questo piangea,
e Girafon quivi tra lor giugnea.
429
Quand'egli intese il fatto, similmente
per letizia piangeva e per dolore:
e mirando 'l fanciul, veracemente
Africo gli pareva, onde maggiore
allegrezza non ebbe in suo vivente;
poi faccendogli festa con amore,
e quel fantin, quando Girafon vide,
da naturale amor mosso, gli ride.
430
Sì grande fu l'allegrezza e la festa
che fêr costor, che 'n buona veritade,
che', se non fosse che pur lor molesta
il cor de' due amanti la pietade,
niuna ne fu mai simile a questa;
ma poi che Sinedecchia l'amistade
con lor ebbe acquistata, sen vuol gire
alla montagna, e da lor dipartire.
431
Girafon mille grazie l'ha renduto,
ed Alimena similmente ancora,
del buon servigio da lei ricevuto,
e molto ciaschedun quivi l'onora;
ma poi che Sinedecchia ebbe 'l saluto
renduto a lor, sanza far più dimora
alla spelonca sua si ritornava,
e quel fantin a lor quivi lasciava.
432
La novella fu subito saputa
per tutti i monti, ed ha ciascun palese
come Mensola era acqua divenuta,
e a molte ninfe gran pietà ne prese;
ma dopo alquanto Diana si muta
da questi luoghi, ed in altro paese
n'andò, com'era usata, e primamente
amoní le sue ninfe parimente.
433
Rimase adunque le ninfe in tal mena,
sempre quel fiume Mensola chiamaro.
Torniamo a Girafone ed Alimena,
che con latte quel fantin allevaro
del lor bestiame, non con poca pena,
e per nome Pruneo lo chiamaro,
perché tra' pruni pianger fu trovato,
e così fu sempre mai poi chiamato.
434
E crescendo Pruneo venne sì bello
della persona che, se la natura
l'avesse fatto in pruova col pennello,
non potre' dargli sì bella figura;
e venne destro più ch'un lioncello,
arditissimo e forte oltre misura,
e tanto propio il padre era venuto,
che da lui non si saria conosciuto.
435
Gran guardia ne faceva Girafone
ed Alimena, la notte e lo die,
e più volte gli disson la cagione,
sì come Africo suo padre morie,
perché paura n'avesse il garzone,
di mai voler andar per quelle vie,
e della madre sua i grievi danni;
e così stando venne in diciott'anni.
[Atalante, passando per Toscana,
ne' poggi fiesolan si riposoe
e per le genti da torno mandoe;
e Fiesol pose non di gente strana.]
436
Passò poi Atalante in questa parte
d'Europa con infinita gente;
e per Toscana ultimamente sparte,
come scritto si truova apertamente,
Appollin vide, faccendo su' arte,
che 'l poggio fiesolan veracemente
era 'l me' posto poggio, e lo più sano
di tutta Europa, di monte e di piano.
437
Atalante vi fece allotta fare
una città che Fiesole chiamossi;
le genti cominciaron a pigliare
di quelle ninfe che lassù trovossi,
e qual potè dalle lor man campare,
da tutti questi poggi dileguossi;
e così fûr le ninfe allor cacciate,
e quelle che fûr prese, maritate.
438
Tutti gli abitator di quel paese,
Atalante gli volle alla cittade.
Girafon, quando questo fatto intese,
tosto v'andò con buona volontade,
e menò seco il piacente e cortese
Pruneo, adorno d'ogni dignitade,
ed Alimena, e comparì davante
con riverenza al signore Atalante.
439
Quando Atalante vide il vecchio antico,
graziosissimamente il ricevette,
e presol per la man, sì come amico,
cota' parole verso lui ha dette:
–O vecchio savio, intendi quel ch'io dico,
che la mia fede ti giura e promette
che, se tu 'n questa terra abiterai,
de' miei maggior consiglier tu sarai,
440
e meco abiterai nella mia rocca,
insiememente con questo tuo figlio. –
Girafon tai parole vêr lui scocca:
–O Atalante, sempre il mio consiglio
fia apparecchiato a quel che la tua bocca
comanderà; ma io mi maraviglio,
ch'avendo teco uomini tanto savi,
più ch'io non sono, a far questo mi gravi. –
441
– Tu di' ver ch'i' ho meco savia gente, –
Atalante rispose – ma perch'io
veggio ch'esser tu déi anticamente
'n questi paesi stato, al parer mio,
e sapere déi tutto 'l convenente
di questi luoghi, qual è buono o rio,
a molte cose mi puoi esser buono
in questi luoghi ove arrivato sono. –
442
Girafon disse lagrimando quasi:
– Omè, Atalante, che tu parli 'l vero
ch'i' son antico, e' miei gravosi casi
manifestano il fatto tutto intero:
e non è molto tempo ch'io rimasi
sol con la donna mia 'n questo sentiero
se non che poi costui mi fu recato,
ch'è figliuol d'un mio figliuol sventurato. –
443
Poi gli contava il fatto com'era ito
d'Africo suo e Mensola sua amante,
e poscia di Mugnon che fu fedito
e morto da Diana, e tutte quante
le sue sventure disse; e poi col dito
gli dimostrava, di dietro e davante,
i fiumi, ed i lor nomi gli dicea,
e la cagion per che sì nome avea.
444
E poi ad Atalante si voltoe
dicendo: – I' vo' far ogni tuo comando. –
Atalante di questo il ringrazioe,
e poi, 'nverso Pruneo rimirando
e piacendogli molto, lo chiamoe,
e poscia inverso lui così parlando
disse: – I' vo' che tu sia mio servidore
alla tavola mia, per lo mio amore. –
445
Così Atalante fece Girafone
suo consigliere, e 'l giovane Pruneo
dinnanzi a lui serviva per ragione,
e tanto bene a far questo imprendeo,
ch'era a vederlo grande ammirazione;
ed oltre a questo la natura il feo
ardito e forte tanto, che non truova
niuno che 'l vinca a far niuna pruova.
446
E d'ogni caccia maestro divenne
tanto, che fiera non potea campare
dinnanzi a lui, tant'ottimo e solenne
corridor era, e destro nel saltare;
e sì ben l'arco nelle sue man tenne,
che vinto arìa Diana a saettare;
costumato e piacevol era tanto,
ch'io non potre' mai raccontar il quanto.
447
Atalante gli pose tanto amore,
veggendo ch'era sì savio e valente,
che siniscalco il fe', con grande onore,
sopra la terra e sopra la sua gente,
e di tutto 'l paese guidatore;
ed e' reggeva sì piacevolmente,
che da tutti era amato e ben voluto,
tanto dava ad ognuno il suo dovuto.
448
E già più di venticinque anni avea,
quando Atalante gli diè per mogliera
una fanciulla, la qual Tironea
era 'l suo nome, e figliuola sì era
d'un gran baron che con seco tenea;
e donògli tutta quella rivera,
ch'è in mezzo tra Mensola e Mugnone:
e questa fu la dota del garzone.
449
Pruneo fe' far, dalla chiesa a Maiano
un po' disopra, un nobil casamento,
donde vedeva tutto quanto il piano,
ed afforzollo d'ogni guernimento;
e quel paese, ch'era molto strano,
tosto dimesticò, sì com'io sento,
e questo fece sol per grande amore
ch'al paese portava di buon core.
450
Quivi gran parte del tempo abitava,
dandosi sempre diletto e piacere;
dicesi che sovente i fiumi andava
del padre e della madre sua a vedere
e che cogli spiriti lor parlava,
dell'acque uscendo boci chiare e vere,
e piene di sospiri e di pietate,
le cose rammentandogli passate.
[Dopo molt'anni ch'è Girafon morto,
e Alimena, e po' Pruneo con duoli,
di lui rimason dieci be' figliuoli,
che assai visson con molto diporto.]
451
Girafon, ristorato de' suoi danni,
gran tempo visse, ma poi che sua vita
ebbe compiuti i suoi lunghissimi anni,
di questo mondo faccendo partita,
Alimena lasciò con molti affanni;
la qual, poi che l'età sua fu fornita,
con Girafon fu messa in un avello
nella città, qual era molto bello.
452
Pruneo rimase in grandissimo stato
con la sua Tironea, della qual ebbe
dieci figliuol, ciascun pro' e costumato
tanto, che maraviglia a dir sarebbe;
e poi ch'egli ebbe a ciascun moglie dato,
in molta gente questa schiatta crebbe,
e sempre furo a Fiesol cittadini,
grandi e possenti sopra lor vicini.
453
Morto Pruneo, con grandissimo duolo
di tutta la città fu seppellito;
così rimase a ciascun suo figliuolo
tutto 'l paese libero e spedito,
ch'Atalante donato avea a lui solo;
e ben lo s'ebbon tra lor dipartito,
e sempre poi la schiatta di costoro
signoreggiaro questo tenitoro.
454
Ma poi che Fiesol fu la prima volta
per li Roman consumata e disfatta,
e poi ch'a Roma la gente diè volta,
que' che rimason dell'africhea schiatta
alla disfatta fortezza a raccolta
tutti si fur, che Pruneo avea fatta,
e quivi il me' che seppon s'allogaro,
faccendo case assai per lor riparo.
455
Poi fu Firenze posta pe' Romani,
acciò che Fiesol non si rifacesse
pe' nobili e possenti Fiesolani
ch'eran campati, ma così si stesse:
per la qual cosa in molte parti strani,
le genti fiesolane si fûr messe
ad abitar, come gente scacciata,
sanz'aiuto o consiglio abandonata.
456
Ma poi ch'uscita fu l'ira di mente,
per ispazio di tempo, e pace fatta
tra li Romani e la scacciata gente,
quasi tutta la gente fu ritratta
ad abitare in Firenze possente:
fra' qual vi venne l'africhea schiatta,
i quai vi fûr volentier ricevuti
da' cittadini, e molto car tenuti.
457
E per levar lor ogni sospeccione,
sed e' l'avesson, d'esser oltraggiati,
e ancor per dare lor maggior cagione
d'amar la terra e d'esser anco amati,
e fatto fosse a ciaschedun ragione,
si furo insieme tutti imparentati,
e fatti cittadin con grande amore,
avendo la lor parte d'ogni onore.
458
Così multiplicando la cittade
di Firenze in persone e 'n gran ricchezza,
gran tempo resse con tranquillitade;
ma, come molti libri fan chiarezza,
già era in essa la cristianitade
venuta, quando, presa ogni fortezza,
fu da Totile infin da' fondamenti
arsa e disfatta, e cacciate le genti.
459
Poi fece il crudel Totile rifare
ogni fortezza di Fiesole e mura,
ed un bando per lo paese andare,
che qual fosse che dentro alla chiusura
di Fiesole tornasse ad abitare,
vi fosse ogni persona ben sicura,
giurando prima di far sempre guerra
con li Romani e con ogni lor terra.
460
Per la qual cosa la schiatta africhea,
per grande sdegno, tornar non vi volle,
ma nel contado ognun si riducea,
ciò è nel lor primaio antico colle,
ove ciascuno abitazione avea,
faccendo quivi un forte battifolle
per lor difesa, se bisogno fosse,
da' Fiesolani e dalle lor percosse.
461
Così gran tempo quivi dimoraro,
infin che 'l buon re Carlo Magno
venne al soccorso d'Italia, ed a riparo
della città di Roma, che sostenne
gran novità; allor si raunaro
l'africhea gente, e consiglio si tenne
con gli altri nobil che s'eran fuggiti
per lo contado, e preson tai partiti:
462
ch'a Roma si mandasse, al padre santo
ed al re Carlo Magno, un'ambasciata,
significando il fatto tutto quanto,
come la lor figliuola rovinata
giaceva in terra, e' cittadin con pianto
l'avean per forza tutta abandonata,
e perché avean de' Fiesolan paura,
non vi potean rifar casa né mura.
463
Ma perch'altrove chiara questa storia
si truova scritta, fo con brievitade.
Tornando al papa Fiorenza a memoria
per l'ambasciata, glien venne pietade;
ma poi che Carlo Magno ebbe vittoria,
passò di qua nelle nostre contrade,
e rifece la città di Fiorenza,
la qual poi crebbe ogni di sua potenza.
464
Per la qual cosa quei d'Africo nati
con gli altri vi tornaro ad abitare;
e come poi si siano traslatati
di grado in grado non potre' contare,
e d'uno in altro, ma in molti lati
son, di lor, gente scesa d'alto affare,
e d'altri che son di lassù venuti,
che per lor gente non son conosciuti.
465
Ma sia come si vuole omai la cosa,
i' son venuto al porto disiato,
ove 'l disio e la mente amorosa
per lunghi mari ha gran pezza cercato;
e qui donando omai alla penna posa,
ho fatto quel che mi fu comandato
da tal, ch'i' non potre' nulla disdire,
tant'è sopra di me fatto gran sire.
[Comenda qui l'autore il suo signore,
dicendo ch'egli è que' che può dar pace
a chi lui segue con amor verace:
ed anco, a chi gli par, dona amarore.]
466
Adunque, poi ch'i' son al fin venuto
d'esto lavoro, a colui 'l vo' portare,
il qual m'ha dato la forza e l'aiuto
e lo stile e lo 'ngegno del rimare:
dico ad Amor, di cui son sempre suto
ed esser voglio; e lui vo' ringraziare
e a lui 'l libro portar là dov'egli usa,
e poi davanti a lui porre una scusa:
467
– Altissimo signore, Amor sovrano,
sotto cui forza, valor e potenza,
è sottoposto ciascun cor umano,
e contro a cui non può far resistenza
nessuno, e sia quanto si vuol villano,
il qual non venga tosto a tua ubidienza,
pur che tu voglia; ma pur più ti giova
d'usar contro a' gentili la tua prova;
468
tu se' colui che sai, quando ti piace,
ogni gran fatto ad efetto menare;
tu se' colui che doni guerra e pace
a' servi tuoi, secondo che ti pare;
tu se' colui che li lor cori sface,
e che gli fai sovente suscitare;
tu se' colui che gli assolvi e condanni,
e qual conforti, e qual arrogi affanni.
469
I' son un de' tuoi servi, al qual imposto
mi fu per te, com'a servo leale,
di compôr questa storia; e io, disposto
sempre a ubidirti, come quegli al quale
una donna m'ha dato e sottoposto,
col tuo aiuto ho il libro fatto tale,
chent'è suto possibile al mio ingegno,
il qual i' ho acquistato nel tuo regno.
470
Ma ben ti priego, per gran cortesia,
e per dover, e per giusta ragione,
che questo libro mai letto non sia
per l'ignoranti e villane persone,
e che non seppon mai chi tu ti sia,
né di voler saperlo hanno intenzione:
ché molto certo son che biasimato
saria da lor ogni tuo bel trattato.
471
Lascial leggere agli animi gentili,
e che portan nel volto la tua 'nsegna,
e a' costumati, angelichi ed umili,
nel cor de' quali la tua forza regna;
costor le cose tue non terran vili,
ma esser la faran di lode degna.
Te' ch'i' tel rendo, dolce il mio signore,
al fin recato pel tuo servidore. –
[Risponde Amore all'autore detto,
lodandol che lo libro a compimento
egli ha condutto con bello ornamento:
e 'l priego suo sarà messo in effetto.]
472
– Ben venga l'ubidente servo mio
quanto niun altro che sia a me suggetto,
il qual ha messo tutto il suo disio
in recar al suo fin il mio libretto;
e perché certo son ch'è tal, qual io
il disiava, volentier l'accetto,
e nell'armar', tra gli altri miei contratti,
appresso il metterò, de' miei gran fatti.
473
E 'l priego tuo sarà ottimamente,
di ciò che m'hai pregato, esaudito,
che ben guarderò 'l libro dalla gente,
la qual tu di' che non m'ha mai servito;
non perch'io tema lor vento niente
né perch'io sia per lor meno ubbidito,
ma perché ricordato il nome mio
tra lor non sia; e tu riman' con Dio! –