A
proposito di traduzione letteraria
Le intervista sono tratte
dall'ultimo numero dell'annale Comunicare. Letterature. Lingue, che
nasce nell'ambito dei corsi internazionali estivi di lingua italiana
organizzati dall'Istituto Trentino di Cultura e si caratterizza come progetto
di natura letteraria, linguistica e didattica. Per abbonamenti rivolgersi a
Le interviste sono di Ilide Carmignani
A proposito di traduzione letteraria:
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Per caso e per passione: incontro con Cesare Cases
In mezzo
alla sua vastissima produzione critica, a saggi, prefazioni, postfazioni,
articoli, note, curatele, hanno trovato posto anche alcune traduzioni:
Rauschning nel 1947, Lukács alla metà degli anni Cinquanta e
Brecht nei primi anni Settanta. Come sono nati questi lavori?
Rauschning fu un caso. Avevo
collaborato con un certo avvocato Cetuzzi, che lavorava per Mondadori e che mi
aveva fatto fare schede su vari libri. Poi nel 1947, appena rientrato in Italia
dalla Svizzera, Cetuzzi mi offrì questa traduzione. La feci insieme a un
amico di allora, Mario Cialfi. Il libro si intitolava La rivoluzione del
nichilismo: Apparenze e realtà del Terzo Reich ed era interessante
perché nasceva da un'esperienza diretta, l'autore era un ex nazista che
era stato presidente dello stato libero di Danzica. Il suo nazismo era tutto
sommato abbastanza superficiale. Rauschning aveva scritto anche una biografia
di Hitler. Comunque quella traduzione fu un caso, un modo per guadagnare
qualche soldo mettendo a frutto la mia conoscenza del tedesco, quindi purtroppo
non posso proprio menarne vanto.
Invece le due opere di Lukács, Il marxismo e la critica letteraria
del 1953 e la Breve storia della letteratura tedesca dal Settecento ad oggi
del 1955, non nacquero da un'occasione fortuita. Li tradussi per volontà
mia, per passione, perché allora ero un discepolo di Lukács. Era
un modo per divulgare la sua opera. Sono saggi sull'argomento, scelti da me.
Ricordo che lui voleva farmi tradurre una cosa e io mi rifiutai, perché
troppo staliniana, e allora mi costrinse a tradurne un'altra su Anna Seghers.
Lukács polemizzava con la Seghers, ma con il senno di poi, secondo me,
aveva ragione lei. Era più liberale. Lukács difendeva
l'ortodossia comunista, che era sbagliata. La Seghers poneva l'esempio di
Kleist, liquidato da Lukács come reazionario, sostenendo che possono
esserci grandi scrittori reazionari, che non si esaurisce tutto nella posizione
politica. Anche le traduzioni di Brecht furono spontanee. Per molto tempo non
l'avevo letto perché era tabù: era difficile essere
contemporaneamente seguaci di Lukács e di Brecht, i due non si potevano
soffrire; però quando pian piano, per caso, cominciai a leggere alcune
cose dei drammi, mi innamorai di Brecht e capii che era della levatura di
Lukács. Allora, era il 1970, tradussi Me-ti. Il libro delle svolte.
Fu un grande piacere. Ricordo che poi il mio amico Timpanaro mi fece alcune
osservazioni giustissime, non c'erano veri errori ma qualche punto debole.
Nella sua autobiografia,
Sì, c'era una pessima
versione italiana de Gli eroi di Carlyle, e poi le vecchie ma gloriose
traduzioni de Le anime morte e di Guerra e pace di Verdinois, e
il vigoroso Shakespeare di Carlo Rusconi. Le leggevo quando avevo dieci,
quindici anni, ma forse ho badato ai traduttori in seguito.
Nelle Confessioni scrive che ha acquisito coscienza della
diversità linguistica fin dalla culla grazie ai numerosi dialetti che si
parlavano nella sua famiglia e che lei al contrario ha sempre parlato italiano.
Crede che in qualche modo questa precoce sensibilità linguistica l'abbia
predisposta al suo lavoro critico?
Non saprei. Mio padre parlava
un eccellente milanese, ma era un caso pressoché unico in famiglia
perché gli altri parlavano dialetti vari. E io ho sempre diffidato dei
dialetti, ho sempre avuto riserve. Ricordo il primo impatto con Gadda, su cui
scrissi un saggio, dovuto proprio all'orrore che provocava in me il dialetto
all'epoca. Adesso lo usano tutti. Ricordo che il saggio su Gadda terminava con
un elogio di Manzoni, che aveva scritto il suo libro andando a risciacquare i
panni in Arno.
C'è qualche libro che avrebbe voluto vedere tradotto, o che
addirittura le sarebbe piaciuto tradurre?
Sì, quando si fa il
consulente editoriale capita di trovare libri interessanti che poi l'editore,
per qualche motivo, allontana. Ricordo il primo romanzo di un poeta della Rdt,
noto come oppositore, che proposi a Giulio Einaudi, ma fu rifiutato
perché poteva interessare solo i pochi iniziati ai misteri della
Germania Est.
Nelle Confessioni parla di una sorta di collaborazione con l'amico
Franco Fortini che traduceva il Faust. Vuol raccontare questa vicenda?
Sì, fu una
collaborazione che durò anni. Fortini mi aveva preso come consulente per
la lingua. Lui aveva sposato una svizzera tedesca, ma il tedesco non lo
conosceva troppo, lo ammise anche pubblicamente in una conferenza sulla traduzione.
Io gli mandavo i miei commenti su fogli scritti a macchina oppure a mano. Lui
si meravigliava sempre che non mi stupissi dei suoi risultati; io in
realtà mi stupivo, solo che non mi riesce di elogiare il prossimo. La
nostra era una collaborazione molto pacifica, ogni tanto però il poeta e
il pedante entravano in conflitto. Ricordo il caso della canzone della pulce,
che Mefistofele suona sul chitarrino nella scena della Taverna di Auerbach;
l'animale viene personificato creando un problema insormontabile perché
la pulce in tedesco è maschile, mentre in italiano è femminile.
Manacorda aveva risolto traducendo "il gran pulcion"; io, al
contrario, suggerii di femminilizzare il contesto e approfittai dell'occasione
per dare una mia versione un po' antiquata, alla Carducci o alla Giovanni
Prati. Fortini allora mi scrisse le famose parole: "Alla tua nascita
è mancata qualche musa". Altre volte, invece di indignarsi, rideva
di gusto della mia pedanteria, come quando gli spiegai che nella visione di
Margherita, mi riferisco alla scena della prigione, l'esecuzione non avviene
con un colpo di scure dall'alto in basso, ma con un moto trasversale della
spada, come stabiliva Carlo V nel suo codice del 1524.
Lei ha curato la pubblicazione di un gran numero di opere delle letteratura
tedesca, Schiller, Mann, Musil, Fontane, Brecht, Eichendorff... Che rapporti
aveva coi traduttori? Quali ricorda?
Roberto Fertonani diceva di me
che ero villano, ma che avevo spesso ragione. L'avevo salvato da un errore
madornale. Aveva tradotto tutto il Libro di devozioni domestiche di
Brecht senza accorgersi che era una parodia del libro di preghiere cattolico.
Questo mi dette l'idea della cecità degli italiani nei confronti del
bagaglio culturale cattolico. Un caso particolare è quello di Umberto
Gandini, un altoatesino che conosce molto bene il tedesco. Ma in generale il
problema più grosso è quello dell'italiano, per cui un poeta come
Fortini riusciva a ottenere buoni risultati benchè conoscesse poco la
lingua originale. Per un traduttore è molto più importante
conoscere bene la lingua d'arrivo che quella di partenza.
Qual è una buona traduzione per un editore e qual è una buona
traduzione per un accademico?
Gli editori cercano chi
traduce gli ossi duri, non badando poi troppo ai risultati. Per esempio, c'era
una traduzione di Gargantua e Pantagruel che presentava molti problemi e quando
mi lamentai del traduttore nella "cucina" della casa editrice, mi fu
detto: chi altro vuoi che fosse disposto a farlo? All'editore più che il
rigore filologico, interpretativo, sta a cuore che il libro esca in una
versione agevole. Per un accademico, invece, la traduzione ideale è
sempre la traduzione interlineare, che faccia un po' da stampella a chi vuol
leggere il testo in lingua.
La traduzione, a suo avviso, ha un qualche valore critico?
La traduzione è
certamente un atto critico. Non solo, ci sono traduzioni che in qualche modo
sono ricreazioni. In campo germanistico, ad esempio, le traduzioni di Baioni
sono eccellenti.
Due romanzi su tre acquistati dagli italiani sono traduzioni, un fenomeno
significativo. Ritiene che il livello medio delle traduzioni sia soddisfacente?
C'erano persone come la mia
amica Joyce Lussu, che è morta e quindi se ne può parlar male,
che teorizzavano l'errore e traducevano da lingue che non conoscevano. Ha
tradotto persino dall'esquimese. Ma come leggeremmo altrimenti poesie esquimesi
se non le avesse tradotte lei?
Crede che si possa insegnare a tradurre?
Sì che si può,
ma il come lo deve chiedere alla mia amica Magda Olivetti, che ha creato la
Scuola Europea di Traduzione Letteraria. Io ho imparato a tradurre in casa editrice,
da Einaudi, facendo revisioni, una scuola eccellente.
Studiare traduzione serve solo a tradurre?
No, come diceva Goethe, serve
anche a conoscere la propria lingua.
Lei è tra i fondatori del premio di traduzione Monselice...
Sì, mi aveva cooptato
Folena per il tedesco, ma ora non ci vado più.
Di Ilide Carmignani
Sulle spalle di un gigante: Incontro con Renata Colorni
Quando
è nato in lei l'interesse per il lavoro del traduttore e qual era allora
la sua formazione?
Conosco il tedesco fin da
bambina perché mia madre, Ursula Hirschmann, un'ebrea tedesca fuggita
nel 1933 dalla Germania, era una donna di grandissima intelligenza e
sensibilità, e non ha mai voluto che questa lingua andasse perduta.
Quindi le prime figlie l'hanno imparata da lei, mentre quelle che sono venute
dopo, quando mia madre parlava ormai abitualmente l'italiano, hanno frequentato
la scuola tedesca. Insomma, in casa era una lingua sempre presente, familiare,
e ovviamente me ne sono avvalsa negli studi. Mi sono laureata in filosofia medievale
e per qualche tempo ho anche collaborato con l'Università di Milano.
L'interesse per la traduzione è nato in seguito, quando sono stata
chiamata da Boringhieri a curare le opere di Freud.
Questi studi filosofici l'hanno in qualche modo aiutata nel suo lavoro di
traduttrice?
Sicuramente mi hanno aiutato a
considerare la traduzione come un lavoro che va a fondo della conoscenza, una
lettura che bada al significato, ai contenuti profondi del dettato letterario,
e non soltanto alla forma. E' chiaro, comunque, che tutte le esperienze
intellettuali, spirituali e anche umane che ciascuno di noi attraversa nel
corso della propria vita si aggrumano e imprimono un loro segno a quella che
alla fine eleggiamo come nostra attività professionale.
Lei ha tradotto molti autori illustri: Bernhard, Canetti, Dürrenmatt,
Roth, Schnitzler, Reventlow, Werfel... Ma la prima traduzione che viene alla
mente è quella delle opere di Freud, a cui accennava prima. Nel 1973,
Paolo Boringhieri la chiama a Torino, sa che lei ha maturato una vasta
esperienza in campo psicologico lavorando nella casa editrice Franco Angeli di
Milano, dove ha creato una serie di collane accademiche, non solo di psicologia,
ma anche di pedagogia, geografia umana, architettura, e le affida il compito
esclusivo di curare l'edizione italiana delle opere di Sigmund Freud. Vuol
raccontarci questa impresa che, almeno dal di fuori, appare titanica?
Francamente, anche dal di
dentro. Bisogna però compiere un passo indietro e raccontare cosa era
l'editoria di cultura di quegli anni, trent'anni fa. L'editoria di allora
consentiva a un uomo come Paolo Boringhieri, che era profondamente appassionato
del suo lavoro e delle sue scelte culturali, di destinare una persona interna
alla casa editrice, perché io ero assunta a tutti gli effetti, ero una
dipendente insomma, a coordinare, rivedere, tradurre, annotare, curare le opere
di Freud. Ho lavorato per sei anni consecutivi a questa edizione, senza
occuparmi di nient'altro. Oggi una casa editrice non potrebbe più
permettersi una cosa del genere, forse una fondazione, un centro di studi, un
CNR, ma certo non un'impresa privata a scopo di lucro.
Quando io sono arrivata da Boringhieri, erano già usciti alcuni volumi, L'interpretazione
dei sogni, per esempio, ma non esisteva ancora una terminologia condivisa,
un glossario coerente e compatto del linguaggio psicoanalitico freudiano. La
direzione di Musatti, il più grande psicoanalista italiano, era
francamente una direzione assai lontana; il lavoro toccava a me (ma di grande
aiuto sono state le discuusioni che ho avuto con Paolo Boringhieri stesso e con
Michele Ranchetti) ed è stato un lavoro assai complesso. Si trattava di
rivedere le traduzioni già esistenti, ricordo ad esempio i Casi
clinici di Mauro Lucentini, ma anche di tradurre moltissimi testi ancora
inediti in italiano. E infine bisognava introdurre e annotare tutti i testi,
sia quelli già tradotti che quelli mai tradotti, avvalendosi soprattutto
della Standard Edition inglese della Hogarth Press, perché, anche
se può sembrare strano, era l'unica annotata.
Il fascino di questo lavoro è stato la possibilità di una total
immersion in una disciplina per me nuova e nel mondo di un autore che era
anche un grandissimo scrittore. E' lì che mi sono appassionata alla
traduzione come lavoro letterario. A dire il vero mi sono appassionata anche
alla psicoanalisi e alla fine di questo percorso ho avuto un grandissimo dubbio
personale, se continuare a occuparmi di traduzione, e quindi restare
all'interno del mondo editoriale, o se spostarmi su un'analisi, un'analisi
didattica; motivi anche pratici, avevo due bambine allora, mi hanno impedito di
compiere questa seconda scelta, perché in sostanza si trattava di
spendere invece che di guadagnare. Poi sono stata chiamata in Adelphi da
Roberto Calasso, che aveva apprezzato le mie traduzioni di Freud proprio dal
punto di vista della loro qualità letteraria. Quando mi ha detto che
voleva affidarmi i testi di letteratura tedesca, io ho risposto che ero una
filosofa, non una letterata, e lui ha ribattuto che forse ancora non lo sapevo,
ma le mie traduzioni di Freud avevano chiaramente questa valenza.
Che cosa significa tradurre l'opera omnia di un autore, e di un autore come
Freud in particolare?
Significa quello che ha sempre
significato, almeno per me, la traduzione, e cioè immedesimarsi a fondo
nel mondo di un autore e porsi il problema di dargli voce. Naturalmente se
l'opera, come per Freud, è un'opera vasta, completa, articolata,
è più facile, nel senso che una volta trovato il registro, la
cifra, il tono di quella voce, basta seguirlo nei contenuti. Dopodiché i
problemi diventano quelli della singola immagine, della singola ricerca, sugli
argomenti che man mano si presentano. Nel caso di Freud, ovviamente, mi hanno
molto aiutato anche letture di testi che lo riguardano e che riguardano i temi
da lui trattati. In altre parole, a mio avviso, la competenza richiesta a un
traduttore di un'opera significativa per i suoi contenuti, è certo di
conoscere molto bene la lingua di partenza, ma anche ciò di cui si sta
parlando, la materia insomma. Quanto alla resa letteraria, decisiva è
invece la lingua d'arrivo.
Lei ha affrontato testi assai diversi. Abbiamo parlato dei saggi di Freud,
ma penso ad esempio anche allo stile ironico, paludato e becero al contempo, di
un libro delizioso, La morte della Pizia, di Dürrenmatt, o
all'affascinante incisività di Canetti. In che modo un traduttore riesce
ad assumere voci così diverse?
Il traduttore è una
bestia un po' particolare. Così come io l'ho fatto e come lo intendo,
è una persona molto disposta all'ascolto, a restare nell'ombra, dotata
di grande umiltà e devozione, forse di masochismo, ma anche di un'enorme
curiosità.
Ora che il mio lavoro, del tutto diverso, mi porta a incontrare molti
scrittori, a conoscerne a fondo la psicologia, credo di poter dire che in
generale, ma esistono naturalmente vistose e luminose eccezioni, si tratta di
persone pochissimo curiose. Lo scrittore è in genere una persona molto
concentrata sul proprio ego, sul proprio modo di esprimersi, sul proprio mondo.
Grande o piccolo non importa, è sempre ferocemente attaccato a una sua
espressività e spesso ha poco interesse per la voce degli altri. Anche
il modo in cui legge è fagocitante, cannibalico, legge per trarne
qualcosa.
Il traduttore ha una disposizione psicologica molto diversa, è disposto
a far tabula rasa di se stesso, e anche di quelle che sono le sue eventuali
doti espressive. È molto capace di ascoltare e, quando ascolta, si mette
al servizio del testo e dell'autore che affronta. Ma sotto questa specie di
masochismo, questo atteggiamento di umiltà, si cela anche quello che io
considero un luciferino orgoglio, perché nel momento in cui traduce, il
traduttore sa che la sua opera è importante, che è un'esecuzione.
Mi piace pensare al traduttore come a un esecutore, a un interprete, a un
attore, perché sostanzialmente il nostro è un lavoro di
mediazione artistica. Lo scrittore scrive con uno strumento, un linguaggio suo,
e dentro un mondo suo; noi che traghettiamo questi contenuti e queste forme in
un'altra realtà linguistica, in un altro universo musicale, lo
interpretiamo con il nostro linguaggio e nel nostro mondo. La prima parte del
nostro lavoro consiste dunque nel mettersi in devoto ascolto della voce
dell'autore, ma nella seconda fase c'è il senso orgoglioso che autori
siamo anche noi, noi che gli prestiamo una voce, la sua voce nella nostra
lingua . Quando i giovani mi chiedono consigli per avviarsi a questo mestiere,
io dico sempre di leggere molto, moltissimo, ma in italiano. Dobbiamo muoverci
con versatilità e capacità mimetica nell'universo della nostra
letteratura, non dimentichiamolo; quello che differenzia un buon traduttore
letterario da un semplice traghettatore di contenuti che opera una versione di
servizio, interlineare, è la capacità di trovare, nella lingua
d'arrivo, uno stile . Per fare questo dev'essere lui stesso un po' scrittore.
Provo a chiarire: un buon traduttore dev'essere in grado di ritagliare un posto
per la voce di Thomas Bernhard all'interno della lingua letteraria italiana del
Novecento, operazione delicata e difficile che ha un suo valore artistico vero.
Cito Bernhard perché è un autore che mi interessa moltissimo e sul
quale ho molto lavorato. Tradurre un libro di Bernhard è, in un certo
senso, come tradurli tutti: una volta che ci si sia impossessati della sua
voce, si è ormai in grado di andare avanti, ma appropriarsene è
difficilissimo, perché è impossibile restituire l'ossessività
e la cupezza della sua prosa, e nello stesso tempo la sua musicalità e
ironia, con una versione letterale; è indispensabile, in questo come in
molti altri casi, allontanarsi dalla lettera del testo, in qualche modo dunque tradirla,
per realizzare una fedeltà più alta, la fedeltà al
suo spirito, al suo tono, al suo stile, dunque alla sua arte. Il traduttore,
qui, deve farsi scrittore. Ho tradotto alcuni libri di questo autore e di molti
altri ho rivisto in profondità traduzioni di miei colleghi. Ho letto e
riletto tutti i suoi libri in modo da farmi risuonare dentro la musica non solo
del testo che al momento dovevo affrontare, ma dell'intera sua opera,
perché era proprio un mondo, un mondo immaginativo e di contenuti e di
forme, di cui avevo bisogno di appropriarmi, e solo facendolo risuonare tutto
dentro di me sono riuscita a trovare, spero, una strada nell'italiano.
Il traduttore quindi deve avere talento letterario, anche se poi preferisce
ascoltare gli altri invece che se stesso...
L'atteggiamento del traduttore
è quello di uno che non si appaga di sé, e che si appaga solo nel
momento in cui si appoggia sulle spalle di un gigante. Il traduttore letterario
è in qualche modo uno scrittore mancato, un artista camaleontico e
libertino, incapace di dare vita a un mondo immaginativo suo, ma appassionato
curioso e versatile abbastanza da saper dare espressione originale ai molti
mondi degli autori che ammira e con i quali sente una profonda consonanza.
Quando mi occupavo soprattutto di traduzione, non scrivevo niente di mio, mai.
Ora che non me ne occupo più, le confesso che anche semplicemente
buttando giù una lettera a un'amica, mi viene voglia di scrivere. La
traduzione è un vero alimento per un certo tipo di creatività.
Ricordo che quando ho tradotto La morte della Pizia, un libriccino
breve, ho letto tantissimo, Graves e Kereny per esempio, per appropriarmi di un
certo linguaggio aulico, benché poi mi trovassi a fare i conti anche con
la una lingua sporca, rozza perfino, che fa innegabilmente parte del DNA di
Dürrenmatt. Il traduttore ha questa fortuna, si immerge in più
mondi, ascolta più voci, vive più vite, si dedica a studi
diversi, che poi diventano patrimonio della sua vita, della sua personale
cultura.
In effetti la traduzione deve racchiudere qualche piacere, visto che di
solito non porta né denaro né fama...
Io sono stata fortunata nella
mia vita perché ho lavorato come traduttrice all'interno delle case
editrici, prima Boringhieri e poi Adelphi. D'altro canto ho anche dato
moltissimo, nel senso che ho profuso la mia esperienza di traduttore
soprattutto nell'attività di editor, di revisore di traduzioni altrui.
Effettivamente, benché ce ne siano in giro di bravissimi, i traduttori
appartengono a una categoria professionale misconosciuta o comunque non
sufficientemente apprezzata . Basta pensare che molti dei nostri critici
letterari quando parlano a lungo di un libro per elogiarne la qualità
letteraria (e a tal fine magari ne citano lunghi brani), spesso si dimenticano
addirittura di citare il nome del traduttore! I traduttori letterari inoltre
sono mal pagati. In Italia, per esempio, non hanno diritti d'autore, mentre
all'estero sì, anche se alla fin fine la percentuale sulle vendite crea
problemi, perché il rischio è che tutti vogliano tradurre solo
bestseller. La verità è che il lavoro del traduttore letterario
è un lavoro amatoriale, come del resto anche quello dello scrittore:
salvo poche eccezioni il giovane che pubblica finalmente un romanzo non campa
certo dei suoi diritti d'autore.
Quali sono le traduzioni a cui è più affezionata?
Alcuni testi straordinari del
Freud più intensamente teorico che, per motivi anche personali, ho amato
molto, come l'Introduzione al narcisimo, e l'Analisi terminabile e
interminabile. Poi un libro di Canetti,
C'è qualche autore che avrebbe voluto tradurre, ma per vari motivi
non è stato possibile?
Sì, Kafka,
perché è per me il più grande scrittore del Novecento. Un
giorno o l'altro forse lo farò.
Molti editori hanno alle spalle almeno qualche piccola esperienza di
traduzione. Perché?
Molti ma non tutti. Diciamo
che alcuni editori e molti editor e funzionari importanti si sono cimentati con
questo lavoro. Secondo me il discorso è molto semplice: il lavoro di
traduzione è il primo che viene in mente di fare se uno ha amore per la
letteratura, se ama leggere e scrivere e addentrarsi in quel mondo. Chi poi
diventa editore, è perché ci si appassiona vieppiù.
Crede che il lavoro di traduzione sia un'esperienza utile per un editore?
Utilissima, perché solo
chi è stato traduttore o comunque conosce le implicazioni di questa
importante attività letteraria capisce che una buona traduzione
può essere decisiva per il successo editoriale di un libro. E che,
viceversa, una cattiva traduzione può decretare la sordità del
pubblico nei confronti di autori e libri di grande qualità . Chi non ha
mai fatto o apprezzato fino in fondo questo lavoro ha indifferenza verso le
traduzioni e tale indifferenza dà luogo a pessime edizioni. Io in questo
momento mi occupo di scelte editoriali ( sono responsabile della collana I
meridiani di Mondadori ) ma ritengo che il mio lavoro di editore sia
immensamente influenzato dalla lunga consuetudine con i problemi della
traduzione letteraria. Non concepisco un volume dei Meridiani di un autore
straniero se non mi sono prima assicurata che quell'autore possa essere
presentato in una buona traduzione . Un direttore dei Meridiani che non avesse
questa esperienza della traduzione, questa attenzione per la traduzione,
farebbe probabilmente scelte diverse. A mio avviso, insomma, non si fa buona
editoria se non si presta un'immensa attenzione al lavoro di traduzione.
In che modo deve intervenire un redattore su una traduzione?
Tanto per cominciare, un
revisore di traduzioni deve essere lui stesso un buon traduttore. Non
può essere uno con la matita rossa e blu che individua l'errore, la
falla, la svista, il piccolo salto: queste sono cose che succedono, che vanno
viste e emendate , ma il lavoro del revisore non si riduce a questo. Ecco
perché, quando rivedevo le traduzioni di testi letterari tedeschi per
Adelphi, lavoro a cui mi sono dedicata per sedici anni della mia vita, ho
chiesto di potermi esprimere ogni tanto non solo come editor, ma anche come
traduttrice in proprio; non si è trattato soltanto di una esigenza
dettata dall'amore per certi autori o dal desiderio di cimentarmi con un testo
particolarmente importante; dovevo mettermi in gioco, affrontare la pagina
bianca e non solo reagire alla pagina scritta da altri per acquistare e
conservare autorevolezza nei confronti di quelli a cui "facevo le
pulci".
E poi è importante che i traduttori accettino di sottoporsi a prove.
Anche un traduttore bravo, che ha lavorato molto bene su un certo autore,
può non essere in consonanza con quello che gli si propone di tradurre o
con i criteri che, a torto o ragione, il revisore ritiene fondamentali per un
lavoro corretto . Il revisore dovrebbe avere un contatto molto intenso, fin
dall'inizio del lavoro, col traduttore. E' importante che ci si parli, ci si
capisca.
Quando poi il revisore si trova davanti la traduzione pronta, deve mettere a
disposizione di quel testo tutto la propria competenza e, perché no,
tutta la propria creatività. Qualche volta l'editor può trovare
una soluzione più felice del traduttore o, come spesso accade,
può fornire al traduttore uno stimolo a trovare lui stesso una nuova,
più felice soluzione. Nello stesso tempo però, proprio
perché la voce del traduttore è o dovrebbe essere una voce
letteraria originale, anch'essa va rispettata. Forse io, revisore, avrei reso
diversamente quella parola o quella pagina, ma se individuo nella pagina del
traduttore coerenza, sensibilità, sensatezza, devo essere capace di fare
un passo indietro. Il lavoro del revisore è particolarmente delicato e
difficile ( e non certo esente da frustrazioni ) perché egli è
tenuto a una doppia oblatività, e cioè al rispetto sia per la
voce dello scrittore sia per quella del traduttore: a lui tocca il compito di
inserirsi negli interstizi fra questi due rispetti per fare qualcosa - e si
tratta spesso di operazioni decisive di vario genere - nell'interesse del
libro. Un buon revisore si mette al servizio di queste due voci, in un lavoro
ancora più oscuro di quello del traduttore, ancora più nascosto,
in un lavoro di amicizia e alleanza, che ha come unico scopo quello di rendere
più corretta e più smagliante la pagina.
Talvolta i rapporti fra redattore e traduttore tendono al conflitto.
Perché?
Il traduttore lavora spesso in
condizioni non esenti da una certa frustrazione: la fretta, la carenza di
denaro e di riconoscimenti e così via ; non stupisce dunque che egli
veda il redattore, che è o un funzionario nella casa editrice o un
professionista esterno a cui l'editore delega una funzione di controllo e di
giudizio, come una persona più fortunata, ma anche come una specie di
ottuso burocrate o addirittura di persecutore. Del resto l'editor non sempre
è un grande traduttore e quindi si può creare una situazione
ingiusta e in qualche modo paradossale: il redattore ha il coltello dalla parte
del manico, ma il traduttore si sente la persona più autorevole,
più autenticamente legittimata ad avere l'ultima parola ( anche
perché firma il lavoro). Confesso però che ho avuto anche
esperienze assai curiose con persone che con grande noncuranza hanno accettato
che la loro traduzione venisse rifatta in casa editrice; quando poi hanno vinto
premi, hanno avuto riconoscimenti, si sono dimenticate di ringraziare.
A proposito di premi... Lei ha raccolto moltissimi riconoscimenti. Nel 1987
ha ottenuto il Premio Goethe per le sue traduzioni di Freud e per i saggi di
Elias Canetti contenuti nel volume La coscienza delle parole; nel 1991,
il Premio Monselice per Una scrittura femminile azzurro pallido di Franz
Werfel e Il nipote di Wittgenstein di Thomas Bernhard; nel 1995, il
Premio Grinzane Cavour e, nel 1997, il Premio Nazionale per la Traduzione del
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. La sua autorevolezza in materia
è fuori discussione. Posso chiederle quindi come si deve tradurre?
Non so rispondere a questa
domanda. Le dico solo che, per fare questo lavoro al meglio, è
necessaria una vera grande devozione per la letteratura e la capacità di
dimenticarsi di sé ma anche di ritrovare una propria piccola, orgogliosa
e un po' perversa, capacità autoriale. E' un percorso da montagne russe:
scendere fino in fondo nell'occultamento di sé per farsi invadere dalla
voce di un altro, farsene permeare, ma poi cercare nella profondità di
se stessi un modo per restituirla. E' un percorso di estrema oblatività
a cui fa seguito uno scatto di orgoglio creativo Ci vuole anche, ovviamente,
una grande acribia, e conoscenza, e competenza, e, quando è il caso,
cultura specifica ; aiuta molto in questo lavoro la curiosità
intellettuale, e perfino la disponibilità affettiva, verso mondi ed
esperienze diversi dai nostri, e la consapevolezza che il dilettantismo
intellettuale è un atteggiamento nobile e divertente che aiuta ad
affrontare il mondo e a compensarci della nostra pochezza.
Crede che si possa insegnare a tradurre?
Io credo solo in parte
all'efficacia dell'insegnamento della traduzione letteraria . Se fra le
abilità precipue e indispensabili del traduttore c'è il talento
letterario, il talento dello scrittore, e in particolare dello scrittore
erratico, rapsodico, libertino, perché il traduttore è uno
scrittore che oggi fa questo e domani quello, ebbene, questo talento non si
insegna, così come non si insegna a diventare scrittori o poeti. Quello
che si può insegnare è il serio e maniacale artigianato, la
accanita consultazione dei dizionari, l'importanza della lettura di autori
letterari italiani coevi all'autore che si deve tradurre, sempre sperando che
ci sia l'orecchio, che non manchi del tutto il talento o che esso maturi con
l'esercizio e l'esperienza. E naturalmente anche i trucchi del mestiere. Faccio
un esempio: La morte della Pizia è un testo con forti accensioni
sarcastiche, ma non è detto che in italiano quella tonalità sia
possibile restituirla dove era in tedesco; l'importante è che essa sia
recuperata altrove, espressa sulla pagina. Ecco, questo si può
insegnare.
E ammesso che il talento non manchi, come si impara a tradurre?
Traducendo e lavorando su
autori diversi, rivedendosi e confrontandosi con chi ha più esperienza .
Lei ha tenuto seminari sulla traduzione letteraria all'Università di
Roma, di Pavia e anche in Germania. Che tipo di esperienza è stata?
Sì, mi è
capitato di tenere lezioni, me l'hanno chiesto più volte, ma sono poco
interessata alla teoria della traduzione. Allora ho preso il testo tedesco di
un libro molto bello, La signorina Else di Arthur Schnitzler, la mia
traduzione e le quattro o cinque versioni italiane precedenti - non erano
traduzioni con errori, a parte il fatto che i singoli errori non sono poi
così importanti, si eliminano e via, è molto peggio una voce che
non funziona -, ho analizzato le primissime pagine del testo spiegando agli
studenti davanti a me perché avevo fatto determinate scelte. In fondo ho
fatto critica letteraria.
Due romanzi su tre acquistati dagli italiani sono traduzioni, si tratta
quindi di un fenomeno importante. Ritiene che il livello medio delle traduzioni
sia soddisfacente? Se così non fosse, su chi ricade a suo avviso la
responsabilità? Come si potrebbe porvi riparo?
No, ritengo che il livello
medio delle traduzioni non sia del tutto soddisfacente. Il problema è
che in Italia si legge poco, gli editori di cultura hanno profitti modesti e
non possono permettersi di pagare di più i loro collaboratori. In Olanda
e in Germania, dove si legge molto, i traduttori sono trattati meglio.
C'è però forse anche una sottovalutazione di questo lavoro.
Peccato che non tutti gli editori siano stati traduttori. Darebbero più
importanza a questo bellissimo mestiere, investirebbero di più nelle
traduzioni, e i traduttori, vivendo in condizioni meno grame, lavorerebbero
meglio.
Di Ilide Carmignani