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LORENZO DE’ MEDICI

CANZONIERE

E ALTRE RIME

Edizione di riferimento:

Lorenzo de’ Medici, Canzoniere, in Lorenzo de’ Medici, Tutte le opere, a cura di P. Orvieto, Roma, Salerno 1992.

CANZONIERE

 

I

 

Tanto crudel fu la prima feruta,

sì fero e sì veemente il primo strale,

se non che speme il cor nutrisce ed ale,

sare’mi morte già dolce paruta.

E la tenera età già non rifiuta

seguire Amore, ma più ognor ne cale;

volentier segue il suo giocondo male,

poi c’ha tal sorte per suo fato avuta.

Ma tu, Amor, poi che sotto la tua insegna

mi vuoi sì presto, in tal modo farai,

che col mio male ad altri io non insegna.

Misericordia del tuo servo arai,

e in quell’altera donna fa’ che regna

tal foco, onde conosca gli altrui guai.

 

II

 

Era nel tempo bel, quando Titano

dell’annual fatica il terzo avea

già fatto, e co’ sua raggi un po’ pugnea

d’un tal calor, che ancor non è villano;

vedeasi verde ciascun monte e piano,

e ogni prato pe’ fiori rilucea,

ogni arbuscel sue fronde ancor tenea,

e piange Filomena e duolsi invano;

quando io, che pria temuto non avria,

se Hercole tornato fussi in vita,

fu’ preso d’un leggiadro e bello sguardo.

Facile e dolce all’entrar fu la via;

or non ha questo laberinto uscita,

e sono in loco dove sempre io ardo!

 

III

 

Già sette volte ha Titan circuito

nostro emispero e nostra grave mole:

per me in terra non è stato sole,

per me la luce o splendor fuor non uscito.

Ond’è ch’ogni mio gaudio è convertito

in pianto oscuro, e più ognor mi duole,

veder Amor che ne’ principii suole

parer placato, ognor più incrudelito.

Tristo principio è questo al nostro amore,

e già mi pento della prima impresa,

ma or quando aiutar non me ne posso;

ch’io sento arder la face a mezzo il core,

e oramai troppo è questa esca accesa.

Dunque, ben guardi ogn’uom pria che sia mosso.

 

IV

 

Sonetto fatto quando una donna che era ita in villa

 

Felici ville, campi e voi silvestri

boschi e’ fruttiferi arbori e gl’incolti,

erbette, arbusti, e voi, dumi aspri e folti,

e voi, ridenti prati al mio amor destri;

piagge, colli, alti monti ombrosi alpestri,

e fiumi, ove i be’ fonti son raccolti;

voi, animal’ domestici e voi, sciolti

ninfe, satiri, fauni e dii terrestri;

omai finite d’onorar Diana,

perché altra dea ne’ vostri regni è giunta,

che ancor ella ha suo arco e sua faretra.

Piglia le fere ove non regna Pana:

e quella che una volta è da lei punta,

come Medusa, la converte in pietra.

 

V

 

Occhi, poi che privati in sempiterno

siate veder quel Sol che alluminava

vostro oscuro cammino e confortava

la vista vostra, or piangete in eterno.

La lieta primavera in crudo verno

or s’è rivolta, e ’l tempo ch’io aspettava

esser felice più e disiava,

m’è più molesto: or quel ch’è Amor discerno!

E se dolce mi parve il primo strale,

e se soave la prima percossa,

e se in prima milizia ebbi assai bene,

ogni allegrezza or s’è rivolta in male,

e per piacevol via in cieca fossa

caduto son, ove arder mi conviene.

 

VI

 

Felice terra, ove colei dimora,

la qual nelle sue mani il mio cor tiene,

onde a suo arbitrio io sento e male e bene,

e moro mille volte e vivo l’ora.

Or affanni mi dà, or mi ristora:

or letizia, or tristizia all’alma viene;

e così il mio dubbioso cor mantiene

in gaudii, in pianti: or convien viva, or mora.

Ben sopra l’altre terre se’ felice,

poi che duo soli il dì vedi levare,

ma l’un sì chiar, che invidia n’ha il pianeta.

Io veduto ho sei lune ritornare

sanza veder la luce che mi queta,

ma seguirò il mio Sol, come fenice.

 

VII

 

Non potêr gli occhi miei già sofferire

i raggi del suo viso sì lucente;

non poté la mia vista esser paziente

a qual vedea de’ dua belli occhi uscire.

Ma par contr’a ragione se io ne ammire,

perch’è cosa divina, sì eccellente,

che non patisce che l’umana mente

possa la gran bellezza sua fruire.

Costei cosa celeste, non terrena,

data è agli uomin’, superno e sol dono,

e è venuta ad abitare in terra.

Ogni alma, che lei vede, si asserena;

ed io per certo infelice pur sono,

che agli altri pace dà, a me sol guerra.

 

VIII

 

La debil, piccioletta e fral mia barca

oppressata è dalla marittima onda,

in modo che tanta acqua già vi abonda,

che perirà, tanto è di pensier’ carca.

Poiché invan tanto tempo si rammarca,

e par Nettuno a’ suo prieghi s’asconda

tra scogli, e dove l’acqua è più profonda;

or pensi ognun con che sicurtà varca.

Io veggio i venti ognor ver’ me più feri,

ma Fortuna e Amor, che sta al timone,

mi disson non giovar l’aver paura;

ch’è meglio in ogni avversitate speri.

E par che questo ancor vogli ragione,

che colui alfin vince, che la dura.

 

IX

 

Poi che a Fortuna, a’ mie prieghi inimica,

non piacque, che potea, felice farmi,

né parve dell’umana schiera trarmi,

perché beato alcun non vuol si dica;

colei, Natura in cui tanta fatica

durò per chiaramente dimostrarmi

quella, la qual mortale al veder parmi,

nelle cose terrene non s’intrica;

qual più propria ha potuto il magistero

trar della viva e natural sua forma,

tal ora è qui: sol manca ch’ella anele.

Ma, se colui ch’espresse il volto vero,

mostrassi la virtù che in lei s’informa,

che Fidia, Policleto e Prassitèle?

 

X

 

Nel picciol tempio, di te sola ornato,

donna gentile e più ch’altra eccellente,

o de’ moderni o dell’antica gente,

pel tuo partir poi d’ogni ben privato,

sendo da mia fortuna trasportato

per confortar l’afflitta alma dolente,

m’apparve agli occhi un raggio sì lucente

che oscuro di poi parmi quel che guato.

La cagion, non potendo mirar fiso,

pensai lo splendor esser d’adamante

o d’altra petra più lucente e bella,

per ornar posta, ornata lei da quella;

ma poi mutai pensiero, e il radiante

raggio conobbi, ch’era il tuo bel viso.

 

XI

 

Sonetto fatto a Reggio, tornando io da Milano,

dove trovai novelle che una donna aveva male.

 

Temendo la sorella del Tonante,

che a nuovo amor non s’infiammasse Giove;

e Citerea che non amassi altrove

il fero Marte, antico e caro amante;

la casta dea delle silvestre piante,

invida alle bellezze oneste e nove;

Pallade, che nel mondo si ritrove

donna mortal più casta e più prestante,

ferono indebilir le sante membra,

ch’èn di celeste onor, non di mal degne.

Ah, invidia, insin nel ciel tien’ tua radice!

Tu, biondo Apollo, se ancor ti rimembra

del tuo primiero amore, e non si spegne

pietade in te, fammi (ché puoi) felice!

 

XII

 

Spesso ritorno al disiato loco,

onde mai non si parte l’afflitt’alma,

che ne solea già dar riposo e calma,

pria ésca, or nutrimento del mio foco.

E questo fu cagion che a poco a poco

missi le spalle all’amorosa salma,

per acquistar la disiata palma,

la qual chiedendo già son fatto roco.

Per refletter facieno i santi rai,

già il vidi ornato e di splendor fulgente,

tal che in esso mancava mortal vista.

Se allor piacer mi dette, or mi dà guai,

trovandol d’ogni ben privo e carente:

così spesso si perde ove s’acquista.

 

XIII

 

Arà, occhi, mai fine il vostro pianto?

Ristagnerà di lacrime mai il fiume?

Non so, ma, per quanto ora il cor presume,

temo di no; vòlto ha Fortuna ammanto.

Solea già per dolcezza in festa e in canto

viver lieto, però che il santo lume

del mio bel Sole, e quel celeste nume

propizio mi era, onde ero lieto tanto.

Or, poi che tolta m’è la santa luce,

che ne mostrava la via nelle ambage,

veggo restarmi in tenebre confuso.

E se tal via a morte ne conduce,

maraviglia non è che la mia strage

veder non posso, perché il ver m’è chiuso.

 

XIV

 

L’arbor che a Febo già cotanto piacque,

più lieto o più felice che altre piante

e per se stesso e per suo caro amante,

umbroso e verde un tempo, in terra giacque.

E poi, non so per cui difetto nacque,

che Febo torse le sue luci sante

dalla felice pianta e ’l bel sembiante,

onde è cagion d’assai lacrimose acque,

cangiâr color le liete e verde fronde,

e il lauro, ch’era prima umbroso e florido,

si mutò al mutar de’ febei raggi.

Le pene sempre son pronte e feconde:

lieve cosa è mutar il lieto in orido,

onde convien ch’ogni speranza caggi.

 

XV

 

Non t’è onor, Amor, l’avermi preso

e ingannato ne’ miei teneri anni,

quando l’età disposta era agl’inganni,

e poca gloria è, se hai l’esca acceso.

E, se io m’arresi, a torto m’hai offeso,

dato aspre pene, doglie e tanti affanni:

contr’a dure arme e non venerei panni,

riserba le saette e l’arco teso:

ché resultar ne suol più gloria al vinto,

se è debile, e potente è il vincitore:

così manca tua gloria a poco a poco.

Già di divin’ prigion’ ti vidi cinto,

e ’l cielo e ’l mondo tenevi in tremore,

e la stige palude: ora ardi il foco!

 

XVI

 

Fuggo i bei raggi del mio ardente sole,

silvestra fera all’ombra delle fronde,

e vo cercando ruscelletti e fonti

per piagge e valli e pe’ più alti poggi,

ove le caste ninfe di Diana

vanno seguendo li animal’ pe’ boschi.

Benché all’ombra de’ faggi spesso imboschi,

cercando di difendermi dal sole,

non può far ciò che al mondo è di Diana,

che io mi ricopra tra le verdi fronde

dal foco, qual non teme ombra di poggi,

né si spegne per l’acqua de’ chiar’ fonti.

Ma le lacrime mie fan nuovi fonti,

che annacquando spesso i verdi boschi

rigan per li alti e più elati poggi;

né però il foco del mio chiaro Sole

scema, e più verde l’amorose fronde

rinascon ne’ be’ luoghi di Diana.

Io mi credea per l’arte di Diana

passasse il mio dolore, e’ vivi fonti

spegnessi il foco, e l’ombra delle fronde,

la qual cercando vo per tanti boschi,

fussi ostacolo a’ raggi del chiar Sole,

e che potessi meno in valle e poggi.

Foco è l’aura che spira alli alti poggi;

son più e pensier’ per l’arte di Diana,

e quant’è più lontan, più arde el sole;

e foco è l’acqua de’ più freschi fonti,

e foco è l’ombra delli oscuri boschi,

e foco è l’onde e l’ombre, arbori e fronde.

Che, benché sia in mezzo delle fronde

questa carca mortale, e su pe’ poggi,

e, seguendo le fier’ per campi e boschi

vada ne’ bei paesi di Diana

e cerchi il suo rimedio all’ombra e fonti,

pur non è mai lontano il cor dal Sole.

Mentre che ’l sole allumerà le fronde,

e’ fonti righeran per li alti poggi,

la mia Diana seguirò pe’ boschi.

 

XVII

 

Io seguo con disio quel più mi spiace,

e per più vita spesso il mio fin bramo,

e per uscir di morte, morte chiamo,

cerco quiete ove non fu mai pace;

vo drieto a quel ch’io fuggo e che mi sface,

e ’l mio inimico assai più di me amo,

e d’uno amaro cibo non mi sfamo,

libertà voglio e servitù mi piace.

Tra ’l foco ghiaccio, e nel piacer dispetto,

tra morte vita, e nella pace guerra

cerco, e fuggire onde io stesso mi lego.

Così in turbido mar mio legno reggo:

né sa tra l’onde star, né gire a terra,

e cacciato ha timor troppo sospetto.

 

XVIII

 

Da mille parti mi saetta Amore,

accompagnato da crudel Fortuna,

onde in una ora sento mille morte,

e mille volte surge l’afflitt’alma,

la qual, tirata da un vano disio

vive e muor come piace a chi la regge.

Ma, s’egli avvien talor che chi la regge

non si disdegni ad ubbidire Amore,

e governar si lasci dal disio,

allor con prosper vento vien Fortuna,

e se s’allegra alquanto la trista alma,

è poi cagion d’assai più dura morte.

Così più il viver piace, quando Morte

talor minaccia; pur Speranza regge

ne’ duri casi sempre intera l’alma.

Questa tenuto m’ha servo d’Amore,

né mai, benché stil cangi ria Fortuna,

cangia’ per pene o cangerò disio.

Pria che si muti il mio fermo disio,

frigide lascerà mie membra morte;

né potrà tanto far crudel Fortuna,

che sempre non mi regga chi mi regge;

chi può però da quel che piace a Amore

levare il suo pensiero o mutar l’alma?

Dunque invan merto aspetta la trista alma,

forzata a far del suo altrui disio;

ma benché sciolto mi lasciassi Amore

e ’l fragil corpo mancassi di morte,

quella che ’l mondo onora e che me regge

seguirò sempre, o in buona o in ria fortuna.

Né mai potrassi gloriar Fortuna,

che possi far cangiar sua voglia all’alma:

ché quel che ’l cielo, e ’l mondo e Pluto regge

libero dienne e sciolto ogni disio.

Tu mi puoi ben qualch’anno affrettar morte,

ma non disciôrmi onde mi legò Amore.

Non mi sciôrrà da Amor già mai Fortuna,

né mai per morte cangerassi l’alma,

se dopo lei il disio per sé si regge.

 

XIX

 

Pien d’amari sospiri e di dolore,

pien di varii pensier, afflitto e mesto,

vo trapassando di mia vita il resto,

come piace a colui ch’è mio signore.

E, seguendo Fortuna il suo tenore,

ho dubbio non venir a cosa presto,

che arà pietà chi è cagion di questo

quando io sarò di tante pene fore.

Così fra questi miei sospiri e pianti

nutrirò la mia vita, infin che a Cloto

e le suore parrà che ’l fil si schianti.

Ma fia d’ogni dolore il mio cor vòto,

se per morte ubidisco a’ lumi santi,

ché mi fia vita esser da lei rimoto.

 

XX

 

Amor, che hai visto ciascun mio pensiero

e conosciuto il mio fedel servire,

fammi contento, o tu mi fa’ morire!

Stare in vita sì aspra e in tal dolore,

confortar l’alma di sospiri e pianti,

certo, signor, sare’ morir men rio.

Se tu hai l’arco e la faretra, Amore,

perché il ghiacciato cor non rompi e schianti?

Non dee donna mortal ostare a Dio!

Riguarda all’onor tuo e mio desio:

pon’ fine omai al mio lungo martìre,

perch’è vicin già l’ultimo sospire.

 

XXI

 

Donna, vano è il pensier che mai non crede

che venga il tempo della sua vecchiezza,

e che la giovinezza,

abbi sempre a star ferma in una tempre.

Vola l’etate e fugge,

presto di nostra vita manca il fiore:

e però dee pensar il gentil core

ch’ogni cosa ne porta il tempo e strugge.

Dunque dee gentil donna aver merzede

e non di sua bellezza essere altera:

perché folle è chi spera

viver in giovinezza e bella sempre.

 

XXII

 

Quante volte per mia troppa speranza,

da poi che fui sotto il giogo d’Amore,

bagnato ho il petto mio d’amari pianti!

E quante volte, pur sperando pace

da’ santi lumi ho desiato vita,

e per men mal dipoi chiamato ho morte!

Ed or ridotto son che, se già morte

non viene, non ho al mondo altra speranza,

tanto è infelice e misera mia vita.

Dunque son queste le promesse, Amore?

dunque quest’è la desiata pace?

Se chiamar si dee pace i tristi pianti!

Chi spera sotto Amor altro che pianti

o vita, la qual sia men ria che morte,

o gustar mai un’ora sol di pace,

quel vive invano e in fallace speranza:

perché non prima altri è servo d’Amore

che mille morti il giorno essere in vita.

Fu un tempo tranquilla la mia vita;

ma non si può saper che cos’è pianti,

se prima altri non è servo d’Amore,

né si conosce il viver sanza morte

o quanto è vana ogni umana speranza,

né fia contento omai chi desia pace.

Chi uman vivere disse, tolse pace

in tutto della nostra mortal vita,

e, d’ogni mal cagion, lasciò Speranza.

Questa fa sofferire i tristi pianti,

ad altri comportar fa mille morte,

e, quel ch’è peggio, il fa servo d’Amore.

Non nasce prima in gentil core Amore,

che s’aggiugne al desio lo sperar pace,

il qual pria non diparte che con morte:

non dico del morir che si fa in vita,

ma di quel di che fanno i mortal’ pianti,

ch’è di vita miglior ferma speranza.

Io, che speranza aver propizio Amore

non ho, ma stare in pianti e sanza pace,

aspetterò per miglior vita morte.

 

XXIII

 

Amor, veggo che ancor non se’ contento

alle mie antiche pene,

che altri lacci e catene

vai fabricando ognor più aspre e forte

delle tue usate; tal ch’ogni mia spene

d’alcun prospero evento

or se ne porta il vento,

né spero libertà se non per morte.

O cieche, o poco accorte

mente dei tristi amanti!

Chi ne’ be’ lumi santi

avre’ però stimato tanta asprezza?

Né parea che durezza

promettessino a noi i suo sembianti.

Così dato mi sono in forz’a altrui,

né spero esser già mai quel che già fui.

Io conosco or la libertate antica,

e ’l tempo onesto e lieto,

e mio stato quieto,

che già mi die’ mia benigna fortuna;

Ma poi, come ogni ben ritorna indrieto,

mi diventò nimica,

ed a darmi fatica

Amore e lei n’accordorno ad una:

come assai non fosse una

parte di tanta forza

a chi per sé si sforza

di rilegarsi ognor di più e più stretto!

E come semplicetto,

non mirando più oltre che la scorza,

con le mie man’ li aiutai fare i lacci,

acciò che più e più servo mi facci.

Uno augelletto o semplice animale,

se li vien discoperto

un inganno che certo

si mostri turbator della sua pace,

tiene al secondo poi più l’occhio aperto,

ch’è ragion naturale

che ognun fugga il suo male;

ed io, che veggo che m’inganna e sface,

di seguir pur mi piace

la via nella qual veggio

el mal passato e peggio,

come se io non avessi essempli cento.

Ma in tal modo ha spento

Amore in me d’ogni ragione il seggio,

ch’io non vorrei trovar rimedio o tempre,

che mi togliessi il voler arder sempre.

Tanto han potuto gli amorosi inganni

e ’l mio martirio antico,

ch’io non ho più nimico

alcun d’ogni mia pace, che me stesso:

né cerco altro o per altro m’affatico,

se non com’io m’inganni,

ed arroga a’ mia danni,

e chiamo mia salute male espresso;

Godo se m’è concesso

stare in sospiri e in doglia,

ho in odio chi mi spoglia

di servitù, e cerca liber farmi,

e, vedendo legarmi,

parmi, chi ’l fa, dar libertà mi voglia.

Così del mio mal godo e del ben dolgo,

e quel ch’io cerco io stesso poi mi tolgo.

Così Fortuna e ’l mio nimico Amore,

tra speme oscure e incerte,

pene chiare e aperte

m’han tenuto, e, passato un lustro intero

e sotto mille pelle e rie coverte,

della mia etate il fiore

sotto un crudel signore

ho consumato, e più gioir non spero.

Amor, sai pure il vero

della mia intera fede,

che dovre’ di merzede

aver dimostro almen pur qualche segno;

or son sì presso al regno

di quella qual fuggir foll’è chi crede,

che, sendo il resto di mia vita lieto,

quant’esser può, non pagherà l’addrieto.

Canzon mia, teco i tua lamenti serba,

e nostra doglia acerba

tu non dimosterrai in alcuna parte;

ma tanto cela il tuo tormento amaro,

ch’Amor, Morte o Fortuna dia riparo.

 

XXIV

 

Non so qual crudel fato o qual ria sorte,

qual avverso destin, tristo pianeta,

mia vita, che stata è quanto dee lieta,

ha fatto tanto simile alla morte.

Amor sa pur che sempre stetti forte

più che adamante, e, s’è, più dura prieta:

se falsa opinion mio ben mi vieta,

par che sanza mia colpa il danno porte.

Ma non potrà crudel Fortuna tanto

essermi avversa, che soverchio sdegno

dal mio primo cammin mi torca un passo.

Più presto eleggo stare in doglia e in pianto

sotto il signore antico e ’l primo segno,

che sotto altri gioir, di pianger lasso.

 

XXV

 

Amor promette darmi pace un giorno

e tenermi contento nel suo regno;

rompe Fortuna poi ciascun disegno,

e d’ogni mia speranza mi dà scorno.

Un bel sembiante di pietate adorno,

fa che contento alla mia morte vegno;

Fortuna, che ha ogni mio bene a sdegno,

pur gli usati sospir’ mi lascia intorno.

Onde io non so di questa lunga guerra

qual sarà il fine o di chi sarò preda,

dopo tante speranze e tanti affanni.

L’un so già vinse il ciel, l’altra la terra

solo ha in governo: onde convien ch’io creda

essere un dì contento de’ mia danni.

 

XXVI

 

Amor, da cui mai parte gelosia,

ch’ogni mio pensier guida, e ’l passo lento,

mi avea condotto al loco ove contento

un tempo fui, or non vuol più ch’io sia.

Mentre girava gli occhi stanchi mia,

vidi i crin’ d’òr ch’erano sparti al vento,

e ’l bel pianeta a rimirar sì attento,

che ’l corso rafrenò della sua via.

Io, come amante, andando al maggior male,

pensai pria che tornar volessi al foco;

ma poco stette il suo disio nascoso:

sua vista mi mostrò chiar che rivale

non m’era, ché passò via, stato un poco,

non so se ostupefatto o invidioso.

 

XXVII

 

Poi che tornato è il Sole al corso antico,

Febo l’usata sua luce riprende,

e tanto or l’uno or l’altro sol risplende,

che già il rigido verno è fatto aprico.

Se propizio mi fia il primo e amico,

come si mostra quel che il mondo accende,

l’alma quiete alle sue pene attende,

al crudo viver rio, aspro e nimico.

Se Febo assai più che l’usato chiaro

s’è fatto e splende or più che far non suole,

e se più ha raccese sue fiammelle,

l’ha fatto ché temeva le due stelle

non superassin la fiamma del sole,

e fussi al mondo un ben, quanto lui, raro.

 

XXVIII

 

Lasso!, già cinque corsi ha volto il sole,

da poi che Amor ne’ suoi lacci mi tenne,

e ’l pensiero amoroso all’alma venne,

e fa Fortuna pur quel che far suole.

Pianti, prieghi, sospir’, versi e parole,

che non si scriverrien con mille penne,

e la Speranza che già il cor sostenne

veggo annullar, come mio destin vuole.

Né mi resta se non un sol conforto,

perché ogni altro m’induce a bramar morte:

che quanto Amor m’ha fatto, ha fatto a torto.

Non è al mondo più felice sorte

a gentil alma, se si vede scorto,

aver usate ben l’ore sì corte.

 

XXIX

 

Sonetto fatto per un certo caso che ogni dì si mostrava in mille modi

 

Fortuna, come suol, pur mi dileggia,

e di vane speranze ognor m’ingombra:

poi si muta in un punto, e mostra che ombra

è quanto pe’ mortal’ si pensa o veggia.

Or benigna si fa ed ora aspreggia,

or m’empie di pensieri e or mi sgombra,

e fa che l’alma spaventata aombra,

né par che del suo male ancor s’aveggia.

Teme e spera, rallegrasi e contrista

ben mille volte il dì nostra natura:

spesso il mal la fa lieta ’l bene attrista,

spera il suo danno e del bene ha paura:

tanto ha il viver mortal corta la vista.

Alfin vano è ogni pensiero e cura.

 

XXX

 

Io sento crescer più di giorno in giorno

quello ardente desir che il cor m’accese,

e la speranza già, che lo difese,

mancare, e insieme ogni mio tempo adorno;

la vita fuggir via sanza soggiorno,

Fortuna opporsi a tutte le mie imprese,

onde a’ giorni e le notte indarno spese

non sanza nuove lacrime ritorno.

Però il dolor, che m’era dolce tanto,

e lamentar suave, per la spene,

che già piacer mi fe’ sospiri e pianto,

mancando or la speranza, alfin conviene

cresca, e ’l cor resti in tanta doglia affranto,

tal che sia morte delle minor’ pene.

 

XXXI

 

Que’ begli occhi leggiadri, che Amor fanno

potere e non poter, come a lor piace,

m’han fatto e fanno odiar sì la mia pace,

che la reputo pel mio primo affanno;

né, perch’io pensi al mio eterno danno

e al tempo volatile e fugace,

alla speranza ria, vana e fallace,

m’accorgo ancor del manifesto inganno.

Ma vo seguendo il mio fatal destino;

né resterò, se già madonna o morte

non mi facessin torcere il cammino.

L’ore della mia vita o lunghe o corte

a lei consecrate ho, perché ’l meschino

cor non ha dove altrove si conforte.

 

XXXII

 

Io non so ben chi m’è maggior nimico,

o ria Fortuna, o più crudele Amore,

o superchia Speranza che nel core

mantiene e cresce il dolce foco antico.

Fortuna rompe ogni pensiero amico;

Amor raddoppia ognor più il fero ardore;

Speranza aiuta l’alma, che non more

per la dolcezza onde ’l mio cor nutrico.

Né mai asprezza tanto amara e ria

fu quanto è tal dolcezza o crudel morte

quanto è mia vita per l’accesa speme.

O Fortuna più destra ver’ me sia,

o Amore o Speranza assai men forte,

o pia morte me levi, e questi insieme.

 

XXXIII

 

Non altrimenti un semplice augelletto,

veggendo i lacci tesi pel suo danno,

fugge pria e poi torna al primo inganno,

dai dolci versi d’altri augei constretto:

così fuggo io dall’amoroso aspetto,

ove son tesi i lacci per mio affanno;

poi i dolci sguardi e le parole fanno

ch’io corro a’ pianti miei come a diletto.

E quel che suole in altri il tempo fare

per le diverse cose, in me disface,

che men che pria conosco il mal ch’or pruovo.

Cieco e sanza ragion mi fo guidare

al mio cieco inimico, e per fallace

cammino in cieca fossa alfin mi truovo.

 

XXXIV

 

Vidi madonna sopra un fresco rio

fra verdi fronde e liete donne starsi,

tal che dalla prima ora in qua ch’io arsi,

mai vidi il viso suo più bello e pio.

Questo contentò in parte il mio disio,

e all’alma die’ cagion di consolarsi;

ma poi, partendo, il cor vidi restarsi,

crebbon vie più i pensieri e ’l dolor mio,

ché già il sole inclinava all’occidente,

e lasciava la terra ombrosa e oscura,

onde il mio Sol si ascose in altra parte.

Fe’ il primo ben più trista assai la mente.

Ah, quanto poco al mondo ogni ben dura!

Ma il rimembrar sì tosto non si parte.

 

XXXV

 

Pensavo, Amor, che tempo fussi omai

por fine al lungo, aspro, angoscioso pianto,

ed alla doglia mia,

non pur voler seguir nel mio mal tanto

tu e Fortuna, troppo iniqua e ria;

ché poi, quando vorrai,

come conviensi a tanta signoria,

mantener quel che già promesso m’hai,

(ah, quante volte e quanto!)

ti fia difficil, benché tutto possa.

L’alma, li spirti e l’ossa

state son tue sotto questa fidanza,

quanto sai, Amor, ed io, che ’l pruovo, meglio,

che con questa speranza

fanciul tuo servo fui, e son già veglio!

Io mi vivea di tal sorte contento,

e sol pascevo l’affannato core

della sua amata vista;

le belle luce e ’l divino splendore

quetavan l’alma, benché afflitta e trista,

e per questo ogni stento

dolce parea, che per amar s’acquista.

Fa la speranza di maggior contento

ogni pena minore,

ma ria Fortuna, al mio bene invidiosa,

turbar volle ogni cosa

e ’l mio tranquillo stato e lieta sorte,

e tolsemi la vista onde sempre ardo.

Oimè, meglio era morte,

che star lontan dal mio sereno sguardo!

Onde or, non potendo altro, pasco l’alma

della memoria di quel viso adorno,

ed a’ divin costumi

col pensier mille volte il dì ritorno.

Se Fortuna mi toglie i vaghi lumi

e turba ogni mia calma,

non è però che in selve e ’n valli e ’n fiumi,

ove lo spirto porta la sua salma,

o notte oscura o giorno

sempre gli occhi non vegghino il lor Sole,

e le dolci parole

non risuonino ancor ne’ nostri orecchi:

ché ’l rimembrar le cose amate e degne,

benché pur altri invecchi,

in cor gentil per tempo non si spegne.

Io vo cercando i più elati colli,

e volgo gli occhi stanchi in quella parte,

ov’io lasciai il mio bene,

là onde il tristo cor mai non si parte;

e di questo il nutrisco e d’una spene:

che presto fien satolli,

(se non rompe il pensier Morte che viene)

gli occhi, che tanto tempo già son molli;

e con questo una parte

del mio mal queto e l’alma riconforto,

ed in pazienzia porto

l’ingiusto esilio e la sorte aspra e dura,

tanto che più felice tempo torni;

e se pure il mal dura,

può ristorare un’ora i persi giorni.

Canzon, là dove è il core

or te ne andrai; se già non t’è impedita

la via, sì come a me, segui la traccia;

di’ che lieta è mia vita,

sentendo questo esilio a lei dispiaccia.

 

XXXVI

 

Perché non è co’ miei pensieri insieme

qui la mia vita e ’l caro signor mio

alla dolce ombra e sopra questo rio,

che co’ miei pianti si lamenta e geme?

Perché questa erba il gentil piè non prieme?

Perché non ode il mio lamento rio,

e i sospir’ che son mossi dal disio,

che accese in noi la troppo acerba speme?

Forse quella pietà, che mi promisse

Amor già tanto, e mi promette ancora,

che col suo strale in mezzo il cor lo scrisse,

verrebbe innanzi alla mia ultima ora.

Se ’l mio dolce lamento ella sentisse,

pietà bella faria chi me innamora.

 

XXXVII

 

Lasso! ogni loco lieto al cor m’adduce

mille amari sospir’, duri pensieri,

perché non pare io possa o sappi o speri

viver lieto lontan dalla mia luce.

Ma per me’ quietarsi, mi conduce

l’alma in oscuri boschi, alpestri e feri,

fuggendo l’orme e i calcati sentieri:

questo talora a consolar la induce.

Così tra gli arbuscei mi sto soletto,

né mai men sol, ché meco ho in compagnia

mille pensier’ d’amor soavi e degni.

Quivi di dolce lacrime il mio petto

bagno e nutrisco il cor, che non disia

se non che morte o miglior tempo vegni.

 

XXXVIII

 

Io mi sto spesso sopra un duro sasso,

e fo col braccio alla guancia sostegno,

e meco penso e ricontando vegno

mio cammino amoroso a passo a passo.

E prima l’ora e ’l dì che mi fe’ lasso

Amor, quando mi volle nel suo regno,

poi ciascun lieto evento e ogni sdegno,

infino al tempo che al presente passo.

Così, pensando al mio sì lungo affanno

ed a’ giorni e alle notte, come vuole

Amor, ch’io ho già consumati in pianti,

né veggendo ancor fine a tanto danno,

mia sorte accuso: or, quel che più mi duole

è trovarmi lontan da’ lumi santi.

 

XXXIX

 

Io ti ringrazio, Amor, d’ogni tormento,

e, se mai ti chiamai “crudel signore”,

come uom, che guidato ero dal furore,

d’ogni antico fallir ho pentimento.

Però che quella per cui arder sento

in dolce foco il fortunato core,

degna è d’umano e di celeste onore:

e se per lei languisco, io son contento.

Oh aventurata e ben felice sorte,

s’avièn che ad un gentil signore e degno

altri serva e in lui cerchi la sua pace!

Già mille volte ho desiato morte;

pur poi resto contento a tanto sdegno,

tanto l’esser suo servo alfin mi piace.

 

XL

 

Se avvien che Amor d’alcun brieve contento

conforti l’alma, al lungo male avvezza,

quanto più il disiato ben s’apprezza,

tanto mi truovo più lieto e contento.

Così, se per alcun prospero evento

monta la speme in colmo d’ogni altezza,

perché cresca il disio, cresce l’asprezza

e raddoppia i pensier’ per ognun cento.

Però, se alcun conforto ebbi quel giorno,

quando fra verde fronde e gelide acque

e liete donne vidi i vaghi lumi,

sendone a lunge e privo, or mi ritorno

a’ primi pianti, e quel che più mi piacque

par che più il core afflitto arda e consumi.

 

XLI

 

Io sento ritornar quel dolce tempo

del qual non mi rimembra sanza pianti,

che fu principio alla mia aspra vita,

né mai da poi conobbi libertate;

e perché si rinnuova nella mente,

vuol ch’io ne faccia tal memoria Amore.

Di sua vittoria si ricorda Amore,

e però vuol che la stagione e ’l tempo

sia celebrato in versi e nella mente;

né sia contento a’ miei sospiri e pianti,

ma, lieta della persa libertate,

vuol pur che sia mia lacrimosa vita.

S’egli è fatto signor della mia vita,

forza m’è far quel che comanda Amore,

sanza usar più l’antica libertate;

la qual, se si lasciò vincer quel tempo

che ancor non era sottoposta a’ pianti,

ben cederà or, che serva è la mente.

Se ad altri il corpo dato ho e la mente,

e per questo è afflitta la mia vita,

mi debbo sol doler di questi pianti

di me, non accusar per questo Amore,

il qual se m’ha tenuto tanto tempo,

è perch’io ne li detti libertate.

Non è più sua la persa libertate,

perché il suo primo don dato ha la mente:

dunque, se vuol ch’io celèbri quel tempo

e sia di ciò contenta la mia vita,

se vinse sempre, ed io cedo ad Amore,

e lieto, come vuol, son de’ mia pianti.

Né sol contento son de’ lunghi pianti,

ma al tutto ho in odio e fuggo libertate,

né vorrei non voler servire Amore,

ed odio ogni pensier che nella mente

mi surge di far libera mia vita,

e chiamo perso qualunche altro tempo.

Lieto il tempo e felice e dolce i pianti,

nel qual la vita perse libertate,

chiama la mente, e così vuole Amore.

 

XLII

 

O fortunata casa, ch’eri avvezza

sentir i grevi miei sospiri e pianti,

serba l’effigie in te de’ lumi santi,

e l’altre cose come vili sprezza.

O acque, o fonti chiar’, pien’ di dolcezza,

che col mormorio vostro poco avanti

meco piangevi, or si rivolga in canti

la vostra insieme con la mia asprezza!

O letto, delle mie lacrime antiche

ver testimonio, e de’ miei sospir’ pieno,

o studiolo al mio dolor refugio!

Vòlto ha in dolcezza Amor nostre fatiche

sol per l’aspetto del vólto sereno:

ed io non so perché a morir più indugio.

 

XLIII

 

Era già il verde d’ogni mia speranza,

siccome Amor volea, ridotto al bianco;

parea il cor di sua virtute manco,

onde perduto avea ogni baldanza;

quando quella virtù che ogn’altra avanza,

Amor, si trasse uno stral d’òr dal fianco,

e punse il core invitto, altèro e franco

con forza da spezzare ogni costanza,

...................................

................ e più preso ne avria

se non che gli amorosi inganni teme.

Tra l’erba ricoperto un laccio teso

veder li parve; or non so qual più sia

cresciuto in me, o ’l timore o la speme.

 

XLIV

 

Quando l’ora aspettata s’avvicina

per dare il guidardone alla mia fede,

quando s’appressa il conseguir merzede,

triema e paventa più l’alma meschina;

e, quasi a sé medesma peregrina,

smarrita resta, e forse ancor nol crede,

spesso ingannata; e se ben chiaro il vede,

di pensier’ sempr’è incerta ov’ella inclina.

Questo avviene che si reputa indegna

di tanto bene, onde pallida triema,

sé comparando a quel viso sereno.

O forse, come Amor li mostra e insegna,

dubbiosa sta, perché pur brami e tema

per soverchia dolcezza venir meno.

 

XLV

 

Condotto Amor m’avea fino allo stremo

di mia speranza, e tempo oramai n’era;

presso era quel che assai si brama e spera,

ond’io tanto sospiro e tanto gemo.

Quando una voce udi’, che ancor ne tremo,

rigida, aspra, crudele, iniqua e fera:

«Folle è tua speme e la tua voglia altera

a ricercar quel che solo è supremo.

Bastiti rimirar mia vaghi lumi

ed udir l’armonia delle parole

e contemplar l’alte virtù divine.

Quel che di me più oltre aver presumi

vano è il pensiero, e se il tuo cor più vuole,

dolgasi non di me, ma del suo fine.»

 

XLVI

 

Sonetto fatto per un amico

 

Non vide cose mai tanto eccellente

quel che fu rapto infino al terzo cielo,

e non udì già sì suave melo

Argo, che mal per lui tal suon si sente;

e la fenice, s’è il suo fin presente,

tanti odor’ non aduna al mortal telo;

non fu sì dolce il cibo e ’l nostro velo,

che mal per noi gustò il primo parente.

Né mai tanta dolcezza ad alcun dette

Amor, se contentare apien lo volse,

quanta è la mia, né vuol che ad altro pensi.

Io benedico l’arco e le saette

e la cagion che libertà mi tolse,

da poi che così ben mi ricompensi.

 

XLVII

 

Meglio era, Amor, che mai di tua dolcezza

provassi alcuna cosa o del tuo bene:

ch’è facil cosa a sopportar le pene

all’alma, lungo tempo al male avvezza.

Così, più si disia e più si prezza

il ben ch’altri conosce, onde ne viene

più doglia al cor, se quel possiede e tiene

Fortuna il vieta, lo interrompe e spezza.

Quel che già disiai nol conoscendo,

m’avea condotto assai vicino a morte,

cercando quel che m’era incerto e nuovo.

or ch’io l’ho visto, lo conosco e intendo,

pensa, Amor, quant’è dura la mia sorte,

poi che privato di tal ben mi truovo.

 

XLVIII

 

Dolci pensier’, non vi partite ancora!

Dove, pensier’ miei dolci, mi lasciate?

Sì ben la scorta ai piè già stanchi fate

al dolce albergo, ove il mio ben dimora?

Qui non Zefiro, qui non balla Flora,

né son le piagge apriche d’erbe ornate:

silenzii, ombre, terror’, venti e brinate,

boschi, sassi, acque il piè tardono ognora.

Voi vi partite pur, e gite a quella,

vostro antico ricetto e del mio core;

io resto nelle oscure ombre soletto.

Il cammin cieco a’ piedi insegna Amore,

che ho sempre in me dell’una e l’altra stella,

né gli occhi hanno altro lume che l’obietto.

 

XLIX

 

Sonetto fatto a piè d’una tavoletta dove era ritratta una donna

 

Tu se’ di ciascun mio pensiero e cura,

cara imagine mia, riposo e porto:

con teco piango e teco mi conforto,

s’avvien ch’abbi speranza o ver paura.

Talor, come se fussi viva e pura,

teco mi dolgo d’ogni inganno e torto,

e fammi il van pensier sì poco accorto,

che altro non chiederei, se l’error dura.

Ma poi nuovi sospir’ dal cor risorge;

fan gli occhi un lacrimoso fiume e largo,

e si rinnuovan tutti e miei martìri,

quando la misera alma alfin s’accorge

che indarno i prieghi e le parole spargo;

ond’io pur torno a’ primi miei desiri.

 

L

 

Canzona fatta sendo malata una donna

 

Per molte vie e mille vari modi

provato ha Amor se mia constanzia è vera,

come li parve e come spesso ho detto;

e benché m’abbi agiunti mille nodi,

ancor ben chiar della mia fe’ non era,

volendomi legar molto più stretto.

E fece ne’ primi anni un suo concetto,

che se il celeste viso ornato e puro

mi si mostrassi duro,

impaurito lascerei la ’mpresa:

onde già mai accesa

face non fu della mia donna al core,

ma del mio mal lieta era ne’ sembianti.

Non è maggior dolore

che veder ch’altri rida de’ sua pianti.

In questo modo un tempo Amor mi tenne,

sanza che mai provassi altra dolcezza

che contemplar cosa celeste in terra:

questo mi prese, e questo mi mantenne;

stavo contento sotto tal bellezza

e lieto in pace in mezzo a tanta guerra.

Amor, che vide che ’l mio cor non erra,

ma fermo, fece in sé nuovo pensiero,

e l’indomito, altèro

cor della donna mia accese alquanto:

non già molto, ma tanto

quanto aggiugnessi a me speranza

per mantenermi vivo in tanti affanni;

e poi con più baldanza

raddoppia in me suo tradimenti e inganni.

Quanti fussino allora i miei martìri

e quanto dura e aspra la mia sorte,

difficilmente e si dice e si crede.

era i conforti miei pianti e sospiri,

e la speranza già ridotta a morte,

dove credevo sol trovar merzede;

Ma la constanzia mia e intera fede

non manca già per pene e non si perde,

ma rinasce più verde

quanto maggiore era ogni mio tormento.

In mezzo a tanto stento,

sempre la sua bellezza mi soccorse,

e faceami ogni doglia stimar poco.

Amor di ciò s’accorse,

e fe’ nuovo pensiero e nuovo gioco.

E’ pregò dolcemente la Fortuna

ch’ella cercassi d’ogni cosa nuova

quale alla donna mia fussi molesta.

Ella, che volentier sempre importuna,

diliberò di far l’ultima pruova,

e di varii dolor’ suo core infesta.

E di ciò molto addolorata e mesta

era madonna, e più sarebbe stata;

ma ne fu liberata,

come Amor volle e la Fortuna insieme,

che le salute estreme

posono in man del suo fedele amante.

Allor ne vide esperienzia certa,

quanto egli era costante

e quanto la sua fede da lei merta.

Quand’ebbe fatto questo, il suo stral d’oro

rimisse e ’l plumbeo trasse, che Amor caccia,

e punse il cor della mia luce viva;

né mai poi da quel tempo al verde alloro

mostrò più il Sol benigna la sua faccia,

ma fu d’ogni speranza l’alma priva.

Onde l’amor, che dentro al cor bolliva,

come l’animo fa gentile e degno,

quasi vòlto in isdegno,

difficilmente comportò tal torto:

e fu tale sconforto

che ’l cor di tanta ingratitudin prese,

che lasciò quasi l’amorosa scuola.

Ma pur poi si raccese,

pensando alla bellezza al mondo sola.

Amor, che vede ogni sua pruova invano,

pensò nuova malizia, e la cagione

di tanta mia constanzia levar vòlse:

perché, levato el bel sembiante umano,

li par che sia levata ogni ragione

di mia fede. E a questo il pensier volse,

e parte di beltà da quella tolse

con fare scolorir quel dolce viso,

fede del paradiso

qui fra’ mortali, albergo d’ogni bene.

Questo accresce le pene,

ma non già scema la mia fede antica;

perché da questa mai mi potrà stôrre

dolor’, pianti o fatica;

né tu la sua bellezza li puoi tôrre.

Perché, se pur di tue bellezze spogli

questo gentile ed onorato fiore,

e toi le penne a sì bella fenice,

a te tua prima preminenzia togli,

te privi e spogli del sovran tuo onore,

della cagion la qual ti fe’ felice.

Questa del regno tuo è la radice;

questa è la tua baldanza e la tua gloria;

questa eterna memoria

darà di te alla prole futura:

mentre che questa dura,

del nostro mondo cieco guida e duce,

durerà la tua forza e ’l tuo valore:

ma, se la viva luce

si spegne in terra, spegnerassi Amore.

Non dare, Amore, in podestà d’altrui

quel ch’è tuo sol, quel ch’è l’onor tuo vero:

deh, mostra contro a Morte la tua forza!

Amor, soccorri al mal d’ambo noi dui,

soccorri alla ruina del tuo impero!

A questa volta i duri fati sforza,

sì che l’alma gentile e la sua scorza,

la qual degno ti fa, lieto e giocondo,

si mantenga nel mondo,

a me la vita che da lei dipende.

Per te chiar si comprende

che omai la mia constanzia è ferma e intera;

Non far oramai meco, Amor, più pruove,

ché la mia fede è vera:

riserba le tue forze e ingegni altrove.

Va’, canzona; Amor priega

che più non tardi il soccorso a se stesso,

perché veggo il suo impero in gran periglio;

ed è il suo mal sì presso,

che, poco stato, non varre’ consiglio.

 

LI

 

Sonetto fatto andando in Maremma lungo la marina

 

Co’ passi sparti e colla mente vaga

cercando vo per ogni aspro sentiere

l’abitazion’ delle silvestre fere,

presso ove il mar Tirren bagna ed allaga,

sol per provar se si quieta e appaga

l’alma per cose nuove; ma vedere

altro non può, né innanzi agli occhi avere

che gli occhi che li fêr l’antica piaga.

Se da sinistro in qualche oscuro speco

guardo, la veggio lì tra fronde e fronde,

nuova Diana che ogni oscuro allieti;

a destra, rimirando le salse onde,

parmi che tolto abbi il suo imperio a Teti.

Così sempre è mia dolce pena meco.

 

LII

 

Sonetto fatto per un sogno

 

Più che mai bella e men che già mai fera

mostrommi Amor la mia cara inimica,

quando e pensier’ del giorno e la fatica

tolto avea il pigro sonno della sera.

Sembrava agli occhi miei propria come era,

deposta sol la sua durezza antica,

e fatta agli amorosi raggi aprica:

né mai mi parve il ver cosa sì vera.

Prima al parlar e pauroso e lento

stavo, come solea; poi la paura

vinse il disio, e cominciai dicendo:

«Madonna...», e in quel partissi come un vento.

Così in un tempo sùbita mi fura

il sonno e sé e mia merzé, fuggendo.

 

LIII

 

L’altero sguardo a’ nostri occhi mortale,

che spegne ogni bellezza che ha dintorno,

fuggito avia, per prender d’alcun giorno

con Amor triegua, e tôr forza al suo strale,

quando Amor, o la sorte mia fatale,

invida che al mio mal dessi soggiorno,

mio basilisco di pietate adorno

mostrommi (ah, contr’a Amor null’arme vale!),

nel tempo che da noi è più distante

el carro che mal già guidò Fetonte,

che ’l pensier vede più quel che più spera.

Diposto avia lo sdegno il bel sembiante,

e quel bel che mancava alla sua fronte,

pietate aggiunse alla bellezza altera.

 

LIV

 

Io son sì certo, Amor, di tua incertezza,

ch’io mi riposo in non posar già mai,

e veggo ch’io son cieco, e tu mi dài

di tua mobilità ogni fermezza.

Di dubbii e di sospetti ho sol chiarezza;

rido de’ pianti miei, canto i miei lai;

né pruovo altro piacer che affanni e guai,

o amar più dolce o più soave asprezza.

E sol di mia oscuritate ho lume;

So ch’io non so voler quel ch’io pur voglio,

e spesso temo per superchio ardire.

Secche ha le luci un abondante fiume;

muto modi e desir’ pur com’io soglio,

e vivo sol per brama di morire.

 

LV

 

Io mi diparto, dolci pensier’ miei,

da voi, e lascio ogni amorosa cura,

ché mia fortuna troppo iniqua e dura

mi sforza a far pur quel ch’io non vorrei.

Pianti dolci e sospir’ suavi e rei,

speranze vane e incerta paura,

che inquietavi mia fragil natura,

andate ad altri cor’, lasciate lei.

O versi, o rime, ove ogni mio lamento

dolce era e quietavo tanto affanno,

mentre che in lieta servitù mi giacqui,

lasciovi a mal mio grado, e pur consento,

come sforzato, al preveduto danno.

Ma così sia, poi che a tal sorte nacqui.

 

LVI

 

Non son contento ad un commiato solo

per dipartir dalle amorose insegne:

ché gran fiamma in un tratto non si spegne,

né in breve sanar puossi un lungo duolo.

...................................

....................................

dolce desir’, parole accorte e degne,

or me a’ primi miei pensieri involo.

Lacrime mie, d’ogni dolcezza piene,

sospir’ suavi e rimutate sorte,

che altro destin, altri pensier m’induce!

Concesso pur mi sia questo sol bene:

di ricordarmi almen fino alla morte

l’angelica mia viva e chiara luce.

 

LVII

 

Quel ch’io amavo già con più disio,

più molesto m’è or, più mi dispiace;

quel ch’era mia letizia e la mia pace,

è la mia guerra al tutto e il dolor mio.

El tempo lieto è più dolente e rio;

quel disio ch’era acceso, or spento giace;

e la speranza mia, già si vivace,

fatta è paura; e quel temea, disio.

Quel tempo, che tardava a venir tanto,

or fugge via veloce più che pardo:

così Fortuna ha vòlto ogni mia sorte.

Vòlto è il dolce in amaro, e ’l lieto in pianto;

fatto son pigro al tutto e lento e tardo,

veloce più che mai verso la morte.

 

LVIII

 

Amor tenuto m’ha di tempo in tempo

sotto false promesse lunghe e vane,

tanto ch’io son dell’aspettar già stanco

e di sua falsi inganni oramai certo;

ché della lunga mia aspra fatica

dolor è il prezzo, e vergogna, ira e sdegno.

E quel che più accresce ogni mio sdegno

è ch’io ho perso il mio giovenil tempo,

né mel può racquistar prezzo o fatica.

Or nostre voluntà quanto sien vane,

se già ne dubitai, or ne son certo,

e per troppo provarle afflitto e stanco.

Non che altro, del pensar io son già stanco,

e son venuto a me medesmo a sdegno,

stando del bene in dubbio e del mal certo;

ma la vendetta di chi perde il tempo

è il pentimento, e delle imprese vane;

vergogna è il frutto poi d’ogni fatica.

Vana è ogni mortal nostra fatica;

ma chi in seguire Amor non è mai stanco,

tirato da lusinghe false e vane,

e, come triste, ha l’altre cose a sdegno,

più che alcun altro perde l’opra e ’l tempo

e è in error più manifesto e certo.

S’io fussi stato, sì com’or son, certo

quanto si spende invan ogni fatica

seguendo Amore, e quanto è perso il tempo,

forse alla impresa pria mi sarei stanco;

ma io ho i lacci e le catene a sdegno

or, quando a sciôrmi l’opere son vane.

Le nostre passion’ quanto sien vane,

quanto il pianto e ’l dolore è fermo e certo,

e quanto invano ogni mortale sdegno,

quanto è perduta ogni umana fatica,

mostra quel che a fuggir mai non è stanco,

che ogni cosa ne porta e fura il tempo.

Passa via il tempo, e le mie opre vane

conoscer fammi, e ch’io son chiaro e certo

di mia fatica e me medesmo ho a sdegno.

 

LIX

 

Quanto sia vana ogni speranza nostra,

quanto fallace ciaschedun disegno,

quanto sia il mondo d’ignoranzia pregno,

la maestra del tutto, Morte, il mostra.

Altri si vive in canti e in balli e in giostra,

altri a cosa gentil muove l’ingegno,

altri il mondo ha e le sue opre a sdegno,

altri quel che drento ha, fuor non dimostra.

Vane cure e pensier’, diverse sorte

per la diversità che dà Natura,

si vede ciascun tempo al mondo errante.

Ogni cosa è fugace e poco dura,

tanto Fortuna al mondo è mal costante;

sola sta ferma e sempre dura Morte.

 

LX

 

El tempo fugge e vola;

mia giovinezza passa e l’età lieta,

e la lunga speranza ognor più manca;

né però ancor s’acqueta

in me quel fer disio, che morte sola

può spegner nella afflitta anima stanca,

ma tienmi pur sotto l’antica branca

Amore, e fa che per la lunga usanza

bramo il mio mal per natural disio.

Ah destin fero e rio,

ch’a me hai dato contr’a me baldanza,

ond’io non posso aitarme!

Almen mancassi in tutto la speranza,

la qual ne’ suoi belli occhi veder parme,

però che Amor m’offende con quest’arme.

Almen non si vedessi

segno alcun di pietà nel suo bel viso,

né fussin così dolci le parole,

e quel suave riso

dagli orecchi e dagli occhi s’ascondessi,

ed a me si celassi il mio bel Sole:

perché l’alma né sa, né può, né vuole

fuggir da quel che in vita la mantiene,

anzi la ’nduce a più beata morte.

Così mia dubbia sorte

desperar non mi lascia o sperar bene;

ond’è ch’io priego Amore

che levi al tutto la fallace spene,

o ver soccorra il mio afflitto core:

questo il contenta, e l’altro il trae d’errore.

Lasso!, ch’io mi credeva

che altra età e le diverse cure

mi facessin cangiar disii e voglie,

però ch’egli avvien pure

che il tempo altri pensieri induce e leva:

dando nuove impression’, le vecchie toglie.

Or, questo più dolor nel cor accoglie:

ché tra mille pensier’ che in lui s’aduna,

come la mente in varie cose scorre,

subitamente corre,

lasciando l’altre e sé, sola a quest’una,

ove stanco riposo

truova; e così la mena sua fortuna.

E in questo viver mio aspro e noioso

i pensier’ vaghi e l’alma afflitta poso.

Vorrei sapere, Amore,

non mi mostrando tu alcun soccorso,

per qual cagion pur l’alma stanca spera:

forse in natural corso

vòlto è il costume già per lungo errore,

e ha smarrita la via dritta e vera;

né credo esser le par quel che già era.

Va seguendo il disio ove e’ la mena,

e perché la speranza la mantiene,

col disio cresce e viene:

dunque, se questo mai non si raffrena,

questa già mai si parte,

benché non si vegga onde e da qual vena

venga l’acqua che ’l fuoco spenga in parte,

Amor ha pur nuove versuzie e arte.

Così me stesso inganno,

ed indi prende l’alma il suo conforto,

onde ha cagione il lungo mio martire.

Tanta dolcezza han porto

al cuor quelli occhi, che sperar lo fanno:

questo fa che consente al suo morire.

E come lo conduce il van desire,

va drieto a quel che non discerne o vede,

e ’l mal che pruova non conosce ancora,

e quel che al tutto è fora

di sua salute sol disia e chiede,

e come Amor l’invita,

crede nel morir suo trovar merzede;

né può più da se stesso avere aita,

che ad altri ha dato il fren della sua vita.

Dunque di sé si dolga,

anzi del vago lume che lo indusse

al cieco errore, onde sua morte nacque.

E se questo il condusse,

non pensi che sì presto lo disciolga,

ché dispiacer non può quel che già piacque;

anzi dal primo dì che in esso giacque

quel gran disio, cacciò fuor della mente

qualunque altro pensiero, e lui la prese.

Se allor non si difese,

nol farà or, quando al suo mal consente.

Or, s’è per mio destino

che così esser debba, o presto o lente,

come quel vuol, convien segua il cammino,

finch’io sia giunto all’ultimo confino.

Canzon, di mezza notte

poi che se’ nata, fuggi il sole e ’l giorno;

piangi teco il tuo male;

fuggi l’aspetto del bel viso adorno,

lascia seguir la sorte tua fatale,

poi che il far altro è indarno e poco vale.

 

LXI

 

Io piansi un tempo, come volle Amore,

la tardità delle promesse sue,

e quel che interveniva ambo noi due,

a me del danno, a lui del suo onore.

Or piango, come vuole il mio errore,

ché ’l tempo fugge per non tornar piùe,

e veggo esser non può quel che già fue:

or questo è quel ch’ancide e strugge il core.

Tanto è il nuovo dolor maggior che ’l primo,

quanto quello avea pur qualche speranza:

questo non ha se non pentirsi invano.

Così il mio error fra me misuro e stimo,

e piango (e questo pianto ogni altro avanza)

la condizion del viver nostro umano.

 

LXII

 

Que’ dolci primi miei pensieri, onde io

nutriva il cor ne’ suoi più grevi danni,

ritornar sento, e le prime arti e inganni,

e ’l dolce aspro disio, suave e rio.

Lasso, quant’era folle il creder mio!,

che per maggior’ pensieri e per più anni

credea fuggir dagli amorosi affanni,

non conoscendo bene il mio disio!

Ma, come fera in qualche oscuro bosco

crede fuggire, e corre alla sua morte,

sendo ferita dallo stral col tosco,

così credea fuggir correndo forte

all’incognito male: or, s’io il conosco,

lieto consento alla mia dura sorte.

 

LXIII

 

Come di tempo in tempo verdi piante

pel verno sole e pel terrestre umore

producono altre fronde e nuovo fiore,

quando la terra prende altro sembiante,

così il mio Sole e quelle luci sante,

l’umor degli occhi miei, che esce dal core,

fan che rimette nuove fronde Amore,

quando il tempo rivien che ho sempre inante.

Tornanmi a mente due fulgenti stelle,

e i modi e le parole che mi fêro

contr’a Amor vil, contr’a me stesso ardito.

Questo l’antiche e le nuove fiammelle

raddoppia, ed in un tempo temo e spero.

Tarda pietà, ché il nono anno è fuggito.

 

LXIV

 

Come lucerna all’ora matutina,

quando manca l’umor che ’l foco tiene,

estinta par, poi si raccende, e viene

maggior la fiamma, quanto al fin più inclina;

così, in mia vaga mente e peregrina

l’umor mancando d’ogni antica spene,

se maggior foco ancor vi si mantiene,

è che al fin del suo male è già vicina.

Ond’io non temo esto tuo nuovo insulto,

né più l’ardente face mi spaventa,

giunto al fin de’ disir’, disdegni ed ira.

Più mia bella Medusa marmo sculto

non mi fa, né, Sirena, m’addormenta,

perché al suo degno amore il ciel mi tira.

 

LXV

 

Sonetto fatto in sul Rimaggio

 

Lascia l’isola tua tanto diletta,

lascia il tuo regno, dilicato e bello,

ciprigna dea, e vien’ sopra il ruscello

che bagna la minuta e verde erbetta.

Vieni a quest’ombra, alla dolce auretta

che fa mormoreggiare ogni arbuscello,

a’ canti dolci d’amoroso uccello:

questa da te per patria sia eletta.

E, se tu vien’ tra queste chiare linfe,

sia teco il tuo amato e caro figlio,

ché qui non si conosce il suo valore.

Togli a Diana le sue caste ninfe,

che sciolte or vanno e sanza alcun periglio,

poco prezzando la virtù d’Amore.

 

LXVI

 

Sonetto mandato di Rimaggio a certi che vi s’erano trovati a far festa

 

Una ninfa gentil, leggiadra e bella

più che mai Febo amasse o altro dio,

cresciuto ha co’ suoi pianti il fresco rio,

dove lasciata fu la meschinella.

Lì duolsi e spesso accusa or questa or quella

cagion del viver suo tanto aspro e rio:

poi che lasciò Diana, il suo disio

s’è vòlto ad ubbidir la terza stella.

E nulla altro conforta il suo dolore,

se non che quel che gli ha tanto ben tolto,

gli renda il desiato e car tesoro.

Sol nasce un dubbio: che quel tristo core

che al pianger tanto s’è diritto e vòlto,

pria non diventi un fonte o qualche alloro.

 

LXVII

 

Amor, tu vuoi di me far tante pruove,

e sì i tuoi servi aspreggi,

quanto più fedel’ sono, antichi e interi;

che più servire alle tue inique leggi

non vo’, ma per vie nuove

andare e ricercar nuovi sentieri:

perché non par che io speri

nel vecchio altro piacer che affanni e pianti,

sospir’, paura, vergogna, ira e disdegno.

Così avess’io il tuo regno

conosciuto e la vita delli amanti,

quel dì che i casti e i santi

pensier’ miei in tutto volsi

a te, che dimostravi darmi pace,

quando me a me tolsi,

che, quanto fu più presto, men mi piace!

Io m’ero sanza alcun riserbo dato,

e per più vero segno

della mia intera, pura e vera fede,

non prezzo alcun, ma il cor li die’ per pegno;

(e ’l dominio e lo stato

di me libero prese, ove ancor siede),

sperando che merzede

dovessi aver de’ mia gravosi affanni,

e di mille promesse che almeno una

fussi vera, e Fortuna

qualche volta mutassi volto e panni.

Or la fatica e li anni

mi veggio avere al tutto

perduti e l’età mia florida e verde,

sanza altri fiori o frutto,

ché ’l tempo più che un tratto non si perde.

Ma non è maraviglia s’io fu’ giunto,

semplice e giovinetto:

sotto tal esca mi mettesti l’amo!

Perché non mortal cosa per oggetto

mi desti l’ora e ’l punto

che facesti che ancor servo mi chiamo,

perché chi mi fe’ gramo

cosa divina parve agli occhi miei;

né credo che ingannar potessi o voglia.

Onde i pianti e la doglia,

ch’io ho sofferti per seguir costei,

già corsi solar’ sei,

mi fûr piacer, ma ora,

ch’io veggo esser fallace ogni mia spene,

sendone al tutto fora,

Amore, io lascio i lacci e le catene;

e do le vele mie al miglior vento,

ché in sì crudel tempesta

non era il navicar sanza periglio.

Lascio la vita lacrimosa e mesta

e ’l faticoso stento,

e nuova via, altro governo piglio;

e con miglior consiglio

reggo la barca mia fra le salse onde,

ch’era già vicina ad uno scoglio.

Per altro mare ir voglio,

la stanca prora vo’ drizzar d’altronde,

ove non si nasconde

sicur riposo e porto,

che poco innanzi m’era sì lontano.

Fammi il passato accorto,

e la fatica e ’l tempo perso invano.

E’ mi s’agghiaccia nelle vene il sangue,

quando or meco ripenso

la dura vita perigliosa e ria.

E, come quasi perde ciascun senso

chi un venenoso angue

passando calca in mezzo ad una via;

che poi via più che pria

teme, già sendo del pericol fore,

non conoscendo il male allor quando era;

e quella crudel fera,

la qual calcato avea con franco core,

rimira con maggiore

temenza, già sicuro;

così riguardo il mio viver indrieto,

rigido, impio, aspro e duro,

né so ben qual son più, pauroso o lieto.

Canzona, poiché abbiam mutato stile,

non far l’usata via:

conforta a libertà l’alma gentile.

 

LXVIII

 

Sonetto fatto per uno amico innamorato di nuovo, che lo mandò alla dama

 

Sì presto il ciel mai vidi alluminarsi,

quando Giove dimostra le sue armi,

né sì veloce un mutar d’occhio parmi,

come, veggendo voi, di sùbito arsi;

e, non sendo i be’ lumi a me più scarsi

a darmi pace, che fussi a legarmi,

volendo, quel che dimostroron, farmi,

spero gli amari pianti dolci farsi.

E, benché spesso sia Amor fallace,

e vana la speranza, e pien d’inganni

a’ semplicetti amanti tal sentiero,

pur gli occhi suoi che mi promisson pace,

so non mi terran troppo in questi affanni

e manterran quel ch’io sol bramo e spero.

 

LXIX

 

Sonetto fatto al duca di Calavria in nome di una donna

 

Bastava avermi tolto libertate

e dalla casta via disiunta e torta,

sanza voler ancor vedermi morta

in tanto strazio e in sì tenera etate.

Tu mi lasciasti sanza aver pietate

di me, che al tuo partir pallida e smorta,

presagio ver della mia vita corta,

restai, più non prezzando mia beltate.

Né posso altro pensar, se non quell’ora

che fu cagion de’ mia suavi pianti,

del mio dolce martìr e tristo bene.

E se non fussi il rimembrare ancora

consolator degli affannati amanti,

Morte posto avre’ fine a tante pene.

 

LXX

 

Sonetto fatto per alcuni poetucoli che dicevano Bartolomeo Coglione

dovea fare gran cose che in fine si risolverono in fumo

 

L’impio Furor nel gran tempio di Giano

orrido freme, sanguinoso e tinto:

con mille nodi relegato e vinto,

cerca disciôrsi l’una e l’altra mano.

E certamente e’ s’affatica invano,

perché chi s’ha per lui la spada cinto,

già tante volte è superato e vinto,

che, se egli è vil, parer non vorrà insano.

Dunque resterà pur arido e secco,

quanto per lui Parnaso e ’l sacro fonte,

né però vizierassi il verde alloro.

Conoscesi oramai la voce d’Ecco,

né ’l curro più domanderà Fetonte,

ma fia quel della fata e del tesoro.

 

LXXI

 

Sonetto fatto pel duca di Calavria, quando la Signoria andò al Bagno

 

«Tu eri poco innanzi sì felice,

or se’ privata d’ogni tuo onore,

o patria nominata dal bel fiore:

qual fato tanto bene or ti disdice?».

«Lassa, che chi mi fa tanto infelice

mantenne sempre nel mio cerchio Amore!

Or s’è partita, e con lei fugge e more

ogni ben, né star lieta più mi lice.

Così sempre farò, finché Fortuna

che tolto ha ’l mio tesor, non mel ritorni,

e mi rimetta al mio stato primiero.

Ogni bene, ogni onor posto ho in quest’una;

lei può far lieti e tristi i nostri giorni,

né vo’ sanz’essa esser felice e spero».

 

LXXII

 

Canzona fatta trovandomi un dì dove erano certe donne, non sanza mio pericolo

 

Per rinnovare Amor l’antiche piaghe,

che avea nel cor richiuse

o fredda voglia o suo poco valore,

l’obietto antico e quelle luci vaghe

di pietà circumfuse

offerse agli occhi, e per lor mezzo al core.

Sembrava il pio sembiante che dolore

non tanto avessi di mia dura sorte,

ma con umili e accorte

voci parea del mal chieder merzede,

come conviensi a tanta ingiusta offesa;

persuadendo al cor che troppo pesa

negar perdon, chi umilmente il chiede.

Questo dicea, tacendo, il bel sembiante:

nol potea altri udire che un amante.

Io, come quel che non avea ben salde

l’antiche cicatrice,

di tal sùbita forza, incauto!, oppresso,

non ben pensando ancor quanto è gran lalde

svegliere alle radice

quel che è difficil poi tagliare appresso,

non pote’ far che a sì suave messo

non inclinassi l’uno e l’altro orecchio;

ché ’l rio costume vecchio

tôr non mi può dal core in tempo breve.

E benché avessi ancor quasi presenti

l’ira, li sdegni e’ tristi pentimenti,

fu più il disio su tal bilancia grieve:

né altro fe’ che far soglia colui

che ha i primi moti in potestà d’altrui.

Ma poi, come uomo usato aver vittoria

d’imprese assai dubbiose

sa qual sia del vittor la condizione,

parte per racquistar la persa gloria,

parte per non far cose

che ad altri dian di me iuridizione,

ripensando alla prima inclinazione,

vergogna ebbe di sé l’animo degno;

onde scudo di sdegno

oppose al colpo sùbito e mortale.

Così feci a tal forza resistenza:

e fu tanto maggior la mia potenza,

che invan fe’ la percossa dello strale;

né però sì mi copersi e difesi,

che ancor di tal difesa non mi pesi.

Perché restò dentro al mio petto sculto,

come in cera sigillo,

quel benigno sembiante umìle e pio;

e fu tanto veemente il primo insulto,

che poi punto tranquillo

per tal pensier non ha avuto il cor mio,

anzi sempre lo truovo ove sono io.

Veggo quelli occhi di pietate adorni,

e par spesso mi torni

innanzi quel ch’io disiai già tanto.

Queste parole suonan nella mente:

onde un pensier dentro dal cor si serra,

che, s’è presente, assente mi fa guerra.

Questo pensiero e ’l riguardare indrieto

qual sia suta la mia vita,

mentre inimico fui a mia salute,

mi fêr veder che ’l dolce sguardo lieto,

e ’l simulato aita

era alfin per lungar mia servitute.

E perché poco val quella virtute

che ’l mal vede venir se non soccorre,

pensai quel nodo sciôrre

che all’alma avea il suo bel viver tolto,

e renderli l’antica libertate;

e più forza ebbe in me la mia pietate,

che quella che mostrava il vago volto.

Così mi tolsi dall’error commesso,

e libero rende’ me a me stesso.

Priega, canzona, il bel figlio di Venere,

che omai l’ardente face

per me rimetta e lo stral fiammeggiante;

spento è il suo foco, e se ancor caldo è il cenere,

non prolunghi la pace

per questo: che fatto è il core adamante;

né inquieti omai la mente errante

con sue speranze, o pensi più condurne

per vision notturne

al primo impio disio ove già m’ebbe.

Poiché, quando era avermi in sua possanza,

non volse, di me perda ogni speranza,

or che non può, quando forse vorrebbe.

Di’ che non facci indarno omai più prove,

ma serbi l’arco e le saette altrove.

 

LXXIII

 

Se Amor agli occhi mostra il lor bel sole,

o se ’l pensiero al cor lo rappresenta,

se’ avvien che vera o imaginata senta

l’angelica armonia delle parole,

l’alma, che del passato ancor si duole,

del suo futuro mal triema e paventa,

perché una fiamma, ch’è di fresco spenta,

raccender facilmente ancor si suole,

e benché l’esca della antica spene

non sia nel cor, v’è quella che promette

lo sguardo, le parole e ’l dolce riso.

Ma poi pur rompe i lacci e le catene

lo sdegno, e l’arco spezza e le saette,

quando il passato mal rimiro fiso.

 

LXXIV

 

A Feo Belcari

 

Lo spirito talora a sé redutto,

e dal mar tempestoso e travagliato

fuggito in porto tranquillo e pacato,

pensando ha dubbio, e vuolne trar costrutto.

S’egli è ver che da Dio proceda tutto,

e senza lui nulla è, cioè il peccato,

per sua grazia è se ci è concesso e dato

seminar qui per côrre eterno frutto.

Tal grazia in quel sol fa operazione,

che a riceverla è vòlto e ben disposto:

Dunque che cosa è quella ne dispone?

Qual prima sia vorrei mi fussi esposto,

o tal grazia o la buona inclinazione.

Rispondi or tu al dubbio ch’è proposto.

 

LXXV

 

Canzona fatta per la Auretta, donna di Pier Francesco, e a sua petizione

 

Quelle vaghe dolcezze, che Amor pose

ne’ due belli occhi dove ancor lui siede,

lasciando, per venirvi, il terzo cielo;

e gigli, le viole e fresche rose,

l’onesto e bel sembiante che merzede

nascosta tien sotto il leggiadro velo,

quando costumi e pelo

dovria mutare, or ritornar mi fanno

in quei lacci amorosi ove già m’ebbe

Amor, finché l’increbbe

di me, misero lasso!; e forse or vuole

ristorar quell’affanno,

sì come a veritier signor conviensi:

e però il chiaro Sole

offerse al cor, né vuol che ad altro pensi.

Quanta biltà già mai fu in donna bella

posto ha in costei, e in me quanto amore

portar si puote a sì leggiadra cosa.

Né fiamma arse già mai, sì come quella

ch’arde e consuma il fortunato core,

qual lieto al foco si quieta e posa.

Quella vita amorosa,

la qual mi fece un tempo odiar me stesso,

ritornar sento, ma cangiato ha sorte;

ché più felice morte

sì dolce mi parre’ che vita, allora

che, stando al mio ben presso,

né pene sento, né dolore alcuno.

Sol mi dolgo quell’ora

che l’occhio è del suo ben privo e digiuno.

Quanto appaga il mio cor quella valletta

ove o per maraviglia spesso viene

il Sole a starsi o come Amor lo tira!

Quanto contenta l’alma mia un’Auretta,

la qual empie il mio cor d’accesa spene

sì dolcemente, e sì suave spira,

che la tempesta e l’ira

del mare acquetere’, qualor più freme!

L’onda, più chiara che cristallo od ambra

della felice Zambra,

col dolce mormorio talor m’allieta,

e talor meco geme,

ché piange e ride, come il mio cor face.

L’ire e li sdegni acqueta

per questo Amore, ond’io ho tanta pace.

E ben credo sare’ come già fue

verso il mio core, e la sua crudeltate

dimosterrebbe per antica usanza,

se non che lei con le parole sue

lo muove âver di me maggior pietate,

la cui bellezza le sue forze avanza;

e già tanta possanza

Amor gli ha data, che non sol me sforza

ma lui di tanta maraviglia ha cinto,

che al fin se stesso ha vinto.

Veggo or per pruova che ogni gran potenza

è sotto maggior forza:

ella me vinse e lei, vittrice, Amore;

né poi fe’ resistenza

Amore alla sua forza e al suo valore.

Come in su be’ crin d’òr verde ghirlanda

fa l’òr parer più chiaro e più lucente,

e l’auree chiome il verde assai più snello,

così quella pietà che al cor li manda

Amor, fa sua biltà più eccellente

e più, grata pietà, l’aspetto bello;

ché l’un per l’altro è quello

che fa ciascun per sé più caro e degno:

perché val poco alfin quella pietate

dove non è biltate;

biltà sanza pietate è viva morte,

e passa ogn’altro sdegno

quel ben ch’altri disia, se n’è disiunto.

Pietà, biltà, consorte,

Amor ha in lei e la Natura aggiunto.

Questa coniunzione una armonia

sì dolce fa, che ogni altro dolce passa,

né il dolor sol, ma il cor metto in oblio.

Queste eccellenzie della donna mia

fan lieta l’alma allor quando è più lassa,

ché gran contento segue il gran disio.

Amor, poi che sì pio

se’ verso me, per qual cagione avvenga,

di sì felice sorte io ti ringrazio;

temo sol che lo spazio

del viver sia, più ch’io non vorrei, brieve,

e ’l troppo dolce spenga

per morte in me del mio ben la radice;

ma non mi parrà grieve

il fin però, morendo sì felice.

Canzona, in quella valle

andrai, dov’è il mio cor, ch’è sempre aprica,

sopra il fresco ruscello:

lì ti dimorerai lieta e soletta;

fa’ parola non dica:

statti ove spira una gentil Auretta.

 

LXXVI

 

Ch’è quel ch’io veggo dentro agli occhi belli

della mia donna? Lasso!, egli è Amor forse?

Pur l’accecata vista ve lo scòrse,

benché la vinca lo splendor di quelli.

«Amor, perché per me non li favelli?».

Rispose lui, che dello error s’accorse:

«Perché l’arco e li stral di man m’estorse,

e mi legò co’ suoi biondi capelli.

Questa con voluntaria violenzia

fatto ha che in me le mie saette ho vòlto;

per lei ho in odio la mia antica stella.

Due ne ho per una, e molto più bella

ciascuna d’esse; e io triemo, ché tolto

e secco è il fonte d’ogni sua clemenzia.»

 

LXXVII

 

Talor mi priega dolcemente Amore,

parlando all’affannato cor davante:

«Deh! torna a riveder quel bel sembiante,

là dove un tempo accompagnai il tuo core.

Lui si partì per superchio dolore,

io mi restai in quelle luci sante,

ove ancor son buon testimon di tante

durezze pria, or di pietoso ardore.

Torna alle antiche, chiar’ tue fide stelle:

ché l’una in te per sua influenzia infonde

amore, e l’altra gentilezza insieme:

giusta pietà l’ha fatte assai più belle.»

Il tristo cor a questo non risponde,

ma tace incerto e d’ogni cosa teme.

 

LXXVIII

 

Sonetto fatto a Volterra

 

Se in qualche loco aprico, dolce e bello

trasporta il fatigato corpo e lasso

l’alma, sempr’è Amor meco ad ogni passo,

con cui sol del mio mal piango e favello;

se in bosco ombroso o in monte alpestro e fello,

veggovi Amor che siede sopra un sasso;

se in ima valle o in loco oscuro e basso,

nulla veggo, odo o penso, se non quello.

Né sa più il tristo core omai che farsi:

o fuggir ne’ belli occhi alla sua morte,

o ver lontan da quei morir ognora.

Dice fra sé: «Se un tempo in quegli occhi arsi,

dolce era il mio morir, lieta mia sorte:

onde meglio è che ne’ belli occhi mora.»

 

LXXIX

 

«Come ritorni, Amor, dentro allo afflitto

cor, che pel tuo partire era tranquillo?».

«Io torno nello impresso mio sigillo

fatto nel cor da’ begli occhi trafitto».

«Lasso, io credevo che fussi prescritto,

tanto è che libertà per suo sortillo!».

«Non dir così, ché ’l primo stral, che aprillo,

gli occhi ché ’l trasson v’han sempre relitto».

«Ben sentivo io nel cener fatto il core

pel fuoco che l’umor delli occhi stilla,

un picciol segno dell’antico amore».

«Vedrai che quella picciola favilla

in te ecciterà eterno ardore,

colpa e disgrazia della tua pupilla.»

 

LXXX

 

Occhi, io sospiro come vuole Amore,

e voi avete per mio mal diletto;

Sempre ardo, né giammai giugne allo effetto

qual più desia lo inveterato ardore.

Ma voi sentite ben pel mio dolore,

perché mirate il più gentil obbietto

che aver possiate: al vostro ben perfetto

vi conduce la doglia di me, cuore.

Se pur piangete, io son quel che distillo

alquanto del mio mal per la via vostra,

né il ben vi toglie il cor, quando si duole.

Pregate meco Amor che sia tranquillo,

qual se benigno il chiaro obietto mostra

quanto sarà più bello il vostro sole!

 

LXXXI

 

Quel che il proprio valore e forza eccede,

folle è sperare o disiar d’avere.

S’alcun tien l’occhio fisso per vedere

il sol, né quel né altra cosa vede.

S’egli è vero il pensier d’alcun che il crede,

l’alta armonia delle celeste spere

vince i mortali orecchi; né volere

si dee quel ch’altri con suo danno chiede.

Ah! folle mio pensier!, perché pur vuole

giugner pietate alle bellezze oneste

della mia donna, agli occhi, alle parole?

Suo parlar men che l’armonia celeste

non vince, o il guardo offende men che il sole:

or pensa se pietà si aggiugne a queste!

 

LXXXII

 

Se con dolce armonia due istrumenti

nella medesma voce alcun concorda,

pulsando l’una, rende l’altra corda

per la conformità, medesmi accenti.

Così par dentro al mio cor si risenti

l’imago impressa, a’ nostri sospir sorda,

se per similitudin si ricorda

del viso, ch’è sopra l’umane menti.

Amor, in quanti modi il cor ripigli!

Ché fuggendo l’aspetto del bel viso,

d’una vana pittura il cor pascendo,

o che non vegghino altro i nostri cigli,

o che il pittor già fussi in paradiso,

lei vidi propria: or va’ d’Amor fuggendo!

 

LXXXIII

 

Solea già dileggiar Endimione,

la stultizia accusar del bel Narciso,

prender ammirazion che tanto fiso

mirò l’immagin sua Pigmalione.

Lasso!, è il mio vaneggiar con men ragione

condotto ad amar tanto un pinto viso,

che non può con parole o con un riso

quetar quel gran disio che nel cor pone.

Almen dar mi potevan qualche aita

gli occhi ch’io fuggo e le leggiadre chiome:

questo non può la vana simiglianza.

Amor, la tua potenzia è infinita

(folle è chi ’l nega!), ché ho veduto or come

amar può il tristo cor sanza speranza!

 

LXXXIV

 

Occhi, voi siate pur dentro al mio core

e vedete il tormento ch’ei sostiene,

e la sua intera fé: dunque, onde avviene

che madonna non cura il suo dolore?

Tornate a lei, e con voi venga Amore,

testimone ancor lui di tante pene;

dite che resta al cor sol questa spene

de’ prieghi vostri, e se in van fia, si more.

Portate a lei i miseri lamenti.

Ma, lasso! quant’è folle il mio disio,

ché ’l cor non vive sanza gli occhi belli!

O occhi, refrigerio a’ miei tormenti,

deh! ritornate al misero cor mio!

Amor sol vadi, e lui per me favelli.

 

LXXXV

 

Se quando io son più presso al vago vólto

el freddo sangue si ristringe al core,

e se mi assale un sùbito pallore

io so quel ch’è che ogni virtù m’ha tolto.

Quel viso, in cui è ogni ben raccolto

pe’ raggi del micante suo splendore,

sparge e diffonde del suo bel valore

nel cor che ad amar quello in tutto è vòlto.

E tanto dentro al tristo cor soggiorna,

che l’imagine finta al tutto strugge

con la presenzia sua la forma vera.

Allor quella virtù che da lei era,

qual maraviglia è se da me si fugge,

che a lei, sì come a suo principio, torna?

 

LXXXVI

 

Come ti lascio, o come meco sei,

o viso, onde ogni nostra sorte move?

Come qui moro o come vivo altrove?

Amor, dimmelo tu, ch’io nol saprei.

Chi mi sforza al partir, s’io non vorrei?

S’io fuggo un sol, come lo fuggo o dove?

Lasso!, qual ombra fa che non mi trove,

se non è notte mai alli occhi miei?

Questo è ben ver: che se la forma vera

veggio, mi par bellissima e superba,

leggiadra oltra misura e disdegnosa;

s’io son lontan, novella Primavera

riveste i prati di fioretti e d’erba:

così bella la veggio e sì pietosa.

 

LXXXVII

 

O chiara stella, che co’ raggi tuoi

togli alle tue vicine stelle il lume,

perché splendi assai più del tuo costume?

Perché con Febo ancor contender vuoi?

Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi

Morte crudel, ch’omai troppo presume,

accolti hai in te: adorna del lor lume,

il suo bel carro a Febo chieder puoi.

O questa o nuova stella che tu sia,

che di splendor novello adorni il cielo,

chiamata esaudi, o nume, e voti nostri:

leva dello splendor tuo tanto via,

che agli occhi, che han d’eterno pianto zelo,

sanza altra offension lieta ti mostri.

 

LXXXVIII

 

Quando el sol giù dall’orizzonte scende,

rimiro Clizia pallida nel vólto,

e piango la sua sorte, che li ha tolto

la vista di colui che ad altri splende.

Poi, quando di novella fiamma accende

l’erbe, le piante e’ fior’ Febo, a noi vòlto,

l’altro orizzonte allor ringrazio molto

e la benigna Aurora che gliel rende.

Ma, lasso, io non so già qual nuova Aurora

renda al mondo il suo Sole. Ah, dura sorte,

che noi vestir d’eterna notte volse!

O Clizia, indarno speri vederlo ora!

Tien gli occhi fissi, infin li chiugga morte

all’orizzonte estremo che tel tolse.

 

LXXXIX

 

Di vita il dolce lume fuggirei

a quella vita che altri morte appella;

ma morte è sì gentile oggi e sì bella,

ch’io credo che morir vorran li dèi.

Morte è gentil, poich’è stata in colei

che è or del ciel la più lucente stella;

io, che gustar non vo’ dolce poi che ella

è morta, seguirò questi anni rei.

Piangeran sempre gli occhi, e ’l tristo core

sospirerà del suo bel sol l’occaso,

lor di lui privi, e ’l cor d’ogni sua speme.

Piangerà meco dolcemente Amore,

le Grazie e le sorelle di Parnaso;

e chi non piangeria con queste insieme?

 

XC

 

In qual parte andrò io, ch’io non ti truovi,

trista memoria? In quale oscuro speco

fuggirò io, che sempre non sie meco,

trista memoria, che al mio mal sol giovi?

Se in prato, lo qual germini fior’ nuovi,

se all’ombra d’arbuscei verdi m’arreco,

veggo un corrente rivo, io piango seco:

che cosa è, ch’e miei pianti non rinnuovi?

S’io torno all’infelice patrio nido,

tra mille cure questa in mezzo siede

del cor che, come suo, consuma e rode.

Che debb’io fare omai, a che mi fido?

Lasso, che sol sperar posso merzede

da morte, che oramai troppo tardi ode!

 

XCI

 

Se tra li altri sospir’ che escon di fore

del petto, come vuol mia dura sorte,

Amor qualcun ne mischia, par che porte

dolcezza alli altri e riconforti il core.

Quel viso, che col vago suo splendore

ha già li spirti e le mie forze estorte

più volte dall’avare man’ di morte,

ancora aiuta l’alma, che non more.

Fortuna invida vede quei sospiri

che manda Amor dal core, e li comporta,

credendo che si arroga a’ miei martìri:

Così la inganno e folla manco accorta,

se avvien ch’Amore a lacrimar mi tiri;

né sa quanta dolcezza il pianto porta.

 

XCII

 

Sonetto fatto a Napoli

 

I miei vaghi pensieri ad ora ad ora

parlano insieme della donna mia

sì dolcemente, che il mio cor si svia

per girne a lei, e dipoi l’alma ancora.

Amor, che nel mio cor sempre dimora,

veggendo l’alma già che sen va via,

mosso a pietate, assai leggiadra e pia

mi mostra quella che ’l suo regno onora.

Gli occhi, le man’, la bocca e il bel sembiante

della mia bella donna ha tolto Amore

e altra gentil donna n’ha vestita,

tal che, veggendo lei, le luci sante

mi par veder: così raffrena il core

Amore, che non si fugge con la vita.

 

XCIII

 

Li infrascritti XII sonetti sono fatti per D.

 

Se il fortunato cor, quando è più presso

a voi, madonna mia, talor sospira,

non s’incolpi di ciò disdegno o ira

o paura o dolor, lo qual sia in esso;

Ma la dolcezza ch’Amor gli ha concesso

ciascun spirto disvia e a sé il tira,

tal ch’alcun refriggerio più non spira

al cor, che arde obliato di se stesso.

Amor vede, se presto non soccorre,

per soverchia dolcezza il cor perire,

e i vaghi spirti al suo soccorso chiama.

Ciascun per obbedirlo pronto corre:

così crean talor qualche sospire,

per refriggerio a quel che morir brama.

 

XCIV

 

Spesso mi torna a mente, anzi già mai

si può partir della memoria mia,

l’abito e il tempo e loco, dove pria

la mia donna gentil fiso mirai.

Quel che paressi allora, Amor, tu il sai,

che con lei sempre fusti in compagnia:

quanto vaga, gentil, leggiadra e pia,

non si può dir, né imaginare assai.

Quando sopra i nivosi e alti monti

Apollo spande il suo bel lume adorno,

tali i crin’ suoi sopra la bianca gonna.

El tempo e ’l loco non convien ch’io conti,

ché dove è sì bel sole è sempre giorno,

e paradiso ove è sì bella donna.

 

XCV

 

Chi ha la vista sua così potente,

che la mia donna possi mirar fiso,

vede tante bellezze nel suo viso,

che farien tutte l’anime contente.

Ma Amor v’ha posto uno splendor lucente,

che niega a’ mortali occhi il paradiso,

onde a chi è da tanto ben diviso

ne resta maraviglia solamente.

Amor sol quei c’han gentilezza e fede

fa forti a rimirar l’alta Bellezza,

levando parte de’ lucenti rai.

Quel che una volta la Bellezza vede

e degno è di gustar la sua dolcezza,

non può far che non l’ami sempremai.

 

XCVI

 

Chiare acque, io sento il vostro mormorio

che sol della donna mia il nome dice:

credo, poi ch’Amor fe’vi sì felice,

che fussi specchio al suo bel viso e pio.

La bella imagin sua da voi partìo,

perché vostra natura vel disdice;

solo il bel nome a voi ricordar lice,

né vuole Amor che lo senta altri ch’io.

Quanto più fûro o fortunati o saggi

che voi, chiare acque, gli occhi mia, quel giorno

che fûrno prima specchio al suo bel volto,

servando sempre in loro i santi raggi.

Né veggon altro poi mirando intorno,

né gliel cela ombra, né dal sol gli è tolto.

 

XCVII

 

Io ti lasciai pur qui quel lieto giorno

con Amore e madonna, anima mia:

lei con Amor parlando se ne gia

sì dolcemente, allor che ti sviorno!

Lasso! or piangendo e sospirando torno

al loco ove da me fuggisti pria:

né te né la tua bella compagnia

riveder posso, ovunque io miri intorno.

Ben guardo ove la terra è più fiorita,

l’aer fatto più chiar da quella vista

che or fa del mondo un’altra parte lieta.

E fra me dico: «Quinci sei fuggita

con Amor e madonna, anima trista,

ma il bel cammino a me mio destin vieta!».

 

XCVIII

 

Poscia che il bene avventurato core,

vinto dalla grandezza de’ martìri,

mandando inanzi pria molti sospiri,

fuggì dall’angoscioso petto fore,

stassi in quei due belli occhi con Amore;

e perché loro, ove che Amor li giri,

fan gentile ogni cosa ch’ella miri,

degnato hanno ancor lui a tanto onore.

Il cor, dagli occhi a questo bene eletto,

fatto è per lor virtù tanto gentile,

che più cosa mortal non brama o prezza.

E benché abbin cacciato for del petto

quelli occhi ogni pensier vulgare e vile,

né torna a me, né brama altra bellezza.

 

XCIX

 

Candida, bella e delicata mano,

ove Amore e Natura poser quelle

leggiadrie dolci, sì gentili e belle

che ogni altra opera lor par fatta invano,

tu traesti del petto il cor pian piano

per la piaga che fêr le vaghe stelle,

quando Amor sì piatose e dolce felle,

tu drieto a lor entrasti a mano a mano;

tu legasti il mio cor con mille nodi,

tu ’l formasti di nuovo e, poi che fue

gentil fatto per te, rompesti e lacci.

S’egli è fatto gentil, non convien piùe

cercar per rilegarlo nuovi nodi,

o pensar ch’altra cosa mai li piacci.

 

C

 

O mano mia suavissima e decora!

«Mia», perché Amor, quel giorno che ebbe a sdegno

mia libertà, mi dette te per pegno

delle promesse che mi fece allora;

dolcissima mia man, con quale indora

Amor li strali onde cresce il suo regno!

con questa tira l’arco, a cui è segno

ciaschedun cor gentil che s’innamora.

Candida e bella man, tu sani poi

quelle dolci ferite, come il telo

facea, com’alcun dice, di Pelide.

La vita e morte mia tenete voi,

eburnee dita, e ’l gran disio ch’io celo,

qual mai occhio mortal vedrà, né vide.

 

CI

 

Belle, fresche e purpuree viole,

che quella candidissima man colse,

qual pioggia o qual puro aer produr volse

tanto più vaghi fior’ che far non suole?

Qual rugiada, qual terra o ver qual sole

tante vaghe bellezze in voi raccolse?

Onde il suave odor Natura tolse,

o il ciel, che a tanto ben degnar ne vuole?

Care mie violette, quella mano

che v’elesse infra l’altre, ov’eri, in sorte,

vi ha di tanta eccellenzia e pregio ornate!

Quella che il cor mi tolse, e di villano

lo fe’ gentile, a cui siate consorte,

quella adunque, e non altri ringraziate!

 

CII

 

Quanta invidia ti porto, o cuor beato,

che quella man vezzosa or mulce or stringe,

tal ch’ogni vil durezza da te spinge!

E poi che sì gentil sei diventato,

talora il nome, a cui te ha consegrato

Amore, il bianco dito in te dipinge;

or l’angelico viso informa e finge,

or lieto, or dolcemente perturbato.

Or li amorosi e vaghi suoi pensieri

ad uno ad un la bella man descrive,

or le dolce parole accorte e sante.

O mio bel core, oramai più che speri?

Sol che abbin forza quelle luci dive

di transformarti in rigido adamante.

 

CIII

 

Datemi pace omai, sospiri ardenti,

o pensier’ sempre nel bel viso fissi,

che qualche sonno placido venissi

alle roranti mie luci dolenti!

Or li uomini e le fere hanno le urgenti

fatiche e’ dur’ pensier queti e remissi,

e già i bianchi cavalli al giogo ha missi

la scorta de’ febei raggi orienti.

Deh! facciàn triegua, Amor, ch’io ti pormetto

ne’ sonni sol veder quell’amoroso

viso, udir le parole ch’ella dice,

toccar la bianca man che ’l cor m’ha stretto.

O Amore, del mio ben troppo invidioso,

lassami almen dormendo esser felice!

 

CIV

 

O Sonno placidissimo, omai vieni

allo affannato cor che ti disia!

Serra il perenne fonte a’ pianti mia,

o dolce oblivion, che tanto peni!

Vienne, unica quiete, quale affreni

sola il corso al desire, e in compagnia

mena la donna mia benigna e pia,

con gli occhi di pietà dolci e sereni.

Mostrami il lieto riso, ove già fêrno

le Grazie la lor sede, e il disio queti

un pio sembiante, una parola accorta.

Se così me la mostri, o sia etterno

il nostro sonno, o questi sonni lieti,

lasso, non passin per l’eburnea porta!

 

CV

 

Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori,

le piazze, e templi e gli edifizii magni,

le delizie, il tesor, quale accompagni

mille duri pensier’, mille dolori.

Un verde praticel pien di bei fiori

un rivolo che l’erba intorno bagni,

uno uccelletto che d’amor si lagni,

acqueta molto meglio i nostri ardori;

l’ombrose selve, e sassi e gli alti monti,

gli antri oscuri e le fere fugitive,

qualche leggiadra ninfa paurosa.

Quivi veggo io con pensier’ vaghi e pronti

le belle luci come fussin vive,

qui me le toglie or una or altra cosa.

 

CVI

 

«Ponete modo al pianto, occhi miei lassi:

presto quel viso angelico vedrete!»

«Ecco già lo veggiam». «Perché piangete?

Perché nel petto il cor pavido stassi?»

«Miseri noi, che se fiso mirassi,

fermando in noi le vaghe luci e liete,

il nostro bavalischio, o faria priete

di noi, o converria l’alma espirassi!».

«Dunque, qual disio face a voi, qual sorte,

e temere e voler quel vi disface?

Chi muove o scorge il passo lento e raro?».

«Natura insegna a noi temer la morte,

ma Amor poi mirabilmente face,

suave a’ suoi quel ch’è ad ogni altro amaro».

 

CVII

 

O veramente felice e beata

notte, che a tanto ben fusti presente!

O passi ciechi, scorti dolcemente

da quella man suave e delicata!

Voi, Amore e ’l mio cor e la mia amata

donna sapete sol, non altra gente,

quella dolcezza che ogni umana mente

vince, da uom giamai più non provata.

Oh più ch’altra armonia di suoni e canti

dolce silenzio! O cieche ombre, che avesti

di lacrimosa luce privilegio!

Oh felici sospiri e degni pianti!

Oh superbo desio, che presumesti

voler sperare aver sì alto pregio!

 

CVIII

 

Sì dolcemente la mia donna chiama

morte nelli amorosi suoi sospiri,

che accende in mezzo agli aspri miei disiri

un suave disio, che morte brama.

Questo gentil disio tanto il core ama,

che scaccia e spegne in lui gli altri martìri;

quinci prende vigore e par respiri

l’alma contr’a sua voglia, afflitta e grama.

Morte, dalle dolcissime parole

di mia donna chiamata, già non chiude

però i belli occhi, anzi sen fa piatosa.

Così mantiensi al mondo il mio bel Sole;

a me la vita mesta e lacrimosa

per contrario disio, che morte eslude.

 

CIX

 

Ove madonna volge gli occhi belli

sanz’altro sol questa novella Flora

fa germinar la terra e mandar fora

mille vari color’ di fior novelli.

Amorosa armonia rendon li uccelli,

sentendo il cantar suo, che l’innamora;

veston le selve i secchi rami, allora,

che senton quanto dolce ella favelli.

Delle timide ninfe a’ petti casti

qualche molle pensiero Amore infonde,

se trae riso o sospir la bella bocca.

Or qui lingua o pensier non par che basti

a intender ben quanta e qual grazia abonde,

là dove quella candida man tocca.

 

CX

 

Lasso!, che sento io più muover nel petto?

Non già il mio cor, che s’è da me fuggito.

Questi spessi sospir’, s’ei se n’è gito,

a cui dan refriggerio, a cui diletto?

Li alti e dolci pensier’ del mio concetto

chi muove adunque, se il core è smarrito?

Amor, che ’l fece al fuggir via sì ardito,

questo me ne ha con la sua bocca detto:

«Quando i belli occhi prima la via fêro,

entrò la bianca mano e ’l cor ti tolse,

e in cambio a quello un più gentil ne misse;

questo in te vive, e ’l tuo, fatto più altero,

in più candido petto viver volse.

Questo è de’ mia miracoli», Amor disse.

 

CXI

 

Quando la bella imagine Amor pose

drento al mio cor per sua grazia e virtute,

se per altri disir’ v’eran venute,

spense e scacciò da lui tutte altre cose.

Lasso or se con le luci lacrimose

invan cerco le luci che ho perdute,

dalli occhi al pensier fuggo, e mia salute

a lui domando, a cui già mai s’ascose.

El mio pensiero allor benignamente

sola in mezzo del cor la donna mia

mi mostra, e intorno tutti e miei disiri.

Allor di novel foco arder si sente

il tristo cor, che già cener saria,

se non fusse la forza de’ sospiri.

 

CXII

 

Madonna, io veggo ne’ vostri occhi belli

un disio vago, dolce ed amoroso,

che Amore a tutti tiene ascoso,

a me benignamente lo mostra elli.

Questo gentil disio par che favelli,

promettendo al mio cor pace e riposo:

questo afferma un sospir caldo e pietoso,

che Amore in compagnia per fede dielli.

Questo sospir porta al mio cor novelle

della pietà, che fuor del bianco petto

lo manda messagger del vostro cuore.

Giunto alla bella bocca, e pie e belle

parole forma, di sì dolce effetto,

che fa stupido star, non che altri, Amore.

 

CXIII

 

In dormientem sub quercu

 

Più dolce sonno o placida quiete

già mai chiuse occhi, o più belli occhi mai,

quanto quel che adombrò li santi rai

delle amorose luci, altere e liete.

E mentre stiêr così, chiuse e secrete,

Amor del tuo valor perdesti assai,

ché lo imperio e la forza che tu hai

la bella vista par ti presti e viete.

Alta e frondosa quercia, che interponi

le fronde tra’ belli occhi e’ febei raggi,

e sumministri l’ombra al bel sopore,

non temer, benché Giove irato tuoni,

non temer sopra te più folgor caggi,

da que’ grati occhi consecrata a Amore.

 

CXIV

 

In eandem

 

Odorifera erbetta e vaghi fiori,

che ornate il prato come il ciel le stelle,

le dolcemente fatigate e belle

membra vedesti in mezzo ai bei colori.

Alto e dolce pensier suo, quanto onori

le cose di cui tacito favelle!

Oh me felice, che allor fui di quelle,

che ’l dice Amor, che ha in pegno i nostri cuori!

Aura suave, quale or togli or rendi

a lei la vista del febeo splendore,

movendo i rami e insieme l’ombra intorno!

All’alta quercia i tuoi trofei sospendi,

o dolce sonno, e non si sdegni Amore

se triunfasti de’ belli occhi il giorno!

 

CXV

 

Tante vaghe bellezze ha in sé raccolto

il gentil viso della donna mia,

ch’ogni nuovo accidente che in lui sia,

prende da lui bellezza e valor molto.

Se di grata pietà talor è involto,

pietà già mai non fu sì dolce e pia:

se di sdegno arde, tanto bella e ria

è l’ira, ch’Amor triema in quel bel volto.

Pietosa e bella è in essa ogni mestizia:

e, se rigano pianti il vago viso,

dice piangendo Amor: «Questo è il mio regno!».

Ma quando il mondo cieco è fatto degno

che muova quella bocca un suave riso,

conosce allor quale è vera letizia.

 

CXVI

 

Allor ch’io penso di dolermi alquanto

de’ pianti e de’ sospir miei teco, Amore,

mirando per pietà l’afflitto core,

l’imagin veggo di quel viso santo.

E parmi allor sì bella e dolce tanto,

che vergognoso il primo pensier more;

nascene un altro poi, che è uno ardore

di ringraziarla, e le sue laude canto.

La bella imagin che laudar si sente,

come dice il pensier che lei sol mira,

sen fa più bella e più pietosa assai.

Quinci surge un disio nuovo in la mente

di veder quella che ode, parla e spira:

e torno a voi, lucenti e dolci rai.

 

CXVII

 

Sonetto fatto ex tempore, ad saxum in lucu repertum

 

Già fui misero amante, or transformato

per la vaghezza di due occhi belli

da una ninfa tra verdi arbuscelli,

di amante un duro sasso diventato.

Se qualche gentil cor quinci è passato,

per essemplo di me sia più saggio elli;

né facci gli occhi alla ragion ribelli,

perché son tesi i lacci in ogni lato.

Benché rigida pietra, ancor mi resta

tanta pietà, che ammonir posso altrui

e farlo saggio col pericol mio.

Cauto con gli occhi bassi e con la testa

passi di qui chi è come già fui,

ché ancora in questi luoghi Amore è dio.

 

CXVIII

 

Lasso a me!, quando io son là dove sia

quell’angelico, altero e dolce volto,

il freddo sangue intorno al core accolto

lascia sanza color la faccia mia.

Poi, mirando la sua, mi par sì pia,

che io prendo ardire e torna il valor tolto:

Amor, ne’ raggi de’ belli occhi involto,

mostra al mio tristo cor la cieca via.

E parlandoli allor dice: «Io ti giuro

pel santo lume di questi occhi belli,

del mio stral forza e del mio regno onore,

ch’io sarò sempre teco, e te assicuro

esser vera pietà che mostran quelli».

Credeli, lasso, e da me fugge il core.

 

CXIX

 

Quel cor gentil, che Amor mi diede in pegno

mirabilmente in cambio al mio, eletto

a maggior bene, or vuol lasciar soletto

il petto mio, di sì bel core indegno.

Io priego il mio che torni: egli è sì degno,

che l’antiqua sua sede ora ha in dispetto.

Io dico a lui: «Se non degna il mio petto

quel core, arà te, cor, quel petto a sdegno.

Misero, che farai?». E lui risponde:

«Starò in essilio in quelle luci belle:

se pur cacciato son sanza riguardo,

queste non mi può tôr, né Amor le asconde;

e tu arai di me spesso novelle

pe’ dolci raggi di quel bello sguardo».

 

CXX

 

«Amorosi sospiri, e quali uscite

del bianco petto di mia donna bella,

ditemi del mio cor qualche novella

qual voi sì dolcemente in lei nutrite».

«Stassi lieto il tuo cor, quieto e mite,

mille dolci pensier’ movendo in quella,

co’ qual’ sovente e con Amor favella

alte cose e gentil’; né voi l’udite».

«Sospir’ benigni, ora è ver quel che io sento

da voi?». «Sì certo!». «Almen ditemi ancora

se là dove è starà il mio core assai».

Mentre che io parlo, e lor sen vanno in vento.

Amor sopra il suo petto giura allora

che a me il mio cor non tornerà già mai.

 

CXXI

 

Occhi, voi siate pur, come paresti,

i più begli occhi ch’io vedessi mai:

l’altre vaghe bellezze ch’io mirai

e i modi son bellissimi ed onesti.

Né mi posso doler, lasso! di questi,

ma ringraziarli ed onorarli assai,

ma sol di te, o falso Amor, che sai

che ’l core era adamante e nol dicesti.

Già ne domandai gli occhi, ove tu eri:

tu formasti parole in quella bocca

da fare i monti gir, non che un cor preso.

Già pe’ sospir’ gli amorosi pensieri

suoi conobbi io, e che pietà il cor tocca,

ma non sapea di che fuoco era acceso.

 

CXXII

 

Il cor mio lasso, in mezzo allo angoscioso

petto i vaghi pensier’ convoca e tira

tutti a sé intorno, e pria forte sospira,

poi dice con parlar dolce e pietoso:

«Se ben ciascun di voi è amoroso,

pur ve ha creati chi vi parla e mira:

deh! perché adunque eterna guerra e dira

mi fate, sanza darmi un sol riposo?»

Risponde un d’essi: «Come al novo sole

fan di fior’ varii l’ape una dolcezza,

quando di Flora il bel regno apparisce,

così noi delli sguardi e le parole

facciam, de’ modi e della sua bellezza,

un certo dolce-amar, che ti nutrisce.»

 

CXXIII

 

Qual maraviglia, se ognor più s’accende

quel gentil foco in cui dolcemente ardo?

Se mille volte quel bel viso guardo,

mille nuove dolcezze alli occhi rende.

El core, a cui questa bellezza scende,

si maraviglia, e l’occhio ottuso e tardo

a veder le virtù del bello sguardo

accusa di pigrizia, e lo riprende.

Amor per gli occhi di mia donna vede

li occhi mia lassi, e al mio cor favella

pe’ dolci raggi della vista pia:

«Infinito è il valore onde procede

alli occhi tuoi dolcezza ognor novella:

l’occhio è mortale; e ’l foco eterno fia.»

 

CXXIV

 

Lasso, io non veggo più quelli occhi santi,

de’ miei dolenti pace e vero obietto;

e, perché quel ch’io veggo altro ho in dispetto,

Amor piatoso e miei copre di pianti.

Le lacrime che cascan giù davanti

destano il cor di fuor bagnando il petto,

il cor domanda Amor, qual duro affetto

fa così gli occhi madidi e roranti.

Amor gliel dice. Allor pietà gli viene

degli occhi, e manda alla umida mia faccia

sospirando, una nebbia di martìri.

O dolcissimo Sole, o sol mio bene,

móstrati alquanto e questa nebbia caccia:

non han più gli occhi pianti o il cor sospiri.

 

CXXV

 

«Lasso, or la bella donna mia che face?

Ove assisa si sta? Che pensa o dice?

Chi fanno or li occhi o quella man felice?

Amor, dimmelo tu!». E lui si tace.

Gli occhi allor, per saper della lor pace,

mandan lacrime fuor triste, infelice:

qual giugne al petto, a qual più oltre ir lice,

bagna la terra, ivi s’arresta e iace.

Manda il mio cor molti sospiri allora:

questi sen vanno in vento, onde conforta

i pensier’ pronti il core al bel cammino;

questi a lei vanno, e ella l’innamora,

sì che alcun le novelle non riporta.

Segueli il core: io piango il mio destino.

 

CXXVI

 

Io torno a voi, o chiare luci e belle,

al dolce lume, alla beltà infinita,

onde ogni cor gentile al mondo ha vita,

come dal sole il lume l’altre stelle.

Vengo con passi lenti a mirar quelle,

pien di varii pensier’, che alcun ne invita

pure a speranza; da altri sbigottita

l’alma teme d’intenderne novelle.

Dicemi in questo Amor: «Nel tuo cor mira,

vedra’vi scritte l’ultime parole,

che udisti in mia presenzia, e io le scrissi.

Ciascuno altro pensier disdegno e ira

tolto ho da lei, e in quel bel petto sole

ardon le fiamme che io per te vi missi.

 

CXXVII

 

Quello amoroso e candido pallore,

che in quel bel viso allor venir presunse,

fece all’altre bellezze, quando giunse,

come fa campo l’erba verde al fiore;

o come ciel seren col suo colore

distinguendo le stelle, ornato aggiunse;

né men bellezze in sé quel viso assunse,

che fiori in prato, o in ciel lume o splendore.

Amore in mezzo della faccia pia

lieto e maraviglioso vidi allora:

così bella questa opra sua li parve.

Come il dolce pallor la vista mia

percosse e il lume de’ belli occhi aparve,

fuggissi ogni virtù, né torna ancora.

 

CXXVIII

 

Lasso, oramai non so più che far deggia,

quando io son là, dove è mia donna bella:

se io miro l’una o l’altra chiara stella,

veggo la morte mia che in lor lampeggia;

se avvien che io fugga e ’l mio soccorso chieggia

ora a questa bellezza e ora a quella,

ora a’ modi, ora a sua dolce favella,

loco non truovo ove sicur mi veggia.

Se io tocco la sua mano, ella m’ha privo

di vita, e tiensi in un bel fascio stretto

el core e i pensier’ miei, pronti e felici.

Di tali e tanti dolci inimici

ho mille dolci offese, e ancora aspetto

sì dolce morte, che a pensarne vivo.

 

CXXIX

 

Se io volgo or qua or là li occhi miei lassi,

sanza veder quel ben che or mi piace,

miseri lor!, già mai non truovon pace:

questo avviene a’ pensier’, parole e passi.

Onde pel meglio e lacrimosi e bassi

gli tengo, e la mia lingua afflitta tace,

e ’l piè nel primo suo vestigio iace,

ciascun pensiero al cor ristretto stassi.

Allor sì bella e sì gentil la veggio

drento al mio core, ove Amor l’ha scolpita,

che altro bene, altra pace più non chieggio.

Tacito e solo il mio bel cor vagheggio;

e in quel si parte e fugge con la vita:

né vivo resto o morto allor, ma peggio.

 

CXXX

 

Sonetto fatto a Cremona

 

Non è soletta la mia donna bella

lunge dalli occhi miei dolenti e lassi:

Amor, Fede, Speranza sempre stassi,

e tutti i miei pensieri ancor con quella.

Con questi duolsi sì dolce e favella,

che Amor pietoso oltre a misura fassi,

e in que’ belli occhi, che il dolor tien bassi,

piange, oscurando l’una e l’altra stella.

Questo ridice un mio fido pensiero,

e, se io non lo credessi, porta fede

della sua dolce e bella compagnia.

E se non pur che ad ora ad ora spero

li occhi vedere che sempre il mio cor vede,

per la dolcezza e per pietà morria.

 

CXXXI

 

Un acerbo pensier talor mi tiene

e prende sopra gli altri signoria:

se dura, io moro, e s’io lo caccio via,

un’altra volta con più forza viene.

Dicemi esser fallace ogni mia spene,

l’amor, la fede della donna mia;

narra i vaghi desir’, quali ebbi pria

che Amor ponessi in lei tutto il mio bene.

Pensando a questo, Morte per ristoro

chiamo, e pietosa mi udirebbe allora:

ma Amor, che sa quanto a torto io mi doglia,

mi mostra que’ belli occhi, e innanzi a loro

fugge ogni rio pensiero, ogni mia doglia,

come tenebre innanzi della aurora.

 

CXXXII

 

Sì dolce essemplo a piangere hanno dato

agli occhi miei quei lacrimosi lumi,

che usciran sempre due perenni fiumi

da’ miei: tal disio m’è di pianger nato.

Lasso, quanto eran belli, e in quale stato

misero gli lassai! Or mi consumi,

o tenace memoria, e ancor presumi

prometter peggio: o troppo avverso fato!

A sì gran colpa è poca pena un pianto

sì dolce, e dolce è il pianto, poi che e belli

occhi pianger vid’io sì largo e forte.

Onde e miei occhi, che presunser tanto,

voler, piangendo, allor simigliar quelli,

e spero ed ardo presto chiuda Morte.

 

CXXXIII

 

Della mia donna, omè, gli ultimi sguardi

el pensier mio sol, sempre e fiso mira.

Gli occhi miei prima ne hanno invidia e ira,

ché sono, al giugner del lor ben, più tardi;

ma poi, se ben diverse cose io guardi,

il mio forte pensier, che a sé le tira,

tutte in lei le converte, e quinci spira

brieve dolcezza agli occhi miei bugiardi.

E come il sol, sanza accidente o forma

di caldo, prende poi nuova virtute

per la reflession, e il mondo accende;

così, poi che al pensier mio son venute

varie cose per gli occhi, Amor le informa,

e sol la donna mia agli occhi rende.

 

CXXXIV

 

Della mia donna, Amor, le sacre piante,

come gli piacque, in quel bel loco scòrse,

ove ella pria la bianca man mi porse

per pegno del suo cor fido e costante.

Giunta in quel loco, le sue luci sante

girando, da poi che ivi non mi scòrse,

di me tanta pietate al cor gli corse,

che fe’ di pianto un dolce e bel sembiante.

Poi, rimembrando il primo tempo e quello

pegno amoroso, e guardando ove fosse,

allor soletta, trasse un gran sospire:

col qual per uscir fuor l’alma si mosse:

ma lei, chiamando il grato nome e bello,

ritenne l’alma che volea fuggire.

 

CXXXV

 

Quella virtù che t’ha prodotto et ale,

silvestro e vago fiore, or non si dolga,

né tema, s’io da lei ti spicchi o colga,

che tu perda il vigore tuo naturale.

Tu sarai dono alla mia donna, quale

s’avvien che nella bianca man te accolga

e sopra te gli occhi amorosi volga,

la lor virtù sopra ogni altra vale.

Se, lei piangendo, l’amoroso rivo

de’ pianti bagna tue languenti foglie,

sarai de’ fior’ del basso paradiso.

Né di ciò prender maraviglia o doglie,

ch’ancor io, sendo or qui da lei diviso,

di pianti, omè, sol mi nutrisco e vivo!

 

CXXXVI

 

Non de’ verdi giardini ornati e cólti

dello aprico e dolce aere pestano,

veniam, madonna, in la tua bianca mano,

ma in aspre selve e valli ombrose còlti:

ove Venere, afflitta e in pensier’ molti

pel periglio d’Adon, correndo invano,

un spino acuto al nudo piè villano

sparse del divin sangue i boschi folti.

Noi summettemmo allora il bianco fiore,

tanto che ’l sacro sangue non aggiunge

a terra: onde il color purpureo nacque.

Non aure estive o rivi tolti a lunge

noi nutriti hanno, ma sospir’ d’Amore

l’aure son sute, e lacrime fûr l’acque.

 

CXXXVII

 

Poi che dal bel sembiante dipartisse

pien di lamenti l’alma come suole,

Amore, a cui de’ miei sospir’ pur duole,

vedendo le mie luci a pianger fisse,

con dolce e desiato oblio fren misse

a’ pianti, a’ sospir tristi, alle parole;

e, dormendo, allor fe’ che ’l mio Sole

più che mai lieto e bello a me venisse.

Là mi porgea la sua sinistra mano,

dicendo: «Or non conosci il loco? Questo

è il loco, ove Amor pria dar mi ti volle!».

Poscia, andando per gradi su pian piano

in altra parte, per dolcezza desto,

pien di desio restai col petto molle.

 

CXXXVIII

 

Per lunga, erta, aspra via, nell’ombre involto,

scorgendo Amor lo mio cieco pensiero,

mossi i piè per incognito sentiero,

avendo il disio già verso il ciel vòlto.

Per mille errori alfin, con sudor molto

all’orizzonte del nostro emispero

pervenni, indi in eccelso e più altero

loco, di terra già levato e tolto.

Della gran scala al terzo grado giunto,

consegnommi alla madre il caro figlio:

se ben confusa allor mostrossi a noi.

Quindi, in più luminosa parte assunto

potei mirare il Sol con mortal ciglio,

né mai cosa mortal mi piacque poi.

 

CXXXIX

 

Le frondi giovinette gli arbuscelli

sogliono al tempo nuovo rivestire

e Flora il suo bel seno a Febo aprire,

e produr voi con gli altri fior’ novelli.

Or la stagion matura ha fatto quelli

in semi o in dolci pomi convertire:

qual maraviglia or voi soli apparire

face, amorosi fior’, sì freschi e belli?

Questa sol, credo, o mammole viole:

che da Natura destinate sète

per riscaldarvi a’ raggi del mio Sole.

Cessi ogni maraviglia, se verrete

in quella man, s’ella accettar vi vuole:

sì nuovo e bel miracolo vedrete.

 

CXL

 

Qual maraviglia, se ognor più s’accende

quel gentil foco in cui dolcemente ardo?

Se mille volte quel bel viso guardo,

mille nuove bellezze alli occhi rende.

Il cor, cui beltà nuova ognor discende,

si maraviglia e duol del fral mio sguardo,

che sia a tanto ben conoscer tardo,

e come o cieco o pigro lo riprende.

Piangon gli occhi accusati; Amor li vede,

e scusandoli allora al cor favella

da’ piatosi occhi della donna mia:

«Infinito è il valore onde procede

agli occhi tuoi bellezza ognor novella:

l’occhio è finito, e ’l foco eterno fia».

 

CXLI

 

L’anima afflitta mia fatta è lontana

da quelle luci belle e perigliose;

però, benché assai timida, dispose

libera farsi, e contr’Amor più strana.

Chiama e pensieri, e in voce sorda e piana,

celando Amore, il suo disio propose.

Di tanti, omè, per tutti un li rispose:

«La ’mpresa omai è tarda, e l’opra è vana!».

Così dicendo, quest’afflitta scorge

nel loco abbandonato ove era il core,

che co’ ribelli spirti è via fuggito.

Allor la miser’alma, che s’accorge

d’esser sola, ancor lei prende partito:

ed io sol vivo per virtù d’Amore.

 

CXLII

 

Un pensier che d’Amor parla sovente

sol vive in me, che volentier l’ascolto,

e se alcun altro surge nella mente,

sì come peregrin non vi sta molto.

La misera mia anima, che sente

oltra a’ pensier’ ciascun spirto vòlto

contra alla vita, assai timidamente

ristretta in sé, si duol di quel bel vólto.

E lui, di tal doglienza avendo indizio

dalli spirti d’Amor, con vero e pio

parlar si scusa alla trist’alma, e dice:

«È di bellezza proprio e grato offizio

piacer: anima, incolpa il tuo disio,

se a ciascun piaccio e te sol fo infelice.»

 

CXLIII

 

Lasso, quanto disio Amore ha messo

dentro al mio angoscioso e tristo petto!

E perché il loco a sì gran fascio è stretto,

in forma di sospir’ ne vien fuor spesso.

El mio cor saggio, che si sente oppresso,

per dar loco ancor lui a tanto affetto,

gito se n’è sopra quel bel poggetto,

ov’è madonna, e stassi a lei appresso.

E benché manchi al gran disire el fonte,

partendo el core, Amor, Usanza han fatto

che ciò che vive in me sol lei desira.

Il cor me avvisa dal superbo monte

per un messo d’Amor, che vien ratto,

che in quel bel petto per pietà sospira.

 

CXLIV

 

Diconmi spesso gli occhi umidi e lassi:

«Noi vorremmo seguir la via del core

e gire agli occhi ove ogni vista more,

e, morendo, più chiara e bella fassi».

La via è assai nota ai lenti passi;

ché, come illustra un acceso vapore

la notte, così spiriti d’Amore

el bel cammino onde a madonna vassi.

Ed io, cui il contentarli e negar grava,

gli meno in cima de’ più alti colli,

e mostro lor, benché lontan, quel loco.

Come assetato, se la bocca lava,

cresce il desir, se sol le labbra inmolli;

cresce allor pianto agli occhi, al petto foco.

 

CXLV

 

Superbo colle, benché in vista umìle,

più degno e più felice assai che quelli

Esquilie, Celio, Aventino e’ fratelli,

benché cantati da più alto stile;

questi già vider trionfar più vile,

d’Emilii, Scipioni e di Marcelli:

tu vedi triunfar agli occhi belli

Amor legato e ciascun cor gentile.

Vengon le Grazie catenate e scinte,

Pietà, Beltate innanzi al carro, e quelle

virtù che son in gentil cor distinte.

Liete sono, ben che triunfate e vinte,

tanto più liete quanto son più belle

nel viso della donna mia dipinte.

 

CXLVI

 

«Quando morrà questa dolce inimica

Speranza, che sostien la vita amara,

che muor quando la dolce luce e chiara,

tornando agli occhi, el cor lieto nutrica?

La Fede data, sorella e amica

della Speranza lacrimosa e cara,

Fede gentil, al mondo oggi sì rara,

quando morrà? Amor, fa’ che mel dica!

Amor, tu taci, e se’ cagion ch’io mora;

queste, ch’io viva: a lor morte desiro,

la vita a te. O amoroso errore!».

Risponde sorridendo Amore allora:

«Dolce è mia morte, e lor vita un martìro:

lor morran presto, e sempre vive Amore!».

 

CXLVII

 

O chiaro fiume, tu ne porti via,

nelle rapide tue volubile onde

di quei belli occhi, che or Fortuna asconde,

lacrime triste della donna mia.

El flebil mormorio tuo, ch’io sentia,

che a’ miei lamenti miseri risponde,

mel dice certo: alle tue verdi sponde

conduce il pianto un rio che in te si svia.

Deh! frena alquanto il tuo veloce corso:

così del Sirio Can già mai t’offenda,

rapido fiume, il venenoso morso!

Con Frison, con Eufrate contenda!

Tu pur fuggi e mi nieghi il tuo soccorso,

né vuoi del mio bel Sol novelle intenda.

 

CXLVIII

 

O bella violetta, tu se’ nata

ove già ’l primo mio bel disio nacque;

lacrime triste e belle furon l’acque

che t’han nutrita e più volte bagnata.

Pietate in quella terra fortunata

nutrì il disio, ove il bel cesto giacque:

la bella man ti colse, e poi li piacque

farne la mia di sì bel don beata.

E’ mi pare ad ogni or fuggir ti voglia

a quella bella mano; onde ti tegno

al nudo petto dolcemente stretta:

al nudo petto, ché desire e doglia

tiene loco del cor, che ’l petto ha a sdegno,

e stassi onde tu vieni, o violetta.

 

CXLIX

 

S’avvien che la mia vista tutta intenta

la fiamma de’ begli occhi fiso miri,

sospira il petto acceso di desiri,

fumo del foco, che ’l mio cor tormenta.

Così la via assai pronta diventa

da foco a foco, per li miei sospiri;

come par nova fiamma il fumo tiri

d’una candela che pur ora è spenta.

Visibilmente allor chi vuole scorge

in quel bel fumo spiriti d’Amore,

che l’uno all’altro il dolce foco porge.

Vanno e vengon dall’uno all’altro core;

né l’un né l’altro del suo mal se accorge,

sì dolcemente e sì volentier more.

 

CL

 

Gli alti sospir’ dell’amoroso petto

portando a me del mio signor novelle,

come son fuor delle sue labbra belle,

caldi ancor nel mio cor hanno ricetto.

Gli narron le parole che ha lor detto

Amore in dolci e tacite favelle;

tutti gli spirti allor per udir quelle

correndo, resta il core oppresso e stretto.

Contro a sua voglia il cor per forza caccia

gli spirti co’ sospiri, e spinge altrove

quest’amorosa schiera, ond’era uscita.

Là vita e morte, onde partì, par faccia:

così un spirito in due alterna e move

un dolce viver, ch’è fra morte e vita.

 

CLI

 

Amore, in quel vittorioso giorno,

che mi rimembra il primo dolce male,

sopra al superbo monte lieto sale;

le Grazie seco e i cari fratei andorno.

Lì l’abito gentil, di ch’era adorno,

deposto, dette a me la benda e l’ale;

a lei l’arco in la destra, ed uno strale

nella sinistra, e la faretra intorno.

La candida, sottil, succinta vesta

della amorosa mia Diana scuopre:

le nude membra or sopra a’ panni esprime.

Febo de’ raggi ornò gli occhi e la testa.

Così non arti umane o mortal’ opre

fûr quelle benedette e dolci prime.

 

CLII

 

Mille duri pensier’ par nel cor muova

l’anima trista, nati da’ martìri:

se muoiono, e convertonsi in sospiri,

el dolor inmortal pur li rinnuova.

Né so com’esser può, se non per pruova,

che ’l cuore accenda ognor nuovi desiri

della sua morte, e nutrimento tiri

da sì duri pensier’, che al viver giova.

«Dimmelo, Amore, come ognor morendo

questi tristi pensier’ dolce, inmortale

la immagine bella han fatto nel cor mio?».

Amor pur mi risponde sorridendo:

«Non è dolce alcun ben quanto el mio male.

Questi dolci miracoli fo io!».

 

CLIII

 

Sì bella è la mia donna, e in sé raccoglie

tante dolci bellezze e non vedute

ch’è miglior stato non trovar salute

in lei, che adempier tutte l’altre voglie.

Però e pianti, desir’, speranze e doglie,

che da sì bella cosa son venute,

porton con loro una gentil salute

che vive sempre a cui la vita toglie.

O bellissima morte! O dolor’ suavi!

o pensier’, che portate ne’ sospiri,

ad altri ignota, al cor tanta dolcezza!

Com’esser può che alcuna pena aggravi,

benché afflitto, alcun cor che sempre miri

cogli occhi o col pensier somma bellezza?

 

CLIV

 

Tu non sarai mai più crudele dio,

Amor, da poi che in quel bel guardo e santo

bagnato t’ha della mia donna il pianto,

pianto bel, pianto dolce e pianto pio.

Quella pietà, che mosse il bel disio,

credo fatto t’ha pietoso tanto,

e le lacrime pie, ché lieto canto

posson gli amanti far del dolor mio.

Lieti e sicur’ vi rende il mio dolore:

più non temete, o pallidetti amanti,

che per Amor piangendo el cor si stempre!

Se pur piangessi il mio gentil signore

fatto ha piangendo così dolci pianti,

che ciascun cor gentil vuol pianger sempre.

 

CLV

 

Oimè, che belle lacrime fûr quelle

che ’l nimbo di desio stillando mosse,

quando il giusto dolor che ’l cor percosse

salì poi su nelle amorose stelle!

Rigavan per la dilicata pelle

le bianche guance dolcemente rosse,

come chiar rio faria, che in prato fosse

fior’ bianchi e rossi, le lacrime belle.

Lieto Amor stava in l’amorosa pioggia:

come uccel, dopo il sol, bramate tanto

lieto riceve rugiadose stille.

Poi, piangendo in quegli occhi ove egli alloggia,

facea del bello e doloroso pianto

visibilmente uscir dolci faville.

 

CLVI

 

Bella e grata opra veggon gli occhi vostri,

qual da voi in fuora non mira o crede,

fatta per man di chi sanza occhi vede,

non pinta o sculta o scritta in atri inchiostri.

Parmi Amor veder lieto, che vi mostri

quel primo dolce tempo onde procede

tanto amor, tanta gentilezza e fede,

gli alti disir’ e ’ dolci affanni nostri.

Quel primo timor lieto scuote il core:

ver’ me movete i passi lenti e pronti;

la man, la bocca e le pietose stelle,

se ben le mostra in ogni loco Amore,

e pianti vostri in quelli altèri monti,

ove nacquon, le fan più vere e belle.

 

CLVII

 

Madonna simulando una dolce ira,

turbata alquanto con Amore ha detto:

«Non più foco oramai: troppo arde il petto!»,

per pietà del mio cor, che in lei sospira.»

Amor ne ride, e ’l cor, ch’arder desira,

nel maggior foco sente più diletto,

e, come oro in fornace già perfetto

si fa, più bello, e ’l foco nol martìra.

Amor novi sospir’ dal mio cor move:

con questi dolci folli il foco accende,

quanto arder può nella fornace bella.

Questo foco, che poi per gli occhi splende,

e l’ardente parlar, quando favella,

accende, ovunque arriva, fiamme nove.

 

CLVIII

 

Quando il cieco desir per maggior pena

numera l’ore, or lunghe e già sì corte,

come serpe da rota oppressa a sorte

muove, e non segue, la snodata schiena,

così tardo il carro aureo Febo mena,

nel qual par seco invidioso porte

degli amari desir’ la dolce morte

e ’l fin del mio sperar, che tanto pena.

Né nuovo pensier dolce il core ammette,

né gli occhi molli alcun suave oblio,

onde si spinga più veloce il sole.

E quel che più nello aspettar mi duole,

è che Febo, or sì tardo, mi promette

rapido poi portarne ogni ben mio.

 

CLIX

 

O brievi e chiare notti, o lunghi e negri

giorni, o ombre lucenti, o luce oscura,

luce che il lume agli occhi aperti fura,

ombra che i chiusi di chiar lume allegri!

O sonno oscur, che e pensier ciechi e egri

converti in vision di luce pura,

o immagin del morir, qual mentre dura

veggo, odo e sento, e’ miei desir’ ho intègri!

O mia troppa dolcezza, di te stessa

mortal nimica, che al desio davanti

mio ben poni, e poi fuggi, ond’io mi doglio!

O infelici sonni degli amanti,

da poi che, quando ho più quel che più voglio,

lo perdo, e fugge allor che più s’appressa.

 

CLX

 

Chi farà gli occhi miei constanti e forti

contra al valor del nuovo, altero e pio

sguardo lucente, da cui han disio,

miseri e lieti, d’esser vinti e morti?

Amor, perché e folli occhi non conforti?

Per essi entrasti pria nel petto mio,

questi feron me tuo, e te mio dio:

perché qualche soccorso a lor non porti?

Lassa el petto angoscioso, ove tu sei,

sì come in specchio chiar gentile impronta

della biltà che teco vive in lei.

Lassa el mio petto e su negli occhi monta:

di te armati e belli, gli occhi miei

securamente co’ belli occhi affronta.

 

CLXI

 

Se talor gli occhi miei madonna mira,

non loro, anzi vagheggia in lor se stessa,

e sì bella si par, ch’ella confessa

che ’l mio cor per gentil cosa sospira.

Però sovente i suoi begli occhi gira

verso li miei, ov’è sì vera espressa,

che bella cosa o simigliante ad essa

fuor di lor né veder può, né desira.

Quando se stessa a sé sì bella rende,

va in compagnia dell’onorata faccia

bello stuol d’amorosi spirti ardenti.

Giunta al mio cor, che in lei vie più s’accende,

la pigra Speme e lunga Pietà caccia:

così vede e miei spirti allor contenti.

 

CLXII

 

Quando a me il lume de’ belli occhi arriva,

fugge davanti alle amorose ciglia

de’ miei vari pensier’ la gran famiglia,

la Pietà, la Speranza semiviva.

Parte dalla memoria fuggitiva

ciascuna impression che ’l ver simiglia,

e resta sol dolcezza e maraviglia,

che ogni altra cosa occide, ovunque è viva.

Li spirti incontro a quel dolce splendore

da me fuggendo, lieti vanno, in cui

(e loro il sanno) Amor gli occide e strugge.

Se la mia vista resta, o se pur fugge,

che, morta in me, allor vive in altrui,

dubbio amoroso solva il gentil cuore.

 

CLXIII

 

Dura memoria, perché non ti spegni,

che, accesa, tanto il tristo cor tormenti?

dura memoria, ché mi rappresenti

ne’ pensier’ mesti, inganni, ire, odii e sdegni?

Omè, giorno infelice che t’ingegni

turbare i desir’ miei dolci e piacenti!

E tu, Amor, a tanto mal consenti,

perché al tuo bene intero alcun non degni.

Mostrami il doloroso mio pensiero

cosa che dir non oso; ma si fugge

al cor ogni mio spirto che la vede,

e trovando nel cor più forte e fero

quel pensier tristo, ad uno ad uno strugge.

Triema il cor lasso, e invan gli spirti chiede.

 

CLXIV

 

Qual maraviglia, o mio gentil Cortese,

se del tacito, bianco, errante vello,

freddo, ristretto, nuovo Mongibello

Amor nel tuo gelato petto accese?

Oppressa da veneno, alcun difese

la vita con venen mortale e fello;

e così il ghiaccio della neve quello

cacciò, ch’era nel core, e ’l foco apprese.

Questo foco talora in ogni vena

il sangue agghiaccia; altri ama, odia se stesso;

alcun sanza cor vive e morte chiede.

Questa vita amorosa tutta è piena

di gentil’ maraviglie, e pruova spesso

l’amante in sé che in altrui non crede.

 

CLXV

 

Quando raggio di sole,

per picciola fessura

dell’ape entrando nella casa oscura,

al dolce tempo le riscalda e desta,

escono accese di novella cura

per la vaga foresta,

predando disiose or quella or questa

spezie di fior’, di che la terra è adorna.

Qual esce fuor, qual torna

carca di bella ed odorata preda;

qual sollecita e strigne,

se avvien che alcuna oziosa all’opra veda;

altra il vil fuco spigne,

che ’nvan l’altrui fatica goder vuole.

Così, di varii fior’, di fronde e d’erba,

saggia e parca fa il mèl, qual dipoi serba,

quando il mondo non ha rose o viole.

Venne per gli occhi pria

nel petto tenebroso

degli occhi vaghi el bel raggio amoroso,

e destò ciascun spirto che dormiva,

sparti pel petto, sanza cure ozioso;

ma, tosto che sen giva

in mezzo al cor la bella luce viva,

li spirti, accesi del bel lume adorno

corsono al core intorno.

Questa vaghezza alquanto ivi gli tenne;

poi, da nuovo diletto

spinti a vedere onde tal luce venne,

drento all’afflitto petto

lasciando il cor, che in fiamme è tuttavia,

salîr negli occhi miei, onde era entrata

questa gentil novella fiamma e grata,

vagheggiando di lì la donna mia.

Indi, mirando Amore,

che in quella bella faccia

armato, altero, e duri cor’ minaccia

da quella luce, e prende la difesa

che a’ cuor’ gentili e non ad altri piaccia,

lasciôr tristi la impresa

di gire al fonte ove è la fiamma accesa;

e stavansi negli occhi paurosi,

quando spirti pietosi

vidon venir dagli occhi ove Amor era,

dicendo a’ miei: «Venite

al dolce fonte della luce vera:

con noi sicuri gite!

Se bene incende, quel gentil signore,

non arde, o a ria morte non conduce,

ma splende il core acceso di tal luce;

e, se non vive, assai più lieto muore».

Questo parlar suave

dètte a’ miei spirti lassi

qualche ardire, e movendo e lenti passi,

da quei più belli accompagnati, al loco

givan dubbiosi, ove Amor lieto stassi;

là dove, a poco a poco,

sicuri in così bello e dolce foco,

già d’Amor spirti, non paurosi o tristi,

stavan confusi e misti

con quei che mossi avea la pia virtùe:

Saria occhio cervero

chi l’un dall’altro discernessi piùe.

Alcuno in quell’altero

sguardo si pasce, bello, dolce e grave;

altri dal volto nutrimento invola,

altri dal petto e dalla bianca gola;

altri in preda la man e ’ crin d’oro have.

Certo converria bene

che chi narrar volessi

tante bellezze, e fior’ diversi e spessi

che al nuovo tempo per le piagge Flora

mostra, contare ad uno ad un potessi;

né son del petto fòra

tanti spirti d’Amor creati ancora,

che non sien le beltà per ognun mille:

onde eterne faville

manda al cor la bellezza sempre nuova.

Li spirti or questa or quella

porton per li occhi al cor ciascuno a pruova:

o dolce preda e bella,

che ogni spirto amoroso agli omer’ tiene!

Così, acceso ognor di più disio,

da quei belli occhi al loco ov’è il cor mio,

sanza fermarsi mai, chi va, chi viene.

Più bellezze ognor vede,

se ben ne porta assai

ciascun spirto, onde tiensi sempremai

povero el cor, da maggior disio preso;

e se alcun spirto è pigro, allor, «Che fai?»,

dice di sdegno acceso,

«tu sai pur quanto suave è questo peso»,

e lo minaccia, vinto da’ disiri

ne’ primi suoi sospiri,

mandarlo fuora e darlo in preda al vento.

E se alcun peregrino

pensier venisse, il caccia in un momento,

perché in quel bel cammino,

ch’è tra’ belli occhi e ’l cor, chi non ha fede

d’Amor d’esser de’ suoi, sì come vile

star non può tra la turba alta e gentile.

Così si pasce il cor, ch’altro non chiede.

Onde trarrai la vita,

o cuor dolente e saggio,

Da poi che l’amoroso e bel viaggio

è interdetto alli spirti, e è fuggito

el verde tempo già d’aprile e maggio,

e scalda un altro sito

quel gentil Sole, onde è il tuo foco uscito?

Quelli amorosi spirti, che ora stanno

rinchiusi, converso hanno

la dolce preda nella afflitta mente

in pensier’, che tra loro

mostrano al cor e vari fior’ sovente,

de’ qual’ feron tesoro

e parchi spirti alla stagion fiorita.

Di questi pensier’ dolci el mio cor pasce

el disio, che ad ogn’or nuovo rinasce,

poi che la bella luce s’è fuggita.

Novella canzonetta,

questi dolenti versi,

ch’e pensier’ fanno in sospir’ già conversi

e di sospiri in parole pietose,

porta al bel prato di color’ diversi;

in mezzo a’ qual’ si pose

Amor lieto, e tra l’erba si nascose.

E se non sai el cammin di gire a lei,

l’orme de’ pensier’ miei

vedrai, di che è la via segnata e impressa.

Prendi d’Amor la strada:

troverrai forse e suoi pensieri in essa,

ché ancora a loro aggrada

el bel cammin. Giunta ov’ella è soletta,

digli che al cor non resta onde più speri

dolcezza, per nutrirsi co’ pensieri:

onde o morte o la bella luce aspetta.

 

CLXVI

 

Parton leggieri e pronti

del petto e miei pensieri,

che l’alma trista alli amorosi monti

manda suoi messaggeri

a quel petto gentile, ov’è il mio core.

Nel cammino amoroso

ciascuno di loro ad ogni passo truova

qualche pensier pietoso,

che par dal petto di mia donna muova

in conforto dell’alma ad ora ad ora.

Fermonsi insieme, e, domandati allora,

dicon tutti una cosa sempre nuova

della Pietà che fuora

gli manda del bel petto,

dentro dal quale il bel signor dimora;

e si staria soletto

in esso el cor, ma vi è Pietà e Amore.

Delle caverne antiche

trae la fiamma del sol fervente e chiara

le picciole formiche;

sagace alcuna e sollecita, impara

e dice all’altre ove ha il parco villano

ascoso, astuto, un monticel di grano:

ond’esce fuor la negra turba avara.

Tutte di mano in mano

vanno e vengon dal monte,

porton la cara preda e in bocca e in mano;

vanno leggiere e pronte,

e grave e carche ritornon di fòre.

Fermon la picciola orma,

scontrandosi in cammino; e, mentre posa

l’una, quell’altra informa

dell’altra preda, onde più disiosa

alla dolce fatica ognor la invita.

Calcata e spessa è la via lunga e trita;

e se riporton ben tutte una cosa,

più cara e più gradita

sempre è, quanto esser deve

cosa sanza la qual manca la vita:

lo iniusto fascio è lieve,

se ’l picciolo animal sanz’esso muore.

Così li pensier’ miei

van più leggieri alla mia donna bella;

scontrando quei di lei,

fermonsi, e l’un con l’altro allor favella.

Dolce preda, se ben grave, con loro

portan dal caro ed immortal tesoro

(una sempre è, e è sempre più bella!),

ché dal petto decoro

ove Amor, Pietà regna,

da’ dolenti sospir’ cacciati fôro.

Quinci s’allegra e sdegna

l’alma ad un tempo, e ha dolce dolore:

ha dolcezza, se sente

Amor, Pietà regnar nel bianco seno;

duolsi l’afflitta mente,

che da’ duri sospir’ cacciati sièno

e pensier’ belli, e che dolente e trista

sia per me la mia donna. E così mista

doglia e disio fanno un dolce veneno,

onde o rea vita acquista

o dolce morte l’alma,

che del mal gode e del suo ben s’attrista.

Questa è la cara salma,

di cui carchi e pensier’ mi dan vigore.

Quando a quel monte bello

giungon, dov’è la gran bellezza adorna,

prendon diletto in quello,

tanto che alla trista alma alcun non torna:

per lo essemplo del cor crudele e saggio;

qual truovon lieto al fin del bel viaggio,

dell’alma oblito, e con Amor soggiorna.

E se non che pure aggio

soccorso in tanto affanno

da quei che manda quel pietoso raggio,

poiché tradito m’hanno

e miei, perderia l’alma ogni valore.

Li miei pensieri scuso,

se nell’abisso della gran bellezza

ciascun resta confuso:

però che chi si muove el fin sol prezza:

muovonsi a questo, e nol trovando poi,

smarriti, più non san tornare a noi,

nello infinito fin di tal dolcezza.

Rendo ben grazie a voi,

pensier’ pietosi e belli,

che soccorrete al cor nelli error’ suoi;

e se non fusser quelli,

nella troppo alta impresa morria il core.

 


 

ALTRE RIME

 

I

 

Alla Ginevra de’ Benci

 

Segui, anima devota, quel fervore

che la bontà divina al petto spira,

e dove dolcemente chiama e tira

la voce, o pecorella, del pastore.

In questo nuovo tuo divoto ardore

non sospetti, non sdegni, invidia o ira:

speranza certa al sommo bene aspira,

pace e dolcezza e fama in suave odore.

Se in pianti o sospir’ semini talvolta

in questa santa tua felice insania,

dolce e eterna poi fia la ricolta.

Populi meditati sunt inania:

lassali dire, e siedi e Gesù ascolta,

o nuova cittadina di Betania.

 

II

 

Alla medesima

 

Fuggendo Lot con la sua famiglia

la città che arse per divin giudizio,

guardando indrieto il giusto e gran supplizio,

la donna immobil forma di sal piglia.

Tu hai fuggito, e è gran maraviglia,

la città che arde sempre in ogni vizio;

sappi, anima gentil, che ’l tuo offizio

è non voltare a lei già mai le ciglia.

Per ritrovarti il buon pastore eterno

lassa il gregge, o smarrita pecorella:

truòvati, e lieto in braccio ti riporta.

Perse Euridice Orfeo già in sulla porta,

libera quasi, per voltarsi a quella:

però non ti voltar più allo inferno.

 

III

 

Lorenzo de’ Medici quando tornò da Napoli, a Bernardo Bellincioni

 

Un pezzo di migliaccio mal avia

e una fiera bestia e una a Prato

avevon tanto un erpice menato,

ch’egli era fuor del solco per pazzia.

Ma se n’avvide mona Nencia mia

e tese al sole un vaglio ben bucato:

un giudeo il vidde, e funne sì crucciato,

che non vorrebbon più geometria.

Quell’«arri sta», che fanno i paladini,

quando vanno a Piacenza coi cestoni,

fanno impazzar quei poveri asinini.

Perché hanno il capo vuoto, molti arpioni

armeggion per calendi e pastaccini,

e deston la mattina i dormiglioni.

E però i calicioni

s’armon di troppo debole corazza,

ch’ogni poco di stretta poi gli ammazza.

 

V

 

Lorenzo de’ Medici al Bellincioni, mandandolo

in un certo luogo a intendere il suo proposito

 

Va’, Bellincion, e fa’ il Sosia:

motti, provviso, frottola e sonetto,

e poi ti mostra un certo recolletto

di mano, e incanti, e di fisonomia.

Alcuna volta dir qualche pazzia,

e ’l suo contrario poi mostra intelletto,

che di savio e di matto abbin sospetto,

e intendi, attingi e trai pur tuttavia.

Fa’ il cieco e ’l sordo sempre in ogni loco

e loda, abbraccia, ridi e bacia spesso,

e stu se’ morso, piglia a festa e gioco.

E fatti sempre a’ cerchiolini appresso

qualche storia: Seleuco e Antioco,

tu intendi, e mostra il lauro che sia fesso.

Ma non d’arrosto e lesso

parlare intendi, e presto sia tornato.

Come t’ho detto: studia nel Donato.

 

VII

 

Le sette allegrezze d’amore

 

Deh, state a udire, giovane e donzelle,

queste sette allegrezze ch’io vi vo’ dire,

divotamente, ché son dolci e belle,

che Amore a chi lo serve fa sentire;

io dico a tutte quante, e prima a quelle

che son vaghe e gentili e in sul fiorire:

gustate ben queste allegrezze sante,

che Amor ve ne contenti tutte quante!

Prima allegrezza, che conceda Amore,

si è mirar duo pietosi occhi fiso:

escene un vago, bel, dolce splendore;

veder mover la bocca un dolce riso,

le man’, la gola e i modi pien’ d’onore,

l’andar che uscito par di paradiso,

ogni atto e movimento che si faccia;

e così prima un cor gentil s’allaccia.

La seconda allegrezza, che Amor dona,

è quando hai grazia di toccar la mano

accortamente, ove si balla o suona

o in altro modo strignerla pian piano;

e, mentre che si giuoca o si ragiona,

gittar certe parole, e non invano;

toccare alquanto e strigner sopra i panni

in modo che chi è intorno se ne inganni.

Terza allegrezza, quale Amor concede,

è quando ella una tua lettera accetta,

e degna di rispondere e far fede

di propria man che ’l giogo al collo metta;

ben è duro colui che, quando vede

sì dolce pegno, lacrime non getta:

leggela cento volte e non si sazia

e con dolci sospiri Amor ringrazia.

Più dolce assai quest’allegrezza quarta,

se ti conduce a dir qualche parola

a solo a solo, e far del tuo cor carta,

e dire a bocca bene ove ti duole;

se avvien che Amor le some ben comparta,

senti dir cose da fermare il sole:

dolci pianti e sospiri, e maladire

uscio o finestra, che ti può impedire.

Chi può gustar questa quinta allegrezza,

può dir che Âmore il suo servizio piaccia

se avvien che baci con gran tenerezza

un’amorosa, vaga e gentil faccia,

le labbra, e dentro ov’è tanta dolcezza,

la gola e ’l petto e le candide braccia

e tutte l’altre membra dolci e vaghe,

lasciando spesso i segni delle piaghe.

Questa sesta allegrezza, ch’io ti dico ora

è venir quasi alla conclusione,

e a quel fin per che ognuno s’innamora

e si sopporta ogni aspra passione;

chi l’ha provato e chi lo pruova ancora

sa che dolcezza e che consolazione

è quella di poter sanza sospetto

tenere il suo signore in braccio stretto.

Vien drieto a questa l’ultima allegrezza,

ché Amor infin pur contentar ci vuole:

non si può dir con quanta gentilezza,

con che dolci sospir’, con che parole

si perviene a quest’ultima allegrezza,

come si piange dolcemente e duole;

fassi certi atti allor, chi non vuol fingere,

che un dipintor non li potria dipingere.

Queste so’ l’allegrezze che Amor dà,

donne, a chi lo serve fedelmente;

però gustile e pruovile chi ha

bellezza, gentilezza, età florente,

Queste allegrezze, che detto ho al presente,

ché perder tempo duole a chi più sa.

chi dice e pruova con divozione,

non può morir sanza l’estrema unzione.

Questo povero cieco, quale ha detto

queste allegrezze, a voi si raccomanda:

vorrebbe qualche carità in effetto,

almen la grazia vostra vi domanda;

Amor l’ha così concio il poveretto,

come vedete, e cieco attorno il manda.

Fateli qualche ben, donne amorose,

che gustar possi delle vostre cose.

Il poveretto è già condotto a tale,

che non ha con chi fare il carnasciale.

 
© Belpaese2000.  Created 17.11.2007

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