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LORENZO DE' MEDICI

RAPPRESENTAZIONE DI SAN GIOVANNI E PAOLO

Edizione di riferimento:

L. de’ Medici Tutte le opere, a cura di P. Orvieto, Roma, Salerno 1992.

 

INTERLOCUTORI

 

ANGELO annunziatore

PRIMO PARENTE di Sant’Agnesa

SECONDO PARENTE di Sant’Agnesa

TERZO PARENTE di Sant’Agnesa

CONSTANZA

UN SERVO di Costanza

SANT’AGNESA

CONSTANTINO, padre di Constanza

GALLICANO

UNA DELLE FIGLIUOLE di Gallicano

ALTRA FIGLIUOLA di Gallicano

ATTICA

ARTEMIA

GIOVANNI

PAULO

UN ANGELO che apparisce

TROMBETTO

RE

PRINCIPE

MESSO a Constantino

CONSTANTINO, figliuolo di Constantino imperadore

CONSTANTE, uno de fratelli

CONSTANZIO, altro fratello

IMPERADORE, il nuovo

UN SERVO

UN FANTE

UN CONFORTATORE

UN ACCUSATORE

TERENZIANO

SAN BASILIO, vescovo

MARIA VERGINE

TESORIERE

ASTROLOGI

 

 

L’ANGELO annunzia e dice:

 

1. Silenzio, o voi che ragunati siete:

voi vedrete una istoria nuova e santa;

diverse cose e devote vedrete,

esempli di fortuna varia tanta.

Sanza tumulto stien le voci chete,

massimamente poi quando si canta.

A noi fatica, a voi el piacer resta:

però non ci guastate questa festa.

 

2. Santa Constanza, dalla lebbra monda,

con devozion vedrete convertire;

nella battaglia molto furibonda

gente vedrete prendere e morire;

mutar lo imperio la volta seconda;

e di Giovanni e Paulo il martìre;

e poi morir l’aposteta Giuliano

per la vendetta del sangue cristiano.

 

3. La Compagnia del nostro san Giovanni

fa questa festa, e siam pur giovanetti:

però scusate e nostri teneri anni,

s’e versi non son buoni o ver ben detti;

né sanno de’ signor’ vestire i panni,

o vecchi o donne esprimer, fanciulletti:

puramente faremo e con amore:

sopportate l’età di qualche errore.

 

PRIMO PARENTE di Santa Agata

 

4. Forse, tacendo el ver, sarei più saggio,

che, dicendolo, a voi parer bugiardo:

ma, essendo parenti e d’un legnaggio,

non arò nel parlar questo riguardo:

perché, se pur parlando in error caggio,

non erro, quando in viso ben riguardo:

questa coniunzion di sangue stretta

fa che tra noi ogni cosa è ben detta.

 

5. El caso, che narrar vi voglio, è questo.

In questa ultima notte che è fuggita,

io non dormivo e non ero ben desto:

la santa vergin morta m’è apparita,

Agnesa, che morì oggi è il dì sesto,

lieta, divota e di bianco vestita:

con lei era un umil candido agnello,

e di molte altre vergini un drappello.

 

6. E, consolando con dolce parole

il dolor nostro di sua morte santa,

diceva: «Il torto avete, se vi duole

ch’io sia venuta a gloria tale e tanta:

fuor dell’ombra del mondo or veggo il sole

e sento il coro angelico che canta:

però ponete fin, cari parenti,

se ancor me amate, al dolore e lamenti».

 

SECONDO PARENTE

 

7.  Non dir più là: tu m’hai tratto di bocca

quel che volevo dir, ma con paura,

temendo di non dir qualcosa sciocca.

Ancora a me, sendo alla sepoltura

per guardar che da altri non sia tocca,

apparve questa vergin santa e pura:

con l’agnel, con le vergini veniva.

Così la vidi come fussi viva.

 

TERZO PARENTE

 

8. E’ non si crederrà, e pur è vero.

Io la vidi anche, e senti’ quel che disse;

i’ non dico dormendo o col pensiero,

ma tenendo le luci aperte e fisse.

I’ cominciai, e non forni’ l’intero:

«O vergin santa e bella...». Allor si misse

in via per ritornarsi al Regno santo:

io restai solo e lieto in dolce pianto.

 

PRIMO PARENTE un’altra volta

 

9. Benché a simil’ fallaci visione

chi non è molto santo non de’ credere

(ché spesso son del diavol tentazione),

questa potrebbe pur da Dio procedere,

essendo ella apparita a più persone.

Dobbian Dio ringraziare, e merzé chiedere

e rallegrarci di questa beata;

ché abbiamo in paradiso un’avvocata.

 

CONSTANZA

 

10. Misera a me! che mi giova esser figlia

di chi reggie e governa il mondo tutto?

aver d’ancille e servi assai famiglia,

ricchezza e gioventù? Non mi fa frutto

l’onor, l’esser amata a maraviglia,

se ’l corpo giovenil di lebbra è brutto.

Non darò al padre mio nipoti o genero,

sendo tutto ulcerato il corpo tenero.

 

11. Meglio era che quest’anima dolente

nel corpo mio non fussi mai nutrita;

e, se pur v’è venuta, prestamente

nella mia prima età fussi fuggita:

più dolce è una morte veramente

che morire ad ogni ora in questa vita,

e dare al vecchio padre un sol tormento,

che, vivendo così, dargliene cento.

 

UN SERVO di Constanza

 

12. Bench’io presuma troppo o sia importuno,

madonna, pur dirò quel che m’occorre:

quando un mal è sanza rimedio alcuno,

a cose nuove e strane altri ricorre:

medicina, fatica o uom nessuno,

poiché non può da te questo mal tôrre,

tentar nuovi rimedi è ’l parer mio,

ché, dove l’arte manca, abonda Dio.

 

13. I’ ho sentito dir da più persone

che Agnesa, la qual fu martirizzata,

a’ parenti è venuta in visione,

e credesi per questo sia beata:

io proverrei a ir con devozione

là dove questa santa è sotterrata:

raccomandati a lei con umil voce:

e’ non è mal tentar quel che non nuoce.

 

CONSTANZA

 

14. I’ ho già fatte tante cose invano,

che questi pochi passi ancor vo’ spendere;

se ’l corpo mio debba diventar sano,

questa è poca fatica: io la vo’ prendere;

e forse l’andar mio non sarà vano.

Già sento in devozione il cuore accendere,

già mi predice la salute mia:

orsù, andiam con poca compagnia.

 

Poi ch’è giunta alla sepoltura di Sant’Agnesa, dice:

 

15. O Vergin santa, d’ogni pompa e fasto

nemica e piena dello amor di Dio,

pe’ merti dello sparso sangue casto

ti prego volti gli occhi al mio disio:

abbi pietà del tener corpo guasto,

abbi pietà del vecchio padre mio:

bench’io nol merti, o Vergin benedetta,

rendimi al vecchio padre sana e netta.

 

Addormentasi; e SANT’AGNESA le viene in visione, dicendo:

 

16. Rallégrati, figliuola benedetta,

Dio ha udito la tua orazione

ed esaudita, ed èlli suta accetta,

perch’ella vien da vera devozione,

e se’ libera fatta, monda e netta.

Rendi a Dio grazie, ché tu n’hai cagione;

e per questo mirabil benefizio

ama Dio sempre ed abbi in odio il vizio.

 

Si desta e dice:

 

17. Egli è pur vero. Apena creder posso,

e vedo e tocco el mio corpo esser mondo:

fuggito è tutto il mal che avevo addosso;

son netta come il dì ch’io venni al mondo.

O mirabile Dio, onde se’ mosso

a farmi grazia? ed io con che rispondo?

Non mia bontà o merti mia preteriti,

ma mosso han tua pietà d’Agnesa e meriti.

 

18. L’odor suave di sua vita casta,

come incenso salì nel tuo cospetto;

ond’io, che son così sana rimasta,

fo voto a te, o Gesù benedetto,

che, mentre questa brieve vita basta,

casto e mondo ti serbo questo petto:

e ’l corpo, che di fuor or mondo sento,

con la tua grazia, anco sia mondo drento.

 

E, voltasi a quelli che sono seco, dice:

 

19. Diletti miei, queste membra vedete,

che ha monde la suprema medicina.

Insieme meco grazie a Dio rendete

dell’ammirabil sua pietà divina.

Simili frutti con dolcezza miete

colui che nel timor di Dio cammina.

Torniamo a casa pur laudando Dio,

a dar quest’allegrezza al padre mio.

 

Mentre se ne va a casa

 

20. O Dio, il qual non lasci destituto

della tua grazia ancor gli umani eccessi,

e chi arebbe però mai creduto

che d’una lebbra tanti ben’ nascessi?

Così utile e sano è ’l mio mal suto;

convien che i miei dolor’ dolci or confessi.

O santa infermità per mio ben nata,

c’hai mondo il corpo e l’anima purgata!

 

E, giunta al padre, dice:

 

21. Ecco la figlia tua, che lebbrosa era,

che torna a te col corpo bello e netto;

sana di sanità perfetta e vera,

però che ha sano e il corpo e l’intelletto.

Troppo son lieta, e la letizia intera,

o dolce padre, vien per tuo rispetto;

però che Dio mirabilmente spoglia

me dalla lebbra a te da tanta doglia.

 

CONSTANTINO, il padre, risponde

 

22. Io sento, figlia mia, tanta dolcezza,

che pare il gaudio quasi fuor trabocchi;

né posso far che per la tenerezza

non versi un dolce pianto giù dagli occhi.

Dolce speranza della mia vecchiezza,

creder nol posso insin ch’io non ti tocchi.

 

E, dicendo così, gli tocca la mano:

 

Egli è pur vero. Oh gran cosa inaudita!

Ma dimmi, figlia mia: chi t’ha guarita?

 

Risponde CONSTANZA

 

23. Non m’ha di questa infermità guarita

medico alcun, ma la divina cura:

io me n’andai e devota e contrita

d’Agnesa a quella santa sepoltura;

feci orazion, la qual fu in cielo udita;

poi dormi’; poi desta’mi netta e pura;

feci allor voto, o caro padre mio,

che ’l mio sposo e ’l tuo genero sia Dio.

 

CONSTANTINO risponde

 

24. Grande e mirabil cosa certo è questa:

chi l’ha fatta non so, né ’l saper giova.

Basta: se sana la mia figlia resta,

sia chi si vuol, questa è suta gran pruova.

Su, rallegriamci tutti e facciam festa.

O scalco, su, da far collezion truova.

Fate che presto qui mi venghin ’nanzi

buffoni e cantator’, chi suoni e danzi.

 

Torna in quest’allegrezza GALLICANO di Persia con vittoria, e dice:

 

25. Io son tornato a te, divo Augusto,

e non so come tra tanti perigli.

Ho soggiogato el fer popolo robusto,

né credo contra te più arme pigli.

Per tutta Persia il tuo scettro alto e giusto

or è tenuto; e di sangue vermigli

fe’ con la spada e fiumi correr tinti:

e’ son per sempre mai domati e vinti.

 

26. Tra ferro e fuoco, tra feriti e morti

con la spada abbiam cerco la vittoria

io e ’ tuoi cavalieri audaci e forti:

di noi nel mondo fia sempre memoria.

Io so ben che tu sai quanto t’importi

questa cosa al tuo stato e alla gloria:

che, s’ella andava per un altro verso,

era il nome romano e ’l regno perso.

 

27. Benché la gloria e ’l servir signor degno

al cor gentil debb’esser gran mercede,

pur la fatica, l’animo e l’ingegno,

ancor ch’io mi tacessi, premio chiede.

Se mi dai la metà di questo regno,

non credo mi pagassi, per mia fede;

ma minor cosa mi paga abbastanza,

se arò per sposa tua figlia Constanza.

 

Risponde AUGUSTO, cioè CONSTANTINO:

 

28. Ben sia venuto il mio gran capitano,

ben venga la baldanza del mio impero,

ben venga il degno e fido Gallicano,

domator del superbo popol fero;

ben sia tornata la mia destra mano,

e quel nella cui forza e virtù spero;

ben venga quel che, mentre in vita dura,

l’imperio nostro e la gloria è sicura.

 

29. Ogni opera e fatica aspetta merto,

e ’ tuoi meriti meco sono assai;

e, se aspettavi il premio fusse offerto,

io non ti arei potuto pagar mai.

Darti mia figlia gran cosa è per certo,

e quanto io l’amo, Gallican, tu il sai:

gran cosa è certo un pio paterno amore,

ma il tuo merito vince ed è maggiore.

 

30. Se tu non fussi, lei non saria figlia

d’imperadore, el qual comanda al mondo:

però, s’altri n’avessi maraviglia

e mi biasma, con questo gli rispondo.

Credo che lei e tutta mia famiglia

e ’l popol tutto ne sarà giocondo,

ed io di questo arò letizia e gloria,

non men ch’io abbi della gran vittoria.

 

31. In questo punto ir voglio, o Gallicano,

a dir qualcosa a mia figlia Constanza:

tornerò resoluto a mano a mano.

Intanto non t’incresca qui la stanza.

 

Mentre che va dice:

 

O ignorante capo! o ingegno vano!

O superbia inaudita! o arroganza!

E così l’aver vinto m’è molesto,

se la vittoria arreca seco questo.

 

32. Che farò? Darò io ad un suggetto

la bella figlia mia, che m’è sì cara?

S’io non la do, in gran pericol metto

lo stato. E chi è quel che ci ripara?

Misero a me! Non c’è boccon del netto:

tanto Fortuna è de’ suoi beni avara.

Spesso chi chiama Constantin felice,

sta meglio assai di me, e ’l ver non dice.

 

Poiché è giunto a Constanza, dice:

 

33. Io ti vengo a veder, diletta figlia,

con gli occhi, come ti veggo col cuore.

 

CONSTANZA

 

O padre, io veggo in mezzo alle tue ciglia

un segno che mi dice che hai dolore,

che mi dà dispiacere e maraviglia.

O padre dolce, se mi porti amore,

dimmi ch’è la cagion di questo tedio,

e s’io ci posso fare alcun rimedio.

 

34. Dimmelo, padre, sanza alcun riguardo.

Io son tua figlia per darti dolcezza;

e però dopo Dio a te sol guardo,

pur ch’io ti possa dar qualche allegrezza.

 

CONSTANTINO

 

Io sono a dirti questa cosa tardo.

Pietà mi muove della mia vecchiezza

e del tuo corpo giovenil, che sano

è fatto acciò che il chiegga Gallicano.

 

CONSTANZA

 

35. O padre, deh pon’ freno al tuo dolore!

Intendo quel che tu vuoi dire a punto.

El magno Dio, ch’è liberal signore,

non stringerà la grazia a questo punto.

Io veggo onde ti vien tal pena al core:

se dai a Gallican quel c’ha presunto,

offendi te e me; e s’io nol piglio

per mio marito, il regno è in gran periglio.

 

36. Quando il partito d’ogni parte punga,

né sia la cosa ben secura e netta,

io ho sentito dir che il savio allunga

e dà buone parole e tempo aspetta.

Benché il mio ingegno molto in su non giunga,

padre, io direi che tu me gli prometta:

d’assicurarlo ben fa’ ogni pruova,

e poi lo manda in questa impresa nuova.

 

37. Benché forse io parrò presuntuosa,

fanciulla, donna e tua figlia, se io

ti consigliassi in questa che è mia cosa,

prudente, esperto e vecchio, padre mio,

tu gli puo’ dir quant’è pericolosa

la guerra in Dacia, e che ogni suo disio

vuoi fare; e, perché creda non lo inganni,

per sicurtà da’ Paulo e Giovanni.

 

38. Questi statichi meni, acciò che intenda

ch’io sarò donna sua, da poi ch’e’ vuole;

e d’altra parte indietro lui ti renda

Attica, Artemia, sue care figliuole.

In questa guerra vi sarà faccenda,

e ’l tempo molte cose acconciar suole.

 

CONSTANTINO

 

Figlia, e’ mi piace assai quel che m’hai detto:

son lieto, e presto el metterò ad effetto.

 

Da sé, mentre che ritorna da Gallicano:

 

39. Laudato sia Colui che in te spira

bontà, prudenzia, amor, figliuola mia.

Io ho giù posto e la paura e l’ira,

e così Gallican contento fia;

l’onor fia salvo, il qual drieto si tira

ogni altra cosa, se ben cara sia.

Passato questo tempo e quel periglio,

vedrem poi quel che fia miglior consiglio.

 

E, giunto a Gallicano:

 

40. Io torno a te con più letizia indrieto

ch’io non andai: e Constanza consente

esser tua donna. Io son tanto più lieto,

quanto più dubbio avevo nella mente.

Pareva volta ad un viver quieto,

sanza marito o pratica di gente.

Mirabilmente di quel suo mal monda,

bella consente in te, sana e gioconda.

 

41. Direi: facciam le nozze questo giorno

e rallegriam con esse questa terra;

ma, se ti par, facciam qualche soggiorno;

ché tu sai ben quanto ci stringe e serra

Dacia rebelle, qual ci cigne intorno;

e non è ben accozzar nozze e guerra:

ma dopo la vittoria, se ti piace,

farem le nozze più contenti in pace.

 

42. So ben c’hai di Constanza desidero,

ma più del tuo onore e del mio stato,

anzi del tuo, ché tuo è questo impero,

perché la tua virtù l’ha conservato.

Per fede, Gallican, ch’io dica il vero,

Giovanni caro a me, Paulo amato

teco merrai; e sicurtà sien questi.

Artemia, Attica tua, qui meco resti.

 

43. Tu sarai padre a’ dua diletti miei;

Constanza madre alle figliuole tue

e non matrigna; e sia certo che lei

le tratterà siccome fussin sue.

Io spero nell’aiuto delli dèi,

ma molto più nella tua gran virtùe,

che contro a’ Daci aren vittoria presta.

Constanza è tua: allor faren la festa.

 

GALLICANO

 

44. Nessuna cosa, o divo imperadore,

brama il mio cuor, quanto farti contento,

conservare il tuo stato e ’l mio onore:

Constanza sanza questo m’è tormento.

Io spero tornar presto vincitore;

so che fia presto questo fuoco spento:

proverrà con suo danno il popol strano

la forza e la virtù di questa mano.

 

45. Quando un’impresa ha in sé grave periglio,

non metter tempo nella espedizione:

pensata con maturo e buon consiglio,

vuole aver presta poi l’esecuzione.

Però sanza più indugio el cammin piglio:

arò Paulo e Giovanni in dilezione

come fratelli o figli tuttavia;

e raccomando a te Constanza mia.

 

46. O fidato Alessandro, presto andrai:

Attica, Artemia, fa’ sien qui presenti.

E tu, Anton, trova danari assai,

e presto spaccia tutte le mie genti.

O forti cavalier’, che meco mai

non fuste vinti, o cavalier’ potenti

nutriti nella ruggine del ferro,

noi vinceremo ancor: so ch’io non erro.

 

Poiché sono giunte le figluole, dice a Constantino:

 

47. Non posso dirti con asciutte ciglie

quel ch’io vorrei delle dolci figliuole.

Io te le lascio acciò che sien tue figlie.

Fortuna nella guerra poter suole;

io vo di lungi molte e molte miglie

fra gente che ancor ella vincer vuole:

bench’io speri tornar vittorioso,

l’andare è certo, e ’l tornar è dubbioso.

 

Voltosi alle figliuole, dice:

 

48. E voi, figliuole mie, da poi che piace

ch’io vada in questa impresa al mio signore,

pregate Giove che vittoria o pace

riporti sano, e torni con onore;

se là resta il mio corpo e morto giace,

el padre vostro fia lo imperadore:

per lui i’ metto volentier la vita;

Constanza mia da voi sia riverita.

 

UNA DELLE FIGLIUOLE di Gallicano

 

49. Quando pensiam, padre nostro diletto,

che forse non ti rivedrem mai piùe,

cuopron gli occhi di pianto el tristo petto.

E dove lasci le figliuole tue?

Già mille e mille volte ho maladetto

l’arme e la guerra e chi cagion ne fue.

Benché un buon padre e degno ci abbi mostro,

pur noi vorremmo el dolce padre nostro.

 

L’ALTRA FIGLIUOLA, a Constantino

 

50. Alto e degno signor, deh, perché vuoi

che noi restiam quasi orfane e pupille?

Risparmia in questa impresa, se tu puoi,

il padre nostro: de’ suoi par’ c’è mille,

ma altro padre più non abbiam noi;

contentaci, ché puoi, facci tranquille.

 

CONSTANTINO

 

Su, non piangete: el vostro Gallicano

tornerà presto con vittoria e sano.

 

GALLICANO si volta a Constantino, e dice:

 

51. Io vo’ baciarti il piè, signor sovrano,

prima ch’io parta, ed a mie figlie il volto.

E credi che ’l fedel tuo Gallicano

Giovanni e Paul tuo osserva molto:

l’uno alla destra, alla sinistra mano

l’altro terrò, perché non mi sia tolto;

se senti alcuna loro ingiuria o torto,

tu puoi dir certo: «Gallicano è morto».

 

E, voltatosi a’ cavalieri, dice:

 

52. Su cavalier’, cotti e neri dal sole,

dal sol di Persia, ch’è così fervente!

Il nostro imperador provar ci vuole

tra’ ghiacci e neve di Dacia al presente:

la virtù el caldo e ’l freddo vincer suole:

periglio, morte alfin stima niente.

Ma facciam prima sacrifizio a Marte,

ché sanza Dio val poco o forza o arte.

 

Detto questo, fa sacrificio in qualche luogo dove non sia veduto altrimenti; dipoi si parte con lo esercito, e ne va alla impresa di Dacia.

 

CONSTANZA ad Attica ed Artemia, quale lei converte:

 

53. O care mie sorelle in Dio dilette,

o buona Artemia, o dolce Attica mia,

io credo il vostro padre mi vi dette

non sol per fede o per mia compagnia,

ma acciò che sane, liete e benedette

vi renda a lui quando tornato fia;

né so come ben far possa quest’io,

se prima sante non vi rendo a Dio.

 

54. O care, o dolci sorelle, sappiate

che questo corpo di lebbra era brutto;

e queste membra son monde e purgate

dall’autor de’ ben’, Dio, che fa il tutto:

a lui botai la mia verginitate,

finché sia il corpo da morte destrutto;

e servir voglio a lui con tutto il core:

né par fatica a chi ha vero amore.

 

55. E voi conforto con lo esemplo mio

che questa vita, ch’è brieve e fallace,

doniate liete di buon core a Dio,

fuggendo quel che al mondo cieco piace:

se volterete a lui ogni disio,

arete in questa vita vera pace,

grazia d’aver contra ’l demon vittoria;

e poi nell’altra vita eterna gloria.

 

ARTEMIA

 

56. Madonna mia, io non so come hai fatto:

per le parole sante, quali hai detto,

io sento el cuor già tutto liquefatto,

arder d’amor di Dio el vergin petto:

e mi senti’ commuovere ad un tratto,

come, parlando, apristi l’intelletto:

di Dio innamorata, son disposta

seguir la santa via che m’hai proposta.

 

ATTICA

 

57. Ed io, madonna, ho posto un odio al mondo,

già come fussi un capital nemico;

prometto a Dio servare el corpo mondo:

con la bocca e col cuor questo ti dico.

 

CONSTANZA

 

Sia benedetto l’alto Dio fecondo,

ed io in nome suo vi benedico.

Or siam vere sorelle, al parer mio:

orsù, laudiamo il nostro padre Dio.

 

CONSTANZA, ARTEMIA ed ATTICA cantano tutte e tre insieme

 

58. A te sia laude, o Carità perfetta,

c’hai pien di caritate el nostro cuore;

l’amor, che questi dolci prieghi getta,

pervenga a’ tuoi orecchi, o pio Signore:

questi tre corpi verginali accetta

e gli conserva sempre nel tuo amore.

Della Vergine già t’innamorasti:

ricevi, o Sposo nostro, e petti casti.

 

Concione di GALLICANO a’ soldati:

 

59. O forti cavalier’, nel padiglione

il capitan debb’esser grave e tardo;

ma quando è del combatter la stagione,

sanza paura sia forte e gagliardo.

Colui che la vittoria si propone,

non stima spade, sassi, lance o dardo.

Là è il nimico, e già paura mostra:

su, diamci drento: la vittoria è nostra.

 

Affrontasi con gli nimici e gli è rotto tutto l’esercito; e, restato solo con Giovanni e Paulo, dice:

 

60. Or ecco la vittoria ch’io riporto!

Ecco lo stato dello imperadore!

Lasso! meglio era a me ch’io fussi morto

in Persia, ché morivo con onore!

Ma la Fortuna m’ha campato a torto,

acciò ch’io vegga tanto mio dolore.

Almanco fuss’io morto questo giorno!

ché non so come a Constantin ritorno.

 

GIOVANNI

 

61. Quando Fortuna le cose attraversa,

si vuol reputar sempre che sia bene.

Se tu hai oggi la tua gente persa,

ringrazia Dio, ché questo da lui viene.

Non vincerà già mai la gente avversa

chi contr’a sé vittoria non ottiene;

né vincer altri ad alcuno è concesso,

se questo tal non sa vincer se stesso.

 

62. Forse t’ha Dio a questo oggi condotto,

perché te stesso riconoscer voglia.

E se l’altrui esercito hai già rotto,

sanza Dio non si volge in ramo foglia.

Quei che può l’uom da sé, mortal, corrotto,

altro non è se non peccato e doglia.

Riconosciti adunque, ed abbi fede

in Dio, dal qual ciaschedun ben procede.

 

PAULO

 

63. Non creder che la tua virtute e gloria,

la tua fortezza e ingegno, o Gallicano,

t’abbi con tanto onor dato vittoria:

Dio ha messo il poter nella tua mano.

Perché n’avevi troppo fumo e boria,

Dio t’ha tolto l’onore a mano a mano,

per mostrare alle tue gonfiate voglie

che lui è quel che ’l vincer dà e toglie.

 

64. Ma, se tu vuoi far util questa rotta,

ritorna a Dio, al dolce Dio Gesùe:

l’idol di Marte ch’è cosa corrotta,

(ferma il pensier) non adorar mai piùe;

poi vedrai nuova gente qui condotta,

in numer grande e di maggior virtùe.

Umilia te a Gesù alto e forte,

ché lui sé umiliò fino alla morte.

 

GALLICANO

 

65. Io non so come a Gesù fia accetto

se a lui me umilio, come m’è proposto;

ché da necessità paio constretto

per questo miser stato in che m’ha posto.

Io ho sentito alcun cristian, c’ha detto

che Dio ama colui quale è disposto

dargli il cuor lietamente e voluntario:

la mia miseria in me mostra il contrario.

 

GIOVANNI

 

66. In ogni luogo e tempo accetta Dio

nella sua vigna ciascun operaio;

e ’l padre di famiglia dolce e pio

a chi vien tardi ancor dà ’l suo danaio.

Dà pur intero a lui el tuo disio,

poi cento ricorrai per uno staio:

inginocchiati a Dio col corpo e core;

e lui ti renderà gente ed onore.

 

GALLICANO s’inginocchia e dice:

 

67. O magno Dio, omai la tua potenzia

adoro, e me un vil vermin confesso.

Se piace alla tua gran magnificenzia,

fa’ che vincer mi sia oggi concesso,

se non ti piace, io arò pazienzia.

Nel tuo arbitrio, Dio, mi son rimesso:

disposto e fermo non adorar piùe

altro che te, dolce signor Gesùe.

 

GIOVANNI inginocchiati che sono tutti a tre

 

68. O Dio che desti a Giosuè l’ardire

e grazia ancor che ’l sol fermato sia,

e che facesti mille un sol fuggire,

e diecimila due cacciassin via,

e che facesti della fromba uscire

el fatal sasso che ammazzò Golia,

concedi or forza e grazia a questa mano

Del tuo umiliato Gallicano.

 

UN ANGELO apparisce a Gallicano con una croce in collo, e dice:

 

69. O umil Gallicano, il cor contrito

a Dio è sacrifizio accetto molto;

e però ha li umil’ tuo prieghi udito

ed è pietoso al tuo disio or volto:

va’ di buon core in questa impresa ardito,

ché ’l regno fia al re nimico tolto,

daratti grande esercito e gagliardo:

la croce fia per sempre il tuo stendardo.

 

GALLICANO colle ginocchia in terra

 

70. Questo non meritava il cuor superbo

di Gallicano e la mia vanagloria:

tu m’hai dato speranza nel tuo verbo,

ond’io veggo già certo la vittoria.

O Dio, la mia sincera fé ti serbo,

sanza far più de’ falsi dèi memoria.

Ma questa nuova gente onde ora viene?

Solo da Dio, autor d’ogni mio bene.

 

E, voltatosi a quelli soldati venuti mirabilmente, dice:

 

71. O gente ferocissime e gagliarde,

presto mettiamo alla città l’assedio!

Presto portate sien qui le bombarde

(Dio è con noi: e’ non aràn rimedio),

passavolante, archibusi e spingarde,

acciò che non ci tenghin troppo a tedio;

fascine e guastator’: la terra è vinta,

né può soccorso aver dal campo cinta.

 

72. Fate e graticci, e ’ ripari ordinate

per le bombarde, e ponti sien ben forti,

e bombardier’ securi conservate,

che dalle artiglierie non vi sien morti.

E voi, o cavalieri, armati state,

a far la scorta vigilanti, accorti;

ché ’l pensier venga agli assediati meno,

e le bombarde inchiodate non sièno.

 

73. Tu, Giovanni, provvedi a strame e paglia,

sì che ’l campo non abbia carestia;

venga pan fatto ed ogni vettovaglia;

e Paulo sarà teco in compagnia.

Fate far scale onde la gente saglia.

Quando della battaglia tempo fia,

ciascun sia pronto a far la sua faccenda:

sol Gallican tutte le cose intenda.

 

74. Fate tutti i trombetti ragunare

subito; fate il consueto bando:

ché la battaglia io vorrò presto dare.

L’esercito sia in punto al mio comando:

chi sarà il primo alle mure a montare,

mille ducati per premio gli mando,

cinquecento e poi cento all’altra coppia;

e la condotta a tutti si raddoppia.

 

TROMBETTO

 

75. Da parte dello invitto capitano

si fa intendere a que’ che intorno stanno,

se non si dà la terra a mano a mano

al campo, sarà data a saccomanno;

né fia pietoso poi più Gallicano;

e chi arà poi il male, abbiasi il danno.

A’ primi montator’ dare è contento,

per gradi, mille, cinquecento e cento.

 

Fassi battaglia, e pigliano il re. IL RE preso dice:

 

76. Chi confida ne’ regni e negli stati

e sprezza con superbia li alti dèi,

la città in preda e me legato or guati,

e prenda esemplo da’ miei casi rei.

O figli, ecco i reami ch’io v’ho dati,

ecco l’eredità de’ padri miei!

Voi e me, lassi!, avvolge una catena:

con l’altra preda il vincitor ci mena.

 

E, voltatosi a Gallicano, dice:

 

77. E tu, nelle cui man’ Fortuna ha dato

la vita nostra ed ogni nostra sorte,

bastiti avermi vinto e subiugato,

arsa la terra, ucciso el popol forte,

e non voler che vecchio io sia campato,

per veder poi de’ miei figliuol’ la morte.

Per vincer si vuol fare ogni potenzia,

ma dopo la vittoria usar clemenzia.

 

78. Io so che se’ magnanimo e gentile,

e in cor gentil so pur pietà si genera:

se non ti muove l’età mia senile,

muovati l’innocenzia e l’età tenera:

uccidere un legato è cosa vile,

e la clemenzia ciascun lauda e venera.

El regno è tuo; la vita a noi sol resti,

la qual a me per brieve tempo presti.

 

IL PRINCIPE uno de’ figliuoli del detto re, dice:

 

79. Noi, innocenti e miser’ figli suoi,

poi che Fortuna ci ha così percossi,

preghiam salvi la vita a tutti noi,

piacendoti; e, se ciò impetrar non puossi,

el nostro vecchio padre viva, e poi

non ci curiam da vita esser rimossi.

Se pur d’uccider tutti noi fai stima,

fa’ grazia almeno a noi di morir prima.

 

GALLICANO

 

80. La pietà vostra m’ha sì tocco il core,

che d’aver vinto ho quasi pentimento:

ad ogni giuoco un solo è vincitore,

e l’altro vinto de’ restar contento.

Dell’una e l’altra età, pietà, dolore,

lo esemplo ancor della Fortuna sento,

però la vita volentier vi dono,

insin che a Constantin condotto sono.

 

IL MESSO che porta le nuove della vittoria a Constantino, dice così:

 

81. O imperador, buone novelle porto.

Gallican tuo ha quella città presa;

e credo che ’l re sia o preso o morto:

vidi la terra tutta in fiamma accesa.

Per esser primo a darti tal conforto,

non so i particolar’ di questa impresa.

Basta, la terra è nostra; e questo è certo.

Dammi un buon beveraggio, ch’io lo merto.

 

CONSTANTINO

 

82. Io non vorrei però error commettere,

credendo tai novelle vere sièno.

Costui di Gallican non porta lettere;

la bugia in bocca e ’l ver portano in seno.

Orsù, fatelo presto in prigion mettere:

fioriranno, se queste rose fièno:

se sarà vero, arai buon beveraggio;

se no, ti pentirai di tal viaggio.

 

Torna in questo GALLICANO, e dice a Constantino:

 

83. Ecco, il tuo capitano vittorioso

ritorna a te dalla terribil guerra,

d’onor, di preda e di prigion’ copioso;

ecco il re già signor di quella terra.

Ma sappi ch’ella andò prima a ritroso,

ché chi fa cose assai spesso ancor erra:

pur, con l’aiuto che Dio ci ha concesso,

abbiam la terra e ’l regno sottomesso.

 

IL RE preso a Constantino dice:

 

84. O imperadore, io fui signor anch’io;

or servo e prigion son io e ’ miei figli.

Se la Fortuna, ministra di Dio,

questo ha voluto, ognuno esemplo pigli;

ed ammonito dallo stato mio,

de’ casi avversi non si maravigli.

El vincer è di Dio dono eccellente,

ma più nella vittoria esser clemente.

 

CONSTANTINO risponde:

 

85. L’animo che alle cose degne aspira,

quanto può cerca simigliare Dio:

vincer si sforza e superar desira

finché contenta il suo alto desio;

ma poi lo sdegno conceputo e l’ira,

l’offesa mette subito in oblio.

Io ti perdono, e posto ho giù lo sdegno:

non voglio il sangue, ma la gloria e ’l regno.

 

E, voltosi a Gallicano:

 

86. O Gallican, quando tu torni a me,

sempre t’ho caro ancor sanza vittoria:

or pensa adunque quanto car mi se’,

tornando vincitor con tanta gloria.

Veder legato innanzi agli occhi un re!,

cosa che sempre arò nella memoria.

Ma dimmi: questa croce onde procede,

che porti teco? hai tu mutato fede?

 

GALLICANO risponde a Constantino:

 

87. Io non ti posso negar cosa alcuna:

or pensa se negar ti posso el vero;

el ver, che mai a persona nessuna

di negarlo uom gentil de’ far pensiero.

Di questa gloriosa mia fortuna

rendute ho grazie a Dio, or in San Piero.

Perché ’l vincer da Cristo è sol venuto,

porto il suo segno, e l’ho da Cristo avuto.

 

88. Io t’accennai nelle prime parole:

in effetto fui rotto e fracassato.

Campò di tanti tre persone sole:

io e questi duo cari qui dal lato;

facemmo tutt’e tre come far suole

ciascun che viene in vile e basso stato;

chi non sa e non può, tardi soccorre,

per ultimo rimedio a Dio ricorre.

 

89. Tu intenderai da Paulo e Giovanni,

per grazia e per miraculo abbiam vinto.

Conosciuto ho de’ falsi dèi gl’inganni,

della fede di Cristo armato e cinto;

disposto ho dare a lui tutti i miei anni,

quieto e fuor del mondan labirinto;

e di Constanza, sutami concessa,

t’assolvo, imperador, della promessa.

 

CONSTANTINO

 

90. Tu non mi porti una vittoria sola,

né sola un’allegrezza in questa guerra;

tu m’hai renduto un regno e la figliuola,

più cara a me che l’acquistata terra.

E, poi che se’ della cristiana scuola

ed adori uno Dio che mai non erra,

puoi dir d’aver te renduto a te stesso:

Dio tutte queste palme t’ha concesso.

 

91. E, per crescer la tua letizia tanta,

intenderai altre miglior novelle:

perché Constanza, la mia figlia santa,

ha convertite le tue figlie belle:

e tutti siate rami or d’una pianta,

e in ciel sarete ancor lucenti stelle:

per suoi vuol, Gallican, Attica, Artemia

Dio, che per grazia e non per merto premia.

 

GALLICANO

 

92. Miglior novelle, alto signore e degno,

ch’io non ti porto, or tu mi rendi indrieto:

ché, s’io ho preso e vinto un re e ’l regno,

son delle mie figliuole assai più lieto,

ché, convertite a Dio, han certo pegno

di vita eterna, che fa ’l cor quieto:

chi sottomette i re e le province

non ha vittoria, ma chi ’l mondo vince.

 

93. Chi vince il mondo e ’l diavol sottomette

è di vera vittoria certo erede;

e ’l mondo è più che le province dette,

e ’l diavol re che tutto lo possiede:

sol contr’a lui vittoria ci promette

e vince il mondo sol la nostra fede:

adunque questa par vera vittoria,

che ha per premio poi eterna gloria.

 

94. Però, alto signor, se m’è permesso

da te, io vorrei starmi in solitudine,

lasciare il mondo, e viver da me stesso,

la corte e ogni ria consuetudine.

Per te più volte ho già la vita messo,

pericoli e fatiche in multitudine;

per te sparto ho più volte il sangue mio:

lascia me in pace servire ora a Dio.

 

CONSTANTINO

 

95. Quand’io penso al mio stato e all’onore,

par duro a licenziarti, o Gallicano;

ché, sanza capitan, lo imperadore

si può dir quasi un uom sanza la mano;

ma, quand’io penso poi al grande amore,

ogni pensier di me diventa vano:

stimo più te che alcuno mio periglio,

e laudo molto questo tuo consiglio.

 

96. Benché mi dolga assai la tua partita,

per tua consolazion te la permetto.

Ma, poiché Dio al vero ben t’invita,

seguita ben, sì come hai bene eletto;

ché brieve e traditora è questa vita,

né altro al fin che fatica e dispetto.

Metti ad effetto i pensier’ santi e magni,

ché arai ben presto teco altri compagni.

 

Gallicano si parte, e di lui non si fa più menzione.

 

CONSTANTINO lascia lo imperio a’ figliuoli, e dice:

 

97. O Constantino, o Constanzio, o Constante,

figliuoli miei, del mio gran regno eredi,

voi vedete le membra mie tremante

e ’l capo bianco e non ben fermi i piedi:

questa età, dopo mie fatiche tante,

vuol che qualche riposo io li concedi;

né puote un vecchio bene, a dire il vero,

reggere alle fatiche d’uno impero.

 

98. Però, s’io stessi in questa regal sede,

saria disagio a me, al popol danno;

l’età riposo, e ’l popol signor chiede:

di me medesmo troppo non m’inganno.

E chi sarà di voi del regno erede,

sappi che ’l regno altro non è che affanno,

fatica assai di corpo e di pensiero;

né, come par di fuor, dolce è l’impero.

 

99. Sappiate che chi vuole il popol reggere,

debbe pensare al bene universale;

e chi vuol altri da li error’ correggere,

sforzisi prima lui di non far male:

però conviensi giusta vita eleggere,

perché lo esemplo al popol molto vale,

e quel che fa lui sol, fanno poi molti,

ché nel signor son tutti gli occhi volti.

 

100. Non pensi a util proprio o a piacere,

ma al bene universale di ciascuno:

bisogna sempre gli occhi aperti avere

(gli altri dormon con gli occhi di quest’uno)

e pari la bilancia ben tenere;

d’avarizia e lussuria esser digiuno;

affabil, dolce e grato si conservi;

el signor dee esser servo de’ servi.

 

101. Con molti affanni ho questo imperio retto,

accadendo ogni dì qualcosa nuova:

vittoriosa la spada rimetto,

per non far più della fortuna pruova,

ché non sta troppo ferma in un concetto;

chi cerca assai, diverse cose truova.

Voi proverete quanto affanno e doglia

dà il regno, di che avete tanta voglia.

 

Constantin padre, detto che ha queste parole, si parte e se ne va copertamente, e di lui non si ragiona più

 

CONSTANTINO FIGLIUOLO alli due altri fratelli dice così:

 

102. Cari fratei, voi avete sentito

di nostro padre le savie parole:

di non governar più preso ha partito.

Succeder uno in questo imperio vuole;

ché, se non fussi in un sol fermo e unito,

saria diviso, onde mancar poi suole:

io sono il primo; a me dà la natura

e la ragion ch’io prenda questa cura.

 

CONSTANTE uno de’ fratelli, dice:

 

103. Io, per me, molto volentier consento

che tu governi, come prima nato:

e, se di te, o fratel, servo divento,

questo ha voluto Dio e ’l nostro fato.

 

CONSTANZO l’altro fratello

 

Ed io ancor di questo son contento,

perché credo sarai benigno e grato:

io minor cedo, poiché ’l maggior cede.

Or siede ormai nella paterna sede.

 

Il nuovo IMPERADORE

 

104. O dolci frati, poiché v’è piaciuto

che, di fratel, signor vostro diventi,

e che dal mondo tutto abbi tributo

e signoreggi tante varie genti,

l’amor fraterno sempre fra noi suto

sempre così sarà, non altrimenti:

se Fortuna mi dà più alti stati,

siam pur d’un padre e d’una madre nati.

 

UN SERVO

 

105. O imperadore, e’ convien ch’io ti dica

quel che tener vorrei più presto occulto.

Una parte del regno t’è nimica,

e rebellata è mossa in gran tumulto;

perché tuo padre più non vuol fatica,

contra a’ tuoi officiali han fatto insulto,

né stimon più i tuoi imperi e bandi:

convien che grande esercito vi mandi.

 

IMPERADORE

 

106. Ecco la profezia del padre mio,

che disse che ’l regnare era un affanno.

A pena in questa sede son post’io,

ch’io la conosco con mio grave danno:

in questo primo caso spero in Dio

che questi tristi puniti saranno.

O Constanzio, o Constante, presto andate

con le mie genti, e i tristi gastigate.

 

107. Io non ho più fidati capitani;

sapete ben che questo imperio è vostro:

poiché ’l metteste voi nelle mie mani

potete dir veramente: «Egli è nostro».

 

 

CONSTANTE e CONSTANZIO rispondono, dicendo:

 

I tuoi comandamenti non fien vani:

andrem per quel cammin, il qual ci hai mostro,

e, perché presto tal fuoco si spenga,

noi ci avviamo, e ’l campo drieto venga.

 

IMPERADORE

 

108. In ogni luogo aver si vuol de’ suoi,

che sono di più amore e miglior fede.

Andate presto o uno o due di voi

al tempio dove lo dio Marte siede,

e farete ammazzar pecore e buoi,

ché gran tumulto mosso esser si vede,

pregando Dio che tanto mal non faccia,

quanto in questo principio ci minaccia.

 

UN FANTE dice:

 

109. O imperador, io vorrei esser messo

di cose liete e non di pianti e morte:

pur tu hai a saper questo processo

da me o da altri: a me tocca la sorte.

Sappi che ’l campo tuo in rotta è messo,

e morto o preso ogni guerrier più forte;

e’ tuo fratelli ancora in questa guerra

morti reston con gli altri su la terra.

 

IMPERADORE

 

110. O padre Constantin, tu mi lasciasti

a tempo questo imperio e la corona!

A tanto mal non so qual cor si basti

o qual fortezza sia costante e buona.

Ecco or l’imperio, ecco le pompe e ’ fasti,

ecco la fama e ’l nome mio che suona!

Non basta tutto il mondo si ribelli,

c’ho perso ancora i miei cari fratelli.

 

UNO lo conforta e dice:

 

111. O signor nostro, quando el capo duole,

ogn’altro membro ancor del corpo pate.

Perdere il cor sì presto non si vuole:

piglia del mal, se v’è, niuna bontate.

Chi sa quel che sia meglio? Nascer suole

discordia tra fratei molte fiate:

forse che la Fortuna te gli ha tolti,

acciò che in te sol sia quel ch’era in molti.

 

112. Ritorna in sedia e lo scettro ripiglia,

ed accomoda il core a questo caso,

e prendi dello imperio in man la briglia,

e Dio ringrazia che se’ sol rimaso.

 

LO IMPERADORE dice:

 

Io vo’ far quel che ’l mio fedel consiglia

e quel che la ragion m’ha persuaso:

tornar in sedia, come mi conforti:

co’ vivi i vivi, e morti sien co’ morti.

 

113. Io so che questa mia persecuzione

da un error che io fo tutta procede:

perch’io sopporto in mia iurisdizione

questa vil gente, quale a Cristo crede:

io vo’ levar, se questa è, la cagione,

perseguitando questa vana fede,

uccidere e pigliar sia chi si voglia.

Oimè il cor, quest’è l’ultima doglia!

 

Dette queste parole, si muore, e quelli che restono si consigliano, ed UNO di loro parla:

 

114. Noi siam restati sanza capo o guida:

l’imperio a questo modo non sta bene:

il popol rugghia, e tutto el mondo grida.

Far nuovo successor presto conviene.

Se c’è tra noi alcun che si confida

trovare a chi lo imperio s’appartiene,

presto lo dica, ed in sedia sia messo.

Quant’io per me, non so già qual sia desso.

 

UN ALTRO

 

115. E’ c’è Giulian, di Constantin nipote,

ché, benché mago e monaco sia stato,

è di gran cuore, e d’ingegno assai puote,

ed è del sangue dello imperio nato.

Bench’egli stia in parte assai remote,

verrà, sentendo el regno gli sia dato.

 

UN TERZO

 

Questo a me piace.

 

UN QUARTO dice:

 

                               Ed a me molto aggrada.

 

PRIMO

 

Orsù! presto, per lui un di noi vada.

 

GIULIANO nuovo imperadore

 

116. Quand’io penso chi stato è in questa sede,

non so s’io mi rallegri e s’io mi doglia

d’esser di Giulio e d’Augusto erede;

né so se imperadore esser mi voglia.

Allor, dove quest’aquila si vede,

tremava il mondo, come al vento foglia:

ora in quel poco imperio che ci resta

ogni vil terra vuol rizzar la cresta.

 

117. Da quella parte là, donde il sol muove,

infin dove poi stracco si ripone,

eron temute le romane pruove:

or siam del mondo una derisione.

Poi che fur tolti i sacrifizi a Giove,

a Marte, a Febo, a Minerva, a Giunone,

e tolto è ’l simulacro alla Vittoria,

non ebbe questo imperio alcuna gloria.

 

118. E però son fermamente disposto,

ammonito da questi certi esempli,

che ’l simulacro alla Vittoria posto

sia al suo luogo, e tutti aperti e templi;

e ad ogni cristian sia tolta tosto

la roba, acciò che libero contempli;

ché Cristo disse a chi vuol la sua fede:

«Renunzi a ogni cosa ch’e’ possiede».

 

119. Questo si truova ne’ Vangeli scritto:

io fui cristiano, allor lo intesi appunto.

E però fate far pubblico editto:

«Chi è cristian, roba non abbi punto

— né di questo debb’esser molto afflitto

chi veramente con Cristo è congiunto —:

la roba di colui che a Cristo creda

sia di chi se la truova giusta preda».

 

UNO, che accusa Giovanni e Paulo

 

120. O imperador, in Ostia, già molti anni,

posseggon roba e possession’ assai

due cristiani, cioè Paulo e Giovanni,

né il tuo editto obbedito hanno mai.

 

GIULIANO imperadore

 

Costor son lupi, e di pecore han panni;

ma noi gli toserem, come vedrai.

Va’ tu medesmo; usa ogni diligenzia,

acciò che sian condotti in mia presenzia.

 

121. Che val signor che obbedito non sia

da’ suoi soggetti, e massime allo inizio?

Perché un rettor d’una podesteria

ne’ primi quattro dì fa il suo offizio.

Bisogna conservar la signoria

reputata con pena e con supplizio.

Intendo, poi ch’io son quassù salito,

ad ogni modo d’essere obbedito.

 

A Giovanni e Paulo, condotti dinanzi all’imperadore, esso imperadore GIULIANO dice:

 

122. Molto mi duol di voi, dapoi ch’io sento

che siate cristian’ veri e battezzati;

ché, benché assai fanciullo, io mi rammento

quanto eri a Constantin, mio avol, grati:

pure stimo più el mio comandamento;

ché la reputazion mantien gli stati.

Ora, in poche parole: o voi lasciate

la roba tutta, ovver Giove adorate.

 

GIOVANNI e PAULO

 

123. Come a te piace, signor, puoi disporre

della roba, e la vita anche è in tua mano:

questa ci puoi, quando ti piace, tôrre;

ma della fede ogni tua pruova è invano.

E chi a Giove, vano dio, ricorre,

erra; e ben crede ogni fedel cristiano:

vogliamo ir per la via che Gesù mostra;

fa’ quel che vuoi, questa è la voglia nostra.

 

GIULIANO imperadore dice:

 

124. S’io guardassi alla vostra ostinazione,

io farei far di voi crudele strazio:

pietà di voi mi fa compassione,

se non, del vostro mal mai sare’ sazio.

Ma il tempo spesse volte l’uom dispone:

però io vi do di dieci giorni spazio

a lasciar questa vostra fede stolta,

e se no, poi vi sia la vita tolta.

 

125. Or va, Terenziano, e teco porta

di Giove quella bella statuetta;

e in questi dieci dì costor conforta

che adorin questa, e Cristo si dimetta:

se stanno forti a ir per la via torta,

el capo lor giù dalle spalle getta.

Pensate ben, se la vita v’è tolta,

che non ci si ritorna un’altra volta.

 

GIOVANNI e PAULO

 

126. O imperadore, invan ci dai tal termine,

però che sempre buon’ cristian’ saremo:

il zel di Dio e questo dolce vermine

ci mangia e mangerà fino allo estremo:

il gran che muore in terra sol par germine,

per morte adunque non ci pentiremo:

e, se pur noi ci potessim pentire,

per non potere abbiam caro il morire.

 

127. Dunque fa’ pur di noi quel che tu vuoi:

paura non ci fa la morte atroce.

Ecco, giù ’l collo lieti porrem noi

per Quel che pose tutto ’l corpo in croce!

Tu fusti pur ancor tu già de’ suoi,

or sordo non più odi la sua voce.

Fa’ conto questo termin sia passato:

il corpo è tuo, lo spirito a Dio è dato.

 

GIULIANO imperadore

 

128. E’ si può bene a forza a un far male,

ma non già bene a forza è far permesso:

nella legge di Cristo un detto è tale:

che «Dio non salva te sanza te stesso»:

e questo detto è vero e naturale,

benché tal fede vera non confesso.

Da poi che il mio pregar con voi è vano,

va’, fa l’officio tuo, Terenziano.

 

TERENZIANO a Giovanni e Paulo dice:

 

129. E’ m’incresce di voi, che, giovinetti,

andate come pecore al macello.

Deh! pentitevi ancor, o poveretti,

prima che al collo sentiate il coltello.

 

GIOVANNI

 

Se a questa morte noi saremo eletti,

fu morto ancor lo immaculato Agnello.

Non ti curar de’ nostri teneri anni:

la morte è uno uscir di molti affanni.

 

TERENZIANO

 

130. Questa figura d’oro che in man porto

l’onnipotente Giove rappresenta:

non è meglio adorarla ch’esser morto,

poiché lo imperador se ne contenta?

 

PAULO

 

Tu se’, Terenzian, pur poco accorto:

chi dice: «Giove è Dio», convien che menta:

Giove è pianeta, che il suo ciel sol muove:

ma più alta potenzia muove Giove.

 

GIOVANNI

 

131. Ma ben faresti tu, Terenziano,

se adorassi il dolce Dio Gesùe.

 

TERENZIANO

 

Quest’è appunto quel che vuol Giuliano,

e meglio fia non se ne parli piùe.

Qua venga el boia; e voi di mano in mano,

per esser morti, vi porrete giùe.

Su, mastro Pier, gli occhi a costor due lega

ch’i’ veggo el ciambellotto ha fatto piega.

 

 

Posti ginocchioni con gli occhi legati, insieme dicono così:

 

132. O Gesù dolce misericordioso,

che insanguinasti il sacro e santo legno

del tuo sangue innocente e prezioso

per purgar l’uomo e farlo del ciel degno,

volgi gli occhi a due giovani, pietoso,

che speran rivederti nel tuo regno.

Sangue spargesti e sangue ti rendiamo:

ricevilo, ché lieti te lo diamo.

 

GIULIANO imperadore

 

133. Chi regge imperio e in capo tien corona

sanza reputazion non par che imperi,

né puossi dir sia privata persona:

rappresentano el tutto i signor’ veri.

Non è signor chi le cure abbandona

e dassi a far tesoro o a’ piaceri:

di quel raguna e, le cure lasciate,

e del suo ozio tutto il popol pate.

 

134. Se ha grande entrata, per distribuire

liberamente e con ragion gli è data:

faccia che ’l popol non possa patire

dall’inimici, e tenga gente armata.

Se ’l grano è caro, debbe suvvenire

che non muoia di fame la brigata:

a’ poveretti ancor supplir conviene.

E così ’l cumular mai non è bene.

 

135. La signoria, la roba dello imperio,

già non è sua, anzi del popol tutto;

e, benché del signor paia lo ’ntero,

non è, né ’l posseder, né l’usufrutto;

ma distribuitore è ’l signor vero:

l’onore ha sol di tal fatica frutto,

l’onor, che fa ogn’altra cosa vile,

ch’è ben gran premio al core alto e gentile.

 

136. Lo stimol dell’onor sempre mi punge,

la fiamma della gloria è sempre accesa:

questa sproni al caval, che corre, aggiunge,

e vuol ch’io tenti nuova e grande impresa

contr’a’ Parti, che stanno sì da lunge,

da’ quai fu Roma molte volte offesa:

e di molti romani il sangue aspetta,

sparso da lor, ch’io faccia la vendetta.

 

137. Però sien tutte le mie gente in punto

âccompagnarmi a questa somma gloria.

Su, volentier, non dubitate punto:

a guerra non andiamo, anzi a vittoria:

con la vostra virtù so ch’io gli spunto!

Le ingiurie antiche ho ancor nella memoria:

il sangue di que’ buon’ vecchion’ romani

fia vendicato per le vostre mani.

 

138. E’ fûrno i padri, di che siam discesi,

onde conviensi la vendetta al filio.

Mettete in punto tutti e vostri arnesi;

fate ogni sforzo: questo è il mio consilio:

a una fava due colombi presi

saranno, ché in Cesarea è ’l gran Basilio,

nimico mio, amico di Gesùe:

s’io ’l truovo là, non scriverà mai piùe.

 

139. Su, tesorier, tutte le gente spaccia:

quattro paghe in danar, due in panni e drappi;

e fa’ che lor buon’ pagamenti faccia:

convien far fatti, e non che ciarli o frappi.

Fate venire innanzi alla mia faccia

gli astrologhi, ché ’l punto buon si sappi:

Marte sia ben disposto e ben congiunto.

Ditemi poi quando ogni cosa è in punto.

 

Il vescovo SANTO BASILIO dice così:

 

140. O Padre eterno, apri le labbra mia,

e la mia bocca poi t’arà laudato:

donami grazia che ’l mio orare sia

sincero e puro e sanza alcun peccato:

la Chiesa tua, la nostra madre pia,

perseguitata veggio d’ogni lato;

la Chiesa tua, da te per sposa eletta:

fa’ ch’io ne vegga almen qualche vendetta.

 

LA VERGINE MARIA apparisce sopra la sepoltura di Santo Mercurio, e dice:

 

141. Esci, Mercurio, della oscura tomba;

piglia la spada e l’arme già lasciate,

sanza aspettar del Giudizio la tromba;

da te sien le mie ingiurie vendicate.

Il nome tristo di Giulian rimbomba

nel cielo e le sue opre scellerate.

Il cristian sangue vendicato sia;

sappi ch’io son la Vergine Maria.

 

142. Giuliano imperador per questa strada

debbe passare, o martir benedetto:

dagli, Mercurio, con la giusta spada,

sanza compassione, a mezzo al petto:

non voglio tanto error più innanzi vada,

per pietà del mio popol poveretto;

uccidi questo rio venenoso angue,

el qual si pasce sol del cristian sangue.

 

 

IL TESORIERE torna allo imperadore, e dice:

 

143. Invitto imperador, tutta tua gente

in punto sta al tuo comandamento,

coperta d’arme belle e rilucente,

e pargli d’appiccarsi ogn’ora cento:

danari ho dati lor copiosamente;

se gli vedrai, so ne sarai contento:

mai non vedesti gente più fiorita,

armata bene, obbediente, ardita.

 

GLI ASTROLOGHI che fece chiamare lo imperadore, dicono:

 

144. O imperador, noi ti facciam rapporto.

Secondo il cielo, e’ c’è un sol periglio,

il qual procede da un uom ch’è morto.

Forse ti riderai di tal consiglio.

 

LO IMPERADORE dice:

 

S’io non ho altro male, io mi conforto:

se un morto nuoce, io me ne maraviglio:

guardimi Marte pur da spade e lance,

ché queste astrologie son tutte ciance.

 

145. El re e ’l savio son sopra le stelle,
ond’io son fuor di questa vana legge:

e buon’ punti e le buone ore son quelle

che l’uom felice da se stesso elegge.

Fate avviar le forti gente e belle:

io seguirò, pastor di questa gregge.

O valenti soldati, o popol forte,

con voi starò, alla vita, alla morte.

 

 

GIULIANO partesi con l’esercito. E, nel cammino ferito mortalmente da Santo Mercurio, dice:

 

146. Mirabil cosa! in mezzo a tanti armati

stata non è la mia vita secura.

Questi non son de’ Parti fer’ gli agguati;

la morte ho avuta innanzi alla paura.

Un solo ha tanti cristian’ vendicati.

Fallace vita! o nostra vana cura!

Lo spirto è già fuor del mio petto spinto.

O Cristo Galileo, tu hai pur vinto.

 

 
© Belpaese2000.  Created 17.11.2007

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